la tassazione dei rendimenti finanziari dei fondi pensione

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la tassazione dei rendimenti finanziari dei fondi pensione
LA TASSAZIONE DEI RENDIMENTI FINANZIARI
DEI FONDI PENSIONE INTEGRATIVI
Brevissimi richiami sul contenuto della previdenza integrativa
La “previdenza integrativa” (denominata anche, e più appropriatamente,
“previdenza complementare”) si identifica con quella particolare forma di assicurazione
privata che si affianca alla previdenza pubblica (o sociale che dir si voglia) al fine di
accrescerne il livello economico, o comunque di aggiungersi ad essa, non essendo
quest’ultima in grado (o per lo meno, non essendolo più) di soddisfare da sola i bisogni dei
lavoratori che vi sono iscritti.
Il concetto trova peraltro riscontro nel testo dell’art. 1, comma 1, del decreto
legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, di riforma della previdenza complementare, laddove
viene esplicitato che “Il presente decreto legislativo disciplina le forme di previdenza per
l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, ivi
compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994,
n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 103 [le Casse di previdenza dei liberi professionisti, n. d. a.],
al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale.”
Infatti, è proprio dalla necessità di “integrare” la tutela fornita dalla previdenza
pubblica, ora amministrata, salvo poche eccezioni, dall’INPS, che si inserisce la leva della
previdenza complementare.
Il “tasso di sostituzione” (altrimenti denominato nei Paesi di lingua inglese “income
replacement”), vale a dire il rapporto percentuale tra l’importo della prima pensione e
quello dell’ultima retribuzione o reddito medio mensile percepito al momento del
collocamento a riposo, si manifesta infatti insufficiente, utilizzando la sola leva della
previdenza pubblica, a garantire al neo pensionato il tenore di vita conseguito nel corso dello
svolgimento dell’attività lavorativa: si parla di valori percentuali che si aggirano attualmente
intorno al 50-60 per cento, parametri che sono per giunta destinati ulteriormente a scendere
in un futuro pressochè incombente per effetto delle restrizioni apportate al calcolo delle
prestazioni della previdenza obbligatoria dalla legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive
modificazioni ed integrazioni.
Se a ciò si aggiunge che il potere di acquisto che sottende al tasso di sostituzione è
destinato in maniera del tutto naturale a diminuire nel corso del godimento della pensione in
quanto il sistema annuale di rivalutazione di quest’ultima non è agganciato alla dinamica
salariale, bensì alla variazione dei prezzi al consumo calcolato dall’ISTAT che, come è noto,
risulta essere di entità inferiore rispetto all’incremento del monte salariale, si comprende
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come la messa in atto di un progetto di previdenza integrativa sia divenuta, almeno allo stato
attuale della normativa, un’esigenza ineludibile.
L’adesione alla previdenza integrativa è in ultima analisi finalizzata all’incremento
del tasso di sostituzione, che a questo punto potrà essere denominato “tasso di sostituzione
complessivo”, essendo costituito dalla somma del tasso di sostituzione derivante dalla
prestazione erogata dalla previdenza obbligatoria e da quello proveniente dalla previdenza
integrativa: a tal fine potrebbe ritenersi adeguato un tasso di sostituzione complessivo pari
all’80 per cento, dal momento che, considerando le spese che il lavoratore non dovrà più
sostenere per recarsi sul posto di lavoro ed altri oneri comunque collegati all’attività
lavorativa, il prestatore d’opera medesimo non dovrebbe subire alcun gap economico.
Le “fasi” della previdenza integrativa
A differenza di quanto avviene nella previdenza pubblica, la previdenza in epigrafe è
basata sul criterio della corrispettività, ossia sulla perfetta equivalenza in termini finanziari
ed attuariali delle prestazioni erogate rispetto alla contribuzione conferita (c. d. “relazione
sinallagmatica”), da realizzarsi mediante il sistema della capitalizzazione delle somme
apportate e senza che vi sia alcun contributo da parte dello Stato.
Accade perciò che l’aderente versi periodicamente i contributi ai Fondi pensione
integrativi (fase di contribuzione), i quali a loro volta provvedono ad investirli sui mercati
finanziali mediante l’ausilio di operatori specializzati, ossia delle banche, delle compagnie di
assicurazione, delle società di intermediazione mobiliare, delle società fiduciarie di gestione,
delle SGR, acronimo di “Società di gestione del risparmio”, ecc. (fase di accumulazione).
Infine gli stessi Fondi procedono, al verificarsi ovviamente degli eventi assicurati,
alla corresponsione delle prestazioni (fase di erogazione).
Per quanto ovvio, le prime due fasi si sviluppano in modo temporalmente
concomitante (escluso l’intervallo che si pone tra il primo versamento contributivo e l’inizio
della prima riscossione delle rendite finanziarie), per cui si potrebbero accorpare
sistematicamente in una sola: pur tuttavia il mantenimento della loro distinzione, lo vedremo
a breve, si rende indispensabile ai fini dell’imposizione fiscale.
Il regime tributario della previdenza integrativa
Per ognuna delle appena citate fasi è stato previsto un ben preciso regime tributario.
In particolare (e detto in estrema sintesi), con riferimento alla prima fase, è stata stabilita la
deduzione, fino ad un massimo di 5.164,57 euro annui, dell’importo dei contributi versati in
ciascun periodo di imposta dal reddito complessivo dell’aderente alla previdenza integrativa,
ivi compresi quelli eventualmente a carico dei datori di lavoro (art. 10, comma 1, lettera ebis), del Testo unico delle imposte sui redditi, TUIR).
La fase di accumulazione è invece sottoposta all’imposizione, sostitutiva e
definitiva dei rendimenti finanziari conseguiti dai fondi pensione, per di più mitigata dalla
previsione di un’aliquota ridotta (attualmente pari all’11,5 per cento), che viene realizzata
attraverso l’attribuzione della natura di soggetto passivo dell’obbligazione tributaria alla
forma pensionistica complementare, che diviene perciò autonomo soggetto di imposta
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ancorchè operante sui mercati finanziari per conto dell’iscritto-persona fisica ed esentando
così quest’ultimo da qualsiasi obbligo fiscale durante tutto il periodo di accumulazione.
La fase di erogazione presenta una complessità di situazioni che, in considerazione
del limitato spazio riservato al presente lavoro, non consente la loro esposizione: in questa
occasione sembra il caso di limitarsi a sottolineare che le prestazioni corrisposte in forma di
rendita, relativamente ai montanti individuali accumulati a partire dal 1° gennaio 2007, sono
imponibili per il loro ammontare complessivo, al netto della parte corrispondente ai redditi
già assoggettati ad imposta (quelli prodotti dalle somme investite sui mercati finanziari) ed
ai redditi derivanti dai rendimenti delle prestazioni pensionistiche erogate in forma
periodica.
Sulla base imponibile così determinata è operata una ritenuta a titolo di imposta con
l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno
eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con
un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali.
Come è dato di rilevare, si tratta di un regime tributario agevolato che interessa tutte
e tre le fasi in cui può essere suddivisa la previdenza integrativa.
La novità che sarà introdotta dalla “legge di stabilità”
Giunge notizia che nel testo della “Legge di stabilità” sarà previsto che, a partire
dall’anno 2015, l’imposta sostitutiva sui rendimenti finanziari dei fondi di previdenza
integrativi (per intenderci, quella di cui alla seconda fase) passerà dall’11,50 per cento al 20
per cento.
A prescindere dalle motivazioni che possano aver indotto le autorità governative ad
assumere tale presa di posizione (che possono essere anche condivisibili sul piano generale),
l’elevazione dell’aliquota di tassazione non può non suscitare alcuni motivi di riflessione, il
più importante dei quali riguarda la ripercussione negativa che si avrà sulle adesioni ai fondi
di previdenza integrativi.
E’ noto infatti il considerevole ritardo che presenta il nostro Paese nella diffusione di
tale forma di previdenza rispetto agli altri a noi vicini geograficamente, culturalmente e
dotati di economie similari, in particolare quelli dell’Unione europea e d’oltre Atlantico
(segnatamente gli Stati uniti d’America).
Le cause di tutto ciò sono molteplici e, senza la pretesa di essere esaustivi, si possono
così sintetizzare:
- lo scarso spirito previdenziale individuale che caratterizza la popolazione
italiana, in special modo di quella quota parte che esercita un lavoro autonomo,
tradizionalmente allergica al tema pensionistico (le statistiche di qualche anno fa indicavano
infatti che le risorse previdenziali gestite privatamente in Italia ammontavano a poco più di
41 miliardi di euro e rappresentavano appena il 3% del prodotto interno lordo (PIL), contro
il 130% della Danimarca, il 131% dei Paesi Bassi, il 102% del Regno Unito di Gran
Bretagna ed Irlanda del Nord e il 25% a livello comunitario): un ritardo, dunque, che non
esiteremmo a definire da capogiro;
- i continui cambiamenti del quadro normativo che, lungi dal dar luogo ad
un miglioramento organico della materia, ha anzi arrecato un considerevole disorientando
nei confronti chi avrebbe avuto l’intento di iscriversi, con l’ulteriore conseguenza di aver
messo in difficoltà gli operatori del settore, non avendo questi modo di stabilire
adeguatamente e per tempo le proprie strategie di marketing. A tale riguardo bisogna anche
sottolineare come la questione della previdenza complementare abbia occupato da oltre un
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trentennio uno spazio centrale di tutti i progetti di riforma posti in opera nel campo della
legislazione sociale italiana, specialmente nella consapevolezza di utilizzarla in chiave di
bilanciamento drlle inevitabili misure restrittive in materia di intervento della previdenza
pubblica;
- gli interessi economico-finanziari che ruotano intorno alla previdenza
complementare (si parla a pieno regime di alcune decine di milioni di euro all’anno), dietro
i quali si muove il tornaconto di banche, compagnie di assicurazione, parti sociali, enti
previdenziali, Regioni, ecc. Tutto ciò rende difficoltoso comporre organicamente il sistema e
realizzare il riassetto della Stato sociale, considerato, appunto, che la problematica che
sottende alle forme pensionistiche complementari coinvolge, nel nostro come negli altri
Paesi, almeno due settori di grande rilevanza nazionale (quello della previdenza sociale e
quello dei mercati finanziari);
- l’inidoneità del complesso degli incentivi, che sono quasi unicamente di
natura fiscale (qualche Autore ha sostenuto, non a torto, che l’incentivazione alla previdenza
complementare è stato un obiettivo proclamato ma non realizzato dal decreto legislativo 21
aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni ed integrazioni);
- la tendenza a considerare la previdenza complementare come
appannaggio delle classi lavorative più agiate, di quei prestatori d’opera cioè che
rivestono qualifiche apicali e che sono occupati in imprese di gradi dimensioni o presso
alcuni enti pubblici che hanno interesse (in modo particolare le prime) ad aumentare il c. d.
“tasso di fidelizzazione” dei propri dipendenti;
- la tendenza, tipica del nostro Paese, a ritenere che per modificare gli
atteggiamenti mentali delle persone sia sufficiente un’imposizione di natura legislativa,
e non considerando invece che la norma, per essere davvero efficace, deve farsene interprete
per convogliare i soggetti interessati verso gli obiettivi che si prefigge lo Stato. A tale
riguardo, e tanto per fare un esempio, appare sintomatica la circostanza che prima si sia
posto mano alle basi della previdenza complementare e poi, senza purtroppo effettuare le
necessarie verifiche circa lo sviluppo delle adesioni, si sia messo in cantiere la riforma “in
diminutio” delle pensioni obbligatorie (legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive), con le
quali si è di fatto accentuata “legalmente”, ma si potrebbe anche affermare “forzatamente”,
la riduzione progressiva del tasso di sostituzione;
- la circostanza che nei fondi pensione, come del resto nell’attività
assicurativa in generale, vi è una forte sfasatura temporale tra il momento in cui
l’aderente affida il proprio risparmio alla forma pensionistica complementare e quello
in cui potrà ricevere la contropartita. La previdenza complementare è infatti il tipico
progetto che dura tutta una vita (una pianificazione cioè dotata di un lungo orizzonte
temporale) e che presuppone, non solo la sussistenza di una discreta competenza
specialistica, ma anche che si ponga in atto da parte dell’aderente un’applicazione costante
durante l’intero percorso: in particolare occorre monitorare anche lo stato di salute dei propri
investimenti;
- il deficit culturale in materia previdenziale, che ha ingenerato nei
potenziali interessati la caratterizzazione psicologica al rifiuto inconscio ad affrontare il
problema del gap pensionistico, nella convinzione che lo stesso trattamento previdenziale
riservato alla generazione attuale possa essere replicata a quella futura (definita da qualche
Autore “aspettativa adattiva”, che in lingua inglese viene tradotta con la locuzione
“backward looking”). Ora invece si sta assistendo ad un atteggiamento opposto: lo Stato
tende a disimpegnarsi progressivamente dalla sua ormai affievolita “vocazione protettiva”,
con la conseguenza che i rischi coperti dalle assicurazioni sociali, in particolar modo quelli
collegati agli eventi pensionistici, vengono in parte trasferiti alle famiglie. Ne discende che
si renderebbe indispensabile affrancarsi dal fenomeno che nelle scienze sociologiche viene
denominato “Sindrome di Peter Pan” (vale a dire quella situazione psicologica in cui si trova
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una persona che si rifiuta, o è incapace, di crescere, diventare adulta e di assumersi delle
responsabilità), ed acquisire per contro la consapevolezza che le prestazioni garantite dallo
Stato sociale sono in progressiva diminuzione, di guisa che si rende indifferibile porre le
basi alla previdenza complementare;
- la concorrenza operata dalle comuni assicurazioni sulla vita le quali,
attraverso la paventata possibilità di chiedere la restituzione, in qualsiasi momento, dei
premi versati e dei relativi rendimenti finanziari, invogliano a dirottare verso tale settore i
possibili aderenti alla previdenza integrativa. A ciò bisogna aggiungere che continua a
persistere una situazione di grande confusione ed un contesto di erronee congetture: la
previdenza complementare ad esempio viene spesso scambiata per la già accennata comune
assicurazione sulla vita (la quale, è noto, non avente cioè finalità previdenziali), con la
conseguenza che molti soggetti, potenzialmente bacino di utenza della prima, finiscono per
iscriversi in perfetta buona fede alla seconda, sottraendo di conseguenza un elevato numero
di possibili aderenti alla previdenza complementare: lo dimostra il fatto che il trend di
crescita delle assicurazioni sulla vita, ramo uno, è in costante aumento. Si può anzi
affermare che da qualche tempo il settore stia registrando una crescita tale da fornire i
maggiori profitti alle imprese di assicurazione;
- la paventata possibilità - soprattutto con la complicità degli esponenti
politici contrari all’attuale impostazione dello stato sociale - della mancata restituzione in
termini di prestazioni delle somme destinate al finanziamento della previdenza
pubblica (c. d. “insostenibilità della spesa pensionistica”) ha ingenerato la convinzione
dell’ancora più che improbabile ritorno delle somme risparmiate per la previdenza
complementare, che abbiamo già abbiamo già detto essere di natura privatistica: se non si è
certi del pagamento delle future pensioni del sistema pubblico, a maggior ragione una
analoga preoccupazione non può che riguardare il sistema pensionistico privato, come si
qualifica appunto la previdenza integrativa. Non sussiste perciò difficoltà a definire
“terrorismo previdenziale” questo clima di delegittimazione nei confronti della previdenza
obbligatoria, costantemente indirizzato dai mass-media verso i loro iscritti, con tutti gli
immaginabili riflessi negativi che ne possono derivare nei confronti dello sviluppo della
previdenza integrativa;
- l’insufficiente contributo fornito dalle organizzazioni sindacali dei
lavoratori: tale carenza si manifesta di primaria importanza dal momento che i sindacati
medesimi operano a stretto contatto con i loro iscritti e potrebbero di conseguenza effettuare
nei loro confronti una quanto mai efficace attività capillare di persuasione che non potrebbe
non portare alla diffusione della previdenza integrativa. Il presupposto imprescindibile di
tale attività è il possesso del “know how” delle tecniche assicurativo-previdenziale e di
quella fiscale atta a convincere i lavoratori dell’ineludibilità delle adesioni a tali forme di
previdenza.
Le conseguenze dell’elevazione dell’aliquota fiscale
Dal quadro operativo appena prospettato appare evidente che, qualora dovessero
essere confermate le notizie pervenute, l’elevazione dell’aliquota dell’imposizione fiscale
sui rendimenti finanziari non potrà che accentuare il fenomeno della disincentivazione alle
adesioni alle forme di previdenza complementare, atteso che queste ultime saranno ritenute
meno appetibili rispetto al passato.
Certamente resterà ugualmente operante, anche dopo il previsto incremento
dell’aliquota di tassazione, il regime di favore di cui continueranno a beneficiare i Fondi
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pensione integrativi se confrontato alla tassazione degli altri rendimenti finanziari (20 per
cento contro il 28-30 per cento, a seconda dei casi, rispettivamente), come pure permarranno
le agevolazioni relative alle altre fasi in cui si realizza la previdenza integrativa (e
precisamente la prima e la terza): pur tuttavia l’iniziativa assunta da Governo non appare
opportuna soprattutto alla luce dell’attuale situazione di disagio in cui verte lo specifico
comparto nel nostro Paese, come pure in conseguenza della crisi economica che attanaglia
molti Paesi (e particolarmente il nostro) e che sembra non avere mai fine. Quest’ultimo
elemento, in particolare, fa sì che i lavoratori, dovendo preoccuparsi in misura maggiore
rispetto al passato della necessità di soddisfare i bisogni immediati a discapito di quelli
futuri (che si realizzeranno appunto anche attraverso la previdenza integrativa) non avranno
la forza economica per far fronte a quest’ultima forma di risparmio.
Ed ancora, vale la pena di considerare che se anche non sarà evidentemente
l’elevazione dell’aliquota di cui si discorre a frenare, da sola, lo sviluppo delle adesioni,
tuttavia la manovra interverrà, giova nuovamente sottolinearlo, in un contesto già
decisamente compromesso, per cui il maggior carico fiscale rappresenterà un ulteriore
tassello che remerà contro l’agognata diffusione.
La presa di posizione del Governo appare particolarmente grave se si pensa che le
agevolazioni fiscali costituiscono (la circostanza è stata già segnalata in precedenza)
l’unica leva messa a disposizione dell’ordinamento previdenziale per lo sviluppo e la
diffusione della previdenza integrativa, che per ciò stesso continua a latitare.
Ricorrendo una situazione differente, vale a dire qualora si potesse operare in un
contesto di diffusione di tale importante istituto previdenziale come si sul dire, “a completo
regime”, la manovra sarebbe stata fattibile e non avrebbe arrecato disagi al sistema: in uno
scenario così come descritto nel paragrafo precedente, sembra il caso di ribadirlo, le
ripercussioni non potranno che essere negative.
Non resta che attendere nella speranza che l’emanando provvedimento non venga
posto in essere.
Francavilla al Mare (CH), lì 21 ottobre 2014
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