Realismo o esistenzialismo - Centro Studi e Ricerche Aleph
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Realismo o esistenzialismo - Centro Studi e Ricerche Aleph
Realismo o esistenzialismo: l’equivoco del neorealismo in Italia L’età che va dal 1918 al 1945 è tormentata da gravi problemi sorti alla conclusione della prima guerra mondiale e dalle difficili questioni di squilibrio politico che ne derivano. Molto più grave è il conflitto ideologico scaturito dalla Rivoluzione Russa dell’ottobre 1917: infatti, contro di essa, le forze conservatrici dei maggiori stati europei prendono la strada della controrivoluzione preventiva, mettendo i loro interessi al riparo di strutture statali autoritarie. Da qui lo sviluppo del totalitarismo in Europa. In Germania, si fa strada il movimento nazista; nel 1933 Hitler si appressa alla dittatura: i esplicitando una dottrina razzistica che, riprendendo il tema della superiorità della stirpe germanica, si propone in particolare il dominio sulle stirpi slave e latine ormai in decadenza e lo sterminio della razza ebraica, rea di aver inquinato le tradizioni guerriere della Germania. Il totalitarismo ben presto si rivela come un fenomeno europeo; esso si afferma anche in Spagna con la dittatura del generale Franco , in Portogallo e movimenti analoghi si hanno anche in molti altri Paesi. In Italia la dittatura si manifesta nella politica di Benito Mussolini che si afferma sulla scena politica italiana, portando alla Camera ben 30 deputati. Con la collisione degli interessi agrari e industriali e con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfa. Soppressa nel’25 ogni manifestazione di vita democratica, fuoriusciti o ridotti al silenzio col carcere o con la violenza i più prestigiosi oppositori, Mussolini, con la creazione dell’Accademia d’Italia, con la scuola di “Mistica fascista”, cerca di legare al regime anche la cultura, mentre l’apposito”Tribunale Speciale” non cessava di erogare prigionia e ordini di domicilio coatto. In realtà, non ebbe altro che formalistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie ufficiali. Il fascismo non poté infatti chiudere le finestre così ermeticamente, perché non entrassero, almeno a spifferi, le correnti di cultura che spiravano in Europa. Emblema della denuncia idealistica al fascismo è la rivista “Solaria”, fondata nel 1926 della cui redazione fecero parte uomini come Leone Ginzburg, Eugenio Montale, Giacomo Debenedetti, e, anche se con posizioni non sempre conciliabili, Carlo Emilio Gadda. Grande l’amore dei solariani per la tradizione del grande romanzo europeo, essi lottarono per introdurre in Italia il meglio della letteratura europea ed anche statunitense con le sue tensioni ed il suo vento di rinnovamento. La rivista venne più volte censurata e nel 1936, a causa delle sempre maggiori pressioni del controllo fascista, concluse la sua vita. Tramite la sua diffusione entrarono in Italia le inquietudini degli scrittori “decadenti”, le arti e il cinema straniero, così ricchi anch’essi di fermenti, e poi l’esistenzialismo e tante altre dottrine e temi, che riescono così a penetrare, anche se sopravvivendo ai margini della “cultura ufficiale”, dando via a particolari rielaborazioni, rimanipolazioni, revisioni e, talvolta, compromessi e contraddizioni. Soprattutto la filosofia dell’esistenzialismo apparve come la più idonea a rappresentare in Italia lo stato d’animo degli intellettuali e trova qui ispirazione dalla fenomenologia di Husserl ed ha in Heidegger e in Jaspers i suoi cultori più significativi. La vecchia cultura idealistica non basta più a dare all’uomo la fiducia nella “storia”, proposta da Croce, anche se questi si ricollegava alla resistenza al fascismo o dall’entusiasmo vitalistico di Gentile, che invece preparava una sempre più ampia congruenza con esso; si spalanca, così, un vuoto esistenziale, un senso amaro di frustrazione e fallimento, una sensazione dolorosa di solitudine e d’angoscia, che la situazione politica e sociale acuisce sensibilmente. Il diffondersi di dittature illiberali, la minaccia di una guerra che si sentiva avvicinare sempre più, l’espansione di una civiltà di massa, che richiedeva all’artista prodotti di infimo gusto, la spinta che già dalla metà dell’Ottocento aveva determinato nell’artista un senso di isolamento sociale, apparivano ora, in maniera esasperata, in una età in cui si erano dissolti i miti scientisti del positivismo e quelli vitalistici del primo Novecento, e l’uomo si scopriva nudo e solo, con la sua tragica “condizione umana”, fra folle ubriache di nazionalismo , guerre e teatrali parate militari. In questo contesto si spiega la larga diffusione che ebbe la moderna “psicoanalisi”, ad opera di Freud, e poi Jung e della sua scuola. Da un punto di vista prettamente filosofico, la dottrina freudiana non è altro che un aggiornamento del vecchio dualismo manicheo, rielaborato nell’istinto di vita, o “Eros”, e in quello di morte o “Thanatos Secondo Freud”, infatti, l’uomo è irresistibilmente attratto verso la morte: “lo scopo di tutta la vita è la morte”. Lasciando da parte qui i presupposti fondamentali della sua dottrina, a tutti noti, vediamo che la sua importanza sta nella forza polemica con cui ha fatto valere esigenze che nella filosofia tradizionale non avevano trovato posto: il concetto della vita umana, individuale e sociale, come costituita da un conflitto immanente; l’uso dell’introspezione, quale strumento d’analisi; la concezione dei “sogni” e del loro contenuto latente; l’importanza data alle esperienze infantili e agli “stadi” dell’infanzia, e in primo luogo al “complesso di Edipo”, sono gli innegabili contributi dati da Freud alla nostra letteratura contemporanea. Gli anni tra il ’30 e il ‘40, furono di grande sperimentalismo nella nostra cultura In quegli anni si viene affermando, tra gli scrittori italiani, una diffusa tendenza realista, l’esigenza di un racconto oggettivo, l’interesse ad una problematica non strettamente individuale, ma più largamente umana. Nel contempo viene meno del tutto, senza alcun dubbio in relazione ai nuovi eventi storici, insieme ad una stabile concezione del mondo, la visione ottocentesca della società come qualcosa di organico, in cui ogni parte tenda necessariamente al tutto, si esaurisce ogni fiducia nella possibilità di un’organica concezione della realtà e si accentua la coscienza di una insuperabile condizione di solitudine e di isolamento. I narratori”realisti” non danno un giudizio della società alla luce di una chiara concezione del mondo, non ci rappresentano la vita dell’uomo come una complessa trama di rapporti con gli altri uomini, ma ritraggono la realtà come qualcosa di disgregato, come un insieme di momenti distinti; la vedono alla luce del loro isolamento, della solitudine, della sfiducia; fissano l’occhio sugli aspetti più dolorosi ed inquietanti delle società con un senso di umana pietà, ma senza speranza.. Viene meno la visione della società come qualcosa di organico, lo spirito ottocentesco che, se pur in diverse forme, era sino ad allora sopravvissuto, il determinismo, il meccanicismo come moventi dell’Universo e la fiducia positivistica nel progresso che erano stati alla base delle opere di scrittori come Zola Maupassant e Flaubert in Francia, di Capuana e Verga in Italia. Il libro che apre questa nuova tendenza può essere considerato “Gli indifferenti” di Alberto Moravia. Moravia mette in luce nella sua opera, nonostante una certa apparente adesione neorealistica, la condizione dell’individuo alienato, senza contatti, in rivolta contro il mondo borghese e i suoi lavori, scandagliandone tutte le possibili inclinazioni psicologiche, fino a giungere, su questa strada, alla demistificazione dell’arte ed alla desublimazione dell’ideologia. Accanto a chi faceva valere i problemi “umani”, c’era chi, in quegli anni difficili, tentava però un tipo di cultura, gravido di avvenire. Si trattava di Antonio Gramsci, che meditava la costituzione delle classi subalterne in un grande blocco storico per dare inizio alla rivoluzione insegnata da Marx. E appunto in questo contesto si inseriva la grande azione svolta dall’opera culturale, quale la costruzione di una nuova filosofia della prassi; preparazione di intellettuali organici delle classi recenti e conquista dell’egemonia culturale. Ma questa è storia recente: in quegli anni, Gramsci poté solo elaborare la sua opera all’interno delle carceri fasciste. E poi venne la guerra. Nel 1939 scoppiava la Seconda Guerra Mondiale, e furono anni di passione e tensione, anni in cui si alternarono disperazione e speranza, ascensioni e cadute, tra distruzioni materiali e orrori mai conosciuti. E poi venne la Resistenza, in cui ognuno sentì, veramente, senza retorica, che era in gioco non solo il proprio destino, ma quello del mondo, e infine venne l’indimenticabile primavera del 1945. E con essa, la gioia ebbra della vittoria, e, in un mondo devastato da sofferenze materiali e morali di ogni genere, il desiderio autentico di ricostruire, di cominciare una vita nuova. La tendenza realista si accentua nell’immediato dopoguerra, nel nuovo clima di democrazia, quando, caduta la dittatura, rinasce una vigorosa speranza di rinnovamento sociale e si diffonde l’ideologia della sinistra politica. Era appena finita la guerra che, in Francia, lo scrittore-filosofo Jean Paul Sartre preludeva a una sua rivista “Temps modernes”, con pagine che avrebbero avuto eco in Italia, e teorizzava la partecipazione attiva dello scrittore alla vita sociale, coniando il termine felice e fortunato di “impegno”, come un richiamo alle responsabilità dell’uomo. Nel’47 cominciò la pubblicazione delle opere di Gramsci. L’idealismo, come ideologia della riscossa borghese che aveva avuto inizio negli anni dell’800, entra in crisi ed il marxismo, quasi ignorato nel primo quindicennio del secolo e respinto poi dalla cultura ufficiale, diventa il fatto culturale più rilevante di quel periodo. Infatti il fenomeno nella politica che caratterizzò quegli anni, fu il ricostituirsi contro il fronte borghese di un fronte antagonistico delle classi subalterne, e, parallelamente, il costituirsi di una cultura antagonista a quella borghese, che si richiamò al marxismo e che si pose soprattutto (e questo è uno dei nodi centrali del pensiero marxista), quale rapporto tra “cultura” e “società”, e vide la cultura quale momento ineliminabile della lotta politica, premessa necessaria alla rivoluzione. Si viene così a riscoprire, la funzione “civile” della cultura e la responsabilità sociale e politica dell’intellettuale. Mentre l’arte “ermetica” era stata “borghese”, l’arte “realista” o “neorealista”, come fu chiamata, voleva essere “popolare”, o meglio, utilizzando il termine proprio di Gramsci: “nazional popolare”; un’arte che parlasse a quel che di comune c’era in tutti gli italiani. Il realismo vide la sua migliore produzione tra gli anni ‘40 e la metà degli anni ’50. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale e alla lotta contro la dittatura del fascismo in Italia infatti si era creato un grande cambiamento culturale e letterario. Gli intellettuali sentono fortissimo il bisogno di impegnarsi concretamente nella vita politica e sociale del Paese, di mettere la propria arte al servizio della realtà come manifestazione e mezzo di impegno civile. Elio Vittorini con la rivista “Il Politecnico”, della quale fu direttore dal 1945 al 1947 è il maggiore rappresentante di questa tendenza. I suoi servizi editoriali carichi di impegno sociale, le sue inchieste e le sue pubblicazioni aiutarono anche la rinascita dell’editoria italiana. Emblema ne è la casa editrice Einaudi, fondata da Giulio Einaudi, che pubblicò i principali intellettuali dell’epoca coinvolgendoli in un dibattito letterario giovane, critico, attento alle realtà d’oltrepaese, e, soprattutto carico di entusiasmo. A questa casa editrice, dal '45, si deve la scoperta e la pubblicazione di opere che hanno segnato la cultura del '900: dalla traduzione in italiano delle opere di Proust, Bertolt, Brecht, Jean Paul Sartre, Thomas Mann, Jorge Luis Borges, Robert Musil, al grandissimo lavoro di divulgazione storica, culminata alla fine degli anni '70 con “La storia d'Italia”, alla pubblicazione di opere di scrittori quali Morante, Cassola, Moravia, Ginzburg, Carlo Levi, Pavese, Montale, Vittorini, Penna. In sostanza la narrazione “realistica” dell’Ottocento prosegue così anche nel Novecento ma cambiando punto di vista e dando via alle soluzione più disparate, da opere legate al memorialismo storico (Primo Levi “La tregua”) a romanzi legati all’esistenzialismo,con eroi-personaggi devastati da dubbi esistenziali, sconvolti da grande tragedie (Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Silone, Jovine etc), allo sperimentalismo delle opere di Gadda fino al “populismo” di Pasolini. L’adesione ai temi della psicologia del profondo, il rifiuto della oggettività del reale, l’appello alle forze oscure dell’inconscio individuale e collettivo, la ricerca delle origini dell’uomo nei meandri oscuri dell’inconscio, nelle leggi interne che regolano, fin dall’inizio, la società umana. non contrastavano del resto con la contemporanea battaglia svolta dal marxismo contro la società capitalistica, i suoi tabù e le sue repressioni. Questa eclettica produzione trova la sua manifestazione teorica nella formula del “tipico” lukacsano, specie quando nello scritto “Marxismo e critica letteraria”, il filosofo afferma che: “La fedeltà alla realtà, l’appassionato sforzo di restituirla nella sua integrità, furono per ogni grande scrittore, (Shakespeare, Goethe, Balzac, Tolstoj) il vero criterio della grandezza letteraria”. Per Lukàcs “ogni nuovo stile, sorge come necessità storico-sociale nella vita”, ed è “il necessario prodotto dell’evoluzione sociale”e mai “da una dialettica immanente alle forme artistiche” (Lukàcs “Marxismo e critica letteraria”), Si pensi poi alla funzione del narratore e alla giustificazione dell’io narrante come garanzia di “distanziamento”, e nello stesso tempo come possibilità di una visione totale del reale. Lukàcs crede nel “distanziamento”, come “l’apriori” di ogni possibile selezione degli avvenimenti posti dalla prassi; con l’uso della prima persona è possibile distanziare in un passato anche recente gli avvenimenti e sottoporli a selezione. Citando sempre Lukàcs: “la tensione propria dell’arte veramente etica concerne dunque sempre destini umani “ Concludendo la produzione letteraria di quegli anni fu originale, eclettica ma anche contraddittoria: Il bisogno di rinnovamento e l’esperienza comune della guerra furono il terreno di incontro di esperienze eterogenee che trovarono il loro fondamento nel concetto, già proprio del decadentismo, dell’”autonomia” dello scrittore. Il grande Italo Calvino smentì che il Neorealismo possa essere classificato come una “scuola”. Per lui esso fu invece “ un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute una all'altra - o che si supponevano sconosciute , senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato neorealismo.”. Forse il tratto del carattere che meglio svela le contraddizioni interne del neorealismo, pur nella sincerità delle vari adesioni, è la sostanziale natura “decadente” di questa letteratura in Italia, che si manifesta nella incapacità, inadeguatezza, inidoneità dello scrittore neorealista di affrontare le condizioni del “popolo”; i protagonisti, anche se contadini meridionali o operai rappresentanti della nuova classe sociale sono comunque sempre personaggi nevrotici e schizofrenici, idonei più che a denunciare e a rappresentare la lotta di classe, a metaforizzare la rabbia dell’intellettuale borghese. “Borghese”, appunto, fu quella letteratura per l’incapacità di rappresentare altre alternative al mondo odierno, nella persuasione che non esiste altra società fuori di quella, e che, quindi, il futuro non lo si può preparare solo sulla base di un’analisi che nell’oggi prefiguri il domani, ma lo si può solo sperare, semmai, ed utopizzare irrazionalmente, come il frutto di una eversione totale. Il sistema di pensiero e la visione del mondo più congruente con questo stato d’animo si realizzò nella scuola di Francoforte con uomini quali: Theodor Adorno, Marx Horkheimer, Herbert Marcuse. Costoro condannarono certamente la società attuale ma, contro il “sistema” e il “potere”, esaltarono un’arte che, rifuggendo sia dall’impegno contenutistico, dalla speranza, perciò, di influire attraverso l’arte nella vita sociale, sia dal gioco formalistico dell’arte per l’arte, assunsero come “impegno” la lacerazione e il caos della società di oggi. Una visione, quindi, dell’artista che vede il mondo come una macchina mostruosa che tutto ingloba; e conduce come ultima soluzione, non l’organizzazione politica, non il proletariato, ma l’arte come estremo tributo pagato alla società. Nell’equivoco tra la tendenza al “vero”, al “reale” e una sostanziale matrice esistenzialistica, si esaurì il nostro “realismo”. Angela Rigamo Il Convivio - Centro Studi e Ricerche “Aleph” press http://www.centrostudialeph.it http://ilconvivio.interfree.it e-mail [email protected]