Le ragioni del cuore

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Le ragioni del cuore
SECONDO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA TRIENNIO
Le ragioni del cuore
di Davide Andrisani, Carlo Garaventa, Nidja Fico, Giulia Noli, Francesca Perrone della classe II A
del Liceo Classico "Martin Luther King" - Genova
Docente Referente: Marina Guariniello
LE RAGIONI DEL CUORE
“La mia ragione che è in perenne lotta con questo mio cuore[...]
ma il cuore aveva già fatto a suo modo”
Henri Matisse, Icaro
LE RAGIONI DEL CUORE
“Le ragioni del cuore”: ci siamo imbattuti, nel lavoro per questa tesina, con un autore travagliato,
combattuto fra una ragione illuministica, che tutto tenta di ridurre all’apparenza, e un cuore
romantico, che costantemente e quasi inavvertitamente non si accontenta e cerca di andare oltre. Ci
siamo accorti nel corso del lavoro che tale cuore è insopprimibile, ma è proprio la realtà, nelle sue
diverse sfaccettature, che lo desta. Abbiamo allora rincorso, scandagliando i testi, tutti i punti in cui
il cuore di Foscolo viene come ridestato e abbiamo cercato di immedesimarci con lui. Molte volte
però l’anima sensista dell’autore riemerge e la chiusura consequenziale caratterizza parte delle sue
opere. Abbiamo percorso anche tale via di identificazione fino a comprendere quale sia il tratto
distintivo che più ci corrisponde.
Foscolo è autore significativo e affascinante proprio per questo suo porsi ossimorico, è l’autore
delle grandi tensioni, fra cuore e ragione, fra nulla e eternità, fra amor di patria e esilio volontario,
fra negazione della fede incontrata da bambino e apertura ad essa, proprio questo suo costante
essere in bilico fra diverse posizioni, frutto di sottilissime opzioni, lo rende a volte sfuggente, non
definibile, non “squadrabile “secondo schemi predefiniti, e di questa problematicità era in qualche
modo consapevole lo stesso autore che, come afferma Fubini, voleva continuamente “comporre di
se medesimo una figura in cui riconoscersi e farsi riconoscere”.
Proprio seguendo i suoi autoritratti possiamo palesare quanto fin qui affermato.
“Il proprio ritratto” dai “Sonetti” è significativo in tal senso, sia per la descrizione esteriore che per
quella più profonda e intima: è in prima persona, l’autore si presenta al pubblico e forse cerca di
autodefinirsi, quasi fosse in cerca di un ritratto in cui specchiarsi per confermare la propria
consistenza, preludendo così a tanta parte di arte e letteratura del novecento (basti pensare all’io
diviso di Pirandello che si materializza nella miriade dei personaggi da lui creati o alle molteplici
“autobiografie”composte da Svevo per le edizioni dei suoi romanzi, esattamente con lo stesso
intento, o agli autoritratti di Van Gogh). Sappiamo quindi che Foscolo ha “occhi incavati e intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto (ardito, perché per avventurarsi oltre al già saputo occorre
una certa audacia) labbri tumidi, arguti, al riso lenti (e qui quasi inavvertito il primo ossimoro),
capo chino, bel collo, irsuto petto:membra esatte; vestir semplice eletto; ratti i passi, il pensier, gli
atti, gli accenti (certo nella vita avventurosa non si può perdere tempo): prodigo, sobrio (due doti
che la vita non conservò, visti i suoi dissesti finanziari dovuti in parte al gioco); umano, ispido,
schietto; avverso al mondo (ma umano o avverso al mondo? Resta non inquadrabile, sfugge alle
definizioni), avversi a me gli eventi ( alta la coscienza dell’essere nato in tempi nefasti, contrari a
ogni suo moto dell’anima, a ogni sua vera passione);mesto i più giorni e solo (mestizia e solitudine
sono lo scotto da pagare quando la scelta di vita è fuori dal coro); ognor pensoso; alle speranze
incredulo e al timore; il pudor mi fa vile; e prode l’ira (un altro ossimoro, viltà e prodezza, Foscolo
diventa sotto i nostri occhi sempre più uomo reale): cauta mi parla la ragion; ma il core, ricco di
vizi e di virtù, delira”: questo è il punto, il dissidio cuore ragione, il dissidio di un cuore che la
ragione “cauta” non può imbrigliare, che non accetta di restare chiuso in ambiti consueti, che rischia
di percorrere regioni ignote.
Ma cosa desta questo cuore romantico che non può conformarsi nel “mare nostrum” del
razionalismo settecentesco? Certamente la realtà, se vissuta, se guardata con attenzione, ha questa
funzione, a meno che non si voglia cancellare il suo richiamo.
Certamente un punto che resterà saldo fra tante indecisioni e intemperanze dell’animo foscoliano,
sarà la suprema attrattiva della Bellezza che, con alterne vicende ricerca per tutta la vita, come
prioritario punto di risveglio del cuore e di appagamento, anche se purtroppo solo momentaneo. E ci
sentiamo già vicini a un altro cultore della bellezza, Giacomo Leopardi, grande poeta che per certi
versi vive un conflitto molto simile a quello foscoliano:già fra le prime sue composizioni si erge la
“Graziosa luna” di “Alla luna”: lui va a “rimirarla”, a gustare la sua bellezza, di lei che brilla sulla
selva e “tutta la rischiara”. Impressionanti alla lettura sono i versi seguenti (6-10): “Ma nebuloso e
tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era
mia vita: ed è, né cangia stile, o mia diletta luna”. Tutto si gioca in questa opzione che anche
Foscolo persegue: nei dolori inevitabili del mondo, nei contrasti insanabili della propria esistenza,
l’uomo può, pur “con gli occhi pieni di lacrime”, cioè senza farsi sconti, rinchiudersi in un suo
spazio ristretto in cui “nulla accadrà” (con un clima simile al desolato esule di Pavesiana memoria,
cfr “Lo steddazzu”) o aprirsi al reale, respirare, guardare il cielo, le stelle, non smettendo mai di
cercare, continuando a rivolgersi alla Luna come “diletta”, amata. C’è un “oltre” nel reale che, per il
semplice fatto di attrarci, anche come nostalgia di una assenza, dimostra la sua presenza. E questa
percezione accompagna costantemente Leopardi, ma, almeno intuitivamente, anche Foscolo.
D’altro lato la nostalgia verso la fede perduta dopo la giovinezza accompagnerà sempre Foscolo,
proprio come “nostalgia”, secondo quanto afferma anche Mario Pazzaglia.(e basta in tal senso
osservare dall’Ortis, la descrizione dell’ultimo saluto a Parini: “Alzò gli occhi al cielo, e quella
severa sua fisionomia si raddolciva di un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue
speranze”
“La mia ragione che è in perenne lotta con questo mio cuore[...]ma il cuore aveva già fatto a suo
modo”
Cosi l'Ortis scrive nelle prime lettere. Così Foscolo ci apre un mondo, così inizia il nostro percorso
nelle ragioni del cuore. Ma prima di intraprendere questo viaggio, cosa sono le ragioni del cuore?
Leggendo e commentando Foscolo ci siamo accorti di un piccolo ma importante particolare: il
cuore. Un cuore diverso però, un cuore in tempesta, un cuore Romantico, un cuore destato.
Abbiamo scoperto così questa continua lotta fra il cuore dell'uomo e la sua ragione che troppo
spesso lo soffoca con la sua cinica freddezza.
“Che cos'è l'uomo se abbandonato alla sola ragione fredda e calcolatrice? Scellerato, e scellerato
bassamente”.
Partiremo così da un personaggio molto caro a Foscolo: Jacopo Ortis.
Nella prima parte del romanzo epistolare vi sono molti punti in cui, fra le righe, traspare l'animo
destato dell'uomo. Ma cosa ha destato l'Ortis e quindi anche il Foscolo?
“io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e guardare tanti benefici senza sentirsi
gli occhi bagnati dalle lacrime della riconoscenza.”
La frase citata ne richiama una causa: la Natura. La natura per l'Ortis eleva l'animo a qualcosa di
più. Si legge nella lettera del 26 ottobre “che? Forse lo spettacolo della bellezza della natura basta
ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori?” Una natura più e più volte invocata dal poeta e
che fa da contorno e offre spettacoli unici agli occhi del giovane.
Come riprende nella seconda citazione, è sciagurato colui che non apre il proprio cuore alla natura,
che non viene scosso da ciò che lo circonda. Un'esortazione,insomma, a commuoversi per questo
spettacolo che ci è donato gratuitamente. Questa natura però non è stata mai degnamente
rappresentata. All'inizio della lettera del 13 maggio “La Natura somma, immensa, inimitabile non la
ho veduta dipinta mai. ”Non è possibile,infatti, a un animo addormentato riprodurre uno spettacolo
cosi grande e profondo. Abbiamo scoperto poi, durante la lettura, come la natura nel procedere della
narrazione si personificasse e venisse sempre più invocata. Viene descritta così nell'epistola del 25
Maggio: “Geme la Natura perfino nella tomba e il suo gemito vince il silenzio dell'oscurità della
notte.”
La riflessione sulla funzione della natura di aprire l'animo all'uomo è partita da una nostra
esperienza e da una frase sempre di Jacopo :”Tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta
di piacere, ed io l'ho guardata sovente con indifferenza”. Quante volte la mattina ci svegliamo e
non osserviamo ciò che ci succede intorno? Sapreste dire di che colore era l'alba di questa mattina?
O il tramonto di ieri sera? Noi non siamo stati capaci di rispondere. Quando ci siamo resi conto di
questa realtà abbiamo iniziato a capire cosa intendesse l'Ortis. E quando siamo riusciti a guardare
veramente quell'alba o quel tramonto abbiamo provato quella gioia, quell'apertura, di qui tanto
parlava Foscolo.
Scrive ancora nella lettera del 25 Maggio: “nella terribile maestà della natura la mia anima
attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali ed è tornata un poco in pace”. Cita due aggettivi
fondamentali: sbalordita e attonita. Qui descrive un'anima che si meraviglia della natura come fosse
la prima volta che la vedesse, sembra quasi di percepire il travolgente sentimento che si impossessa
di uno spettatore in balia di uno spettacolo troppo grande per essere capito e spiegato. E' pure vero
che, in conclusione, afferma di ricevere pace nello spirito, ma non è forse la Natura che ci fa
commuovere? E se fosse realmente 'placatrice' riuscirebbe a provocare in noi una simile reazione?
L'Ortis prontamente risponde con una frase della medesima lettere: “Nel verno passato io era
felice; quando la Natura dormiva mortalmente la mia anima pareva tranquilla: e ora?”
La seconda ragione che abbiamo individuato per cui il cuore si ribella alla ragione è l'Amore. E' un
sentimento assoluto e totalizzante che riscatta una vita disperata e consola l'animo dalle angosce del
vivere (...la mia bocca è tuttavia rugiadosa d'un suo bacio... Mi ama. Lasciami. Lorenzo, lasciami
in tutta l'estasi di questo giorno di paradiso. 14 maggio).
Per tutta la prima parte del romanzo l'amore è un motivo che si contrappone al tema negativo della
morte, frenando l'impulso suicida.
Solo dopo il matrimonio di Teresa con Odoardo, l'amore determinerà la catastrofe. L'unico aspetto
negativo dell'amore è, infatti, l'impossibilità di realizzarlo: ciò induce Jacopo a momenti di grande
sconforto e disperazione. Tale atteggiamento è visibile particolarmente nella seconda parte del
romanzo, come nella lettera del 20 luglio, tutta colma di amarezza e di rabbia per la sorte di Teresa,
vittima sacrificata, che lui ha avuto cuore di abbandonare. La sola visione di Teresa fa provare a
Jacopo un fuoco soave, un lume, una consolazione di vita, breve forse, una divina dolcezza...
L'amore frena l'istinto suicida, come si può leggere nella stessa lettera: “Né io vivo se non per lei
sola: e anche quando questo mio nuovo sogno soave terminerà, io calerò volentieri il sipario”.
Lei è cortese e discreta. La sua immagine di divina fanciulla è subito vissuta da Jacopo come un
miraggio consolatorio della bellezza. Teresa è l'oggetto del desiderio mancato; è sempre descritta
attraverso gli occhi dell'amante appassionato e sempre estasiato di fronte alla sua bellezza: “L'ho
veduta addormentata ... giacea il suo bel corpo abbandonato sul sofà ... le sue vesti mi lasciavano
trasparire i contorni di quelle angeliche forme ...” (12 maggio).
Così l'amore è la grande illusione che permette di continuare a vivere, “poiché senza questo
angelico lume, la vita mi sarebbe terrore, il mondo caos, la Natura notte e deserto” (8 maggio).
E' la passione sconvolgente che migliora ogni facoltà: “Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie
idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gaio, il mio cuore più compassionevole e modifica
anche tutto ciò che è intorno: Mi pare che tutto s'abbellisca a' miei sguardi ...” (15 maggio).
L'Amore di Jacopo è passione, amore consolatorio, amore salvifico, amore totalizzante, senza il
quale non si può vivere. Jacopo è il protagonista; impulsivo e appassionato, lacerato da tormenti e
conflitti e continuamente ripiegato in se stesso per una sorta di continua auto-introspezione: “... la
mia ragione ... in perpetua lite con questo mio cuore ... questa indole mia altera, salda, leale, o
piuttosto ineducata, caparbia, indolente ... (11 dicembre); ...il mio intelletto è accecato, la mia
anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte...” (7 luglio)
L'impossibilità di agire per modificare la situazione a suo vantaggio, è la caratteristica principale di
Jacopo, a cui non resta che un'azione contro se stesso: il suicidio.
Disorientato e impotente, Jacopo reagisce sempre con la disperazione o con il pianto o con la
grandiosità dei suoi pensieri. Questo sentimento cosi forte e travolgente che incalza l'uomo a
desiderare sempre qualcosa di più, aldilà del vetro della finestra da cuoi osserviamo,inermi, lo
scorrere della nostra vita. Ma il dramma amoroso che vive Jacopo e che lo porterà al suicidio non è
altro che un sintomo di una malattia molto più profonda ed estesa. L'eroe che ci viene descritto è un
eroe che non riesce più a vivere; perché? Per le ragioni del proprio cuore che non riesce più a tacere
e che lo portano all'impossibilità di sopravvivere in un mondo che non ha risposte certe. Solamente
nella parte finale della sua vita Foscolo sceglierà la sopravvivenza, affidandosi alla pace della
Bellezza Classica. E' interessante notare come sia emerso in uno dei nostri dibattiti la possibilità di
immedesimarsi nel personaggio delle Lettere. Tutti noi avevamo provato, almeno una volta, dei
sentimenti molto simili all'eroe del romanzo e sotto molti aspetti eravamo concordi con quest'ultimo
principalmente nell'amore così sofferto. Abbiamo concluso che tutti nella proprio vita viviamo un
dramma simile a quello di Jacopo ma che poi riusciamo a superare, perché? Due sono i possibili
motivi che abbiamo delineato. Come primo l'intervento, inconscio, della ragione a placare il cuore.
Come secondo, ma forse più raro, il superamento di quella barriera che ci impedisce di vedere la
vera realtà e che ci porta a camminare “sopra le stelle”, ma non in modo ingannevole come fa la
ragione illudendoci con immagini e sensazioni inesistenti, bensì attraverso un processo interiore che
libera il cuore. “Quei geni che si sono innalzati sopra tanti altri mortali mi spaventano di
meraviglia [...] e mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e
consolatore” (lettera del 14 maggio).
Ricorre in tutte le opere del Foscolo l'alternarsi del cuore e della ragione. Esempio di tale
contrasto,figlio di due diverse impostazioni culturali, è la sua problematica posizione sul tema della
tomba, tema “stranamente”ricorrente nei suoi testi.
Il Foscolo discusse sull’importanza della tomba con Pindemonte a Venezia: Pindemonte rifiutava
l’editto di Saint Cloud in nome della pietà cristiana, mentre il Foscolo, fedele alle sue teorie
materialistiche, sosteneva che le tombe non avessero nessun tipo di utilità e che perciò non aveva
senso che fossero onorate in modo particolare. Solo chi muore senza lasciare dietro di sé qualcuno
che lo ami è veramente morto per l’umanità e la sua tomba non ha significato. I morti necessitano
quindi di “umane lodi” e di “amoroso pianto”.
Ecco allora che la tomba viene a simboleggiare questa continuità di valori familiari e civili. Così
l’immagine della donna innamorata che prega mentre piange sulla tomba del defunto, delle
fanciulle inglesi che piangono la madre, di Cassandra che innalza alle ombre dei suoi avi un canto,
le “vedovili lacrime” delle nuore di Priamo, sono testimonianza di trasmissione di quei valori e
ridestano nel poeta il proprio cuore.
Nel carme vengono descritti gli aspetti più macabri dei cimiteri abbandonati dove le tombe sono
sepolte tra le erbacce, nessun fiore le orna e dove sinistri versi d’uccelli rendono inquietante
l’atmosfera. (la scelta dell’upupa che in realtà è semplicemente un mite uccellino è fatta per i suoni
lugubri dell’allitterazione della “u”).
Quest'immagine cosi tetra e lugubre descritta da una mente illuminista è posta in contrapposizione
con la figura delle tombe antiche e del poeta Omero: “cipressi e cedri di puri effluvi i zefiri
impregnando di perenne verde protendean su l’urne per memoria perenne” e ancora “le fontane
versando acque lustrali amaranti educavano e viole sulla funebre zolla” e chi visitava le tombe
sentiva un profumo simile a quello che si percepisce nel mondo dei beati. Da simbolo tetro di
morte, la tomba quindi con lo scorrere dei versi, diventa, oltre il luogo dove si rincontrano i vivi con
i morti nel segno dell’affetto e della pietà, l’altare che tramanda la memoria degli antichi, gli esempi
della loro vita. Di fronte all'immagine della tomba circondata da una natura “beata”, il suo cuore si
risveglia e si desta; anche l'immagine di Omero errante per “le tombe di antichissime ombre”
sottolinea ulteriormente come l'immagine della natura non solo calmi l'animo umano, ma lo ridesti.
Una Natura raffigurata come una fragile creatura che ciò nonostante sovrasta la morte e allontana la
paura dal cuore umano.
Nei Sepolcri si parte infatti dalla celebrazione dei valori che possono dare un significato alla vita e
consentono a “chi lascia eredità di affetti” una sopravvivenza dopo la morte. Solo chi muore senza
lasciare dietro di sé qualcuno che lo ami è veramente morto per l’umanità e la sua tomba non ha
significato. I morti necessitano quindi di “umane lodi” e di “amoroso pianto”. sostiene inoltre che
quando vengono meno le possibilità di vivere, amare e godere della bellezza del creato, non importa
che il defunto sia onorato e ricordato attraverso una lapide che distingua le “sua ossa” dai milioni di
altre ossa che “in terra e in mare semina morte”; qualsiasi ornamento della tomba e qualsiasi
ricordo dei superstiti non può restituire all’uomo quelle gioie. Al verso 23 vi è però una svolta: “Ma
perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l'illusion che spento pur lo sofferma al limitar di
Dite?”. Questa semplice domanda stravolge tutto. Foscolo , dominato fino a questo punto dalla
ragione fredda e calcolatrice , si ferma e lascia che il suo cuore sovrasti quest'ultima.
La frase ci ha permesso di comprendere come nel Foscolo, nelle sue opere e nei suoi personaggi, vi
fosse sempre presente questa lotta. Da questo verso il carme assume un tono completamente
diverso: ora è il cuore a scrivere.
Anche nelle Odi e nei Sonetti abbiamo riscontrato un rapporto privilegiato di Foscolo con la natura
e con l’amore, come punti di apertura. Le due odi, “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo” e
“All'amica risanata”, risalgono al periodo della scrittura dell'Ortis, ma rappresentano tendenze
opposte: se l'Ortis, con la sua passionalità e il suo soggettivismo esasperati, con il tema della morte,
rimanda a tematiche di tipo romantico, le odi rappresentano le tendenze neo-classiche della poesia
foscoliana. Al centro di entrambe vi è il vagheggiamento della bellezza femminile. Ma mentre l'ode
“A Luigia Pallavicini” conserva un carattere di omaggio galante e settecentesco alla bella donna,
“All'amica risanata” si focalizza, attraverso un discorso filosofico, sulla bellezza ideale, sul suo
effetto di purificare le passioni e di rasserenare l'animo inquieto degli uomini.
Nell'ode “All'amica risanata” Foscolo vuole condurre un discorso filosofico sul significato e sul
valore della bellezza. Questo tema viene ripreso sicuramente nell'inno alle Grazie, nel quale
Foscolo intende calare un complesso disegno concettuale, incentrato intorno all'idea della bellezza
rasserenatrice e dell'armonia.
Per esempio nei versi 9 - 12 “e in te beltà rivive, l’aurea beltate ond’ebbero ristoro unico a’ mali le
nate a vaneggiar menti mortali” Foscolo insiste sull’efficacia rasserenatrice della bellezza sugli
animi degli uomini.
Nella seconda parte si insiste, invece, sulla funzione eternatrice della bellezza, trasfigurata
attraverso la sovrapposizione delle immagini di divinità greche per esempio Artemide, Bellona e
Venere.
Il compito del poeta è assicurare l’eternità alla bellezza; solo attraverso il suo canto la bellezza può
esercitare la sua facoltà di rendere eterne le cose contingenti.
Nei sonetti, invece, la classica forma metrica è reinventata in modi fortemente originale, tra essi
spiccano “Alla sera”, “A Zacinto” e “In morte del fratello Giovanni”.
Il sonetto “Alla sera” è diviso in due parti: la prima parte descrive lo stato d’animo dell’IO lirico
dinanzi alla sera. Nella seconda parte si chiarisce il motivo per cui la sera, in quanto immagine della
morte, è cara al poeta. Questo sonetto ha un inizio non ben definito (“forse”) seguito da una
perifrasi per indicare la morte (fatal quiete). La morte, secondo Foscolo, ha un’efficacia liberatoria,
perché rappresenta l’annullamento totale, in cui si cancellano conflitti e sofferenze. Nel verso 8 e
seguenti vi è una citazione circa le vie del cuore tenute in mano dalla sera che porta “quiete” , allo
spirito guerriero, all’animo ridestato, ma questa è una pace temporanea, infatti si arriverà a una vera
e propria calma solamente nelle Grazie.
In questo sonetto non c’è traccia di un Foscolo illuminista ma solo di un Foscolo romantico che
segue e vive il proprio cuore, che sembra ridestarsi in chiave romantica di fronte alla bellezza dello
spettacolo naturale cui assiste.
“A Zacinto” è un sonetto dedicato all’isola dove il poeta nacque, Zante, nel Mar Ionio. In questo
sonetto vi è una contrapposizione tra il poeta e l’eroe omerico. Si può leggere il sonetto secondo un
doppio codice: “il codice classico” ovvero l’eroe classico, positivo che conclude felicemente le
proprie peregrinazioni, cioè Ulisse; “il codice romantico” ovvero l’eroe romantico, negativo che
non può concludere felicemente le proprie peregrinazione, quindi Foscolo.
Anche in questo sonetto il poeta esalta la bellezza. Le prime tre strofe, procedendo in un
coontinuum di straordinario equilibrio formale, tramite personificazioni della bellezza attraverso
l’immagine evocativa del “sorriso”di Venere, generatore di vita, di un paesaggio naturale quasi
perfetto: “onde del greco mar … limpide nubi … fronde.”Le immagine descritte rievocano in noi e
nel poeta una pace cui legare l’animo. Si direbbe quasi un Foscolo placato dal mondo classico e da
tanta bellezza, pur con lo struggimento, proprio dell’ultima strofa, di chi da tale scenario si sente
drammaticamente escluso.
Abbiamo visto, dunque,nel carme“Dei sepolcri”,nel romanzo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” e
in “Odi e sonetti” come il cuore possa essere animato o più propriamente destato dall'amore,dalla
bellezza e dalla natura. Nell'analisi dell'opera “Le Grazie” riscontriamo,invece,un diverso punto di
vista sui moti del cuore: la bellezza è forza rasserenatrice che non si esprime attraverso sentimenti
forti e passionali ma è origine di distensione,calma e quiete. Le tre Grazie rappresentano “beltà,
ingegno virtù”, dono di Giove agli uomini. Già nelle prime righe del proemio possiamo scorgere la
prima funzione che il poeta attribuisce alle Grazie,ovvero esse sono dispensatrici di gioia (cit.
Proemio: “e della gioia che vereconde voi date alla terra”) e ispiratrici della sua poesia. Le Grazie
oltre che fonti di gioia assumono anche la capacità di essere civilizzatrici degli uomini e mitigatrici
dei loro istinti più feroci e violenti,con la sola soavità e la sola bellezza del loro mostrarsi: “quando
apparian le grazie...l'arco e il terror deponean ammiranti”.L’uomo è dunque rappresentato come
simile ad una bestia che non conosce le virtù basilari della famiglia e della religione che sono i
capisaldi della civiltà. Prerogativa delle Grazie è appunto far si che gli uomini possano aprirsi ed
elevarsi al bene in modo che anch'essi divengano beati :“e quanti allor garzoni e giovinette vider la
Deità furon beati”. Le Grazie sono portatrici di ispirazione per gli artisti, non solo per i poeti ma
anche per i pittori e gli scultori perchè esse sono profuse di armonia fatale, che spandono nel mondo
per ispirare gli uomini e quando un uomo viene in contatto con loro inizia a vedere la vita intorno a
sè così tutto diviene più bello,i colori più vivaci,gli uccelli più melodiosi e i boschi più piacevoli. La
materia diventa elegante e disponibile ad essere plasmata dall'artista. Le grazie che affiancano
l'artista mentre scolpisce il marmo, donano all'opera avvenenza e leggiadria. Nel secondo inno,
dedicato alla dea Vesta,si svolge un rito alle Grazie con la partecipazione di tre sacerdotesse che
rappresentano l'arte della musica, della poesia e della danza e sono fonti di armonia per i cuori degli
uomini. Le Grazie, con la loro apparizione infondono questa armonia negli uomini che sono spinti a
manifestarla e ad esternarla. Anche la poesia, e l'arte più genericamente, assumono un ruolo
placatore e rasserenatore,che deriva da questa armonia. Il Foscolo nel primo inno esorta le Grazie a
scendere sulla terra poiché è sulla terra che l'uomo è bisognoso della loro misericordia e della loro
beltà rasserenatrice e civilizzatrice. Ma l'uomo non è in questo caso un soggetto passivo, va
incontro alle Grazie,proprio perchè istintivamente ne sente la necessità e l'importanza. Il terzo inno
è dedicato ad Atena,e viene trattata la creazione per committenza della dea del “ velo” che servirà
da schermo contro gli impulsi ferini e la passione amorosa. Il velo è tessuto con la rappresentazione
di ciò che offre la vita umana di sacro e prezioso: la giovinezza, l'amore coniugale, la compassione,
l'ospitalità e l'amore materno. Le dee protette da questo velo possono tornare sulla terra e diffondere
di nuovo all'uomo i loro doni. Il poeta chiude il terzo inno con l'invocazione alle Grazie affinchè
consolino la più infelice delle donne e ridestino in lei il sorriso e la promessa che il sacro rito sia
rinnovato ad ogni inizio di primavera ogni anno. Ed ogni anno questo rito si ripete, o meglio si
deve ripetere, per due motivi fondamentali. Il primo è determinato dal momento che l'uomo di oggi,
“incivilito dalla civiltà”, non rivolge più il suo cuore alla bellezza e non si serve più dei doni delle
Grazie, a volte ignorandoli o addirittura perdendo la capacità di riconoscere ciò che le dee portano
ad ogni loro visita sulla terra. Il secondo motivo è più che altro una testimonianza della ripetitività
di questo rito: ci ha colpito il racconto di un nostro amico che riferiva di essere stato questa estate in
gita al Colle San Carlo sopra La Thuille insieme a molti stranieri, ignari dei luoghi. Per tutto il
percorso al Colle sentiva le rumorose chiacchiere dei suoi compagni di avventura, che disturbavano
la quiete dei monti, ma quando ai lori occhi si mostrò il Monte Bianco in tutto il suo splendore, alla
vista del monte tutti fecero silenzio. Nessuno parlava più. Erano tutti immobili, attoniti, l'aria era
carica di emozione e stupore, uno stupore che ha lasciato a tutti una certezza: la Bellezza ha il
potere di risvegliare in noi un cuore che è capace di riconoscere ciò che lo attira.
Al termine del nostro viaggio attraverso le opere di Foscolo, in cerca di quei punti di risveglio, di
apertura del cuore, che rendono del tutto ragionevoli i suoi moti, vogliamo operare l’ultimo
confronto fra due alter ego di Foscolo: Jacopo Ortis, tutto giovanile tensione, streben romantico,
necessità delle illusioni, cioè di non chiudersi entro i confini angusti di una ragione positivista, e
Didimo Chierico, il gemello di Ortis, tutto moderazione ed equilibrio formale.
Sono due posizioni , due opzioni con cui ci siamo confrontati. Jacopo Ortis è l’eroe infelice, che
non può far tacere il suo cuore, la ragione sembra negare ma il cuore necessariamente riparte:
“Illusioni! Grida il filosofo! ... Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore o (che
mi spaventa ancor di più) nella rigida e noiosa indolenza: e se questo cuore non vuol più sentire ,
io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele” (lettera 15
maggio 1798). La realtà, per l’uomo non distratto, si lascia scoprire, svela un significato profondo,
al di là dell’apparenza: “Scintillavano tutte le stelle e mentr’io salutava ad una ad una le
costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se
aspirasse ad una regione più sublime assai della terra” ( lettera 13 maggio 1798). Ma questa
posizione è vertiginosa, si resta sospesi a un filo, in una precarietà assoluta, lo spirito si eleva verso
il “cielo” ma poi da solo non regge.
E ci troviamo a confronto col gemello Didimo Chierico: “Vestiva da prete; non però assunse gli
ordini sacri” (il suo ritratto si apre al cap XII di “Notizie intorno a Didimo Chierico” con una prima
notazione ossimorica, antitetica, una non scelta) avviato dalla “fortuna” al “chiericato” e dalla
“natura deviato dal sacerdozio”, quindi può “ammogliarsi o aspirare al vescovato” E in più al cap
XIII troviamo un più approfondito ritratto psicologico: “Dissi che teneva chiuse le sue passioni: e
quel poco che ne traspariva, pareva colore di fiamma lontana. A chi gli offriva amicizia lasciava
intendere che la colla cordiale, per cui l’uno si attaccava all’altro, l’aveva già data a quei pochi
che erano giunti innanzi … non mi accorsi mai ch’egli avesse fiducia ne’giorni avvenire o che ne
temesse”. Insomma Didimo è arrivato a una posizione di calma apparente, sembra non attendersi
niente, la relatà è tutta circoscritta nei suoi confini predeterminati, i moti del cuore sembrano
soppressi.e il prosieguo del discorso rivela tutti i limiti di tale posizione rinunciataria. Arriviamo
così al cap XIV: “… Pareva un uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua
naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana (si paga il fio delle proprie
scelte, rassegnandosi a vivere in minore, un po’meno rispetto all’ideale, rispetto al naturale
desiderio del cuore) … non era né orgoglioso né umile … non era né ricco né povero (di nuovo e
sempre gli stessi ossimori propri di un’esistenza inquieta, in cerca di un porto che non trova) …
Forse non era né avido né ambizioso, perciò parea libero … Inoltre sembrava ch’egli sentisse non
so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. … Ma pareva, quando
io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo
e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non
deviare che di toccar la meta.” E proprio questo ultimo tratto ci colpisce, Didimo paga il suo star
tranquillo con la rinuncia a vivere fino in fondo la realtà, non è “rinsavito”, cioè non può strapparsi
dal cuore le istanze più vere eppure, e questo è il punto dolente, in cui non possiamo seguirlo, “se
ne va sicuro per la sua strada”, con una sicurezza artefatta, data dal non porsi più domande, più
interessato “di non deviare che di toccare la meta”, cioè più interessato a sopravvivere, a cavarsela,
che a vivere. Vive certo, ma rinchiuso entro gli angusti limiti del suo Mediterraneo. L’uomo che
cerca, che vive all’altezza dei suoi ideali, vuole toccare la meta, si ferma prima se necessario, ma
con gli occhi carichi di nostalgia per quel bene assente che lo strugge di desiderio. Il prezzo che
paga Didimo per vivere tranquillo è troppo alto, al nostro cuore di giovani e, speriamo di adulti, è
fratello il cuore di Foscolo-Ortis, cioè dell’uomo che cerca con tutte le sue energie, con una ragione
spalancata che corrisponde a ciò che il cuore desidera. Tale posizione di Foscolo, pur nelle
indecisioni così umane, ci pare l’unica possibile, per percorrere da uomini le strade del mondo.
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2000