Prosegui - Comune di Beinasco
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9. Famiglie originarie di Beinasco - Onomastica. Alcune famiglie tuttora residenti a Beinasco (i Ferrero, Castagno, Monasterolo, Brunetto, Bronzino, Moriondo; forse i Vaschetto, Boccardo e Dagna) discendono sicuramente da nuclei familiari presenti sul territorio da almeno una decina di generazioni. Nel 1751 i Ferrero e Monasterolo sono tanto numerosi che diventa legittimo pensare si siano stabiliti in paese da qualche decennio almeno. Lo storico Perrachino ricorda che inseguito alle frequenti scorribande delle soldatesche spagnole e francesi e a causa della peste del 1630, Beinasco, per una trentina d'anni, cessa di essere "corpo di Comunità". Nel 1631 non vi vivono che 8 famiglie, una quarantina di persone. Le abitazioni, abbandonate, cadono in rovina. "Resulta esservi solo quattordici case, sei delle quali rese habitabili... e le altre già minaccianti rovina... Tutto il resto di dette case, che saranno in numero 80 e più affatto rovinate, delle quali (non) si vedono che bussoni (cespugli) et sambuchi". Nel 1760 il duca Carlo Emanuele II, constatato lo stato di generale abbandono ordina ad alcuni nuclei familiari delle vicine contrade di stabilirsi a Beinasco. Si può fondatamente pensare che tra le famiglie precettate alcune avessero per cognome Ferrero, Moriondo, Castagno, ecc. Nella "ricerca" delle famiglie più antiche di Beinasco ho seguito alcune regole elementari: 1) ho considerato il censimento del 1751, l'unico che riporta l'età, e spesso anche la professione, dei censiti; 2) per una visione più completa, la ricerca si estende all'intero territorio di Beinasco (comprese dunque le frazioni e i numerosi cascinali, come Gonzole, Manta, Tre Tetti, Bellezia, ecc.), poiché le famiglie contadine -- come è facile constatare dai censimenti -- si spostano quasi ogni anno da un podere all'altro e talvolta si stabiliscono nei paesi vicini; 3) nel censimento appaiono non pochi errori di trascrizione dei nomi dei censiti. Si è pensato che le lievi varianti (ad esempio Aghem e Aghemo, Desanfan e Desanfani, Monasterolo e Monesterolo, ecc.) riconducano a cognomi simili. Tranne che in pochi casi non è stato possibile stabilire il grado di parentela tra nuclei famigliari che portano lo stesso cognome. (E'anche probabile che famiglie con lo stesso cognome non siano legate da parentela). *** Le famiglie Monasterolo presenti sull'intero territorio nel 1751 sono otto: quattro risiedono ai Tre Tetti, tre a Beinasco-centro ed una alla Bellezia. Sono in prevalenza contadini. Ai Tre Tetti le famiglie di Gio. Battista, di Elio (o Lelio) e delle vedove Anna Maria e Anna, con una decina di figlie quattro "servi" dimorano nel podere del conte di Valdige e ne conducono i terreni. Lorenzo, fratello di Gio. Battista e di Elio (come si constata da un albero genealogico della famiglia, redatto da don Siro) è un benestante (possiede in paese due immobili ed alcuni appezzamenti di terreno). Nel censimento il suo nome e quello della consorte Ludovica sono preceduti dall'abbreviazione "sig." (cioè: "signori") che indica una posizione economica privilegiata. Con i giovani coniugi, vivono quattro figli, un servo e due domestiche. L'unica famiglia Monasterolo non contadina è quella di Antonio, di professione oste. L'osteria, forse una locanda, appartiene al conte di Valdige ed e posta sulla "via per Torino". Addirittura dieci i nuclei dei Ferrero, anch'essi in genere contadini. Giuseppe e Michele sono massari alla cascina della Consolata di Tetti Gallo. Sicuramente braccianti le famiglie di Giacomo e Giovanni, poiché risiedono rispettivamente nei poderi di Tetto Boglione e del conte Gromis al Drosso. Non è conosciuta l'attività delle famiglie di Michele (Borgaretto), di Bartolomeo, di un altro Giovanni e della vedova Margherita (Beinasco). Un Carlo Ferrero, scapolo, è agente (cioè esattore e rappresetante in loco) di un grosso proprietario terriero del Bottone. L'ultimo dei Ferrero è un altro Giuseppe che con moglie e figli occupa una parte del castello di piazza Alfieri. A differenza dei precedenti, è benestante. Anche il suo nome è preceduto dal titolo "signore". Dei Moriondo due famiglie vivono al Drosso: la vedova Giovanna e i due figli adulti abitano nel castello del conte Gromis; Giovanni invece nella cascina di un non precisato conte di Orbassano. Gli altri due nuclei (con capifamiglia Margherita e Bartolomeo) sono a Beinasco-centro. Bartolomeo è alle dipendenze del conte Nomis, proprietario di numerosi stabili e di vasti appezzamenti a Beinasco. Dei Brunetto tre famiglie (di Bernardino, di Domenico e di Giuseppe, tutti sotto i 30 anni e senza figli viventi) dimorano a Borgaretto. A Beinasco-centro vivono le famiglie di Giovanni Battista e di una anziana vedova, Giovanna, che con un figlio, la nuora ed un nipotino abitano in Castello. Cinque i nuclei con cognome Castagno. Al Drosso troviamo Andrea (5 figli), contadino del conte Gromis e una giovane vedova con tre bambini che abita nella casa del conte Maletto. Altri tre nuclei (con capifamiglia due vedove (Margherita e Maria) e Antonio) abitano a Beinasco-centro. A meno di un errore nella trascrizione degli anni, il cinquantanovenne Antonio è maritato alla ventenne Caterina. I Borravicchio, due famiglie di agricoltori e allevatori, forse di censo elevato rispetto alla media, vivono a Beinasco-centro. L'anziano Giorgio e il figlio Giuseppe sono sicuramente allevatori dato che tengono alle dipendenze un giovane "vaccaro". L'altro Borravicchio, Vittorio, con moglie e quattro figli è presente in Castello. In una breve nota in latino, don Siro, afferma che Vittorio, avendo ricevuto dal padre soldato le insegne del reggimento Maffei (distintosi nella difesa di Torino durante l'assedio del 1706) le dona alla parrocchia. Di Borgaretto le due famiglie di Michele e Giuseppe Vaschetto. Michele Dagna, pure di Borgaretto, è affittavolo al mulino. Di Antonio Boccardo, si sa che è massaro nella cascina del conte Gastald (o Gastaldi) ai Tre Tetti. Matteo Bronzino invece vive con la sola moglie nella tenuta di Gonzole. Quali nomi scelgono per i figli i genitori di Beinasco di metà '700 ? Come si legge nel Liber Baptismatum, al fonte battesimale di San Giacomo ai neobeinaschesi vengono imposti normalmente tre nomi, il primo dei quali (l'unico ad identificare la persona) è analogo a quello di uno stretto parente. Con il passare delle generazioni in ogni famiglia si nota una costante e monotona ripetizione dei nomi di battesimo, non già per mancanza di fantasia, bensì per rispetto di una tradizione radicata. A nessuna mamma, a nessun papà verrà in mente di imporre al primo figlio un nome diverso da quello del nonno o della nonna: è un obbligo, misto di rispetto e di devozione, verso gli anziani. Gli altri nati che presto seguiranno si chiameranno come gli zii e le zie, come i cugini più prossimi. Tra le 231 donne viventi a Beinasco-centro nel 1751, 30 si chiamano Maria, 29 Margherita, 24 Giovanna, 23 Caterina. Vengono poi Domenica (22), Anna (19), Teresa (13), Maddalena e Francesca (10), Antonia, Angela (6), ecc. Anche i nomi che riscuotono meno favori non hanno alcunché di "foravìa" (come per le uniche Agnese, Rosa, Eleonora e Martina, ultime in questa graduatoria onomastica). Tra i 228 uomini vivi alla data di sopra è Giuseppe a godere di vasta popolarità (38 preferenze), seguito dappresso da Giovanni (28) e da Michele (19); vengono poi Francesco e Antonio (15), Giacomo (11), Bartolomeo (9),Domenico (8), Battista e Lorenzo (7), ecc. C'è da pensare che i Beinaschesi del tempo ignorino le vicende di Casa Savoia, se solo 2 persone, Filiberto e Vittorio, ripetono i nomi dei regnanti piemontesi. 10 - Condizioni di vita. Nel Libro di memorie di don Siro Ceruti non si fa cenno alcuno alle condizioni di vita dei Beinaschesi di metà Settecento. Tuttavia non riesce difficile immaginarle. Nello Stato sabaudo del XVIII secolo, il potere è accentrato in una sola persona: il principe. Ogni atto (legislativo, amministrativo, giurisdizionale) emana direttamente da lui (o viene compiuto per suo ordine e in suo nome). Nella volontà del principe (che secondo le teorie filosofico-politiche del tempo è investito del potere per volontà divina) si esprime la volontà dello Stato. Nonostante il vento riformatore ispirato agli ideali illuministici del tempo, i privilegi di origine medioevale (a favore di una nobiltà che ha perso il suo ruolo tradizionale e vive da parassita all'ombra della Corte principesca) condannano ad una esistenza di stenti le classi sociali più deboli. Alla nobiltà spettano per diritto ampie (e ingiustificate) esenzioni dal prelievo fiscale. Il popolo, escluso da qualsiasi partecipazione alla vita pubblica, diventa il principale titolare di doveri. In un paragrafo precedente si è accennato alle componenti sociali della popolazione beinaschese di metà Settecento. Accanto ai nobili, di solito non residenti in paese (proprietari della quasi totalità dei beni immobiliari) si collocano uno sparuto gruppo di medio-piccoli proprietari terrieri e la maggioranza della popolazione, costituita da salariati agricoli e da "servi". Queste ultime categorie, che già sopportano il maggior peso delle ingiustizie sociali e dei privilegi più odiosi, sono anche legate da non pochi obblighi di prestazioni lavorative gratuite (corvées, comandate, ecc.). Sul piccolo proprietario e sul popolo incombe una pressione fiscale che aggrava le già precarie condizioni di vita. I nostri lontani progenitori sono assoggettati ad una doppia imposizione personale: diretta e indiretta. Tra le imposte dirette il focatico e il testatico che colpiscono rispettivamente il nucleo familiare e ogni singolo individuo, senza tener in alcun conto la capacità contributiva; i donativi, i sussidi, le collette che servono per far fronte a eccezionali ragioni di spesa della Corte principesca (ad esempio: per una campagna militare, per il matrimonio del principe regnante, per la sua dote); il macinato, imposta sul grano; le decime, imposte pari ad un decimo del reddito agrario, a favore della Chiesa. Tra le indirette le gabelle (o dazi) che costituiscono la principale fonte di entrate ordinarie, preferite per la facilità di esazione. Colpiscono anche beni di prima necessità (pane, carne, olio, ecc.) e costituiscono una palese ingiustizia poiché gravano in egual misura sia sul povero che sul ricco. E' fin troppo facile dedurre che una imposizione fiscale così pesante, basata più su metodi induttivi che perequativi, non reca vantaggio alla collettività, giacché lo Stato non ricambia che con servizi insignificanti. La maggior parte della popolazione di Beinasco (con le rare eccezioni dei pochi che nella generale povertà si possono definire "benestanti") conduce una vita ai limiti dell'indigenza. La sopravvivenza della gente comune è legata agli scarsi raccolti che possono essere compromessi dalle avverse condizioni atmosferiche, dal perdurare della malaria, da fatti dipendenti dalla volontà dell'uomo (ad esempio, una campagna militare) con il conseguente forzato allontanamento dai campi della manodopera contadina. La popolazione si nutre in maniera inadeguata; vivendo in precarie condizioni igieniche, è facile preda di malattie infettive. E' volutamente tenuta nell'ignoranza, poiché non si giudica necessaria la sua elevazione intellettuale. (A Beinasco la prima scuola di cui si abbia memoria verrà istituita soltanto verso il 1770 dai priori della Confraternita di Santa Croce di piazza Alfieri. Accoglierà i figli dei contadini che, ricevendo una educazione religiosa, impareranno anche un po' a leggere e a scrivere). Paradossalmente ai comuni mortali è riservato un trattamento peggiore anche dopo la morte: infatti la loro estrema dimora è la fossa comune. A Beinasco era su un lato del piazzale antistante la parrocchia di San Giacomo Maggiore: un pozzo, quasi circolare, profondo alcuni metri. Sembra che allora non si rispettassero le più elementari norme igienico-preventive, se don Siro lamenta il fetore insopportabile, dovuto alla decomposizione dei cadaveri, che "ammorbava tutto il paese et principalmente la parrocchia". Un esempio dello stato di malessere della popolazione residente a metà Settecento viene da un breve documento, di non agevole interpretazione, costituito da un foglio, allegato al "Libro di memorie", scritto sulle due facciate con grafia svolazzante. La parrocchia fa da esecutore testamentario dei beni lasciati da certo Carlo Groppo. Non si hanno di lui che poche notizie. E' un anziano vedovo senza figli viventi. In paese abita un nipote al quale andrà una parte del ricavato dalla vendita dei "beni" del parente; con il rimanente la parrocchia si impegna a dire "una messa cantata con tomba et altre messe" in suffragio. Lo Stato delle anime non annovera Carlo tra i "poveri" di Beinasco. Il parroco, dopo che l'usciere (?) ha provveduto all' "aprimento dell'ussio" dell'abitazione del defunto, fa l'inventario dei "beni" e li mette all'incanto "al migliore offerente", invitando la popolazione "dopo le fonzioni parochiali, la sera del 28 ottobre et nella matina seguente". L'inventario comprende 61 voci: a fianco di ognuna il nome dell'acquirente e il prezzo pagato per ciascun bene. Indicherò per brevità soltanto i "pezzi" di maggior valore: una secchia piccola con cassa di rame, un paiuolo, un peso in cattivissimo stato, una cadrega di bosco, un cadregone rotto, una piccola tavola di albera [pioppo], una credenza rotta, due camiggie, quattro camiggie rapezzate, lenzuolo uno, uno scaldaletto, archetto logoro di noce, coperta di tela grossa, pagliaccia [pagliericcio], bosco [legna]; e poi alcune inetie: due cavagne, due falcetti, una ramazza di bosco, una grattugia, e tanti, tanti strazzi. Carlo probabilmente viene sepolto con quanto ha addosso al momento del trapasso, poiché tra le voci dell'inventario non figurano vestiti. Nulla resta di invenduto: anche le inezie, anche gli stracci trovano acquirenti tra la popolazione locale. E' la prova diretta che anche un oggetto quasi privo di valore, acquistato in una occasione favorevole, potrà servire al maggior "benessere" della famiglia o verrà messo da parte per lasciarlo in eredità ai figli. Note Ricerche storiche di Domenico Colombo. Le ricerche sono state effettuate su documenti originali presenti nell'archivio della Parrocchia di San Giacomo Apostolo di Beinasco e pubblicati sul giornale parrocchiale "L'Incontro" nell'anno 1981.