Perché la successione delle portate è un cliché da cui non si sgarra
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Perché la successione delle portate è un cliché da cui non si sgarra
La natura in casa “Orto e Mangiato” di Martino Ragusa è una sorta di manuale che svela la bellezza e bontà delle coltivazioni domestiche. Un libro per imparare a conoscere le piante, saperle coltivare in casa e renderle protagoniste della buona tavola. “Non sono io che curo l’orto, è l’orto che cura me”, in queste parole c’è il tema conduttore dell’ultima fatica editoriale di Martino Ragusa “Orto e Mangiato”, edizioni Sperling & Kupfer. Un manuale ragionato sulle coltivazioni domestiche utilizzando i vasi, eccellente soluzione per i piccoli spazi. Un ritorno alle origini per curare spirito e corpo, un modo per recuperare i ritmi della natura, dove tutto è equilibrio. E’ la “febbre dell’orto” che l’autore vuole trasmettere ai lettori, per riscoprire gli odori e i sapori della civiltà contadina in via d’estinzione, sacrificata sull’altare di una modernità che omologa i sensi. Nelle 50 piante selezionate dall’autore con le relative schede con le caratteristiche di ciascuna e le cure necessarie per la crescita, sembra di risentire i profumi perduti e genuini di prodotti naturalmente biologici che un mercato senza regole ha trasformato artificialmente. Ma il libro di Martino Ragusa va oltre, offrendo anche altro. Un ricco ricettario per guidare i palati raffinati a trasformare i prodotti dell’orto in piatti sani e sfiziosi; un modo per accompagnare gli appassionati dalla terra alla tavola, in un tripudio dei sensi. Seguendo i consigli dell’autore, sarà possibile gustare prodotti autenticamente a chilometro zero, diffondendo un hobby sano, divertente, che fa socializzare e soprattutto costa poco. Piero Rotolo [email protected] Anguria e cocomero o melone e popone a tavola? Piuttosto che parlare di carne, con questo caldo è meglio pensare ai frutti che più si associano all’idea del dissetarsi, con la dolce polpa ricca di acqua (90%), vitamine specie A e C, zuccheri naturali, sali minerali, diuretica quanto basta per la reidratazione, però ci accorgiamo che ove andiamo in giro per l’Italia non capiamo se mangiamo anguria o cocomero, melone o popone. È vero, i nomi sono varianti regionali, ma quello che molti non sanno è che i termini cocomero, dal latino «cocumiscocumeris», e anguria, dal tardo greco «angurion», significano “cetriolo” e lo stesso cetriolo in Grecia veniva chiamato cocomero, come tale citato da Virgilio. È risaputo che nelle regioni del centro-sud è conosciuto il cocomero e nel nord l’anguria, dove – a complicar le cose – il termine cocomero o meglio “cocumer(o)” è riservato al cetriolo, “cucumis sativus” (anche in francese cetriolo si dice «concombre»). Ma la confusione non finisce qui: nel meridione il cocomero è anche chiamato “melone” o meglio melone d’acqua (in inglese «Watermelon»), mentre al nord “melone” è il melone (in inglese «Melon» o «Muskmelon»), ossia il “Cucumis melo”, alias il toscano “popone” alias meridionale “baciro” se non anche “melone da pane”. Inoltre tutti questi non sarebbero propriamente dei frutti, perché in botanica sono considerati ortaggi, della famiglia delle Cucurbitacee, piante a fusto strisciante, stretti parenti del cetriolo e anche della zucca e delle zucchine. Al di là di tutte le nomenclature che fanno girar la testa, come si mangiano anguria-cocomero-melone? Normalmente viene servita sul piatto una fetta con la scorza e sono necessari forchetta e coltello, posate da dessert, con i quali si ricavano frazioni di polpa da portare alla bocca uno alla volta. Di regola, le fette servite dell’anguria dovrebbero essere già sufficientemente liberate dai semi, quelli rimasti vanno tolti con la punta del coltello ma senza fare prima scempio della polpa. Se ce li trovassimo in bocca, in linea di massima dovremmo seguire la regola che impone che qualunque cosa portata alla bocca con la forchetta e non deglutibile si deposita sulla forchetta stessa e poi da questa nel piatto, ma io ho visto qualcuno avvicinare addirittura il coltello alle labbra e trasferirvi i semi. Forse perché sarebbero sfuggiti tra i rebbi della forchetta? Tuttavia pare lecito raccoglierli nell’incavo del pugno (come i semi dell’uva), senza emettere certi suoni tipici del soffio, per poi depositarli nel piatto con movimento semplice e naturale. Le fette del melone, invece, devono essere servite già ripulite dai semi e quasi interamente già staccate dalla scorza, e assaporate anch’esse con coltello e forchetta. Non è prudente cimentarsi a tagliare la scorza per accorciare la fetta, ne va dell’equilibrio del resto e poi non ha senso. Non è salutare raschiare la polpa residua aderente alla scorza perché lo strato bianco non è digeribile. Alla fine, le posate vanno lasciate allineate a destra delle scorze. donna Maura [email protected] Perché la successione delle portate è un cliché da cui non si sgarra? Chissà se qualcuno si è mai posto la domanda. È proprio così scontato che le minestre, liquide e asciutte debbano essere mangiate prima della carme? chi ha stabilito che nei convivi di eccelso livello il pesce vada presentato prima dell’arrosto di carne? E da dove deriva le regola che la frutta debba chiudere il pasto dopo il dolce, a parte il caffè da buon ultimo? È di sicuro una sorpresa per molti venir a sapere che non è stato qualche estroso nutrizionista dello scorso secolo a stabilire la sequenza delle pietanze, bensì medici filosofi vissuti millenni orsono i quali classificarono gli alimenti in positivi e negativi per l’organismo, e tale catalogazione venne fatta propria dalla medicina europea fino al 1500-‘600. Fu, infatti, il sapere di Ippocrate (V-VI a.C.) ripreso da Galeno (I-II d.C.) a fondare la teoria degli “umori” connessi alla salute e alla alimentazione, secondo cui i cibi facilmente digeribili dovevano essere consumati per primi, seguiti gradualmente dai piatti più pesanti. Pertanto la sequenza corretta, accettata ed applicata, fu: antipasti, minestre liquide, minestre solide, pesce, carne, insalate, formaggi, dolci-pasticceria, frutta (“ab ovo ad malum”, “dall’uovo alla mela”). Si credeva che, se questa sequenza non fosse stata rispettata, i cibi pesanti sarebbero sprofondati verso la fine dello stomaco, bloccando il condotto digerente in maniera tale che la digestione sarebbe stata estremamente lenta, provocando la putrefazione del corpo e attirando gli umori cattivi all’interno dello stomaco. Era anche di vitale importanza che cibi dalle differenti proprietà, di natura calda e secca, fredda e umida, non venissero mischiati: per esempio proteine animali con i carboidrati, come si dice oggi e come il diplomatico artefice del cosiddetto “servizio alla russa” ha applicato alle sue mense agli inizi del 1800, nauseato dall’ammasso di sapori e odori di quelle pietanze che troneggiavano tutte assieme sulle mense nobiliari e che i commensali mischiavano per saziarsi, senza alcuna priorità. È ben vero che alcuni nutrizionisti moderni incitano a far precedere il pasto da un piatto di verdure, giacché a loro dire “ingannano” lo stomaco e fanno percepire un senso di sazietà, gonfiandolo, ossia dando veloce inizio alla macerazione. È certamente un buon trucco, visto con i miei occhi anche in certi ristoranti che servono la terrina delle verdure facendoti attendere un bel po’ la carne o il pesce, finché non svuoti il contenitore. Ma in realtà basterebbe che ognuno eviti di alternare una forchettata di carne con una di contorno, crudo o cotto, seguendo anche il consiglio del Galateo stesso che dice di non ingarbugliare i cibi nel piatto ma di assaporarli uno alla volta. A volte nei grandi banchetti i cuochi stellati applicano tali dettami della medicina antica senza saperlo, per esempio quando presentano un consommé o un sorbetto al momento giusto di stacco tra portate importanti. Con buona pace di chi (la categoria dei dietologi in primis) crede di aver scoperto l’acqua calda. donna Maura [email protected] Documentiamoci sul mangiare crudo Essere crudisti significa mangiare frutta e verdura, germogli e semi e seguire le regole comportamentali dell’igienismo: uno stile di vita che aiuta a disintossicare mente e corpo trattando gli alimenti alla temperatura massima di 45 °C. Il crudismo del libro è vegano e non comprende l’uso di latticini, uova, zucchero o farine raffinate. Nella prima parte del libro si descrivono le principali operazioni di questa cucina dalla scelta degli alimenti alla loro pulizia e taglio, dalla marinatura, all’estrazione dei succhi, dalla fermentazione, all’essiccazione, soffermandosi sull’utilità di alcuni strumenti come mixer, frullatori, estrattori ed essiccatori. Grande spazio viene dato anche all’arte del condimento. La seconda parte è dedicata alle ricette dagli aperitivi agli antipasti, dai primi e secondi alle insalate e “formaggi”; senza dimenticare il pane e i crackers, le salse e i condimenti e naturalmente i dolci. Un libro indispensabile non solo per chi ha scelto un’alimentazione crudista. A tutti fa bene aumentare la presenza di alimenti crudi nella propria alimentazione. Laura Cuccato Architetto e web designer appassionata di piante e cucina. Conosce l’igienismo durante il primo di cinque digiuni e lo applica come stile di vita. Nel 2006 nasce “Salto nel Crudo”, il sito e blog, attraverso il quale promuove eventi e corsi nel nord Italia dove vive. Nel 2011 cura le ricette di “Il crudo è servito” e nel 2012 quelle di “Frullato e Mangiato”, collabora con la rivista Open Kitchen Magazine. Michele Maino Giornalista, fotografo, interprete, traduttore e appassionato viaggiatore, ha vissuto a lungo nei Paesi arabi. Al suo ritorno in Europa si è avvicinato alle terapie naturali e alla macrobiotica abbracciando l’etica vegetariana. Nel 2009 ha frequentato, a Parigi, la scuola di alta cucina Le Cordon Bleu, diventando chef e, dopo una serie di esperienze di lavoro e formazione in diversi ristoranti stellati e non, tra cui Ze Kitchen Gallery a Parigi, dove ha approfondito la cucina fusion, e Joia dello chef Pietro Leemann a Milano, ora si dedica all’insegnamento della cucina naturale e fusion e lavora a Milano all’Osteria 55. Collabora con la rivista Cucina Naturale. La cucina crudista di Laura Cuccato, Michele Maino Pagine 128, Prezzo: 9,90 € Codice copertina 2904-6 Edito da Tecniche Nuove spa Disgusta il taglio carne in tavola? della Non è una domanda retorica, leggendo la letteratura in proposito mi è sorto il dubbio che forse qualche commensale potrebbe avere il voltastomaco non tanto nell’assistere alla spartizione del pasticcio al forno quanto piuttosto nel vedermi tranciare la faraona o il tacchino o lo stinco di maiale, e pure il mio fantastico brasato, davanti ai loro occhi. O forse sono i coltellacci ad impressionare? È vero che già a metà dell’opera la pirofila assomiglia ad un campo di battaglia e che ci vuole grande arte per fare le porzioni uguali per tutti, lasciando indietro i pezzi peggiori da mettere nel piatto del marito e specie nel mio, ma, assistendo a ciò in casa d’altri, io non mi sono mai “disgustata”, forse perché sono una che guarda senza battere ciglio CSI, quei telefilm dove il tavolo anatomico è quasi sempre in primo piano … Eppure, per decine di secoli il presentare interi gli animali, cucinati con tanta maestria e farciti a fantasia, costituì un lussuoso vanto per il padrone di casa e un privilegio per chi veniva incaricato dello “scalco”, affiancato dalla figura tecnica del “trinciante”, ancora fino al 1600 presso tutte le corti principesche. Nel ‘700 questo è diventato un compito che i nobili e i ricchi borghesi cominciano ad assumersi in prima persona nei sontuosi banchetti, secondo lo stile che poi venne chiamato “alla francese”. Infatti, nella nuova tendenza è il padrone di casa che orgogliosamente taglia il maialino davanti a tutti, mandando a ciascun commensale, attraverso il servitore, il piatto riempito. Ma agli inizi del secolo successivo, una vera “rivoluzione” introdotta in Francia da un diplomatico russo scompagina la «mise en place», dalle tavole spariscono i contenitori, i trionfi, le alzate con il bendiddio esposto, dalle cucine le pietanze escono in sequenza secondo le portate e il «joint» per le carni viene eseguito su un tavolino a parte, chiamato «guèridon», dove il padrone di casa trancia e affetta senza avere addosso gli occhi degli ospiti, con grande gioia delle raffinate dame commensali. Nemmeno questo sistema, più discreto, piacque a tutti, cosicché in alcuni manuali di Galateo del secondo ‘800, come quello redatto nel 1877 dalla “Marchesa Colombi”, pseudonimo di Maria Antonietta Torrioni, emerge che è comunque considerato barbaro e grossolano costume e “da osteria” assegnare le porzioni, perché agli ospiti deve essere lasciare la libertà di servirsi da sé, come ai vecchi tempi. Così, seguendo il consiglio del galateo ottocentesco, dopo aver presentato agli ospiti in sala la pietanza nella sua interezza per il godimento della loro vista, la padrona di casa torna in cucina con la pirofila, fa le parti che servono, le sistema con decoro e porta in tavola il vassoio con i pezzi già tagliati, in modo che gli ospiti si servano da soli. Dobbiamo però preoccuparci che la pietanza da allestire in cucina si mantenga alla temperatura giusta per il tempo di fare le parti, auspicando che i nostri ospiti riescano a conservare l’acquolina in bocca finché ritorniamo da loro. Ma poi, chi ci obbliga a far vedere in anteprima la nostra opera tutta intera? donna Maura [email protected] Il look dell’evento L’etichetta della tavola pretende che tutto l’apparato sia adeguato al genere di ricevimento organizzato, giacché l’allestimento per pranzi seduti o in piedi, a tavolata o buffet, per poche o tante persone, e loro età, per circostanza dell’evento, carattere formale o informale, muta notevolmente e di conseguenza lo stile di servizio deve adattarsi. Beh, non per niente si usa dire “arte del ricevere”. Ho recentemente disquisito su quanto sia importante l’abito da indossare a seconda delle occasioni per adeguarsi al “tono” dell’incontro, ed ora aggiungo che l’evento stesso incide anche sull’apparato dell’ambiente. Per esempio, un convivio a cui sono invitate persone importanti richiede un allestimento molto curato fin nei minimi particolari, dall’arredo della sala a quello della tavola, con il vasellame migliore ed un raffinato menù, non tanto “per apparire” quanto piuttosto per un riguardo agli ospiti, come è sempre stato nella più antica consuetudine dell’ospitalità, a tutte le latitudini e presso tutte le civiltà. Ciò non vuol dire che, invitando a pranzo parenti o amici, si possa preparare la tavola con le stoviglie sbeccate e la tovaglia macchiata, o rinunciare a un grazioso centrotavola floreale, o non curare la scelta dei vini. Semplicemente, in relazione al trattenimento che si vuole organizzare bisogna disporre del giusto arredo. Ne deriva che una differente «mise en place» condiziona l’atmosfera. Ogni brava padrona di casa deve avere l’accortezza di abbinare lo stile della «mise en place» al menù. Vogliamo stupire i nostri ospiti con pietanze della cucina rustica, quella con gli ingredienti semplici, quella della tradizione locale, quella della nostra infanzia? È ovvio che dovremo possedere anche stoviglie e bicchieri adatti, nonché tovaglie, perché giusto ricreare l’atmosfera spensierata della tavola semplice, dei tempi in cui contava l’allegria del ritrovarsi tutti assieme a mangiare. Vi assicuro che una zuppa di cipolle o un brodetto di pesceo o il caciucco livornese serviti in piatti di fine porcellana bavarese col profilo d’oro zecchino non hanno lo stesso sapore che se invece serviti in ciotole di cotto. E altrettanta stonatura nella degustazione di una bagna cauda o di una fondue bourguignonne o di una selezione di formaggi e salumi la avverto se è stata stesa una candida tovaglia di bisso e mi trovo in mano posate d’argento. Come ci si può divertire in queste condizioni? Si perde tutta l’atmosfera che queste pietanze di per sé ispirano… «Il contenitore è determinante perché esalta o svilisce la preparazione» affermano gli esperti gastronomi. E che dire di un ricevimento in piedi con una quarantina di persone e un buffet di alta gastronomia se vi fanno bere vino d’annata o spumante in bicchieri di carta, con la giustificazione che la casa non possiede sufficienti bicchieri di cristallo! A quel punto, io personalmente perdo il gusto anche del cibo! E perdo anche l’umore. È veramente questione di stile! donna Maura [email protected] Chi prenota in ristorante è sempre il “padrone di casa”? non è sempre vero Quando, per mille motivi, non si vuole organizzare una cena in casa, si ricorre al ristorante prenotando a proprio nome un tavolo, una tavolata o una sala per un certo numero di posti quanti gli invitati, ovviamente con la cura di preavvisare il locale sulla forma del ritrovo ed avvertendo con garbo tutti gli “ospiti”. Ciò evita ogni dubbio su chi salderà il conto. È regola che chi prenota al ristorante col proprio nome viene considerato il “padrone di casa”, per cui oltre ad essere il primo destinatario delle attenzioni, ad esempio per la scelta dei vini, diventa anche l’ultimo con la presentazione del conto. Se ciò corrisponde al programma della conviviale, non ci dovrebbero essere problemi per il servizio, il “padrone di casa” (alias “anfitrione”) va servito per ultimo, come fosse a casa sua. L’unico problema per il personale è sapere se è solo o accoppiato, dato che i “padroni di casa” vanno entrambi serviti per ultimi, lei ultima delle signore, lui ultimo dei signori. Pertanto, è meglio farsi riconoscere dal maitre, il quale darà adeguate disposizioni. Ma non sempre tutto va liscio secondo le regole. Quando le ordinazioni sono libere, alla carta, le pietanze in cucina vengono preparate secondo il criterio dello chef e in tale sequenza entrano in sala. Eppure come non infastidirsi quando tra i commensali che hanno ordinato la medesima pietanza i piatti vengono assegnati senza logica se non quella della celerità di servizio? La regola delle precedenze va a farsi benedire. Bisogna adattarsi ed aspettare che tutti siano serviti prima di afferrare la posata. Inevitabile si presentino contrattempi nella forma del servizio, facile salti la graduatoria con il rischio che l’ospite principale resti ad attendere la sua pietanza mentre l’ospitante è già servito. Un disastro per il promotore della conviviale! Non è molto elegante, ma è ultra-consigliabile concordare preventivamente un menù fisso, in caso di convitati numerosi. In tal modo i camerieri non possono sbagliare le precedenze. Ma se in ristorante arriva una famigliola o un ridotto gruppo di commensali, avendo una voce femminile prenotato il tavolo, chi assicura il responsabile del servizio che il nome della targhetta sul tavolo riservato corrisponda a colui che invita e quindi paga e, a rigor di norma, dovrebbe essere servito per ultimo? Si può pensare che una signora paghi per tutti senza che lo abbia specificato all’atto della prenotazione? Perché deve essere servita per ultima? Ebbene come si fa a non provare contrarietà se il giovane cameriere, portando tre piatti, posa il coperto prima alla tua giovane e carina figliola poi a tuo marito e infine a te? Chi sei tu per lui? Il portafoglio matriarcale? Come fa a saperlo? Dove sono finite le regole delle precedenze? Qui siamo agli antipodi dell’esempio dell’articolo precedente dove ho raccontato della caposala che disponeva il servizio scendendo d’età tra tutte commensali donne. Le vecchie scuole insegnavano la «regola della persona più importante», in verità non semplice, perché implica attenzione, intuizione e buon senso. Ma dove si impara che una ragazzina è più importante della sua veneranda madre e quest’ultima addirittura meno del marito? donna Maura [email protected] Un invito in Francia A cura dell’Ente per lo sviluppo del Turismo Francese è stato pubblicato il magazine Rendez-vous en France 2013 che racconta la Francia e la sua arte di vivere, l’arte, la cultura, la gastronomia e i vini, le destinazioni più seducenti, i grandi eventi, l’ecologia. Tanti i suggerimenti da cui attingere per programmare un viaggio: Parigi insolita e il parco Disney, Nantes capitale verde d’Europa e l’arte nella città, il Nord-Pas de Calais inserito nel Patrimonio mondiale dell’Unesco con il nuovo Louvre-Lens, la Normandia degli impressionisti e Marsiglia capitale europea della cultura 2013, il 100° tour de France, Lione, Chambéry, la Costa Azzurra… e quella di oltremare, i Caraibi Francesi, la Guadalupa, la Nuova Caledonia. Rendez-vous en France 2013 verrà allegata al mensile Elle di maggio (in edicola da fine aprile), distribuita in tutte le boutiques Occitane, nei lounges Air France, sui TGV delle linee Italia-Francia. La versione digitale www.rendezvousenfrance.com/rivista. Piera Genta [email protected] si trova su Ma che criterio dell’età? è quello Andando per locali se ne vedono di tutti i colori tra i comportamenti dei camerieri, anche nei migliori, dove si suppone che alla qualità del cibo e al prezzo di un pasto corrisponda uno stile di servizio all’altezza, specie se gli chef sono rinomati e tengono scuole di cucina. Possibile tanta mancanza di delicatezza? Non parlo qui dei piatti sbattuti sulla tavola o di quelli che ti arrivano freddi da buoni ultimi, e neanche dei modi ineleganti di metterteli davanti, voglio parlare della «regola della precedenza», ossia del «criterio della persona più importante» della tavolata da servire per prima. A volte viene interpretato nel senso che le signore sono valutate ‘rilevanti’ in considerazione della loro età e si assegnano le priorità a scalare, come è capitato al mio tavolo nel ristorante di un lussuosissimo albergo durante una colazione di lavoro tra donne in carriera, con disappunto di un paio delle ospiti “prescelte”. Ecco il brutto: quale Signora è felice di essere considerata “la più anziana”? Chi si sente favorita quando, in base alla “anzianità” scelta dal direttore di sala o dal semplice commis, viene servita per prima, seguita dalle altre a scalare di anni? Se le donne presenti sono d’età più o meno equipollente, come fa il personale a stabilire la sequenza? Chiede le carte di identità alle commensali? Corre voce che sia questione di occhio allenato, ne diamo atto, ma gli addetti al servizio come se la cavano davanti i talenti di Madre Natura (o del chirurgo estetico) che trasformano la sostanza in apparenza e rallentano l’invecchiamento? Assisto a scene desolanti. Il personale, saltando di qua e di là, cerca di mettere il piatto davanti alla persona che ritiene giusta e i successivi vengono piazzati distanziati, secondo l’occhio anagrafico del cameriere. Nel frattempo le signore servite, che hanno capito, si guardano l’una l’altra studiandosi, mentre le altre tirano sospiri di sollievo per essersela cavata. Ci sarebbe un criterio corretto da osservare in tutti i convivi informali: si assegna il piatto alla signora che siede alla destra di chi funge da padrone di casa (o anche alla più marcatamente “anziana”) e si avanza di coperto in coperto senza cercare capelli grigi o rughe; se nel mezzo si trova seduta una signorina o una donna visibilmente giovane, non la si salti, per favore, come talvolta accade, mortificandola. Superfluo ricordare che la tavolata deve attendere che tutti abbiano il piatto prima di por mano alle posate. donna Maura [email protected] A colazione di lavoro vestiti a tono Molte persone sono convinte che il modo di vestire non debba incidere sull’immagine di sé da offrire agli altri e che curare l’abbigliamento adattandolo alle occasioni sia una sovrastruttura mentale arcaica, la sopravvivenza di una mentalità borghese, retaggio di epoche ormai finite, concluse, morte e sepolte. Beh, costoro prima o poi saranno costrette a cozzare contro la dura realtà, e si renderanno conto che molti veterani della rivoluzione sessantottina ora sono ultrasessantenni manager in giacca e cravatta e camicia stiratissima, professioniste sempre fresche di parrucchiere, manicure e massaggi tonificanti. Dunque la “apparenza” conta, eccome! Provino i giovani odierni andare a un colloquio di lavoro in jeans sdruciti e top slambricciati e vediamo se vengono assunti. Persino i piercing e i tatuaggi evidenti sono elementi discriminanti, ed è inutile protestare! Più sono elevate le responsabilità più deve essere curato l’aspetto, perché si deve dare un’immagine di affidabilità e di serietà. Intramontabile criterio. Ebbene, le colazioni di lavoro hanno molteplici funzioni, servono ad accaparrare clienti e fornitori, mettere le basi per stipule di contratti, festeggiare un importante business aziendale, possono servire a probabili soci per conoscersi meglio prima di stringere accordi. Non è nell’interesse di entrambe le parti presentarsi al meglio nel look oltre che nelle idee da mettere sul piatto dello scambio? «L’abito non fa il monaco» è uno slogan utilizzato da chi rifiuta che l’apparenza coincida con la sostanza e pensa che il messaggio da trasmettere sia talmente importante che l’interlocutore lo recepisca al di là del modo di porgerglielo. Tuttavia si deve capire che l’aspetto di una persona, ossia il modo in cui si presenta, costituisce un elemento del linguaggio non verbale (“abbiamo una sola occasione per dare la prima impressione”) e dice molte cose di noi, sulla nostra educazione, sul nostro modo di pensare. E come ben si sa il linguaggio non verbale, cioè tutto ciò che ha a che fare con immagine, portamento e comportamento, ha un impatto emozionale molto più elevato del contenuto delle parole. Non si tratta di vestirsi adeguatamente al contesto semplicemente per etichetta o formalità, quanto piuttosto di utilizzare l’abbigliamento quali strumenti al nostro servizio e alla nostra causa! Vestirsi “a tono” per una colazione di lavoro, pranzo o cena che sia, significa semplicemente presentarsi non nell’abito più comodo per la giornata di lavoro, bensì in quello che corrisponda al proprio ruolo e sottintenda rispetto per coloro che saranno i commensali, anche tenendo conto del posto in cui si svolgerà la conviviale. Alle signore consiglio di non esagerare nello sfoggio né di gioielli veri o di bigiotteria, né di pomposità e scollature, di poco buon gusto in queste occasioni. Purtroppo anche l’abbigliamento più curato sarà ridicola apparenza se in questi incontri davanti ad una tavola si mostrerà l’ignoranza delle regole fondamentali del Galateo. donna Maura [email protected]