leggi - Il Frizzo

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Giuseppe Lepore
Marigliano
Marigliano, ore sedici di un pomeriggio di dicembre, domenica di fiaschi e botteghe chiuse. Nel quartiere del
paesotto si rincorrevano i bisbigli dei vecchi come le bivacche espressioni dei marinai sotto coperta quando
masticano foglie di chat. Voci concitate, irrequiete, apprensive, in uno scenario fuori dal mondo. Nel paese, alcuni
gruppi di carabani sorvegliavano una zona rossa, terra nera di camorra stretta a tenaglia tra cielo e terra. Poi due
spari e più nulla.
Un uomo, occhi inzuppati nel vuoto, scriveva su un taccuino: “Marigliano (NA), 13 settembre - Il giornalista
Vincenzo Sanna e una sua collaboratrice, del quale non ci è pervenuta ancora l’identità, sono stati uccisi nel quartiere
Boschi in circostanze poco chiare”.
[ Cinque anni prima… ]
Arrancava a fatica la centoventisette color verde slavato lungo il Vomero, mentre l’aria umida proveniente
dalla Mergellina si diffondeva nell’aria come l’odore del vino in ottobre. Un mare di gente a flutti sregolati si era
riversato per le strade, per i sobborghi infestati da troie e sognatori. Tutto un gran vociare, capace di impietrire il
sangue - crepitio di ossa rotte - e nel fragoroso trambusto, nell’odore di calca e di festa, era impossibile pensare.
Vincenzo, professore a Milano, con il vezzo del giornalismo, si faceva largo suonando il clacson.
Gli si strinse lo stomaco quando, dopo lo slargo di piazza “Gesù Nuovo”, giunse a corso “Umberto I”,
rivedendo la sua vecchia casa e quel portone, color antracite, dal battente scardinato dove da piccolo giocava con i
suoi coetanei a rubamazzi.
Scese dall’auto prendendo il cappotto di velluto marrone e quel diario consunto che aveva scritto nei quindici
anni lontano da Napoli. Sembrava passata un’eternità da quando era partito per fuggire dall’estenuante sobbollire di
una gente senza storia e per risanare l‘animo ormai slamato.
Ora era costretto a ritornare nella sua terra, alla sua triste memoria, per dare l’ultimo saluto a sua madre. Non
era arrivato abbastanza presto, però, perché la vecchia era spirata da pochi minuti, il suo viso era ancora roseo e le
mani, livide e scarne, le pendevano lungo i fianchi.
‹‹Non lo vedrò più Vincenzo mio ›› aveva mormorato fra sé prima di dare l’ultimo rantolo.
Sul guardaroba di frassino giacevano la lumiera accesa e la corona del rosario che penzolava verso il tiretto.
Vincenzo, occhi fissi e immobili, forzati a guardare la fila di bottoni della sua giacca, preso da un senso di
inquietudine, si precipitò a guardare alla finestra.
Nevicava e dalla tenda d’organza si scorgevano i fiocchi danzare nel vento, silenziosamente.
Corse frettolosamente giù per le scale, con espressione atarassica, nella speranza di allontanarsi da quel
tumulto inaspettato che si stava generando in casa. I due scalini del portone erano completamente innevati e lo
zerbino, ormai scomparso, rendeva la neve circostante più porosa.
Camminò per le strade del quartiere mentre i bioccoli si posavano sul giaccone nero, scandendo col loro
ticchettare ogni minuto di quella strana notte. L’aria fredda gli sferzava la faccia e, dagli occhi, una lacrima, solo una,
scorreva fin sulle labbra screpolate.
Ritornò a casa e tutti gli chiesero che fine avesse fatto, ma niente. Non aveva nemmeno la forza di rispondere
e, senza proferire parola, si avviò verso il telefono per contattare il dottore, il prete e le onoranze funebri. Tre
personalità diverse, queste, che si diramano alla perfezione entro meccanismi involuti, così difficili da comprendere in
un simile momento.
Due ore dopo l’anziana donna era già riposta nel feretro, stanca e soave, alle sue labbra pallide un ingenuo
abbandono, nel suo ventre un ultimo respiro strozzato e lo sguardo confuso di chi muore.
Passò qualche giorno e il dolore si era come cicatrizzato in una pallida espressione di apatica indolenza. Ore
passate di sera, in un locale di quelli orientali, con grandi cuscini e drappi rossi che sembra quasi di sentire l’odore di
nerghilè. Poi il ritorno a Milano, alla vita quotidiana, recandosi ora alla redazione del giornale per cui scriveva, ora
all’Istituto Magistrale “Ignazio Silone” dove insegnava lettere.
Introque, passava giornate intere nella sua stanza, lavorando su di un progetto che lo avrebbe portato, con un
pizzico di fortuna, laddove aveva sempre sognato. Viaggiare, osservare le danze kourè di Mogadiscio, provare l‘Irio di
Nairobi, raccontare della vita in quei paesi di guerra, di fame. Ma la guerra e la fame parevano così vicine dopo aver
rivisto la sua Napoli. La guerra era nelle scuole, per e strade, nelle chiese.
La camera dove giaceva la scrivania con il lume verdastro era, ormai, invasa dal fumo di mille sigarette che
accompagnavano le sue fatiche.
Nei rari momenti di libertà, Vincenzo soleva girovagare per la città, recandosi spesso da Luisa, una donna
che abitava al Quarto Oggiaro, tra il frastuono della Milano-Venezia e il ponte Palizzi. A Villa Schleiber, monumento
assai antico, il degrado lo toccavi con mano, lo respiravi nel polline del verde rinsecchito, nell’afrore di bruciato dei
portoni inceneriti.
Luisa la conobbe anni addietro, accovacciata sulle gambe esili con due cesti: in uno giacevano varie
chincaglierie che cercava di vendere per campare, nell’altro si dibatteva un bimbo dal viso smunto e pallido.
‹‹Un figlio senza padre come tanti altri figli in questo mondo di codardi›› Pensava Vincenzo che, di tanto in
tanto, cercava di aiutare quella donna e di portarle conforto pur comprendendo la sua voglia, che confessava ogni
giorno, di farla finita. Avrebbe potuto fuggire da quello schifo, abbandonando suo figlio, ma non l’avrebbe mai fatto
perché era l’unica cosa che aveva.
Trascorse qualche mese e finalmente arrivò il giorno in cui il giovane professore, venuto da Napoli in cerca di
fortuna, fu chiamato a presentarsi al colloquio di lavoro che aveva tanto preparato versando e riversando gli occhi su
fiumi di carta per mesi.
L’appuntamento era in via Brera, quartier generale della redazione de “Il Giornale Nuovo”. Così attendeva a
diventare l’inviato della testata in giro per i luoghi di guerra riscattandosi da una vita che, fino a quel momento, gli
appariva – quantunque frenetica - tanto ingenerosa e monotona.
Quando il grande giorno si avvicinava, dalla finestra con le imposte socchiuse, Vincenzo udì un vociferare
sempre più insistente. Si precipitò giù a vedere cosa stesse accadendo e vide un gran filone di gente davanti alla
casa di Gennarino, il vicino di casa. Partiva emigrante alla volta della Germania perché nella Milano degli stilisti e
degli impasticcati non c’era più spazio per un eterno manovale di belle speranze. Al collo la collana d’oro regalatagli
dalla fidanzata che, al momento del saluto, avanzava lentamente verso di lui con gli occhi bassi, singhiozzando ad
ogni passo.
Anche Vincenzo salutò Gennarino, lo abbracciò e gli augurò buona fortuna. Erano bambini quando giocavano
insieme davanti al grosso portone antracite a Napoli e, ora, ognuno per la sua strada, in cerca di fortuna. Le valige
erano già pronte in macchina, con lo zio Silvano che gli intimava di sbrigarsi altrimenti avrebbe perso il treno delle
undici. Poi la partenza, tra la folla ben augurante che sventolava fazzoletti bianchi fino a quando l’auto non
scomparve nella nebbia. Scene da millenovecentocinquanta. Impensabili nella città dei travè.
Il mattino seguente non tardò a venire. Alle nove in punto, Vincenzo era alla redazione della famosa testata.
Nel salottino d’attesa, con le poltrone in velluto azzurro ed il pavimento di moquette, fece la conoscenza di alcuni
giornalisti che, come lui, aspettavano il direttore. Ben presto arrivò il loro turno, così prese ad origliare dietro la grande
porta di vetro multicolore.
Ticchettii. Passi affrettati. Mille vocii. Il tempo sembrava essersi arrestato.
Si accomodò, così, sulla poltroncina di velluto azzurro e cominciò a sfogliare una tra le tante copie del
quotidiano accantonate sul tavolino bianco.
Passarono circa due ore. D’un tratto l’usciere, con voce ferma ed abituata a simili annunci, lo avvertì che il
direttore era impegnato con un onorevole che gli aveva fatto visita inaspettatamente.
Non se ne era nemmeno accorto dell’onorevole. Rimase impietrito e lapidariamente – capo chino verso il
basso – si avviò mesto verso l’uscita, non prima di aver consegnato all’usciere i suoi lavori da presentare al direttore.
Il giorno seguente era nuovamente al quartiere oltre il ponte, da Luisa, la donna del portico. Il suo bambino
cresceva e non aveva più quell’aria melanconica, tanto che pareva partecipare, con gli occhi vispi, ai progetti, alle
aspettative nutrite dai due che si lasciarono andare in uno scorcio di passione che li invase furtivamente per
dissolversi subito dopo.
Trascorsi alcuni giorni, arrivò una telefonata dalla redazione de “Il Giornale Nuovo” a comunicare l’esito di un
colloquio mai esistito. Una voce distaccata e gutturale cominciò a parlare: ‹‹Siamo spiacenti di comunicarle…››.
Vincenzo riattaccò e poi, via, di corsa verso il quartiere nero. Luisa se ne era andata, gli aveva lasciato un biglietto
con su scritto “Arrivederci, ho trovato un uomo che mi fa sentire donna”.
La terra per un attimo tremò e il quartiere fu invaso da grido di un uomo sfregiato, bestia ferita a morte. Preso
dall’incoscienza puerile di un ragazzotto, Vincenzo scrisse sul cartello dell’autobus dei versi:
“Soffrirai anche tu, donna di solo fisico, bambina dall’intelletto gracile. Lo farai vivendo perché morire e troppo
facile. Soffrirai, è il mio augurio. Pensandomi, capendo chi sono stato. Soffrirai gli orgasmi che non hai, i baci e i fiori
che ti mancheranno, la mia ira che ti segue”.
Preso dall’ira per l’inverecondo direttore, restò per una settimana barricato in casa a ripetere centinaia di volte
l’analisi consuntiva del tempo e delle fatiche perdute. Poi scorse con lo sguardo la vecchia foto di sua madre, nella
cornice argentata, sulla mensola di finto cristallo. Gli sembrava di sentirne persino la voce nell’ultimo istante che la
legava alla luce. Ultimamente l’aveva trascurata, preferendole il lungo e faticoso lavoro che lo aveva rubato alla vita,
alla dimensione reale.
Terminata la settimana che lo vide immerso in una totale e muta riflessione, ritornò a scuola. Gli alunni lo
accolsero non curanti e distratti, qualcuno lanciando occhiate di ironico sarcasmo, altri maledicendolo per non essere
rimasto a casa qualche altro giorno. Cominciò la lezione sul pensiero poliedrico del Pirandello, connesso alla pulpgeneration dei nostri tempi. Lezione originale ma inutile per ragazzi che non aspettano altro che il suono della
campanella. Una lezione spenta, deprimente e priva di interventi, con gli alunni annoiati ed assorti nelle prospettive di
classici pomeriggi milanesi, passati alla Centro Commerciale o in “via Condotti”, in attesa degli ultimi vip di Canale 5.
Vincenzo prese una decisione: chiudere con Milano e cambiare aria. Gli avrebbe fatto bene ritornare al sole
meridionale, lontano dal grigiore della nebbia padana.
In breve tempo riuscì ad ottenere, seppur con il finto rammarico dei colleghi, il trasferimento. La destinazione
era Marigliano, piccolo centro poco distante da Napoli.
Così, in un insolito meriggio soleggiato milanese, con l’auto carica di bagagli, si avviò verso il paesino. Vi
giunse dopo circa nove ore di viaggio ininterrotto ed estenuante.
La prima cosa che lo colpì fu l’inaspettata bellezza del centro storico: ampi spazi verdi e una fontana bianca
con il monumento del Garibaldi che sovrastava al centro della piazza.
Il mattino seguente, lesse il biglietto con su scritto l’indirizzo della scuola: “via Vitagliani n 7”. Proseguì con
l’auto a passo lento per scorgere sin dall’inizio le abitudini o le stranezze della gente del posto. C’era un insolito odore
di “malaterra” in quei luoghi, lo stesso di Quarto Oggiaro.
Arrivato a destinazione vide, davanti alla porta d’ingresso, una goffa signora di mezza età. Capelli rossi e un
orribile grembiule nero. Lo fece accomodare nell’ufficio del preside che arrivò dopo più di un’ora.
Allampanato, linguaggio forbito e sguardo assente, entrò dalla porta socchiusa presentandosi e ponendogli
mille domande. Al termine dell’estenuante colloquio Vincenzo si recò in una pensione poco distante dove si sistemò
per qualche tempo. Pensva… ‹‹Insegnate di lettere all’Istituto Tecnico “A. Volta”, nell’ultimo paesetto campano.
Davvero poco gratificante››.
Il giorno seguente fu il primo della sua nuova avventura. Si recò, di buon ora, a scuola per conoscere i nuovi
colleghi. Otto professori, due uomini e sei donne, gli si avvicinarono, come in processione, per presentarsi. Animi
sobborghigiani e semplici, dalla spiccata loquacità.
Ma appena suonò la campana, tra la folla di studenti che invadeva l’atrio, scomparvero frettolosamente
rintanandosi ognuno nella propria aula.
Dopo una manciata di minuti – il tempo di riprendere un po’ di fiato – Vincenzo si diresse verso il corridoio, a
destra, per conoscere la nuova classe. L’aula, piccola e piuttosto disordinata, si apriva a due finestroni che davano
sulle campagne del paese, dalle quali proveniva un forte odore di latte appena munto.
Gli alunni - diciotto paia di scarpe pressoché simili e consumate dalle pallonate, dalle liti pomeridiane - lo
accolsero con mille domande soprattutto riguardanti il tenore di vita della grande città.
‹‹Ma a Milano c’è la Mafia?››. Chiese schiettamente l’alunna dai due codini biondi.
‹‹Stai zitta stupida, come ti permetti a parlare di queste cose con uno sconosciuto››. Ribattè il bullo del
quartiere Santa Monica.
E subito gli fece eco il suo fedele amico con fare alquanto colorito: ‹‹Tiene ragione, quill è nu poc strunz’. Se
vede da faccie››.
Vincenzo assisteva sbigottito all’alterco che si era creato in classe. Ma distrattamente, perché incuriosito
maggiormente dal loro modo di vivere. Dalla loro anarchica ed acerba omertà.
Dopo un’ora sentirono bussare, in modo deciso e piuttosto impertinente, alla porta. Entrò il preside, giacca
rattoppata di velluto, un’orrenda cravatta bordò con lo stemma del Partito Radicale impresso e vistose efelidi sulla
fronte.
Aprì un quadernetto che stringeva orgoglioso tra le mani e cominciò a leggere:
‹‹Sparir le Pleiadi / sparì la luna / è a mezzo il corso / la notte bruna; / io sola intanto / mi giaccio in pianto››.
Recitava quasi ogni giorno questi versi di Saffo, nella speranza di trovarvi qualcosa di nuovo. Era forse
pazzo? Magari si, o forse era soltanto un abitudinario disincantato dalla vita. Del resto, a Marigliano la notte è sempre
bruna e gli agguati della terra nera lasciano poco spazio ai sogni dei pastori.
Tra gli alunni, qualcuno rideva divertendosi ad ascoltare versi che sentiva, ormai, da svariati mesi e che gli
apparivano sempre uguali, privi di qualsiasi sfumatura.
Finì, così, tra la nebbia della valle, ove si sperdevano i lontani vocii paesani, il primo giorno d’insegnamento a
Marigliano.
Seguirono pomeriggi interi a fissare dalla finestra della sua stanza il paesaggio, con le donne che
preparavano il gomitolo, tramando pettegolezzi e assurdità su una cittadina che pareva morta. Non era possibile
parlare e persino il direttore de “L’eco campano”, il settimanale di quattro pagine del paesetto, era imbavagliato e
costretto a scrivere di partite a calcetto e di fogne da ristrutturare.
Vincenzo era un’immagine vaga e sbiadita confinata nell’ultimo paese del mondo in cui le vicende umane
perdono il loro peso, aleggiando come piume nell’aria inebriata dall’odore di concime.
Intanto, da Milano, la madre di Gennarino – l’unica a sapere del suo fallimento lavorativo – gli inviava le
decine di lettere scrittegli da amici e colleghi. Incuriositi, chiedevano come fossero le distese arabe, i bar fumanti del
Cairo e tante altre domande che risuonavano come coltellate lancinanti.
D’altronde non poteva recriminare nulla a loro che erano all’oscuro di tutto e che lo credevano partito alla
volta di chissà quale nazione, in cerca di scoop.
Aveva detto mille bugie per non essere giudicato, per non subire gli sguardi di compassione che gli avrebbero
degnato. Tutto senza pensare che gli amici non giudicano e guardano con occhi sinceri. Ma gli amici sono ben pochi
in questo mondo di nessuno.
Dunque, ogni settimana, Vincenzo inviava delle cartoline, scaricate da internet, raffiguranti i più bei
monumenti, con il falso entusiasmo che lo spingeva ad imbucarle e a pentirsene subito dopo. Lo fece per circa un
anno, così tra lui e la sua vecchia città, molto più vicina dell’Iraq, si materializzavano, come in un gioco fiabesco,
chilometri di spazi che lo riportavano in un personaggio fantastico, leggiadro. Vivere in loro era la sua più grande
vendetta contro il destino avverso.
Dopo qualche mese nel paesino, prese a frequentare, nei pomeriggi di primavera, alcuni amici conosciuti
nell’unico bar. Di tanto in tanto lo chiamavano per organizzare partitelle di pallone. Un tempo giocatore dall’estro
geniale, ora commetteva errori grossolani tra le occhiate oblique lanciategli dai suoi compagni di squadra.
Qualcuno, specie tra gli avversari, con tinnule risate, si permetteva sarcasmi e battute alquanto piccanti. Ma
tutto gli passava davanti senza che lo degnasse della minima occhiata: finanche Marinella, la giovane ragazza del
bar, prosperosa di seno e dalle forme veneree, non suscitava in lui particolare interesse. Lui la guardava con
impotenza e rassegnazione mentre gettava nel camino la legna, tra le fiamme rossolucenti, rimanendo assolutamente
estraniato ed assorto nel mondo che aveva costruito nella sua mente, un mondo di pace e verità.
La verità, già. Quella gli mancava più di tutto, così cominciò a realizzare un giornale scolastico in cui ognuno
potesse scrivere delle notizie vere, non quelle di plastica e cartone che davano all’edicola di via Lago di Como. Che
fine facevano i rifiuti stoccati nella vicina discarica? Perché mai ogni negoziante, anche il più insignificante, doveva
sborsare “rate mensili” ai taglieggiatori di Santa Monica.?
Qualcuno scrisse una lettera contro i signori del paese, i ricchi faccendieri napoletani che ogni sera si
ritiravano nelle case rustiche del paesino. C’era chi aveva capito che non è la libertà che caratterizza l’uomo, semmai
dev’essere il contrario.
I ragazzi del paesino, forti delle lezioni del loro professore, impararono ad amarlo almeno quanto presero ad
odiare chi gli aveva tolto il futuro, la voce, gli occhi. Impararono, però, a non essere violenti pur conoscendo la
veemenza del loro denaro, quello che quei signorotti usavano per comprare ogni cosa, per recintare case, palazzi e
intere città. E non combattevano tutto ciò con la lotta, la guerriglia urbana che fino a quel momento imperversava
nelle strade di sera, né con la superficialità dei giovani da disco shop.
Quei giovani cercavano di costruire ogni giorno, con piccoli gesti, un mondo sempre più lontano dalla prigione
che gli avevano imposta. Era il loro piccolo grande mondo, nel quale tutti gli uomini fossero autentici, in cui solidarietà
significasse solidarietà, dignità significasse dignità. Erano parole di gente piccola, ai margini del mercato dei potenti,
dei nuovi mafiosi ben diversi dai latifondisti con la zappa in mano e il sigaro fra e dita.
Cominciarono vere e proprie battaglie sociali che il paesino non comprendeva, anzi alcuni giovani rampolli,
aspiranti gangster, appiccarono un incendio nei locali della scuola. La carta, assieme all’unico vecchio Commodore
64, prese fuoco e del giornalino non si sentì parlare per qualche tempo.
Arrivò un altro inverno, freddo e nevoso, e Vincenzo, immerso in un’accurata lettura dopo le fatiche
scolastiche, sentii bussare alla porta.
Fischiettava – il grembiule stropicciato e la zuppiera fumante tra le mani – la giovane Marinella.
Aprì la porta ed ebbe, finalmente, la possibilità di guardarla alla luce di un giorno di neve. Con aspetto
serafico ma alquanto sommesso gli chiese se avesse già pranzato.
Lui, con molta confusione, balbettando gli rispose di no e la bella giovine lo invitò a casa sua che era situata
accanto alla pensione.
Un raggio di sole lo attraversò e gli diede respiro in quell’attimo in cui scoprì finalmente come anche in un
piccolo paesino potessero esserci delle sorprese, delle scoperte, delle cose non scontate. Sembrava meno sfervorato
o era solo un’infingarda illusione?
Quel pomeriggio, dopo aver pranzato, parlarono molto, mentre lui le osservava i capelli castani e riccioluti che
si aprivano al volto pallido ed illuminato dal fioco raggio di sole che traspariva dalla tenda di pizzo.
La rivide la sera del giorno seguente, nella piazzetta del paese, quando aveva appena smontato da lavoro. La
faccia era stanca e piuttosto spenta, segnata dalle fatiche di un lungo giorno, ma il suo sorriso le illuminava il volto
come in un’apparizione divina.
La riaccompagnò a casa e, chissà per quale motivo, le rifiutò il classico invito a salire su da lei. Ritornò a casa
e scrisse degli appunti sul diario, nuovo di zecca, che aveva comprato a Milano il giorno della partenza. Anche questo
invecchiava di pari passo alla sua stessa età.
Stette a scrivere fino a tardi, alla luce del lume a petrolio sopra il vecchio tavolo di quercia usato in estate, per
esporre la conserva al sole.
Il giorno seguente si recò a scuola ma, con molta sorpresa, non vi trovò nessun alunno. Qualcuno gli gridò
che era sciopero per la riforma Berlinguer e lui, tra le facce perplesse dei colleghi, giovò perché, dopo un anno di
pacifico smarrimento, aveva ritrovato il caos dei tempi migliori.
Si recò, dunque, dall’edicolante che esponeva, in bacheca, i quotidiani e i film porno sovietici nascosti dietro
le riviste di automobili. Acquistò entrambi.
L’uno era l’unico modo che aveva per rimanere in contatto con il mondo esterno, quasi a prendere una
boccata d’aria dopo essere stato rinchiuso tra i monti soffocanti. L’altro era il filo conduttore della passione, seppur
platonica, che lo appagava allontanando l’indignazione per non essere mai stato capace di amare una donna.
Il tempo, nel paesino di montagna, sembrava essersi fermato. Per un anno, Vincenzo dormì con gli occhi
sbarrati, disteso sul letto eternamente disfatto, leggendo il quotidiano fresco di stampa o i vari libri che attingeva dalla
piccola biblioteca della scuola, ormai risanata dal vile incendio.
Sul giornale locale, in prima pagina, dall’alto delle sue sei colonne, sovrastava la notizia di un assassinio alla
periferia di Napoli, frutto dell’ennesimo agguato di camorra.
Poi, sfogliando, altri titoli su cinque, quattro o tre colonne. Ma Marigliano dov’è? Ci vorrebbe qualcosa di
impetuoso, di devastante, per far parlare del paesino nel vento. Scomparire per sempre, dunque, sarebbe stato il
prezzo da pagare per diventare noto a qualche lettore curioso dell’ultima o della penultima pagina.
Vincenzo era triste. Pensava a quante cose un uomo dovesse sottacere per evitare l’ira dei prepotenti e a
quanto l’ignoranza, la villania dei poveruomini, gli facesse pena. Quella dei potenti, invece, gli provocava rabbia e, al
contempo, paura. A scuola, Michele, uno degli alunni, gli si avvicinò e con occhi trasparenti e labbra carnose lo
osservo impassibile. Aveva dei problemi nell’esprimersi e così non disse una sola parola, né fece un gesto. Questo
suo silenzio entrò nel paese, nei bordelli e fece più rumore degli spari, lui che gli spari li aveva visti in faccia e nel
cervello di suo padre, morto per sbaglio perché si trovava maledettamente al posto di un altro.
La neve, intanto, si era sciolta lasciando solo in alcune campagne delle macchie biancastre che ricordavano il
sapore del mite passato. L’aria ancora gelida saliva sul campanile della chiesetta mentre con Graziano, il sacrestano,
salivo fino all’ultima rampa di scale per ammirare il paesaggio. Ampie distese di verde e un’aria di finta serenità che
si perdeva fin dove si udivano i muggiti delle vacche al pascolo.
Suonava la campana della chiesetta a ribadire mezzogiorno. Dodici tocchi uguali che si scandivano nell’aria
fredda e statica. Vincenzo stette ancora mezz’ora a discorrere con Graziano e ad ascoltare le storie avvincenti che
raccontava con l’entusiasmo di chi sa accontentarsi del poco che ha.
Poi corse a casa, ritrovò la voglia di ricominciare ad informare, lui che sognava di fare l’inviato. Invitò a cena
Marinella che rimase così contenta del passo che aveva appena fatto da saltargli addosso con le braccia al collo,
regalandogli il suo profumo d’incenso. Lui le parlò del suo progetto e le chiese di collaborare con lui creando una vera
e propria redazione.
Quella sera fu uno dei pochi bei ricordi di Marigliano. Comprese come fosse bello il paesino visto dagli occhi
di un amante in una notte di pura passione. La mattina seguente, buttò nella spazzatura persino gli ormai trenta film
porno sovietici che si erano accatastati sul vecchio tavolo di quercia.
Da quel momento si prese a vedere tutti i giorni con Marinella, la bella ragazza dall’aria serafica e al quanto
sommessa, costretta fino a quel giorno a lavorare in un misero bar. Amava scattarle fotografie.
Passati alcuni giorni non vi era più neanche il bisogno di bussare alla porta. Ormai Marinella entrava a suo
piacere nella stanza n.3 della pensione, magari provando il gusto di vedere il suo professore così trasognato.
Notti d’amore e tenere effusioni e poi, alla mattina, solo un soffio alla gota e… scomparsa. Già a lavoro,
evidentemente.
Passò un mese e, mentre si era tutti in classe a far lezione su D’Annunzio, la campana suonò. Un tocco. Due.
Poi un terzo più fievole e drastico. Campane a morto.
‹‹Per chi mai suona Graziano? ›› Pensò Vincenzo.
Alla fine dell’ora, incuriosito, si recò alla vicina chiesetta e, vedendo un cospicuo numero di persone che tra
loro discutevano animatamente, si fece avanti, anche a spintoni.
Fu così che vide il corpo esanime di Graziano, morto lì, sulla cima della vetta più alta del paese. Le palpebre
gonfie e le guance appena rosee lo restituivano ai suoi monti; poi nella bara d’abete, tra la folla che lo piangeva.
La mattina seguente sul quotidiano locale solo un’epigrafe a ricordare “l’animo umile e sempre ben disposto
del fratello Graziano, scomparso nella gloria di Dio, ieri mattina, in un piccolo borgo non lontano da Napoli”.
Già era pronto, il nuovo sacrestano, a suonare tra i monti riscaldati dal sole più intenso, a segnare l’inizio
della primavera. Giacca marrone e camicia di raso color verdognolo, dall’aspetto piuttosto mellifluo.
Passava così il tempo a Marigliano. L’unico compagno temerario che accompagnava le anime del paese era
il vento che da quelle parti soffia ininterrottamente. Già. Il paese nel vento in cui ascoltare i sermoni di don Raffaele,
che tra un rosario e un’omelia, in giro per le case da benedire, si concedeva al bene effimero della candida bellezza di
Stella, la puttana del paese. Inzafardato della squallida ipocrisia di chi nasconde il profano dietro al quadro antico del
Cristo immolato, ben in vista dietro la scrivania di ebano.
L’aria primaverile andava facendosi sempre più calda, fino a diventare rovente, come rovente era la passione
a cui si concedevano il professore e la sua giovane amata. Nelle notti e nelle mattine passate al suo fianco sembrava
tutto così idilliaco, così sublime. Le lenzuola si accendevano di una candida luminosità.
Marigliano stava cambiando. Tre arresti in un mese e molte telefonate di minaccia per il professore venuto da
lontano a fare il reporter. In una borgata, per giunta.
La verità, quella per cui Vincenzo si era sempre battuto, stava cominciando ad entrare nelle case, nei pascoli
e tra la boscaglia in cui i giovani, di sera, andavano a bucarsi.
Altri inverni ed altre estati si succedettero e Marigliano, l’isola felice costruita dai potenti, diveniva sempre più
nota alla cronaca. Qualcuno cominciava ad esserne stufo, però.
Vincenzo divenne come prigioniero di una botte di ferro dalla quale non è più possibile uscire. Sarebbe potuto
ritornare a Milano, ma cosa avrebbe raccontato agli amici che ormai lo avevano dimenticato. Sarebbe ritornato un
anonimo.
Nell’ennesima calda estate arrivò, inaspettata, una lettera dal Corriere della Sera che chiedeva un colloquio
con Vincenzo e la sua collaboratrice Marinella. Il suo lavoro, il suo impegno sembrava finalmente premiato.
Era il giorno della festa di S. Martino, protettore del paesino e Marinella aveva deciso di non seguire il suo
professore nella nebbia milanese. Troppo piccolo era il suo mondo per avventurarsi in spazi che le apparivano
immensi. Tuttalpiù avrebbe continuato l’attività giornalistica nel suo paese, tra le capre e i mafiosi.
Quel giorno, Vincenzo decise di assistere da solo alla processione del Santo. Tutto il paese ritrovava la gioia
di vivere in un avvenimento che, ai suoi occhi, appariva alquanto insulso. La gente di Marigliano era capace di
accontentarsi di piccole cose e di tollerare anni di degrado, eroina, discariche. Marigliano, in realtà, non era cambiata
affatto; era rimasta incementata nei suoi vizi, nel cuore e nel tiranno della sua sparuta popolazione.
Vincenzo era diverso. Del resto era stata la delusione di non avere gloria e successo a farlo piombare tra i
muggiti e il forte odore di concime. Il giorno della processione fu, per lui, motivo di introiezione. Una lunga riflessione
interrotta, puntualmente sul nascere, dai compaesani che vociferavano, tra di loro, sarcastiche frasi e pettegolezzi.
Tutto scorre, ne era convinto. Arrivò settembre: giallo del sole tra i monti e blu di farfalle entravano nell’aula,
dalle fessure dei finestroni semiaperti, rasentando le teste brillanti di gel degli alunni.
Dopo dieci anni non si sentiva più bussare alla porta, nel bel mezzo della lezione. Il preside amante di Saffo
non c’era più. Forse trasferito o, peggio, malato. Al suo posto un professore lucano, dalla testa calva e con
l’inconfondibile odore di sigaro impregnato nel gilet di cotone.
Era giunto il momento di partire, di ritornare nel caos. Vincenzo non era nato su quei colli e l’odore del traffico
milanese gli era più congeniale rispetto all’odore di bestiame.
Prima di partire salutò Marinella. Cantava sottovoce un motivo di Venditti, piangendo non per sé sola, ma per
tutte le ragazze tristi, nel vento di Marigliano. La lasciò così, seduta sull’orlo del pozzo dall’acqua slabbrante, arrossita
e temeraria, quasi imbarazzata di fronte ad uno sguardo che non avrebbe più rivisto. Il suo posto era lì, dov’era nata e
non intendeva spezzare quelle radici.
Il giorno dopo, Vincenzo caricò l’auto con i bagagli e salutò tutti intimando ai suoi ragazzi di perseverare con
coraggio nel progetto intrapreso assieme. Lo aspettavano la nebbia di Milano, le rocche montuose del Medio Oriente.
Marinella lo raggiunse in fetta e furia per salutarlo e lui contento la prese per la mano. Nel paese, intanto, correva
voce che Ruggero Esposito, boss di camorra e proprietario di pascoli e terreni, si era stancato dei giovani arditi che,
da un paesetto di campagna, provavano a sfidare il muro di cinta.
Erano le sedici e per la strada si rincorrevano voci concitate, irrequiete, apprensive. Per la viuzza di porto
Maggiore solo due carabani in divisa a sorvegliare la “malaterra”. Poi due spari e più nulla.
Il tempo si era spezzato come quando la pubblicità rovina i migliori film. Uno scooter tira a manetta verso la
Mergellina lasciando a terra i corpi esanimi.
“Vincenzo Rocca e una sua collaboratrice, del quale non ci è pervenuta ancora l’identità, sono stati uccisi nel
quartiere Boschi in circostanze poco chiare”. Così appuntava un vecchio giornalista sul suo taccuino.
L’indomani, l’ultimo articolo del giornalino, poi chiuso e il sole sui finestroni della scuola. I ragazzi indisciplinati
e le corse, di notte, sui motorini. Tutto come prima. Se qualcuno riuscisse a distruggere la mente, lasciare il corpo e
avanzare da solo, potrebbe augurarsi che quel giorno è arrivato: si chiama “impazzire”. Un nome balzano,
un’esperienza, un grosso dilemma che vive ogni giorno schermando il futuro. Non resta che un souvenir, che vive nel
sogno. Un giorno di sole che lasci pensare a storie passate, a giornate lunghe lasciate appassire. Nel grande sterrato
di un campo di grano, tutto e niente è come prima.
F
I
N
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