Perché la successione delle portate è un cliché da cui non si sgarra

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Perché la successione delle portate è un cliché da cui non si sgarra
La natura in casa
“Orto e Mangiato” di Martino Ragusa è una sorta di manuale che
svela la bellezza e bontà delle coltivazioni domestiche. Un
libro per imparare a conoscere le piante, saperle coltivare in
casa e renderle protagoniste della buona tavola.
“Non sono io che curo l’orto, è l’orto che cura me”, in queste
parole c’è il tema conduttore dell’ultima fatica editoriale di
Martino Ragusa “Orto e Mangiato”, edizioni Sperling & Kupfer.
Un manuale ragionato sulle coltivazioni domestiche utilizzando
i vasi, eccellente soluzione per i piccoli spazi. Un ritorno
alle origini per curare spirito e corpo, un modo per
recuperare i ritmi della natura, dove tutto è equilibrio.
E’ la “febbre dell’orto” che l’autore vuole trasmettere ai
lettori, per riscoprire gli odori e i sapori della civiltà
contadina in via d’estinzione, sacrificata sull’altare di una
modernità che omologa i sensi. Nelle 50 piante selezionate
dall’autore con le relative schede con le caratteristiche di
ciascuna e le cure necessarie per la crescita, sembra di
risentire i profumi perduti e genuini di prodotti naturalmente
biologici che un mercato senza regole ha trasformato
artificialmente.
Ma il libro di Martino Ragusa va oltre, offrendo anche altro.
Un ricco ricettario per guidare i palati raffinati a
trasformare i prodotti dell’orto in piatti sani e sfiziosi; un
modo per accompagnare gli appassionati dalla terra alla
tavola, in un tripudio dei sensi. Seguendo i consigli
dell’autore, sarà possibile gustare prodotti autenticamente a
chilometro zero, diffondendo un hobby sano, divertente, che fa
socializzare e soprattutto costa poco.
Piero Rotolo
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Anguria e cocomero o melone e
popone a tavola?
Piuttosto che parlare di carne, con questo caldo è meglio
pensare ai frutti che più si associano all’idea del
dissetarsi, con la dolce polpa ricca di acqua (90%), vitamine
specie A e C, zuccheri naturali, sali minerali, diuretica
quanto basta per la reidratazione, però ci accorgiamo che ove
andiamo in giro per l’Italia non capiamo se mangiamo anguria o
cocomero, melone o popone.
È vero, i nomi sono varianti regionali, ma quello che molti
non sanno è che i termini cocomero, dal latino «cocumiscocumeris», e anguria, dal tardo greco «angurion», significano
“cetriolo” e lo stesso cetriolo in Grecia veniva chiamato
cocomero, come tale citato da Virgilio.
È risaputo che nelle regioni del centro-sud è conosciuto il
cocomero e nel nord l’anguria, dove – a complicar le cose – il
termine cocomero o meglio “cocumer(o)” è riservato al
cetriolo, “cucumis sativus” (anche in francese cetriolo si
dice «concombre»).
Ma la confusione non finisce qui: nel meridione il cocomero è
anche chiamato “melone” o meglio melone d’acqua (in inglese
«Watermelon»), mentre al nord “melone” è il melone (in inglese
«Melon» o «Muskmelon»), ossia il “Cucumis melo”, alias il
toscano “popone” alias meridionale “baciro” se non anche
“melone da pane”.
Inoltre tutti questi non sarebbero propriamente dei frutti,
perché in botanica sono considerati ortaggi, della famiglia
delle Cucurbitacee, piante a fusto strisciante, stretti
parenti del cetriolo e anche della zucca e delle zucchine.
Al di là di tutte le nomenclature che fanno girar la testa,
come si mangiano anguria-cocomero-melone?
Normalmente viene servita sul piatto una fetta con la scorza e
sono necessari forchetta e coltello, posate da dessert, con i
quali si ricavano frazioni di polpa da portare alla bocca uno
alla volta.
Di regola, le fette servite dell’anguria dovrebbero essere già
sufficientemente liberate dai semi, quelli rimasti vanno tolti
con la punta del coltello ma senza fare prima scempio della
polpa. Se ce li trovassimo in bocca, in linea di massima
dovremmo seguire la regola che impone che qualunque cosa
portata alla bocca con la forchetta e non deglutibile si
deposita sulla forchetta stessa e poi da questa nel piatto, ma
io ho visto qualcuno avvicinare addirittura il coltello alle
labbra e trasferirvi i semi. Forse perché sarebbero sfuggiti
tra i rebbi della forchetta? Tuttavia pare lecito raccoglierli
nell’incavo del pugno (come i semi dell’uva), senza emettere
certi suoni tipici del soffio, per poi depositarli nel piatto
con movimento semplice e naturale.
Le fette del melone, invece, devono essere servite già
ripulite dai semi e quasi interamente già staccate dalla
scorza, e assaporate anch’esse con coltello e forchetta.
Non è prudente cimentarsi a tagliare la scorza per accorciare
la fetta, ne va dell’equilibrio del resto e poi non ha senso.
Non è salutare raschiare la polpa residua aderente alla scorza
perché lo strato bianco non è digeribile.
Alla fine, le posate vanno lasciate allineate a destra delle
scorze.
donna Maura
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Perché la successione delle
portate è un cliché da cui
non si sgarra?
Chissà se qualcuno si è mai posto la domanda. È proprio così
scontato che le minestre, liquide e asciutte debbano essere
mangiate prima della carme? chi ha stabilito che nei convivi
di eccelso livello il pesce vada presentato prima dell’arrosto
di carne? E da dove deriva le regola che la frutta debba
chiudere il pasto dopo il dolce, a parte il caffè da buon
ultimo?
È di sicuro una sorpresa per molti venir a sapere che non è
stato qualche estroso nutrizionista dello scorso secolo a
stabilire la sequenza delle pietanze, bensì medici filosofi
vissuti millenni orsono i quali classificarono gli alimenti in
positivi e negativi per l’organismo, e tale catalogazione
venne fatta propria dalla medicina europea fino al 1500-‘600.
Fu, infatti, il sapere di Ippocrate (V-VI a.C.) ripreso da
Galeno (I-II d.C.) a fondare la teoria degli “umori” connessi
alla salute e alla alimentazione, secondo cui i cibi
facilmente digeribili dovevano essere consumati per primi,
seguiti gradualmente dai piatti più pesanti.
Pertanto la sequenza corretta, accettata ed applicata, fu:
antipasti, minestre liquide, minestre solide, pesce, carne,
insalate, formaggi, dolci-pasticceria, frutta (“ab ovo ad
malum”, “dall’uovo alla mela”).
Si credeva che, se questa sequenza non fosse stata rispettata,
i cibi pesanti sarebbero sprofondati verso la fine dello
stomaco, bloccando il condotto digerente in maniera tale che
la digestione sarebbe stata estremamente lenta, provocando la
putrefazione del corpo e attirando gli umori cattivi
all’interno dello stomaco.
Era anche di vitale importanza che cibi dalle differenti
proprietà, di natura calda e secca, fredda e umida, non
venissero mischiati: per esempio proteine animali con i
carboidrati, come si dice oggi e come il diplomatico artefice
del cosiddetto “servizio alla russa” ha applicato alle sue
mense agli inizi del 1800, nauseato dall’ammasso di sapori e
odori di quelle pietanze che troneggiavano tutte assieme sulle
mense nobiliari e che i commensali mischiavano per saziarsi,
senza alcuna priorità.
È ben vero che alcuni nutrizionisti moderni incitano a far
precedere il pasto da un piatto di verdure, giacché a loro
dire “ingannano” lo stomaco e fanno percepire un senso di
sazietà, gonfiandolo, ossia dando veloce inizio alla
macerazione. È certamente un buon trucco, visto con i miei
occhi anche in certi ristoranti che servono la terrina delle
verdure facendoti attendere un bel po’ la carne o il pesce,
finché non svuoti il contenitore.
Ma in realtà basterebbe che ognuno eviti di alternare una
forchettata di carne con una di contorno, crudo o cotto,
seguendo anche il consiglio del Galateo stesso che dice di non
ingarbugliare i cibi nel piatto ma di assaporarli uno alla
volta.
A volte nei grandi banchetti i cuochi stellati applicano tali
dettami della medicina antica senza saperlo, per esempio
quando presentano un consommé o un sorbetto al momento giusto
di stacco tra portate importanti.
Con buona pace di chi (la categoria dei dietologi in primis)
crede di aver scoperto l’acqua calda.
donna Maura
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Documentiamoci sul mangiare
crudo
Essere crudisti significa mangiare frutta e verdura, germogli
e semi e seguire le regole comportamentali dell’igienismo: uno
stile di vita che aiuta a disintossicare mente e corpo
trattando gli alimenti alla temperatura massima di 45 °C. Il
crudismo del libro è vegano e non comprende l’uso di
latticini, uova, zucchero o farine raffinate.
Nella prima parte del libro si descrivono le principali
operazioni di questa cucina dalla scelta degli alimenti alla
loro pulizia e taglio, dalla marinatura, all’estrazione dei
succhi, dalla fermentazione, all’essiccazione, soffermandosi
sull’utilità di alcuni strumenti come mixer, frullatori,
estrattori ed essiccatori. Grande spazio viene dato anche
all’arte del condimento. La seconda parte è dedicata alle
ricette dagli aperitivi agli antipasti, dai primi e secondi
alle insalate e “formaggi”; senza dimenticare il pane e i
crackers, le salse e i condimenti e naturalmente i dolci. Un
libro indispensabile non solo per chi ha scelto
un’alimentazione crudista. A tutti fa bene aumentare la
presenza di alimenti crudi nella propria alimentazione.
Laura Cuccato
Architetto e web designer appassionata di piante e cucina.
Conosce l’igienismo durante il primo di cinque digiuni e lo
applica come stile di vita.
Nel 2006 nasce “Salto nel Crudo”, il sito e blog, attraverso
il quale promuove eventi e corsi nel nord Italia dove vive.
Nel 2011 cura le ricette di “Il crudo è servito” e nel 2012
quelle di “Frullato e Mangiato”, collabora con la rivista Open
Kitchen Magazine.
Michele Maino
Giornalista, fotografo, interprete, traduttore e appassionato
viaggiatore, ha vissuto a lungo nei Paesi arabi. Al suo
ritorno in Europa si è avvicinato alle terapie naturali e alla
macrobiotica abbracciando l’etica vegetariana.
Nel 2009 ha frequentato, a Parigi, la scuola di alta cucina Le
Cordon Bleu, diventando chef e, dopo una serie di esperienze
di lavoro e formazione in diversi ristoranti stellati e non,
tra cui Ze Kitchen Gallery a Parigi, dove ha approfondito la
cucina fusion, e Joia dello chef Pietro Leemann a Milano, ora
si dedica all’insegnamento della cucina naturale e fusion e
lavora a Milano all’Osteria 55. Collabora con la rivista
Cucina Naturale.
La cucina crudista
di
Laura Cuccato, Michele Maino
Pagine 128,
Prezzo: 9,90 €
Codice copertina 2904-6
Edito da Tecniche Nuove spa
Disgusta il taglio
carne in tavola?
della
Non è una domanda retorica, leggendo la letteratura in
proposito mi è sorto il dubbio che forse qualche commensale
potrebbe avere il voltastomaco non tanto nell’assistere alla
spartizione del pasticcio al forno quanto piuttosto nel
vedermi tranciare la faraona o il tacchino o lo stinco di
maiale, e pure il mio fantastico brasato, davanti ai loro
occhi. O forse sono i coltellacci ad impressionare?
È vero che già a metà dell’opera la pirofila assomiglia ad un
campo di battaglia e che ci vuole grande arte per fare le
porzioni uguali per tutti, lasciando indietro i pezzi peggiori
da mettere nel piatto del marito e specie nel mio, ma,
assistendo a ciò in casa d’altri, io non mi sono mai
“disgustata”, forse perché sono una che guarda senza battere
ciglio CSI, quei telefilm dove il tavolo anatomico è quasi
sempre in primo piano …
Eppure, per decine di secoli il presentare interi gli animali,
cucinati con tanta maestria e farciti a fantasia, costituì un
lussuoso vanto per il padrone di casa e un privilegio per chi
veniva incaricato dello “scalco”, affiancato dalla figura
tecnica del “trinciante”, ancora fino al 1600 presso tutte le
corti principesche. Nel ‘700 questo è diventato un compito che
i nobili e i ricchi borghesi cominciano ad assumersi in prima
persona nei sontuosi banchetti, secondo lo stile che poi venne
chiamato “alla francese”. Infatti, nella nuova tendenza è il
padrone di casa che orgogliosamente taglia il maialino davanti
a tutti, mandando a ciascun commensale, attraverso il
servitore, il piatto riempito.
Ma agli inizi del secolo successivo, una vera “rivoluzione”
introdotta in Francia da un diplomatico russo scompagina la
«mise en place», dalle tavole spariscono i contenitori, i
trionfi, le alzate con il bendiddio esposto, dalle cucine le
pietanze escono in sequenza secondo le portate e il «joint»
per le carni viene eseguito su un tavolino a parte, chiamato
«guèridon», dove il padrone di casa trancia e affetta senza
avere addosso gli occhi degli ospiti, con grande gioia delle
raffinate dame commensali.
Nemmeno questo sistema, più discreto, piacque a tutti,
cosicché in alcuni manuali di Galateo del secondo ‘800, come
quello redatto nel 1877 dalla “Marchesa Colombi”, pseudonimo
di Maria Antonietta Torrioni, emerge che è comunque
considerato barbaro e grossolano costume e “da osteria”
assegnare le porzioni, perché agli ospiti deve essere lasciare
la libertà di servirsi da sé, come ai vecchi tempi.
Così, seguendo il consiglio del galateo ottocentesco, dopo
aver presentato agli ospiti in sala la pietanza nella sua
interezza per il godimento della loro vista, la padrona di
casa torna in cucina con la pirofila, fa le parti che servono,
le sistema con decoro e porta in tavola il vassoio con i pezzi
già tagliati, in modo che gli ospiti si servano da soli.
Dobbiamo però preoccuparci che la pietanza da allestire in
cucina si mantenga alla temperatura giusta per il tempo di
fare le parti, auspicando che i nostri ospiti riescano a
conservare l’acquolina in bocca finché ritorniamo da loro.
Ma poi, chi ci obbliga a far vedere in anteprima la nostra
opera tutta intera?
donna Maura
[email protected]
Il look dell’evento
L’etichetta della tavola pretende che tutto l’apparato sia
adeguato al genere di ricevimento organizzato, giacché
l’allestimento per pranzi seduti o in piedi, a tavolata o
buffet, per poche o tante persone, e loro età, per circostanza
dell’evento, carattere formale o informale, muta notevolmente
e di conseguenza lo stile di servizio deve adattarsi. Beh, non
per niente si usa dire “arte del ricevere”.
Ho recentemente disquisito su quanto sia importante l’abito da
indossare a seconda delle occasioni per adeguarsi al “tono”
dell’incontro, ed ora aggiungo che l’evento stesso incide
anche sull’apparato dell’ambiente. Per esempio, un convivio a
cui sono invitate persone importanti richiede un allestimento
molto curato fin nei minimi particolari, dall’arredo della
sala a quello della tavola, con il vasellame migliore ed un
raffinato menù, non tanto “per apparire” quanto piuttosto per
un riguardo agli ospiti, come è sempre stato nella più antica
consuetudine dell’ospitalità, a tutte le latitudini e presso
tutte le civiltà.
Ciò non vuol dire che, invitando a pranzo parenti o amici, si
possa preparare la tavola con le stoviglie sbeccate e la
tovaglia macchiata, o rinunciare a un grazioso centrotavola
floreale, o non curare la scelta dei vini. Semplicemente, in
relazione al trattenimento che si vuole organizzare bisogna
disporre del giusto arredo.
Ne deriva che una differente «mise en place» condiziona
l’atmosfera.
Ogni brava padrona di casa deve avere l’accortezza di abbinare
lo stile della «mise en place» al menù.
Vogliamo stupire i nostri ospiti con pietanze della cucina
rustica, quella con gli ingredienti semplici, quella della
tradizione locale, quella della nostra infanzia? È ovvio che
dovremo possedere anche stoviglie e bicchieri adatti, nonché
tovaglie, perché giusto ricreare l’atmosfera spensierata della
tavola semplice, dei tempi in cui contava l’allegria del
ritrovarsi tutti assieme a mangiare.
Vi assicuro che una zuppa di cipolle o un brodetto di pesceo o
il caciucco livornese serviti in piatti di fine porcellana
bavarese col profilo d’oro zecchino non hanno lo stesso sapore
che se invece serviti in ciotole di cotto. E altrettanta
stonatura nella degustazione di una bagna cauda o di una
fondue bourguignonne o di una selezione di formaggi e salumi
la avverto se è stata stesa una candida tovaglia di bisso e mi
trovo in mano posate d’argento.
Come ci si può divertire in queste condizioni? Si perde tutta
l’atmosfera che queste pietanze di per sé ispirano…
«Il contenitore è determinante perché esalta o svilisce la
preparazione» affermano gli esperti gastronomi.
E che dire di un ricevimento in piedi con una quarantina di
persone e un buffet di alta gastronomia se vi fanno bere vino
d’annata o spumante in bicchieri di carta, con la
giustificazione che la casa non possiede sufficienti bicchieri
di cristallo! A quel punto, io personalmente perdo il gusto
anche del cibo! E perdo anche l’umore.
È veramente questione di stile!
donna Maura
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Chi prenota in ristorante è
sempre il “padrone di casa”?
non è sempre vero
Quando, per mille motivi, non si vuole organizzare una cena in
casa, si ricorre al ristorante prenotando a proprio nome un
tavolo, una tavolata o una sala per un certo numero di posti
quanti gli invitati, ovviamente con la cura di preavvisare il
locale sulla forma del ritrovo ed avvertendo con garbo tutti
gli “ospiti”. Ciò evita ogni dubbio su chi salderà il conto.
È regola che chi prenota al ristorante col proprio nome viene
considerato il “padrone di casa”, per cui oltre ad essere il
primo destinatario delle attenzioni, ad esempio per la scelta
dei vini, diventa anche l’ultimo con la presentazione del
conto. Se ciò corrisponde al programma della conviviale, non
ci dovrebbero essere problemi per il servizio, il “padrone di
casa” (alias “anfitrione”) va servito per ultimo, come fosse a
casa sua. L’unico problema per il personale è sapere se è solo
o accoppiato, dato che i “padroni di casa” vanno entrambi
serviti per ultimi, lei ultima delle signore, lui ultimo dei
signori.
Pertanto, è meglio farsi riconoscere dal maitre, il quale darà
adeguate disposizioni.
Ma non sempre tutto va liscio secondo le regole. Quando le
ordinazioni sono libere, alla carta, le pietanze in cucina
vengono preparate secondo il criterio dello chef e in tale
sequenza entrano in sala. Eppure come non infastidirsi quando
tra i commensali che hanno ordinato la medesima pietanza i
piatti vengono assegnati senza logica se non quella della
celerità di servizio? La regola delle precedenze va a farsi
benedire. Bisogna adattarsi ed aspettare che tutti siano
serviti prima di afferrare la posata.
Inevitabile si presentino contrattempi nella forma del
servizio, facile salti la graduatoria con il rischio che
l’ospite principale resti ad attendere la sua pietanza mentre
l’ospitante è già servito. Un disastro per il promotore della
conviviale!
Non è molto elegante, ma è ultra-consigliabile concordare
preventivamente un menù fisso, in caso di convitati numerosi.
In tal modo i camerieri non possono sbagliare le precedenze.
Ma se in ristorante arriva una famigliola o un ridotto gruppo
di commensali, avendo una voce femminile prenotato il tavolo,
chi assicura il responsabile del servizio che il nome della
targhetta sul tavolo riservato corrisponda a colui che invita
e quindi paga e, a rigor di norma, dovrebbe essere servito per
ultimo? Si può pensare che una signora paghi per tutti senza
che lo abbia specificato all’atto della prenotazione? Perché
deve essere servita per ultima?
Ebbene come si fa a non provare contrarietà se il giovane
cameriere, portando tre piatti, posa il coperto prima alla tua
giovane e carina figliola poi a tuo marito e infine a te? Chi
sei tu per lui? Il portafoglio matriarcale? Come fa a saperlo?
Dove sono finite le regole delle precedenze? Qui siamo agli
antipodi dell’esempio dell’articolo precedente dove ho
raccontato della caposala che disponeva il servizio scendendo
d’età tra tutte commensali donne.
Le vecchie scuole insegnavano la «regola della persona più
importante», in verità non semplice, perché implica
attenzione, intuizione e buon senso. Ma dove si impara che una
ragazzina è più importante della sua veneranda madre e
quest’ultima addirittura meno del marito?
donna Maura
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Un invito in Francia
A cura dell’Ente per lo sviluppo del Turismo Francese è stato
pubblicato il magazine Rendez-vous en France 2013 che racconta
la Francia e la sua arte di vivere, l’arte, la cultura, la
gastronomia e i vini, le destinazioni più seducenti, i grandi
eventi, l’ecologia.
Tanti i suggerimenti da cui attingere per programmare un
viaggio: Parigi insolita e il parco Disney, Nantes capitale
verde d’Europa e l’arte nella città, il Nord-Pas de Calais
inserito nel Patrimonio mondiale dell’Unesco con il nuovo
Louvre-Lens, la Normandia degli impressionisti e Marsiglia
capitale europea della cultura 2013, il 100° tour de France,
Lione, Chambéry, la Costa Azzurra… e quella di oltremare,
i
Caraibi Francesi, la Guadalupa, la Nuova Caledonia.
Rendez-vous en France 2013 verrà allegata al mensile Elle di
maggio (in edicola da fine aprile), distribuita in tutte le
boutiques Occitane, nei lounges Air France, sui TGV delle
linee Italia-Francia.
La
versione
digitale
www.rendezvousenfrance.com/rivista.
Piera Genta
[email protected]
si
trova
su
Ma che criterio
dell’età?
è
quello
Andando per locali se ne vedono di tutti i colori tra i
comportamenti dei camerieri, anche nei migliori, dove si
suppone che alla qualità del cibo e al prezzo di un pasto
corrisponda uno stile di servizio all’altezza, specie se gli
chef sono rinomati e tengono scuole di cucina. Possibile tanta
mancanza di delicatezza?
Non parlo qui dei piatti sbattuti sulla tavola o di quelli che
ti arrivano freddi da buoni ultimi, e neanche dei modi
ineleganti di metterteli davanti, voglio parlare della «regola
della precedenza», ossia del «criterio della persona più
importante» della tavolata da servire per prima.
A volte viene interpretato nel senso che le signore sono
valutate ‘rilevanti’ in considerazione della loro età e si
assegnano le priorità a scalare, come è capitato al mio tavolo
nel ristorante di un lussuosissimo albergo durante una
colazione di lavoro tra donne in carriera, con disappunto di
un paio delle ospiti “prescelte”.
Ecco il brutto: quale Signora è felice di essere considerata
“la più anziana”? Chi si sente favorita quando, in base alla
“anzianità” scelta dal direttore di sala o dal semplice
commis, viene servita per prima, seguita dalle altre a scalare
di anni? Se le donne presenti sono d’età più o meno
equipollente, come fa il personale a stabilire la sequenza?
Chiede le carte di identità alle commensali?
Corre voce che sia questione di occhio allenato, ne diamo
atto, ma gli addetti al servizio come se la cavano davanti i
talenti di Madre Natura (o del chirurgo estetico) che
trasformano la sostanza in apparenza e rallentano
l’invecchiamento?
Assisto a scene desolanti. Il personale, saltando di qua e di
là, cerca di mettere il piatto davanti alla persona che
ritiene giusta e i successivi vengono piazzati distanziati,
secondo l’occhio anagrafico del cameriere. Nel frattempo le
signore servite, che hanno capito, si guardano l’una l’altra
studiandosi, mentre le altre tirano sospiri di sollievo per
essersela cavata.
Ci sarebbe un criterio corretto da osservare in tutti i
convivi informali: si assegna il piatto alla signora che siede
alla destra di chi funge da padrone di casa (o anche alla più
marcatamente “anziana”) e si avanza di coperto in coperto
senza cercare capelli grigi o rughe; se nel mezzo si trova
seduta una signorina o una donna visibilmente giovane, non la
si salti, per favore, come talvolta accade, mortificandola.
Superfluo ricordare che la tavolata deve attendere che tutti
abbiano il piatto prima di por mano alle posate.
donna Maura
[email protected]
A colazione di lavoro vestiti
a tono
Molte persone sono convinte che il modo di vestire non debba
incidere sull’immagine di sé da offrire agli altri e che
curare l’abbigliamento adattandolo alle occasioni sia una
sovrastruttura mentale arcaica, la sopravvivenza di una
mentalità borghese, retaggio di epoche ormai finite, concluse,
morte e sepolte.
Beh, costoro prima o poi saranno costrette a cozzare contro la
dura realtà, e si renderanno conto che molti veterani della
rivoluzione sessantottina ora sono ultrasessantenni manager in
giacca e cravatta e camicia stiratissima, professioniste
sempre fresche di parrucchiere, manicure e massaggi
tonificanti. Dunque la “apparenza” conta, eccome! Provino i
giovani odierni andare a un colloquio di lavoro in jeans
sdruciti e top slambricciati e vediamo se vengono assunti.
Persino i piercing e i tatuaggi evidenti sono elementi
discriminanti, ed è inutile protestare!
Più sono elevate le responsabilità più deve essere curato
l’aspetto, perché si deve dare un’immagine di affidabilità e
di serietà. Intramontabile criterio.
Ebbene, le colazioni di lavoro hanno molteplici funzioni,
servono ad accaparrare clienti e fornitori, mettere le basi
per stipule di contratti, festeggiare un importante business
aziendale, possono servire a probabili soci per conoscersi
meglio prima di stringere accordi. Non è nell’interesse di
entrambe le parti presentarsi al meglio nel look oltre che
nelle idee da mettere sul piatto dello scambio?
«L’abito non fa il monaco» è uno slogan utilizzato da chi
rifiuta che l’apparenza coincida con la sostanza e pensa che
il messaggio da trasmettere sia talmente importante che
l’interlocutore lo recepisca al di là del modo di
porgerglielo.
Tuttavia si deve capire che l’aspetto di una persona, ossia il
modo in cui si presenta, costituisce un elemento del
linguaggio non verbale (“abbiamo una sola occasione per dare
la prima impressione”) e dice molte cose di noi, sulla nostra
educazione, sul nostro modo di pensare. E come ben si sa il
linguaggio non verbale, cioè tutto ciò che ha a che fare con
immagine, portamento e comportamento, ha un impatto emozionale
molto più elevato del contenuto delle parole.
Non si tratta di vestirsi adeguatamente al contesto
semplicemente per etichetta o formalità, quanto piuttosto di
utilizzare l’abbigliamento quali strumenti al nostro servizio
e alla nostra causa!
Vestirsi “a tono” per una colazione di lavoro, pranzo o cena
che sia, significa semplicemente presentarsi non nell’abito
più comodo per la giornata di lavoro, bensì in quello che
corrisponda al proprio ruolo e sottintenda rispetto per coloro
che saranno i commensali, anche tenendo conto del posto in cui
si svolgerà la conviviale.
Alle signore consiglio di non esagerare nello sfoggio né di
gioielli veri o di bigiotteria, né di pomposità e scollature,
di poco buon gusto in queste occasioni.
Purtroppo anche l’abbigliamento più curato sarà ridicola
apparenza se in questi incontri davanti ad una tavola si
mostrerà l’ignoranza delle regole fondamentali del Galateo.
donna Maura
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