Sono esattamente tredici anni che la Roma non vince il
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Sono esattamente tredici anni che la Roma non vince il
Sono esattamente tredici anni che la Roma non vince il campionato e almeno trenta che un comunista vero non entra a Montecitorio. Ma, soprattutto, sono dieci anni che vivo a piazza dei Sanniti e che, in giornate già calde come questa, la vedo tagliata dalla stessa luce obliqua. Ormai ci sono affezionato: il cappuccino al bar dove tutte le mattine Lino e Alvaro si accapigliano su politica e pallone, il minimarket dei cingalesi dove una volta a settimana compro i crauti, la palestra popolare poco più avanti, su via dei Volsci – ci ho messo cinque minuti a iscrivermi e poco più di quindici giorni a capire che non faceva per me. Non ho mai preso neanche un pugno. Sono bastati i sacchi a farmi desistere. Questa casa è l’unico lascito di mio padre. Ora un flashback sarebbe d’obbligo, perché la prima volta che ho varcato questo portone avevo almeno tre certezze. Che sarei diventato un grande giornalista. Che io e Gaia non ci saremmo mai lasciati. Che, con sei punti di vantaggio e lo scontro diretto in casa, la Roma non potesse mai farsi recuperare dal Milan. Ora, nonostante quello che si potrebbe pensare, non fu la terza convinzione a spegnersi per prima. Dopo tre mesi precisi di convivenza, Gaia mi aveva confidato che si era accorta di «provare un certo interesse » per un suo collega di master alla Luiss. Un tipo che mi pareva simpatico quanto un herpes e attraente come uno scaldabagno e che avevo perciò sottovalutato fin dal primo momento. L’aveva presa un po’ alla larga: «Ho bisogno di maggiore stabilità, di un rapporto più consapevole e maturo» aveva esordito una mattina, di fronte a un caffè nero e a una torta biologica che mi aveva obbligato a comprare il giorno prima. Aveva quel modo così preciso di inanellare cause ed effetti che durante il suo lungo e impeccabile ragionamento mi ero ritrovato ad annuire meccanicamente alla perfezione dei suoi sillogismi. Indossava una camicetta bianca leggera e una gonna di jeans. Era bella anche con quel velo di sfinimento negli occhi. Da quella mattina ho iniziato a diffidare delle donne che hanno divorziato dai grassi saturi e degli studentelli scialbi che, a ben vedere, possono però contare su una prestante carta di credito. Ma non dispero. Le altre due convinzioni, infatti, non sono ancora miseramente crollate e, facendo di necessità virtù, ho trasformato la mia passione per il calcio in un lavoro, o in qualcosa che gli assomiglia. Mi sono inventato una rubrichetta radiofonica in cui una volta a settimana presento le più grosse pippe che abbiano messo piede nel campionato italiano e i peggiori calciatori della settimana. Un ecumenico resoconto di pessime figure di oggi e di ieri. Da nomi gloriosi e un po’ vintage come Renato Portaluppi o Luís Sílvio a buoni interpreti contemporanei come José Ángel, desaparecido persino su Fifa della PlayStation. In più, grazie a Dora, caporedattrice con cui, lo confesso, ho avuto una piccola storia, scrivo recensioni di noir per “TuttoGiallo”, settimanale di cronaca nera di infimo livello ma che, come tutti i giornali pruriginosi che si occupano di segreti inconfessati e oscuri delitti, vende migliaia di copie. Di certo quando, poco prima di andarsene, mio padre ha pagato la salatissima retta del mio master in Giornalismo e comunicazione, s’immaginava ben altro epilogo ai miei studi… ma in fondo la precarietà di un’esistenza la riconosci proprio da questa necessità di limare le aspettative. E quindi ora mi ritrovo a lasciare che le cose vadano un po’ come devono, essendosi allo stesso tempo acuita la mia atavica idiosincrasia per regole, imposizioni e responsabilità. Nell’era post Gaia, praticamente ogni coinquilino mi ha rinfacciato il pressapochismo, la scarsa igiene generale, l’incoerenza, la mancanza di progettualità e ambizione. Poi ha sbattuto la porta e mi ha piantato in asso. Ma a rimpinguare le mie esili casse, poco dopo sono arrivati Sandro e Rachele. Finalmente. Hanno preso in affitto le due stanze vuote di casa mia e si sono accomodati nel disordine generale senza lamentarsi. Due regali inattesi. Ho dimenticato di nuovo le chiavi, quindi resto impalato davanti al portone, le buste della spesa che non reggeranno ancora per molto. Se ci fosse Gaia, piegherebbe leggermente la testa di lato, solleverebbe il sopracciglio sinistro e punirebbe le mie imprecazioni con il suo solito silenzio sdegnoso. Mi soccorre la signora del terzo piano, che apre la porta e mi sorride, rubandomi ai miei pensieri. Entro e ignoro volontariamente la cassetta della posta. La vedo abbastanza piena e mi dico che non ho motivo di rischiare. Non voglio imbattermi in comunicazioni spiacevoli. Chi è tanto masochista da rovinarsi il proprio compleanno con una bolletta troppo salata o un volantino di promesse elettorali? Meglio rimandare. Ecco una cosa che a trentacinque anni credo di aver capito: alla fine c’è sempre tempo. C’è sempre tempo per tutto. Almeno, fino a quando non c’è più tempo per niente. Già sul pianerottolo di casa si sente un buon odore. Forse è davvero un giorno speciale, se Rachele ha deciso di mettersi a cucinare. «Ehi, Riccardo, auguri.» Il vocione di Sandro mi accoglie, ancora sulla porta. Indossa la solita polo sbiadita e occupa con baldanza tre quarti di divano. Sta leggendo Proust. E, quando legge Proust, è più inamovibile del solito. «Grazie.» Mi viene da sorridere. «Ti lascio con Marcel.» «Meraviglioso» replica senza scostare gli occhi dalla pagina. Lo fa trascinando molto la O. La sua sicilianità è tutta lì. «Quindi è davvero la mia festa?» chiedo entrando in cucina. Rachele si volta e mi salta addosso. «Sì, tesoro» risponde. Si è di nuovo tagliata i capelli nerissimi, lunghi a modo loro: rasati di lato, solo a sinistra. La stringo e sento le ossa sotto i polpastrelli. Nonostante il trucco molto dark, come lo definisce lei, gli occhi le sorridono. Ora è doverosa una brevissima spiegazione. No. Rachele non è una pazza scatenata, ma solo una dominatrice, una mistress. In pratica, svolge la professione più antica del mondo ma con alcune sostanziali varianti. Prima di tutto, è lei che domina. Secondo, non fa sesso. Terzo, lavora solo di giorno. Un mestiere strano, ma avete presente la crisi… Inoltre io quasi tutto il giorno sono fuori quando lei “opera”, mentre Sandro c’è ma è perlopiù con Marcel. Poi è una brava ragazza. E paga sempre l’affitto, precisa, al primo del mese. «E adesso» annuncia lei mentre il buon Sandro apparecchia la tavola, «scusate ma devo mettere su Rai3…» È l’ora X. E cade ogni santo giorno, dal lunedì al venerdì. Com’è possibile che una sadomasochista sexy sia appassionata di una telenovela napoletana? Ma discuterci e rovinarle questa mezz’ora di felicità significherebbe inimicarsela per sempre. Quindi abbozziamo. Su Rai3, però, campeggia il faccione del conduttore del TGR. Un approfondimento. Dev’essere successo qualcosa di grosso. L’inviato parla di un suicidio. Accanto a lui, una ragazzina che non riesce a smettere di piangere. «Ringraziamo Michela per la sua sentita testimonianza. È stata proprio lei a trovare il cadavere del professor Morelli, che stanotte ha deciso di togliersi la vita. Ricordiamo che il professore, tanti anni fa, era stato già protagonista di un tremendo caso di cronaca giudiziaria all’università La Sapienza di Roma in cui era morta la studentessa Giulia Rusconi. Forse un rigurgito di coscienza per quest’uomo, che aveva appena ottenuto la libertà provvisoria? Cosa può essere scattato nella mente di Morelli, che si era sempre professato innocente?» Rimango senza parole. «Che palle» sbuffa Rachele, «possibile che debbano parlare solo di ammazzamenti in televisione?» E cambia canale. «Lascia lì!» le dico, forse troppo secco. Poi, vedendola imbambolata, le tolgo il telecomando dalle mani. Le parole del giornalista mi attraversano come una coltellata lenta, precisa. «La conoscevo» spiego quando compare la foto di Giulia in televisione. «Mi dispiace» aggiunge Rachele, intuendo che si tratta di qualcosa di più di una semplice conoscenza. I ricordi tornano immediati, tutti insieme. A volte è davvero difficile fare finta di niente. Girare la testa. Qualcosa si muove e ti mette alle strette.