Personalismo, personalismo critico, marxismo

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Personalismo, personalismo critico, marxismo
Personalismo, personalismo critico, marxismo
Alberto Granese
Emerito di Pedagogia
Università degli Studi di Cagliari
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Nel trattare del rapporto tra personalismo e marxismo mi atterrò a due criteri. Il primo è quello di guardare all’uso (Benutzung, Gebrauch –, Use, Usage) più
che al significato (Bedeutung, Meaning). Quando parlo
di “uso” mi riferisco alle modalità d’impiego del termine “persona” nei contesti teorici e del common sense,
ma anche – e qui il rapporto con il marxismo emerge con
più chiarezza – nei contesti storici.
Osserverei in primo luogo, partendo dall’analisi
dei contesti storici, che il concetto di persona, saldamente attestato e consolidato nel modello di pensiero
neo-tomistico e neo-scolastico, ha subito pesanti contraccolpi in altri contesti.
Com’è noto, la critica marxiana e marxista al coscienzialismo, a cui peraltro ha fatto riscontro la figura
della presa di coscienza, ha indotto a limitare o a evitare il riferimento alla persona. Questo termine non ricorre, ad esempio, nella letteratura dei marxisti italiani ortodossi e beneficia di una sorta di “sdoganamento” solo a
partire dagli anni in cui gli stessi marxisti sono stati indotti a fare i conti con la “crisi del marxismo” (ciò è
avvenuto anche per la locuzione “bene comune”). Una
delle ragioni di questo fatto è che il concetto di persona (facilmente, ma non plausibilmente assimilato a
quello di individuo) rischiava di apparire connesso alEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, III, 1 (2014), pp. 85-98.
ISSN 2280-7837 © 2014 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
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l’individualismo, che, per Marx, era di impedimento e
di ostacolo alla realizzazione del socialismo. Si deve
però prendere atto di quanto sostenuto dai marxisti della
“seconda internazionale” a proposito del coscienzialismo, della “presa di coscienza” e della sua imprescindibilità per raggiungere gli obiettivi che il socialismo rivoluzionario si prefiggeva.
Erano in campo, parallelamente, in Italia, ma non
solo, modelli di pensiero filosofico che mettevano in discussione la consistenza ontologica del “soggetto” (termine alternativo a quelli di “persona” e di “individuo”,
anche se con essi non identificabile). Althusser, riferendosi direttamente a Marx, aveva parlato di «processo senza soggetto» (“antiumanesimo teorico”).
Inoltre, gli studi linguistici e antropologici evidenziavano – soprattutto questi ultimi – il carattere “impersonale”, come già era stato in Durkheim, di ciò che
si definisce “soggetto”. Si accennava alle stratificazioni plurimillenarie di esperienze e di forme di vita da
cui il soggetto emergeva come approdo al conscio, al
logico, al razionale. Si poneva l’accento su ciò che si
era depositato nelle culture in un arco di tempo di incommensurabile ampiezza. In questo si coglievano corrispondenze, quanto si voglia vaghe e discutibili, fra la
critica marxiana del coscienzialismo (considerato peraltro irrinunciabile da molti marxisti, e soprattutto dagli autori della già citata “Seconda internazionale”).
In quegli anni, alcuni marxisti avevano posto l’accento su ciò che trascende la coscienza (del singolo o
collettiva) mentre altri avevano considerato la “presa di
coscienza” come una condizione necessaria al mutamento sociale “rivoluzionario” che tuttavia si realizza per ragioni e “spinte” oggettive che solo in alcuni casi vengono associate alla consapevolezza soggettiva. Già Marx
aveva affermato che la storia «non fa nulla, non possiede immense ricchezze, non combatte battaglie». So86
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no gli uomini in carne ed ossa che fanno tutte queste
cose, e tuttavia, da un altro punto di vista, sono le condizioni storiche a produrre la coscienza, e non viceversa. Vi era per Marx un determinismo storico, anch’esso
basato sulle condizioni materiali (economico-sociali)
per cui, contro l’utopismo, si poteva affermare che è lo
stato di cose presente a generare, indipendentemente
dalla volontà umana, lo stato di cose futuro.
Sono ben note, peraltro, le modalità di approccio a
tale tematica di chi non volle fare concessioni eccessive
all’idea del determinismo storico (una specie di legge assoluta di tipo “biblico”). Karl Liebknecht aveva posto
l’accento sul volontarismo e sul soggettivismo, come il
Lukács di Storia e coscienza di classe (1919-1920).
L’“austromarxista” Adler aveva fatto riferimento alla vita
spirituale (la coscienza). Per Renner si doveva tener conto del momento volontaristico. Per Plechanov sussisteva
la possibilità di definire coscientemente il proprio avvenire sociale e di realizzare con questo il passaggio dal regno
della necessità a quello della libertà. Rosa Luxemburg
polemizzava con Lenin manifestando le sue preoccupazioni per una deriva autoritaria del “centralismo rivoluzionario”. Labriola indulgeva a un fatalismo non condiviso da Gramsci. Bucharin affermava che il marxismo non
nega la volontà, ma la spiega. Mao-Tse-Tung manifestava una fiducia volontaristica nella coscienza umana imprescindibile per il “governo” dello sviluppo storico. Diverso, ma non meno interessante riferimento, è quello a
un’etica che corrisponde non tanto alla normativa dei
comportamenti umani, quanto alle inviolabili leggi della
storia che in un certo senso “si comporta” con la ratio “irrazionale” (perché non sottoposta a censure o a verifiche
razionalistiche) che caratterizza le prescrizioni e le decisioni del «Deus absconditus». La contraddizione «presa
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di coscienza-anticoscienzialismo» che caratterizza l’opera di Marx1 non può non connettersi alla distinzione/contrapposizione di “internismo” ed “esternismo” di cui si è
trattato, in Italia, con una notevole divaricazione di opinioni, a proposito della ricerca scientifica (“pura” o “spuria”).
Tutto ciò non poteva non avere riscontri nelle oscillazioni, fra l’oggettivismo scientifico e il soggettivismo coscienzialistico che a sua volta si esponeva al rischio di un
assoggettamento all’intellettuale collettivo, a quello che
Gramsci aveva definito, rifacendosi a Machiavelli, “Moderno principe”. Nella critica della razionalità scientifica si
individuavano elementi di soggettivismo, in quanto si negava alla ragione la capacità di un’oggettivazione non inficiata da fattori connessi alle opzioni soggettive (individuali
o collettive). Era riconoscibile, in questo, un singolare
“gioco delle parti”. I marxisti, leninianamente (cfr. Materialismo ed empiriocriticismo), restavano vincolati al punto di vista oggettivistico, ma, ancora una volta leninianamente – e gramscianamente – ponevano l’accento sulla
“soggettività collettiva” dell’organizzazione partitica. I
non-marxisti pensavano a una diversa soggettività: quella
che rifiutava di consegnarsi all’“intellettuale collettivo” perinde ac cadaver e consideravano la soggettività come libero approccio individuale ai problemi culturali, scientifici
e filosofici, non ritenendosi impegnati a una “disciplina” di
partito passiva e conformistica.
Soggettività e oggettività nel pensiero di Antonio Gramsci
Si parlò, intorno agli anni Settanta, del “programma
scientifico” di Marx, ma l’idea di una specifica scientifi1
Cfr. K. Kautsky, Etica e concezione materialistica della storia,
Milano, Feltrinelli, 1958 (ed. or. 1906).
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cità del marxismo non poté affermarsi, e anzi i marxisti
furono indotti a tener conto di quella che ebbe a definirsi come critica (oltreché crescita) della conoscenza
scientifica. Si giunse con questo alla fase in cui ebbero a
concretarsi una serie di intrecci: si ripropose il problema
degli intellettuali (e quindi anche degli scienziati) e
della loro indipendenza e autonomia. Quella che poteva
apparire come una concessione alla scienza “pura”, non
condizionata dalla politica e dall’ideologia, era, almeno in parte, un riconoscimento di ciò che una scienza
non sottoposta al potere politico era in grado di offrire
per la realizzazione del “bene comune”. Si deve ribadire che, con questo, la “dottrina” marxista si presentava
come una fattispecie particolare, benché assai importante,
di una situazione in cui da un lato sembrava necessario
mettere al riparo la scienza dai condizionamenti esterni, salvaguardandone il prestigio e l’oggettività, e riconoscendo al tempo stesso la sua capacità propulsiva sul
terreno delle esigenze sociali.
In un certo senso, il problema della scientificità
del marxismo coincideva con il problema della scientificità tout court, di quella scientificità di cui, da molte
parti, si segnalavano i limiti, sia sul versante di una teoria della conoscenza che sul versante delle pratiche sociali. A questo si collegava, pur non direttamente, il problema del rapporto fra la soggettività e l’oggettività, di cui
si è detto poc’anzi, su cui molti autorevoli pensatori si
erano espressi, anche dialogando con il marxismo e riconoscendolo da un lato come un presidio della soggettività
consapevole (l’io, la persona, la volontà individuale ecc.)
o come la teorizzazione di una oggettività senza soggetto
(è pressoché superfluo rilevare che questa problematica si
collega a quella del rapporto fatti-valori, e al problema
dell’ideologia, intesa come “falsa coscienza”).
Aveva scritto Gramsci nei Quaderni: «Cosa significa “oggettivo”? Non significherà “umanamente og89
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gettivo” e perciò anche umanamente “soggettivo”? L’oggettivo sarebbe allora l’universale soggettivo: cioè il
soggetto conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente
unificato in un sistema culturale unitario. La lotta per
l’oggettività sarebbe quindi la lotta per l’unificazione
culturale del genere umano; il processo di questa unificazione sarebbe il processo di oggettivazione del soggetto
che diventa sempre più un universale concreto, storicamente concreto. La scienza sperimentale è il terreno
in cui una tale oggettivazione ha raggiunto il massimo
di realtà; è l’elemento culturale che più ha contribuito a
unificare l’umanità, è la soggettività, più oggettivata e
universalizzata concretamente.
Il concetto di oggettivo della filosofia materialistica volgare pare che voglia intendere una oggettività
superiore all’uomo, che potrebbe esser conosciuta anche all’infuori dell’uomo… Noi conosciamo i fenomeni
in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è un divenire,
pertanto anche l’oggettività è un divenire»2.
Scriveva inoltre Gramsci: «Tutto ciò che la scienza
afferma è ‘oggettivamente vero’? In modo definitivo?
Non si tratta invece di una lotta per la conoscenza
dell’oggettività del reale, per una rettificazione sempre
più perfetta dei metodi d’indagine e degli organi di osservazione e degli strumenti logici di selezione e discriminazione? Se è così ciò che più importa non è dunque
l’oggettività del reale come tale, ma l’uomo che elabora
questi metodi, questi strumenti materiali che rettificano
gli organi sensori, questi strumenti logici di discriminazione, cioè la cultura, la concezione del mondo, cioè il
rapporto tra l’uomo e la realtà. Cercare la realtà fuori
2
A. Gramsci, Quaderni del carcere, II, Torino, Einaudi, 1967, pp.
1048-1049.
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dell’uomo appare quindi un paradosso…»3. “Troppo
idealismo” sentenziò a questo proposito l’epistemologo
princeps marxista-leninista-maoista Geymonat.
Il pensiero “epistemologico” di Gramsci in qualche modo precorreva quello dei critici della conoscenza
scientifica come luogo e forma dell’oggettività inconcussa e garantita «in sé e per sé». Introduceva elementi di
relativismo epistemologico mentre, paradossalmente,
prendeva le distanze dalle posizioni filosofiche caratterizzate dalla dubbiosità relativistica. Ma di ciò, filosofi
della scienza (epistemologi) e marxisti “scientifici” non
fecero gran conto, e trascurarono quella conoscenza riconducibile per un verso alla tesi junghiana dell’inconscio collettivo e, per l’altro, all’idea antropologica di
“cultura” come deposito di forme e modelli di vita rispetto ai quali l’io cosciente doveva riconoscersi prodotto
del “non-cosciente”. Gli impulsi irrazionali richiamati
da Freud e da Jung andavano al di là di ciò che le teorie
personalistiche consideravano irrinunciabile e comunque
non riducibile a cause storiche e a contesti culturali.
L’idea durkhemiana che l’individuo-persona è una manifestazione superstrutturale (una superfetazione, un’ipostasi) dell’essere sociale, costituiva un termine di riferimento importante per chi fosse orientato a documentare l’oggettivazione del soggetto. Per Durkheim,
l’analogia tra organismo biologico e organismo sociale
implicava che l’unità e la solidarietà delle società fossero al di sopra del singolo. Ciò aveva a che fare, in
Durkheim, con il rapporto fra le rappresentazioni individuali e le rappresentazioni collettive. Di Marx, Durkheim ebbe a scrivere: «Riteniamo un’ottima idea
quella di spiegare la vita sociale non con le idee di coloro che ne prendono parte, ma attraverso le cause pro3
Gramsci, Quaderni…, cit., I, p. 467.
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fonde che rifuggono dalla consapevolezza, e riteniamo
inoltre che tali cause devono essere ricercate nel modo
in cui gli individui associati si raggruppano»4. Fra il
materialismo – storico-dialettico – e il personalismo
pareva sussistere una vera e propria incompatibilità.
Da un lato il personalismo insisteva nel far valere
le sue ragioni, dall’altro si pensava, in Italia, ma non
solo, di “smontare” (decostruire) il soggetto, si prospettava la “crisi del soggetto” e ciò, paradossalmente,
in un contesto nel quale la critica della razionalità geometrico-determinante aveva fatto posto alle istanze di una
soggettività anch’essa determinante, ma in un senso
diverso: quello di condizionare decisivamente gli stessi
giudizi riconducibili alla scientificità positiva. Era questo, a ben guardare, il senso dell’affermazione del Quine critico dell’empirismo: «(…) i fatti sono mitici più
degli dei di Omero». Era anche il senso di quanto prospettato da autori di diversa matrice, Kuhn e Gadamer,
entrambi inclini a porre in discussione l’oggettività;
l’uno evidenziando la soggettività (anche à plusieurs)
dei paradigmi, l’altro mettendo in campo la nozione di
“Vorurteil”. Anche la tesi del theory-laden, secondo la
quale, com’è noto, l’empirico-positivo è “carico di teoria”, aveva una connotazione di questo tipo. Si parlava
insistentemente, peraltro, di una crisi del soggetto, di un
“oltre “ e di un “al di là” del soggetto. Paradossalmente,
peraltro, al riconoscimento del carattere non unitario e
“plurale” del soggetto faceva riscontro la crisi dell’oggettività, convertibile in una sorta di “pirronismo” epistemologico non privo di sfumature soggettivistiche.
4
Cfr. E. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Milano, Il
Saggiatore, 1972, pp. 261-271 (recensione ad A. Labriola, Saggi sulla
concezione materialistica della storia).
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Ciò accadeva anche sul terreno della filosofia morale, in
cui, alla tesi della non dimostrabilità oggettivante dei valori, faceva riscontro l’“emotivismo”, teoria che considerava i giudizi di valore pura e semplice espressione del
“pathos” soggettivo.
Non era certo difficile (anzi era in un certo senso a
buon mercato) “smontare”, scomporre il soggetto, analizzarne i “congegni”, metterne in dubbio la stessa sussistenza, come avevano fatto i pensatori buddhisti, con i
quali nessuno o quasi, in Italia, aveva fatto seriamente i
conti, nonostante i testi (Upanishad, Canone buddhista
ecc.) fossero agevolmente disponibili. C’erano vari modi
di negare, liquidare, o almeno ridimensionare il soggetto
e le sue pretese (nel romanzo “filosofico” L’uomo senza qualità R. Musil ebbe a parlare «del guardarsi nelle
schegge di uno specchio»). Molta letteratura non filosofica aveva insistito su un pirandelliano «uno, nessuno e centomila». In un romanzo scritto nel 1928 – Orlando – la grande scrittrice inglese Virginia Woolf
aveva parlato di «quegli io di cui noi siamo composti e
che sono sovrapposti gli uni agli altri come una pila di
piatti in mano a un cameriere». I crepuscolari e gli ermetici avevano negato più o meno esplicitamente
anch’essi la consistenza, la persistenza e l’unità del
soggetto. Aveva scritto a suo tempo Gozzano: «Dunque io esisto? È strano! Vive tra il tutto e il niente, una
cosa vivente detta Guido Gozzano». Nella composizione che apre gli Ossi di seppia, Montale aveva accennato alla impossibilità o alla inutilità di una parola
«che squadri da ogni lato l’animo nostro informe».
Non è stato rilevato come tutto intero l’ambizioso e
suggestivo impianto della riflessione di Michel Foucault
sulla «archeologia del sapere» costruito con assiduo e
acuto esercizio di intelligenza critico-speculativa, abbia riguardo in ultima istanza – pur senza dichiararlo –
al solo “oggetto” (non per nulla definito “soggetto” nel
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suo problematico rapporto con l’oggettività) che nei
processi della propria strutturazione (i quali ovviamente
si pongono alla radice di ogni formazione discorsiva),
esibisce, in esclusiva (e necessariamente), il titolo di mediazione fra l’identità e la differenza, facendo, della significatività di questo rapporto e di questa tensione, il
paradigma fondamentale. Il tema del mutamento-e-dellapermanenza, della continuità e della discontinuità, della
variabilità, della labilità e della persistenza, della evenemenzialità e della stabilità della struttura (rottura,
soglia, limite, trasformazione, somiglianza, ripetizione
sono termini ricorrenti nel testo di Foucault), quali
puntigliosamente il filosofo francese si impegna ad affrontare, hanno tutti il più appropriato termine di riferimento nella figura (da Foucault appena accennata o
ignorata) della persona. Ciò che «la nuova storia mette
in questione quando problematizza le serie – scrive
Foucault ne L’archeologia del sapere – le scansioni, i
limiti, i dislivelli, gli scarti, le specificità cronologiche,
le strane forme di persistenza, i possibili tipi di relazione” riguarda essenzialmente la struttura e le esigenze dell’oggetto-soggetto persona; quello che appare in
Foucault come il conflitto o l’opposizione fra la struttura e il divenire trova il suo elemento di maggior significatività e di positività nell’idea di persona.
La persona è infatti il campo di determinazioni dai
confini indefinitamente variabili in cui assumono significato le differenze, ed è anche – con la sua persistenza nel mutamento – la matrice (non nel senso di un
idealismo ingenuo, ma semmai in quello del fenomenologismo husserliano) del significato di ogni altra differenziazione. È proprio della persona, anche in negativo, ciò che Foucault tematizza senza fare riferimento
alla persona, ossia la «singolare ripugnanza a pensare
alla differenza, a descrivere gli scarti e le dispersioni, a
dissociare la forma rassicurante dell’identico».
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Una delle forme in cui il concetto di persona è stato problematizzato è quella del nichilismo “negativo” o
“positivo”.
È questo anche il caso dei mistici del XIV secolo,
nei quali, molto significativamente, il negativismo, configurandosi come rilevazione del limite, coinvolge, senza
peraltro contestarne radicalmente la funzione e metterne
in discussione il valore, la ragione. È quanto si evince
dall’Imitazione di Cristo, in cui si parla della miseria
del vivere sulla terra, della fragilità umana, della necessità di confessare la propria debolezza, della ubbidienza, della sottomissione, della rinuncia alla propria
volontà (Ruysbroeck) del non fare assegnamento «sulle
vane scienze dell’uomo», così come lo si evince dai Sermoni di Taulero. Una delle idee ricorrenti, nel quadro di
queste posizioni, è che l’uomo deve negare se stesso,
uscire da se stesso per poter rientrare in se stesso, realizzare e governare sé stesso. L’annullamento dell’uomo ha
il carattere di una purificazione, di uno “svuotamento”
che consenta a Dio di prendere posto nella sua interiorità. Si legge nel Sermone per la domenica di settuagesima: «L’uomo deve essere piegato; ciò che in lui vi è
di più alto deve essere abbattuto e deve inabissarsi in
una verace e umile sottomissione... Tutte le nostre facoltà, interne ed esterne, quelle della sensibilità e quelle della concupiscenza, come anche le facoltà razionali
devono essere legate, ciascuna al suo posto, in modo
tale che né i sensi, né la volontà, né altra facoltà si dilati, ma tutte restino legate e attaccate in una verace sottomissione alla volontà di Dio, alla sua eterna volontà». Di Dio si ha una conoscenza «che sorpassa di gran
lunga la scienza ed il modo di conoscere razionale».
Taulero parla anche di una «schiavitù della ragione»,
pur senza implicazioni di disfattismo. Un’interpretazione
“positiva” del rapporto fra i limiti della ragione e un nichilismo non configurato come Vernichtung o puro ne95
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gativismo si riscontra nel pensiero del teologo evangelico Dietrich Bonhöffer il quale afferma che il concetto
di ubbidienza fa giustizia, agli occhi di Dio, di ogni forma
di legalismo fondato sulla giustificazione razionale della
legge. Il teologo evangelico parla “dell’ambiguo pensare”, contrapponendogli il valore vetero-testamentario (ma
anche neo-testamentario) della “sequela” (Nachfolge).
Bonhöffer cita la seconda esposizione di Lutero dei sette
salmi penitenziali:
«Non deve avvenire secondo il tuo intelletto, ma
al di sopra del tuo intelletto, immergiti in ciò che è
contro il tuo intelletto e ti darò il mio. Il non intelletto
è il vero intelletto; il non sapere dove si vada è il vero
sapere dove si va. Il mio intelletto ti rende del tutto
privo di intelletto. Così Abramo è uscito dal suo paese
senza sapere dove andava. Egli si è affidato al mio sapere, e ha trovato la via giusta, per la giusta meta [….]
non sei tu, uomo e creatura, ma io stesso ad insegnarti
la via con il mio spirito e la mia parola, la via entro la
quale devi procedere» (Sequela, 1937).
La filosofia cristiana aveva anch’essa le sue ambivalenze. Non si poteva rinnegare la nozione di entità unica e
irripetibile, (ens intelligens et liberum), ma anche si denunciava, in modo più o meno esplicito, la “presunzione” ontologica del soggetto, a partire da quella di essere causa sui. Non era dimenticato il «transcende te
ipsum» che Agostino aveva raccomandato dopo il detto «in interiore homine habitat veritas». Il “cristiano”
Husserl aveva detto che cancellare la coscienza equivaleva a cancellare il mondo e questo procurava, a lui sostanzialmente realista, la taccia di idealismo. Peraltro
la segnalazione dei limiti del soggetto non ebbe mai, in
quest’ambito, il carattere di un suo deprezzamento, né
di tentativo di “destrutturarlo” o di negarne la consistenza ontologica, che anzi permaneva, consolidata,
nella formula dell’«homo creatus est».
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È quasi superfluo rimarcare l’opposizione di principio dei pensatori di orientamento neo-scolastico alle
filosofie che si proponevano non solo di mettere in luce la relatività del soggetto, ma addirittura di negare la
sua consistenza ontologica. La dottrina della Chiesa
cattolica riconosce alla persona qualità e dignità ontologica, dignità che deriva dall’esser l’individuo umano
creato ad immagine di Dio. «La persona – si legge nel
nuovo Catechismo della Chiesa cattolica – è capace di
conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di
entrare in comunione con altre persone» (art. 357). «La
persona umana partecipa alla luce, alla forza dello Spirito divino. Grazie alla ragione è in grado di comprendere l’ordine delle cose stabilito dal Creatore. Grazie alla
sua volontà è capace di orientarsi da sé al suo vero bene» (art. 1704). «La persona rappresenta il fine ultimo
della società, la quale è ad essa ordinata» (art. 1929).
Considerazioni conclusive
Trattando di “personalismo”, e parallelamente di
marxismo, è opportuno far riferimento ad alcuni concetti “sensibili”. Persona e ragione, persona e libertà,
persona e ideologia, persona e verità, persona e interpretazione (ermeneutica), persona e società, individualità e collettività, persona e strutturalismo, inconscio
individuale e collettivo (inconscious patterns).
Come che sia, l’analisi del concetto cristiano di
“persona” impegna a prendere in considerazione (“virtualmente”) tutti gli “Hauptprobleme” della filosofia,
quelli disseminati e affrontati nei vari modelli filosofici: al concetto di persona si collega un repertorio (un
“thesaurus”) di parole-chiave, di termini e concetti di
particolare rilevanza: legge, libertà, grazia, irripetibilità
e unicità della vita, religione, società. E anche il bene e
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il male, la giustizia, l’obbedienza, il nichilismo, l’orgoglio, la sofferenza, la volontà, l’arbitrio, la responsabilità, la necessità, la verità, l’amore, la caritas, la conoscenza, la politica, la fede, la corporeità, la razionalità,
l’ideologia, la natura, la materia e lo spirito, l’essere e
il divenire, l’immanenza e la trascendenza, il vero e il
falso, il buono, l’utile, il giusto, l’esperienza, il “mondo della vita” (la Lebenswelt di Dilthey e di Husserl).
Si tratta dunque di un concetto che non può essere
né rivendicato in esclusiva dai “personalisti”, né “archiviato” come espressione di un modello “metafisicospiritualistico” inattuale o poco plausibile. Potremmo
dire che l’idea di persona dovrebbe essere sottoposta,
in primo luogo, a un processo di “depurazione” dalle
interpretazioni “ideologiche” (nel senso deteriore dell’ideologia, termine non identificabile con la “falsa coscienza”) che rischiano di inficiarlo. Tale “depurazione”
comporta un ripensamento critico del termine-concetto
di “persona” che ne consideri l’intima struttura non solo nella dimensione diacronica del “breve periodo”, ma
anche in quella sincronica del lungo periodo.
Riferimenti bibliografici
Althusser, L., Umanesimo e stalinismo, Bari, De Donato, 19772.
Durkheim, E., La scienza sociale e l’azione, Milano, Il Saggiatore, 1972.
Foucault, M., L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1999.
Gramsci, A., Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1967.
Kautsky, K., Etica e concezione materialistica della storia, Milano, Feltrinelli, 1958 (ed. or., 1906).
Imitazione di Cristo, a cura di V. Gamboso, Padova, Edizioni
Messaggero, 2010.
Mattei, F., La radice e il frutto. Sulla filosofia dell’educazione di Mario
Manno, in F. Mattei (a cura di), Itinerari filosofici in pedagogia. Dialogando con Mario Manno, Roma, Anicia, 2009, pp. 137-191.
Taulero, G., I Sermoni, a cura di M. Vannini, Cinisello Balsamo,
Edizioni Paoline, 1997.
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