Considerazioni sulla intensità del trattamento nei pazienti borderline
Transcript
Considerazioni sulla intensità del trattamento nei pazienti borderline
Considerazioni sulla intensità del trattamento nei pazienti borderline con riferimento alle esperienze traumatiche precoci MARCO CHIESA In questo contributo vorrei fare alcune considerazioni sulle modalità di interventi terapeutici per un gruppo di pazienti con patologia borderline, attingendo dai dati della ricerca e dalle esperienze cliniche fatte negli ultimi trenta anni, sia in un contesto di Servizio Sanitario nazionale che di pratica privata. Negli ultimi quarant’anni l’approccio al trattamento del disturbo di personalità grave ha subito importanti cambiamenti e sviluppi. In primo luogo abbiamo assistito al progressivo spostamento del baricentro del trattamento dalla residenzialità a lungo termine (Gabbard, 1992; Kernberg, 1974) a programmi meno intensivi semi-residenziali e ambulatoriali o territoriali. Strutture specialistiche negli Stati Uniti (Chestnut Lodge Hospital, Menninger Clinic, Austen Riggs Centre) e in Gran Bretagna (Cassel Hospital, Henderson Hospital), avevano sviluppato programmi ospedalieri per il trattamento delle nevrosi gravi e dei disturbi di personalità (DP), basati sui concetti di comunità terapeutica e di modelli psicoanalitici adattati, in cui il paziente veniva ammesso per un periodo non inferiore ad un anno e poi dimesso senza ulteriore trattamento di follow-up (Bullard, 1959; Jones, 1956; Main, 1989). Il programma intensivo residenziale consisteva di una combinazione di socioterapia (riunioni giornaliere di reparto, incontri di comunità, attività strutturate, corresponsabilità di pianificazione per il funzionamento della comunità terapeutica e altre attività strutturate), psicoterapia psicoanalitica formale (individuale e in piccoli gruppi), terapie aggiuntive (meditazione, yoga, terapie corporee) e farmacoterapia. Negli ultimi anni le indicazioni cliniche per le ammissioni ospedaliere a lungo termine sono state riviste alla luce di un debole sostegno empirico riguardante l’efficacia di questo approccio (Chiesa, 2005; Paris, 2003) e della potenziale iatrogenicità causata dalla ospedalizzazione in un sottogruppo di pazienti con patologia borderline (Chiesa, 2010; Paris, 2004). In secondo luogo, gli alti costi del trattamento residenziale a lungo termine hanno determinato cambiamenti nelle politiche sanitarie sia nel settore statale che nel settore assicurativo privato, che hanno contribuito a una forte riduzione degli invii e delle ammissioni nelle strutture sanitarie che fornivano un trattamento ospedaliero e residenziale a lungo termine. Questi fattori clinici, sociali ed economici hanno decretato una contrazione massiccia della proposta di residenzialità per i DP, sopratutto nel mondo anglo-sassone. Abbiamo quindi assistito a una revisione dell’offerta di trattamento ospedaliero a lungo termine con una riduzione progressiva della lunghezza del trattamento residenziale e, contemporaneamente, vi è stata un’ascesa di modelli e di programmi meno intensivi in setting semi-residenziali, ambulatoriali e territoriali. Approcci psicodinamici come la Mentalization-based Treatment (Bateman & Fonagy, 2004), la Transference-Focused Psychotherapy (Clarkin, Yeomans, & Kernberg, 1999), la Interpersonal Psychotherapy o modelli cognitivi come la Dialectic Behaviour Therapy (Linehan, 1987) o la Cognitive Behaviour Therapy offrono terapie ambulatoriali a intensità medio-bassa, spesso 1 associate al trattamento farmacologico, con notevoli benefici, costi limitati, una buona evidencebase ed un percorso di formazione relativamente breve. Queste caratteristiche rendono i modelli sopra citati più facilmente adattabili alle realtà dei servizi psichiatrici nel territorio, una duttilità che può potenzialmente favorire lo sviluppo di percorsi dedicati ai DP all’interno delle esistenti strutture psichiatriche. Al Cassel Hospital di Richmond, un centro specialistico per il trattamento e la gestione dei DP, abbiamo introdotto un modello step-down, in cui l’ospedalizzazione più breve (6 mesi) era seguita da un programma ambulatoriale e territoriale della durata di due anni. In seguito, abbiamo aperto il programma territoriale alla diretta ammissione dei pazienti senza passare dalla fase residenziale. Il programma territoriale comprende una psicoterapia di gruppo due volte alla settimana, incontri settimanali con un infermiere psicosociale (in Italia non esiste questa figura: o è un infermiere o è un educatore), visite periodiche con il primario psichiatra, terapia famigliare e di coppia, assistenza sociale e farmacoterapia. Dal 1993 abbiamo iniziato un programma di ricerca per la valutazione sistematica dell’efficacia e del rapporto costo-beneficio dei programmi offerti dalla struttura. Nella prima fase di ricerca sull’efficacia dell’approccio residenziale a lungo-termine e quello step-down attraverso uno studio longitudinale comparativo, abbiamo dimostrato che il trattamento residenziale specialistico psicosociale a lungo termine ottiene risultati superiori nel migliorare la severità sintomatica e il funzionamento sociale e globale rispetto al management psichiatrico generale (treatment as usual-TAU). Però questo approccio è risultato significativamente meno efficace rispetto ad un programma meno intensivo step-down (Chiesa, Fonagy, & Holmes, 2006; Chiesa, Fonagy, Holmes, & Drahorad, 2004) nel ridurre i comportamenti impulsivi (autolesionismo e tentativi di suicidio) nei pazienti borderline. Nello studio predittivo, utilizzando lo stesso database è risultato che le variabili che predicevano gli esiti erano la presenza di comportamenti autolesivi e di disturbo evitante di personalità, l’età, la lunghezza del trattamento e il livello di funzionamento globale (GAS) all’intake (Chiesa & Fonagy, 2007). Tuttavia, i risultati avevano mostrato una notevole variabilità all’interno delle risposte al trattamento dei singoli soggetti. Nella fase successiva della ricerca abbiamo cercato di raggiungere una migliore comprensione del ruolo che la frequenza e l’intensità del trattamento, applicato nei diversi setting e programmi, ha nel moderare e mediare gli esiti nel disturbo di personalità rispetto alla gravità iniziale della psicopatologia (Chiesa, Sharp, & Fonagy, 2011). È intuitivo pensare che una maggiore gravità di presentazione clinica richieda una maggiore intensità e frequenza della risposta terapeutica sia per soddisfare i bisogni del paziente sia per far fronte alla severità delle turbe emozionali e dei comportamenti distruttivi. Un programma di trattamento che sulla carta offra maggiori garanzie di contenimento e di controllo dovrebbe essere più efficace per pazienti con DP in cui la severità della presentazione clinica è molto alta. Al contrario, ci si aspetta che pazienti meno gravi abbiano una migliore risposta a un trattamento meno intensivo territoriale, anche alla luce dei potenziali effetti iatrogeni che si possono innescare dall’essere esposti a comportamenti autolesivi ripetuti in un contesto di trattamento residenziale. Abbiamo cosi deciso di testare questa ipotesi contrastando gli esiti (severità sintomatica e recidiva del comportamento autolesionistico) in due sottogruppi di pazienti con DP (SPD più grave e DP meno grave), trattati con un modello più intenso residenziale e uno meno intenso territoriale. Il sottogruppo DP meno grave presentava livelli inferiori di autolesionismo, di tentativi di suicidio, di separazioni precoci, di abusi fisici e sessuali da parte dei 2 care-giver, un’incidenza minore di abuso di sostanze e di disturbi alimentari, e tassi più bassi di utilizzazione psichiatrica. Le diagnosi psichiatriche sono state fatte utilizzando la Structured Clinical Interview for DSM-IV, mentre gli esiti sono stati valutati attraverso l’uso della Brief Symptom Inventory (completata all’ammissione, a 6, 12 e 24 mesi dopo l’ammissione) del Suicide and Self-Harm Inventory (applicata all’ammissione, 12 e 24 mesi dopo l’ammissione). I risultati hanno dimostrato che il livello di dropout entro 10 mesi dall’ammissione era significativamente inferiore nei pazienti più gravi (SPD) trattati nel programma territoriale rispetto ai pazienti SPD trattati nel programma residenziale (19,5% e 64,7%, rispettivamente). Per quanto riguarda la risposta al trattamento, abbiamo trovato una significativa 3-way interaction tra gravità, intensità del modello di trattamento ed esiti a 24 mesi di follow-up. Contrariamente alla nostra ipotesi iniziale, abbiamo rilevato che i pazienti borderline più gravi trattati in un programma territoriale hanno miglioramenti più significativi rispetto ai pazienti SPD trattati in un programma residenziale più intenso a lungo termine. Mentre i punteggi indicativi della severità sintomatica (BSI-GSI) del gruppo PD migliorano in entrambe le modalità di trattamento, solo il gruppo SPD territoriale ha mostrato cambiamenti significativi (Fig. 1). Nel gruppo SPD trattato nel programma residenziale a lungo termine non vi sono cambiamenti nella severità sintomatica, mentre il sottogruppo meno grave (PD) ottiene miglioramenti significativi con un largo pre-post effect size (d = 0.90). Entrambi i gruppi SPD e PD trattati nel programma psicosociale territoriale dimostrano miglioramenti significativi con pre-post effect sizes sostanziali (d = 0.52 e d = 0.56, rispettivamente). In materia di recidiva del comportamento autolesionista, abbiamo rilevato una riduzione significativa nei pazienti trattati nel modello territoriale, mentre i pazienti nel campione residenziale a lungo termine mostrano un deterioramento nei primi 12 mesi, seguito da un ritorno alle medie 3 iniziali di autolesionismo tra i 12 e i 24 mesi (Fig. 2). Separate analisi di regressione logistica hanno dimostrato che il trattamento territoriale è predittivo di tassi più bassi di autolesionismo a 12 e 24 mesi rispetto al trattamento residenziale a lungo termine. Le odds per soggetti trattati nel modello territoriale di non presentare comportamenti autolesionisti erano 5 a 12 mesi, e 4 a 24 mesi rispetto ai pazienti trattati nel programma residenziale a lungo termine. Anche se limitazioni nel disegno dello studio invitano alla cautela nell’interpretare i risultati dei nostri studi, gli esiti sfavorevoli nel gruppo borderline con maggiore severità di psicopatologia trattato nel programma residenziale suggeriscono che un trattamento troppo intensivo non è indicato per questo tipo di pazienti, mentre un trattamento a intensità medio-bassa, che incorpori assistenza sociale, modulato e protratto nel tempo e che permetta una maggiore flessibilità di applicazione, ottiene risultati soddisfacenti. La convinzione che modelli di trattamento più intensi ad alta frequenza abbiano una maggiore efficacia terapeutica rispetto ad approcci con minore frequenza è stata sottoposta a un’ulteriore valutazione scientifica dall’equipe dell’Ulleval University Hospital di Oslo, specializzata nel trattamento dei disturbi di personalità in setting sia di day-hospital che ambulatoriale. Il gruppo di ricerca voleva valutare la relativa efficacia dei due programmi terapeutici attraverso uno studio randomizzato di 114 pazienti con disturbo di personalità: quello più intensivo (day-hospital) e quello meno intensivo (ambulatoriale). I risultati hanno dimostrato che non ci sono differenze significative tra i due programmi. Inoltre, il programma più intensivo (day hospital) non è risultato più efficace per i pazienti con un funzionamento psicosociale più grave(Arnevik et al., 2009, 2010). Sulla base di questi risultati l’equipe dell’Ulleval ha deciso di chiudere il centro day hospital e di 4 potenziare il programma ambulatoriale, basato su una o due sedute di psicoterapia individuale a orientamento psicodinamico basato sulla mentalizzazione e appoggio psicosociale. Il percorso compiuto dal gruppo di Oslo rispecchia quello compiuto in precedenza dal gruppo della Cornell University (Kernberg), in cui si passò da un trattamento ospedaliero a lungo termine (1 anno), a un trattamento ospedaliero a breve termine (6 settimane) seguito da un trattamento ambulatoriale. Alla fine il reparto residenziale venne chiuso e tutti i pazienti BPD vennero trattati ambulatorialmente attraverso l’applicazione di una psicoterapia specifica, adattata al disturbo borderline (Transference-Focused Psychotherapy-TFP) con frequenza di due sedute settimanali. Anche in questo caso, studi di ricerca hanno dimostrato un livello soddisfacente di efficacia di questo modello per pazienti con patologia borderline. In quest’ottica, la casistica ottenuta durante il progetto di ricerca al Cassel sottolinea come per un sotto-gruppo di pazienti con disturbo grave di personalità, un trattamento ad alta intensità non solo non produce gli effetti positivi auspicati, ma provoca un incremento dell’impulsività con ripetuti episodi di automutilazione, tentativi di suicidio e altri acting-out distruttivi. L’aumento della psicopatologia crea difficoltà di contenimento e problemi nella gestione del controtransfert nel terapeuta e nel personale curante, con una diminuzione della tolleranza e rigide prese di posizione con atteggiamenti autoritari, costrittivi e repressivi nel tentativo di ridurre l’impatto dei vari actingout. Questo clima relazionale, in cui si tende a perdere la capacità autoriflessiva sia nel paziente che nell’equipe curante, favorisce la ripetizione di eventi traumatici infantili sofferti dai pazienti da parte dei care-giver. Lo sviluppo di una «cattiva sequenza» (Ployé, 1977) tra il personale curante e i pazienti porta a un progressivo deterioramento clinico e a un peggioramento della prognosi nella maggioranza dei casi. La presenza di specifiche dinamiche intrapsichiche e interpersonali deve essere presa in considerazione per potere adattare l’intensità terapeutica e concepire un setting ottimale per le esigenze del paziente borderline. Le difficoltà di questi pazienti a instaurare vincoli affettivi e a stabilire un rapporto di fiducia con il personale curante sono radicate in angosce profonde associate a eventi traumatici di abuso, trascuratezza o di invadenza affettiva da parte delle figure primarie. Spesso nel paziente è presente il sentimento di essere prima o poi inevitabilmente tradito e il coinvolgimento benevolo del terapeuta è vissuto come una manovra di seduzione. A causa di ciò, il paziente sarebbe indotto a formare un rapporto di attaccamento e di dipendenza, salvo poi essere abbandonato al proprio destino. In quest’ottica, ciò che il terapeuta concepisce come aiuto viene vissuto dal paziente come una trappola, come qualcosa da cui difendersi disperatamente perché rischia di condurre ad un aumento della sofferenza e della sintomatologia. È cosi possibile capire come l’ offerta di un trattamento intensivo a questi pazienti può provocare angosce di tipo claustrofobico e portare al rifiuto della terapia. Un setting troppo intensivo e ad alta complessità, può creare un clima emotivamente intenso che stimola il sistema difettoso di attaccamento primario, che a sua volta può aggravare la disregolazione emotiva e instaurare stati dissociativi. A questo punto, il paziente ricorre al comportamento auto-mutilante per ottenere sollievo da uno stato affettivo negativo, da esperienze interne spiacevoli e da un forte stato di tensione. È possibile che in un trattamento di minore intensità ambulatoriale o territoriale, il terapeuta sia in grado di rispondere con maggiore flessibilità ai comportamenti auto-mutilanti e di tener conto delle molteplici motivazioni e funzioni che essi sottendono. In questo setting la tolleranza, il contenimento e il lavoro di esplorazione sono più facilmente implementabili, mentre le espressioni della rabbia intensa del paziente, nonché l’uso di difese primitive come la scissione e l’identificazione proiettiva, possono essere meglio contenute rispetto a un contesto residenziale 5 troppo intensivo. La ripetuta esperienza di essere contenuti e compresi dal terapeuta può ridurre gradualmente le rappresentazioni malevole del sé-oggetto, e indurre un aumento del grado di mentalizzazione (Baity, Blais, Hilsenroth, Fowler, & Padawer, 2009; Bateman & Fonagy, 2000; Ribeiro et al., 2010). È necessario perciò comprendere chiaramente il quadro clinico e fornire al paziente un rapporto basato sulla coerenza, sulla stabilità, sulla consistenza e accettazione personale, che alla lunga possono migliorare la capacità di mentalizzazione del paziente. La creazione di legami affettivi interpersonali crea inoltre il potenziale per sollevare i pazienti da un senso di vuoto, di solitudine e di disperata depressione. Il miglioramento nella capacità di mentalizzazione e l’integrazione dei vissuti emotivi indesiderati che si sviluppano nel corso del trattamento riducono la strategia negativa di rinforzo per far fronte allo stress emozionale, che è uno dei motivi per ricorrere a comportamenti auto-mutilanti nei pazienti borderline (Bateman & Fonagy, 2000; Chapman, Gratz, & Brown, 2006). Il rapporto tra gli eventi traumatici precoci, la funzione auto-riflessiva e il miglioramento clinico è stato ulteriormente studiato dalla nostra équipe. È ormai assodato che il ruolo delle esperienze ambientali durante la crescita è centrale per l’eziologia dei disturbi borderline. Sia studi retrospettivi che longitudinali hanno confermato che le avversità durante l’infanzia e le esperienze di abuso nella fase adolescenziale sono collegate al susseguente sviluppo di patologia borderline (Johnson, Cohen, Chen, Kasen, & Brook, 2006; Zanarini, 2000). In uno studio americano, Sroufe e colleghi (2005) documentano i fattori specifici (attaccamento disorganizzato, maltrattamento, ostilità materna, stress familiari e assenza del padre) che predicono il manifestarsi della psicopatologia borderline (Sroufe, 2005). In particolare, questi autori hanno rilevato l’importanza della funzione auto-riflessiva come mediatore tra avversità e sintomi borderline. La disfunzione della rappresentazione del sé in adolescenza pare quindi essere responsabile del rapporto tra esperienze precoci sfavorevoli e susseguente disturbo borderline. Nel nostro studio abbiamo valutato il ruolo che l’auto-rappresentazione ha nel mediare gli effetti tra i traumi precoci e l’insorgenza di un disturbo di personalità e di stress psichiatrico, attraverso i rating della Funzione Riflessiva (RF) basati sulla Adult Attachment Interview di 234 pazienti (112 con un disturbo di personalità e 122 soggetti senza un disturbo di personalità o altra patologia psichiatrica). I risultati hanno dimostrato una forte associazione tra abuso fisico e sessuale e punteggi RF e tra esperienze di perdite precoci e RF (Fonagy & Chiesa, 2012). Un’analisi predittiva ha rivelato che abuso e perdite precoci sono dei predittori molto significativi dei livelli di RF. La presenza di esperienze traumatiche è significativamente associata alla presenza di un disturbo di personalità e di livelli più alti di sintomatologia psichiatrica. Per quanto riguarda possibili effetti cumulativi del trauma sulla RF abbiamo rilevato che la combinazione di perdite precoci e di esperienze di abuso fisico e/o sessuale diminuiscono significativamente i punteggi RF (Fig. 3). La relazione tra esperienze di perdite e abusi precoci sembra avere un effetto additivo che riduce lo sviluppo della funzione riflessiva. 6 La successiva mediation analysis, ha confermato l’ipotesi che la funzione riflessiva ha una funzione mediatrice significativa tra i traumi precoci e l’ instaurarsi di un disturbo borderline di personalità. Il grafico del pathway (Fig. 4) dimostra un rapporto significativo tra la variabile indipendente (trauma) e il potenziale mediatore (RF), tra il mediatore (RF) e la variabile dipendente (PD), e un effetto totale significativo tra la variabile indipendente (trauma) e la variabile dipendente (PD). 7 Una seconda mediation analysis, ha anche confermato che la RF è un mediatore significativo tra traumi precoci e severità della sintomatologia psichiatrica nell’età adulta in pazienti con DP, anche se i traumi precoci predicevano significativamente il distress psichiatrico indipendentemente dalla presenza di un DP. Questi risultati hanno confermato che carenze nella funzione riflessiva possono essere responsabili di una maggiore vulnerabilità all’insorgenza di un disturbo borderline e mediano l’impatto di esperienze traumatiche infantili. I soggetti che rispondono alle esperienze traumatiche inibendo la loro funzione riflessiva come auto-protezione contro lo stress dei sintomi psichiatrici, sviluppano un disturbo di personalità, che si accompagna, come già detto, a una carenza nella capacità di mentalizzazione. Tuttavia, è importante sottolineare come essa sia solo uno dei possibili e diversi meccanismi che legano tra loro le avversità precoci e l’insorgere del disturbo borderline. Per esempio, fattori come la disregolazione affettiva o l’intensificazione dell’aggressività e dell’odio sono considerati da altri autori come meccanismi di collegamento tra le esperienze negative precoci e i disturbi di personalità (Kernberg & Caligor, 2005). Infine, l’associazione tra il trauma e lo sviluppo di un disturbo di personalità mediata dal livello della funzione riflessiva è spiegabile per il fatto che esso può avere un effetto inibente sulla funzione riflessiva che a sua volta è associata a un alto grado di stress sintomatico, anche se è molto probabile che diversi pathway indipendenti l’uno dall’altro colleghino le esperienze traumatiche con la severità dei sintomi psichiatrici nei soggetti con DP. SINTESI Basandomi su recenti studi di ricerca e su considerazioni cliniche, propongo che l’intensità e frequenza del trattamento psicoanalitico deve essere modulata a seconda delle esigenze individuali in molti pazienti con patologia borderline. Il recente sviluppo di modalità terapeutiche ad orientamento psicodinamico a bassa/media intensità con notevole evidence-base come la tranference-focused psychotherapy e la mentalisation-based therapy hanno dimostrato che si possono ottenere miglioramenti sostanziali e duraturi con pazienti con disturbi gravi della personalità. I risultati di nostre ricerche al Cassel Hospital dimostrano che un trattamento troppo intensivo può portare sia un danno iatrogeno (aumento di comportamenti auto-mutilanti) che una mancanza di miglioramento della severità sintomatica in un sottogruppo di pazienti borderline. Il rapporto tra eventi traumatici infantili, lo sviluppo della funzione riflessiva e lo sviluppo di una patologia borderline viene discusso in questo articolo. PAROLE CHIAVE: Disturbo di personalità borderline, eventi traumatici precoci, funzione riflessiva, intensità e frequenza della terapia, trattamento psicoterapico. BIBLIOGRAFIA Arnevik E., Wilberg T., Urnes O., Johansen M., Monsen J. T., & Karterud S. (2009). Psychotherapy for personality disorders: short-term day hospital psychotherapy versus outpatient individual therapy - a randomized controlled study. Eur Psychiatry, 24, 71-78. Arnevik E., Wilberg T., Urnes O., Johansen M., Monsen J. T., & Karterud S. (2010). Psychotherapy for personality disorders: 18 months’ follow-up of the Ulleval personality project. J Pers Disord, 24, 188-203. Baity M.R., Blais M.A., Hilsenroth M.J., Fowler J.C., & Padawer J.R. (2009). Self-mutilation, severity of borderline psychopathology, and the Rorschach. Bull Menninger Clin, 73, 203-225. 8 Bateman A., & Fonagy P. (2000). Effectiveness for psychotherapeutic treatment of personality disorder. British Journal of Psychiatry, 177, 138-143. Bateman A., & Fonagy P. (2004). Mentalisation-based treatment of BPD. Journal of Personality Disorders, 18, 36-51. Bullard D.M. (a cura di). (1959). Psychoanalysis and Psychotherapy. Chicago: University of Chicago Press. Chapman Alexander L., Gratz Kim L., & Brown Milton Z. (2006). Solving the puzzle of deliberate selfharm: The experiential avoidance model. Behaviour Research and Therapy, 44, 371-394. Chiesa M. (2005). Hospital-based psychosocial treatment of borderline personality disorder: A systematic review of rationale and evidence-base Clinical Neuropsychiatry, 2, 292-301. Chiesa M. (2010). Anti-therapeutic factors in the long-term residential treatment of personality disorder. Psichiatria di Comunitá, 9, 113-119. Chiesa M., & Fonagy P. (2007). Prediction of medium-term outcome in cluster b personality disorder following residential and outpatient psychosocial treatment. Psychotherapy and Psychosomatics, 76, 347-353. Chiesa M., & Fonagy P. (2012). Reflective functioning and personality disorder. (In preparation). Chiesa M., Fonagy P., & Holmes J. (2006). Six-year follow-up of three treatment programs to personality disorder. Journal of Personality Disorders, 25, 493-509. Chiesa M., Fonagy P., Holmes J., & Drahorad C. (2004). Residential versus community treatment of personality disorder: A comparative study of three treatment programs. American Journal of Psychiatry, 161, 1463-1470. Chiesa M., Sharp R., & Fonagy P. (2011). Clinical associations of deliberate self-injury and its impact on the outcome of community-based and long-term inpatient treatment for personality disorder. Psychotherapy and Psychosomatics, 80, 100-109. Clarkin J.F, Yeomans F.E., & Kernberg O. (1999). Psychotherapy for Borderline Personality. New York: John Wiley & Sons. Gabbard G.O. (1992). The therapeutic relationship in psychiatric hospital treatment. Bull Menninger Clin, 56, 4-19. Johnson J.G., Cohen P., Chen H., Kasen S., & Brook J.S. (2006). Parenting behaviors associated with risk for offspring personality disorder during adulthood. Arch Gen Psychiatry, 63, 579-587. Jones M. (1956). The concept of the therapeutic community. American Journal of Psychiatry, 112, 647-650. Kernberg O.F. (1974). Toward an integrative theory of hospital treatment Object Relations Theory and Clinical Psychoanalysis. New York: Jason Aronson. Linehan M.M. (1987). Dialectical behavioural therapy: A cognitive behavioural approach to parasuicide. Journal of Personality Disorders, 1, 328-333. Main T. (1989). The concept of the therapeutic community: variations and vicissitudes. In J. Johns (Ed.), The Ailments and other Essays (pp. 123-141). London: Free Association Books. Paris J. (2003). Personality Disorders Over Time: Precursors, Course and Outcome. Washington, DC: American Psychiatric Publishing. Paris J. (2004). Is hospitalization useful for suicidal patients with borderline personality disorder? J Personal Disord, 18, 240-247. Ploy P. (1977). On some difficulties of inpatient psychoanalytically oriented therapy. Psychiatry, 40, 133145. Ribeiro L., Target M., Chiesa M., Bateman A., Stein H., & Fonagy P. (2010). The Problematic Object Representation Scales (PORS): A preliminary study to assess object relations in personality disorder through the AAI protocol. Bulletin of the Menninger Clinic, 74, 329-353. Sroufe L.A. (2005). Attachment and development: a prospective, longitudinal study from birth to adulthood. Attach Hum Dev, 7, 349-367. 9 Zanarini M.C. (2000). Childhood experiences associated with the development of borderline personality disorder. Psychiatr Clin North Am, 23, 89-101. 10