totalitarismo e controllo sociale - attivita` recupero primo quadrimestre

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totalitarismo e controllo sociale - attivita` recupero primo quadrimestre
lezione d’autore
Uno spazio per riflettere con studiosi e autori di manuali su questioni storiche di
particolare interesse.
TESTO DI Alberto de bernardi
Alberto De Bernardi è professore ordinario di storia contemporanea all’Università di Bologna.
Per Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori è autore di numerosi manuali, per le medie inferiori e
per il triennio delle scuole superiori.
TOTALITARISMO
E CONTROLLO SOCIALE
R
«
itengo che il controllo
sociale costituisca
la novità introdotta dal
totalitarismo nelle forme del
dominio politico.»
Nel quadro concettuale del totalitarismo la connessione tra repressione, violenza e controllo sociale diventa
fondamentale. I regimi totalitari sono infatti fenomeni
storici molto diversi dall’autoritarismo classico proprio
perché coniugano il binomio violenza/repressione con
quello di mobilitazione politica/consenso. Questa coniugazione è possibile solo se i nuovi regimi sono in grado
di costruire un efficiente sistema di controllo sociale, nel
quale confluiscano sia il terrore, spinto fino al campo di
concentramento, sia la partecipazione coatta della popolazione alla sfera pubblica, sia lo sviluppo economico
che la creazione del welfare.
Roma, propaganda su palazzo Braschi
per il plebiscito del 25 marzo 1934.
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TOTALITARISMO E CONTROLLO SOCIALE
Giovani balilla in sfilata a Roma.
Hitler e Mussolini in visita a Firenze, maggio 1938.
TOTALITARISMO E MODERNIZZAZIONE
Questo nuovo fenomeno politico trova una sua prima
spiegazione nei processi di massificazione della società.
Non è un caso che i regimi autoritari presenti nell’Europa novecentesca, soprattutto orientale e balcanica, si
siano imposti in paesi relativamente arretrati, poco modernizzati, e per questo caratterizzati da processi di massificazione sociale limitati e deboli. Anzi la svolta autoritaria in questi paesi fu effettuata dalle tradizionali élites agrarie, finanziarie e militari proprio per impedire la
modernizzazione e conservare i loro privilegi, su cui si
fondava la stabilità del loro potere. D’altro canto l’esperienza dei fascismi iberici, che secondo differenti interpretazioni storiografiche non possono appartenere pienamente al campo totalitario, mette in luce che la compresenza in quei regimi di aspetti autoritari tradizionali,
mescolati a suggestioni totalitarie, derivava in larga misura dal loro basso grado di industrializzazione e dall’arretratezza complessiva della società.
Hanna Arendt mezzo secolo fa illustrò chiaramente la
connessione tra totalitarismo e modernità: il totalitarismo come progetto universalistico di dominio, sintetizzato nella formula “tutti gli uomini diventano un Uomo
solo”, poteva essere applicato da società giunte a stadi
avanzati di modernizzazione e di sviluppo, tali da metterle in grado di competere per l’egemonia mondiale. Anche l’Italia, secondo la filosofa tedesca, era poco
adatta da questo punto di vista a un esperimento totalitario compiuto. L’Italia infatti non si trovava in quella condizione né sul piano geopolitico, né su quello socio-economico; di conseguenza era priva del “materiale
umano” necessario a realizzare un esperimento totalitario, costituito soprattutto da masse atomizzate, sganciate oramai dai tradizionali legami di classe e pronte ad
aderire ai messaggi delle nuove “religioni” politiche e a
mobilitarsi in nome dei loro miti; il fascismo, quindi, risultava inevitabilmente risucchiato, al di là della coreografia politica, in una dimensione puramente dittatoriale, propria di una nazione agromanifatturiera semiperiferica.
Da qui si poteva fare discendere la sopravvivenza di alcune “enclaves”, come l’esercito, la corona o la Chiesa, che con la loro resistenza alla fascistizzazione, avevano minato alle fondamenta la realizzazione del progetto totalitario di Mussolini. L’Italia, in sintesi, non era
abbastanza moderna per generare un regime compiutamente totalitario, anche se al suo interno si coglievano
gli aspetti di una dittatura “moderna” che aveva iscritto al suo interno sia la matrice che il potenziale esito totalitario.
CONTROLLO SOCIALE, CONSENSO E
“RIVOLUZIONE”
Il controllo sociale, come strumento principale di governo nei regimi totalitari, implicava l’idea del consenso:
un’ idea derivata dall’odiato liberalismo che implicava
il riconoscimento della democratizzazione della società
ormai irreversibile, laddove si era determinato, come in
Italia e in Germania. Le masse dunque dominavano la
vita pubblica, erano ormai i soggetti della politica di cui
anche lo stato totalitario doveva tenere conto; anzi senza uno spazio politico pienamente democratizzato i partiti fascisti non avrebbero potuto conquistare il potere.
Da questo punto di vista, si capisce perché il totalitarismo non possa prescindere da un’anima populista, che
nel caso italiano diventa popolaresca e plebea.
Potremmo dire allora che il totalitarismo sia l’autoritarismo nell’età delle masse? Io credo di no perché a separarli vi è l’idea di rivoluzione. I regimi autoritari restano sostanzialmente reazionari, privi di un mito politico in grado di rappresentare un nuovo destino comune per l’intera società, che invece è proprio dei re-
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TOTALITARISMO E CONTROLLO SOCIALE
gimi totalitari: questo non vuole dire che, soprattutto
in quelli fascisti, non siano presenti elementi della tradizione conservatrice classica; essi però vengono rielaborati all’interno del progetto ideologico che vogliono
sostenere. Questo deriva dal fatto che tutti i regimi fascisti nascosero un compromesso politico con le vecchie élites reazionarie. Questo compromesso è tanto
più forte, quanto meno forte è stato il consenso originario all’affermazione del fascismo. Il caso italiano da
questo punto di vista è emblematico: il consenso elettorale al fascismo nelle elezioni del 1921 fu modestissimo e senza l’appoggio del re, dell’esercito e delle classi dirigenti economiche non avrebbe potuto raggiungere il potere. Ma progressivamente il compromesso che
aveva per base l’accordo per costruire un governo forte di stampo bonapartista, si trasformò perché Mussolini puntava alla creazione di uno stato forte di matrice totalitaria.
A questo nuovo ordine totalitario le vecchie élites reazionarie o liberal-conservatrici italiane e tedesche si adattarono con entusiasmo indiscutibile, perché in esso potevano ricollocare alcune finalità del loro vecchio ordine,
come la lotta contro la democrazia e il movimento operaio o la tutela della proprietà privata (anche se minacciata dalle forme più radicali del dirigismo corporativo e
planista).
La perdita progressiva, ma irreversibile del controllo della sfera politica a vantaggio delle nuove classi medie fascistizzate, e il dominio crescente del potere politico sull’economia, sottraevano alle classi dirigenti tradizionali
ogni strumento e ogni possibilità per modificare a loro favore, o addirittura revocare, il compromesso originario
sulla base del quale fascismo e nazismo avevano potuto
accedere al potere: la permanenza di uno stato di polizia
all’interno dello stato totalitario o la stretta collaborazione tra grande impresa e regime non devono nascondere
il fatto che la “società senza classi” totalitaria è profondamente diversa da un sistema autoritario e classista tradizionale e che nell’economia corporativa e statalista, nella quale tendenzialmente le distinzioni tra pubblico e privato erano destinate a dissolversi, la borghesia poteva sopravvivere come classe proprietaria, ma non come classe
dirigente. Come gruppo sociale espressivo di un “interesse” sarebbe stata integrata negli apparati politico-burocratici e amministrativo-manageriali cui era demandata
la gestione dei processi produttivi.
CORPORATIVISMO E CONTROLLO SOCIALE
In questo quadro, va collocata la riflessione sul corporativismo, che costituisce l’orizzonte politico nel quale si
collocarono tutte le politiche di controllo sociale dei fascismi, interrogandoci sulle profonde trasformazioni introdotte nell’economia dalle politiche corporative, soprattutto quando si integrarono con l’autarchia. Le frasi
che concludono il libro di Louis Franck, giovane funzionario pubblico francese che negli anni Trenta condusse la più originale indagine sul corporativismo italiano e
sulla politica economica del fascismo, offrono una chiave di lettura ancora oggi attuale:
«Priorità di carattere economico e sociale guidano la politica della dittatura ben più che la dottrina e il programma iniziale, ma l’importante è che in definitiva la psicologia dei grandi gruppi sociali italiani si modifica profondamente. Le classi si succedono davanti ai nostri occhi; i gruppi tradizionali, agenti autonomi della produzione, spariscono per fare posto a nuovi strati sociali
usciti essenzialmente dalla burocrazia del partito, dalla
polizia, dall’esercito, da tutto l’apparato sindacale e corporativo, nonché dalla massa di impiegati che gravitano
intorno alle grandi aziende. L’autonomia economica di
tutte le classi si è dissolta insieme all’autonomia intellettuale e spirituale del pensiero italiano.»
Propaganda nazista: esortazione ai
tedeschi ad ascoltare la radio.
Hitler durante un raduno nazista,
Buckeberg 1934.
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TOTALITARISMO E CONTROLLO SOCIALE
TRA DITTATURA AUTORITARIA
E RIVOLUZIONE TOTALITARIA
Come per il comunismo, anche per il fascismo, la realizzazione della nuova società è stato un mito politico destinato in larga parte a restare incompiuto, per la sua
dimensione utopica ma anche per l’evoluzione storica
concreta che si è configurata come una perenne “transizione”, all’interno della quale, nel caso del fascismo,
emerse la difficoltà di ridimensionare, fino a rimuovere
completamente, il compromesso con le vecchie élites liberali e nazionaliste e soprattutto con la borghesia imprenditoriale, che era stato alla base dell’affermazione
dei partiti fascisti in Italia e Germania. Da qui discendeva la fisionomia policratica dei regimi degli anni Trenta, più o meno accentuata a seconda dei rapporti di forza tra fascismo e forze conservatrici, che nel caso italiano furono particolarmente accentuati a favore delle seconde.
Queste tensioni politiche determinavano la continua
oscillazione tra dittatura autoritaria e rivoluzione totalitaria che attraversò l’intero campo dei fascismi europei.
Nel caso italiano, si trattò di una vera e propria “guerriglia” permanente tra partito, Stato, monarchia, Chiesa, “duce” e conservatori, che scandì i ritmi e la morfologia della transizione italiana verso il totalitarismo, che
la guerra prima e il crollo del fascismo poi interruppero a uno stadio di incompiutezza ben superiore a quello del nazismo.
Adunata oceanica: la scritta celebra il “duce” Mussolini.
IL CONTROLLO SOCIALE
IN ITALIA
efficaci, riuscì a disintegrare ogni “nemico interno”, costruendo l’unico esempio di totalitarismo a bassa intensità di violenza.
Negli anni Trenta il fascismo non aveva più alternative e non rappresentava semplicemente un governo o un
regime: era “il destino” immobile degli italiani. Come
sarebbe accaduto nell’Urss poststaliniana, l’annientamento della coscienza dei singoli individui, attraverso la
distruzione della memoria, la manipolazione ideologica del passato e l’irreggimentazione della collettività in
un unico “futuro”, costituiva lo scopo effettivo del controllo sociale e della mobilitazione permanente, propri
delle politiche di fascistizzazione, penetrati nel profondo della società; anzi segnò in maniera così profonda il
profilo identitario degli italiani da rinchiudere in piccoli circoli clandestini o all’interno di relazioni private, comunque ininfluenti, la scelta di “non credere” e di coltivare le proprie memorie cancellate, come incoercibile
atto di libertà.
Se la rivoluzione fascista non “aveva impiantato le ghigliottine” non era perché era un regime tollerante e bonario, ma perchè ne aveva potuto fare a meno, per il
successo che aveva ottenuto lo sforzo di “impossessarsi della memoria e dell’oblio”, e di dominare il “tempo
collettivo”, che, a ben guardare, costituiva l’essenza profonda della “stabilizzazione” del regime alla vigilia della
seconda guerra mondiale.
Attraverso la repressione, ma anche il controllo sociale e le politiche di sviluppo corporative, il totalitarismo
ha prodotto una peculiare società, che non solo attraverso il terrore non riuscì a sottrarsi al dominio politico
del partito/stato fascista, ma si assuefò progressivamente alla “non libertà”, accettando l’ideologia e il progetto politico del regime. Qui il caso italiano è particolarmente emblematico, perché il fascismo di Mussolini, in
virtù di un controllo sociale articolato, che combinava la
fascistizzazione di tutte le istituzioni con politiche sociali
Sugli stessi argomenti, Alberto De Bernardi ha
pubblicato per Bruno Mondadori:
n Una dittatura moderna.
Il fascismo come problema
storico, 2006.
Una chiara e agile ricostruzione della storia del “Ventennio” e delle varie interpretazioni storiografiche,
con una proposta di un approccio nuovo e libero da
condizionamenti politici.
n Dizionario del fascismo.
Storia, personaggi, cultura,
economia, fonti e dibattito
storiografico (con Scipione
Guarracino), 2006.
La ricostruzione e l’interpretazione del Ventennio
in 1250 voci. Numerose le
voci dedicate alle principali
opere storiografiche e alle
fonti (giornali, riviste, documenti). Con una dettagliata cronologia e who’s
who delle cariche dello stato, del partito e dell’esercito.
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