Dopo la peste 1630 - Comune di Beinasco

Transcript

Dopo la peste 1630 - Comune di Beinasco
Il senatore referendario Perracchino, durante la visita effettuata a Beinasco il 16 aprile 1664 per
ordine del duca Carlo Emanuele II, trova in tutto il paese appena otto nuclei familiari. "Avanti il
Contaggio -- si legge nella premessa alle Allegazioni-- erano in detto luogo cento, e più capi di casa, e à
causa di tal Contaggio [...] e passaggi della Soldatesca nelle passate Guerre si è ridotto oggidì ad otto
capi di casa, quattro [dei] quali stanno per massari dell'Eccellentissimo Sig. Conte Filippo, signore di
detto Luogo, e senza questo appoggio havrebbero abbandonato..." (amare parole, le ultime, che dicono
delle impossibili condizioni di vita dei Beinaschesi superstiti).
Il contagio di cui parla lo sconosciuto autore delle Allegazioni è l'epidemia di peste bubbonica che
investe l'Italia settentrionale nella seconda meta del 1630; le soldatesche sono truppe mercenarie
francesi e spagnole, calate in Piemonte per dare man forte ai Gonzaga, avversari dei Savoia, durante la
campagna militare intrapresa dal duca Carlo Emanuele I per la conquista del Monferrato. Fin dal 1599
in Torino e campagne vicine, secondo il Della Chiesa, autore di una Storia del Piemonte, si riscontrano
focolai di peste. Ma nel 1630 il morbo imperversa con inaudita virulenza. Nella sola Torino, allora città
di ben modeste dimensioni, in pochi mesi muoiono di peste oltre ottomila persone.
Dall'archivio parrocchiale beinaschese manca il registro dei decessi relativo al periodo del contagio
(la chiesa di San Giacomo Maggiore è più volte saccheggiata e infine incendiata con l'intero archivio
dalla soldatesca nel 1631). Tuttavia non è azzardato affermare che la peste provoca moltissime vittime
in paese. La medicina del XVII secolo non conosce rimedi contro il morbo che si manifesta con i segni
di una grave infezione generale (febbre alta, vomito, delirio e infine sopore comatoso) e con la
comparsa di bubboni, dovuti alla tumefazione delle ghiandole linfatiche che suppurando emettono pus
pullulante di bacilli.
Chi ha la sventura di contrarre la malattia ha poche probabilità di sopravvivenza; l'unica "terapia"
conosciuta è l'isolamento dell'appestato, abbandonato a se stesso, nel lazzaretto. (E' quasi certo che il
lazzaretto di Beinasco si trovasse nelle vicinanze della cappella di San Rocco, protettore contro le
epidemie, distrutta durante un'incursione aerea del 1945, in borgata Melano). Le scorribande di truppe
straniere terrorizzano nello stesso periodo le popolazioni delle campagne intorno a Torino, già
duramente provate dal contagio. Una breve parentesi servirà a chiarire gli avvenimenti politico-militari
dell'epoca. Nel 1627 il duca Carlo Emanuele I ritenta la conquista del Monferrato, allora parte
integrante del ducato dei Gonzaga-Nevers, signori di Mantova. La guerra terminerà quattro anni più
tardi con la sconfitta delle truppe piemontesi con la resa senza condizioni del ducato (pace di
Cherasco).
In aiuto dei mantovani assediati in Casale accorrono truppe francesi che invadono il piccolo stato dei
Savoia. Onerosi per le finanze statali, gli eserciti del tempo sono in genere modesti; prevale il criterio di
non impegnarli in aperti scontri frontali, preferendo la tattica della guerra di logoramento. Fronteggiano
l'esercito piemontese, reclutato fra gli uomini della regione, truppe prevalentemente mercenarie,
comandate da capitani mercenari. Il Paese occupato sopporta l'intero peso del conflitto: il concetto "la
guerra sostenta la guerra" assicura il pagamento del soldo agli invasori a costo di terribili devastazioni e
saccheggi. Beinasco, vicinissima a Torino, capitale del ducato dal 1573. si trova più che mai esposta,
verso la fine del conflitto, alle razzie dei mercenari; alla popolazione locale superstite non resta che la
fuga in contrade più sicure, lontane dai pericoli della guerra. Dal 1630 il paese cessa di essere, per
alcuni decenni, --corpo di comunità--.
Quando trentaquattro anni più tardi il senatore Perracchino compie la visita per accertarsi delle
condizioni di vita dei beinaschesi, trova un paese pressoché abbandonato; i pochi superstiti conducono
una vita di stenti. Già si e detto del calo vertiginoso della popolazione stabile, passata nel volgere di
pochi mesi da oltre cinquecento persone a meno di cinquanta. Nel 1664 risultano occupate appena sei
abitazioni; altre otto già minacciano di crollare; le rimanenti, "una settantina e più -- si legge nel
documento -- affatto rovinate nelli siti, delle quali non si vedono che bussoni [cespugli et sambuchi].
Crollati la scuola ("vi era un Maestro con il num. 100 Scuolari, parte del Luogo e parte Dozenanti") e il
forno ("che era di buon reddito a detta comunità"), una disastrosa piena del Sangone si porta via con
venticinque giornate di terreno, anche il mulino che i beinaschesi avevano costruito per le proprie
necessità agli inizi del 1600.
Il Perracchino fa anche il censimento del "patrimonio" zootecnico: escludendo il bestiame dei conti,
signori di Beinasco, "fra tutti li particulari non havranno dieci bestie da pastura". La campagna, non più
coltivata, rinselvatichisce: "ivi sono giornate numero 100 di campi tutti gerbidi [...]; si ricava esservi
altre giornate 200 de prati inservatichiti et imboschiti, che non danno reddito alcuno, et altre volte
erano buoni"; dei vasti appezzamenti coltivati a vite "hoggidì vi sono pochi filagni sù la Rocca del
Sangone". La superstite comunità beinaschese nel frattempo ha accumulato verso l'erario un debito di
imposte spropositato ("li debiti di detta Comunità ascenderanno a ll.80000"), che non potrà mai pagare.
Al duca regnante Carlo Emanuele II stanno tuttavia a cuore le sorti di Beinasco: appena conosce il
rapporto del suo inviato, con un doveroso atto di clemenza " fa gratia a detta Communità di buona
parte delle sue debiture".
Annullare i debiti non è però sufficiente per riportare in vita un paese senza abitanti. Essendo
evidente che nessuno di coloro che erano fuggiti davanti alla furia delle truppe mercenarie ha fatto
ritorno, il duca ricorre alla precettazione: ordina ad alcune famiglie di contadini (le Allegazioni non
aggiungono ulteriori chiarimenti) di stabilirsi in paese. Da quei nuclei familiari trapiantati con la forza
traggono probabilmente origine le più antiche famiglie tuttora residenti a Beinasco (per fare alcuni
nomi: i Monasterolo, i Boravicchio, i Brunetto, i Moriondo). Quasi coloni giunti in un nuovo continente, il
lavoro che attende i neo-beinaschesi è immane: bisogna con urgenza ricostruire le abitazioni, tracciare
le strade e, soprattutto, strappare alla vegetazione che avanza, la terra già fertile, unica fonte di
sostentamento per le classi meno fortunate. La vita riprende gradatamente: già nel 1666 la comunità
ha un sindaco (se ne conosce il solo cognome: Fornaso).
Passeranno tuttavia altri settant'anni prima che Beinasco conti un numero di abitanti uguale al
periodo precedente la peste del 1630. Note Le ricerche sono state effettuate su documenti originali
presenti nell'archivio della Parrocchia di San Giacomo Apostolo di Beinasco e pubblicati sul giornale
parrocchiale "L'Incontro" nell'anno 1981.