Marco Bellabarba, La giustizia nell`Italia moderna.

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Marco Bellabarba, La giustizia nell`Italia moderna.
Erste europäische Internetzeitschrift für Rechtsgeschichte
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Rezension vom 05. März 2009
© 2009 fhi
Erstveröffentlichung
Zitiervorschlag:
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ISSN 1860-5605
Marco Bellabarba,
La giustizia nell’Italia moderna.
Roma-Bari: Editori Laterza 2008, 219 S., € 24.-, ISBN 978-88-420-8714-4.
Rezensiert von: Giorgia Alessi (Napoli)
Il volume di Marco Bellabarba esprime bene una lunga stagione di studi sulla giustizia segnata dalla dimensione “antistatalista”, cioè da una messa il discussione del nesso univoco
e strettissimo che la storiografia giuridica tradizionale stabiliva tra percorsi della giustizia e
formazione dello Stato. Una stagione il cui momento iniziale può essere, con tutte le inevitabili forzature, segnato dalla pubblicazione, negli anni ’80, del volume Crime and Law:
the social History of Crime in Western Europe since 15001, e che ha avuto momenti significativi in opere collettanee dalla forte dimensione multidisciplinare, come quella curata, da
John Bossy – Disputes and settlements. Law and Human Relations in the West2 – apparsa
nel 1983 o come gli studi pubblicati nel 1994 da Benoît Garnot, dal titolo L’infrajudiciaire
du Moyen Age à l’époque contemporaine3. Nel 2001, il volume dedicato a Criminalità e
giustizia in Germania ed in Italia4, curato dallo stesso Bellabarba insieme a Gerd Schwer-
1
V.A.C. Gatrell, B.Lenman, G.Parker (a cura di), Crime and the Law:The Social History of Crime
in Western Europe since 1500, London, Europa Publications 1980: nella raccolta era compreso il
saggio di Lenman e Parker , dal titolo The State, the Community and the Criminal Law in Early
Modern Europe, che introduceva una dicotomia, quella tra «State law» e «community law», che
avrebbe avuto grande seguito nella discussione storiografica sul tema della giustizia.
2
John Bossy (a cura di), Disputes and Settlemets. Law and Human Relations in the West, Cambridge London New York New Rochelle Melbourne Sydney, Cambridge University Press 1983. Nella stessa prospettiva W. Davies, P. Fouracre (a cura di), The Settlement of Disputes in Early Medieval Europe, Cambridge London New York New Rochelle Melbourne Sidney, Cambridge
University Press 1989.
3
B. Garnot, L’infrajudiciaire du Moyen Age à l’époque contemporaine, Dijon, Editions
universitaires de Dijon 1989.
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M.Bellabarba, G. Schwerhoff, A. Zorzi (a cura di), Criminalità e giustizia in Germania e in Italia.
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hoff e Andrea Zorzi faceva il punto su questa nuova fase degli studi, riaffermando una prospettiva storiografica che poneva al centro della scena, piuttosto che le procedure formalizzate, i possibili modi di risoluzione del conflitto nella prima età moderna: dalla pace privata, alla transazione, alla vendetta.
Quest’orizzonte intellettuale spiega bene uno dei fili conduttori del volume, reso del resto
esplicito dall’autore sin dalle prime pagine: il tentativo cioè di porre costantemente in relazione il livello alto del potere, con le sue strategie regolamentari e discorsive e quello basso
delle richieste, resistenze, rappresentazioni diffuse di giustizia. E tuttavia – questo è un
punto importante – nonostante l’insoddisfazione per l’operato dei giudici, anche tra coloro
che sono soggetti alle leggi, il diritto è un bene comune«... Il senso dei limiti, delle corde
che legano il principe alla giustizia si avverte anche tra coloro che sono soggetti alle leggi:
essi scorgono giorno per giorno nella lingua del diritto una barriera capace di limitare
l’arbitrio dei potenti, un freno alla volontà e alle decisioni ingiuste del potere politico»
(p.XVI).
2
Il dibattito sulla giustizia diviene particolarmente denso dai primi decenni del ‘500, che
annunciano ad un tempo il rafforzamento della giustizia del “principe” e la furiosa resistenza – popolare ed aristocratica - ai nuovi paradigmi della giustizia togata. A metà del secolo,
la Giustizia di Bruegel mostra la figura di una donna bendata, armata ed inesorabile al centro di uno scenario desolato di tortura e di morte. Nell’Italia divisa, e dilaniata dalla lotta
politica e da violente transizioni di regime, riforme istituzionali e interventi legislativi tentano di risolvere questioni urgenti «come rifondare gli assetti costituzionali e il potere delle
oligarchie locali attraverso il controllo della giustizia? Come mantenere la soggezione dei
ceti popolari mentre gli assetti politici di un tempo si disfacevano e i privilegi aristocratici
venivano criticati aspramente»? (p. 13)
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Una risposta comune guarda al rafforzamento degli apparati di giustizia: a Milano, il Senato emana, nel 1541, il corpo di quelle Novae Consitutiones che contribuiscono – come
qualche critico osservatore non manca di sottolineare – ad ampliarne i poteri; a Firenze,
l’istituzione della Rota nel 1502 aumenta il controllo sulla rete periferica dei giusdicenti; a
Venezia il Consigli dei Dieci, da sempre incarnazione di una giustizia elitaria, moltiplica le
competenze sui reati e adotta procedure abbreviate, distanti dalle formalità dell’ordo judiciorum, sia pure nella sua versione ormai inquisitoria. Più complessa la situazione dei regni
meridionali, ove la questione giustizia si scontra con più radicati privilegi giurisdizionali,
ed il rapporto società-giustizia è segnato da sofferenze di lunga durata. Alla pratica dei baroni siciliani, di “comporre” in denaro delitti anche gravissimi, alla loro mai sopita vocazione ad assoldare uomini armati e pregiudicati, Carlo V oppone le prammatiche messinesi
del 1535, che contemplavano pene severisime – sino alla confisca del feudo per i baroni ed
alla pena di morte per gli ufficiali regi – per ogni forma di protezione a banditi e fuoriusciti.
Anche nella parte continentale del regno, gli interventi incisivi del vicerè Toledo, che rafforza in funzione antibaronale gli elementi togati delle magistrature, e sottopone a più stretti controlli l’esercizio della giustizia tanto nelle terre baronali che in quelle regie, suscitano
una fiera opposizione dei baroni – per una giustizia che pretende di giudicare allo stesso
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Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna. Kriminalität und
Justiz im Deutschland und Italien. Rechtspratiker und gerichtliche Diskurse in Spätmittelalter und
Früher Neuzeit , Bologna, il Mulino/Berlin, Duncker & Humblot 2001.
modo il nobile e l’ignobile - ma anche un diffuso malcontento popolare contro un personaggio che pretende di comportarsi come un re: quando la protesta esploderà, nei moti violenti del 1547, essa impugnerà argomenti di lunghissima durata, accusando il vicerè di lacerare, con le sue pretese di riforma, il tessuto antico della “costituzione del regno”, di violare
un « patrimonio di norme, consuetudini e privilegi di cui tutti, non solo il sovrano, sono
depositari» (p.38). Il tentativo di rendere più efficente la giustizia penale facendo ricorso
alle procedure delegate, eccezionali, juris ordine non serbato, determina la migrazione del
baronaggio siciliano verso il foro inquisitoriale, e la pressante richiesta del braccio nobile
del Parlamento di limitare la procedura ex abrupto, come la possibilità di tortura sulla base
del mero processo informativo, alle persone infamate, e solite a delinquere. La tensione su
questi punti perdurerà ancora nei primi decenni del ‘600.
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Il tema delle procedure speciali non riguarda soltanto i regni meridionali: nella svolta di
fine ‘500, negli antichi stati italiani – da Venezia a Firenze, allo Stato pontificio – la tipologia dell’inquisitio extra ordinem erode a poco a poco il terreno dei processi inquisitoriali
ordinari generando una scia di proteste e malumori e conseguenze importanti sulla gerarchia delle corti. Dal momento che la possibilità di adottare procedure straordinarie è riservata ai tribunali superiori ed ai loro delegati, essa segna una discontinuità, e conferma la
distanza qualitativa tra le magistrature supreme e la rete delle altre corti diffuse sul territorio.
5
Ad evitare l’esito di procedure segrete e severissime, interrompendo il corso – del resto per
niente inesorabile – dell’inquisizione, intervenivano, ancora numerose nell’Italia della prima età moderna, le paci private, che riaffermavano spesso mediazioni influenti ed equilibri
locali sconvolti dalle procedure di giustizia. Bellabarba, nel raccontare di queste pratiche
diffuse5, registra la perplessità dei giuristi, la loro contrarietà a che il conflitto grave fosse
sottratto all’intervento della giustizia pubblica: come nel caso del veneziano Lorenzo Priori,
autore di una pratica criminale di grande diffusione, che denunziava la possibilità che i rei,
messisi d’accordo con gli offesi, producessero falsi testimoni «a destruttione del delitto et a
delusione della giustizia» (p.122), sottraendosi così alla pena.
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Nel ‘600, la distanza tra corti sovrane e giusdicenti minori viene ulteriormente ampliata
dagli interventi tesi a correggere la rigidità del sistema di prova legale dando spazio alla
“coscienza informata del giudice” nel valutare indizi convergenti e pressanti: indubitati
secondo la terminologia del tempo. Tipiche in questa direzione le prammatiche emanate nel
1621 per il regno di Napoli dal vicerè Zapata, che autorizzavano i giudici dei tribunali superiori ad infliggere le pene ordinarie previste sulla base della ferma credenza del giudice.
Sul fronte della trattatistica (Ambrosini) emergeva il disegno di un processo penale la cui
efficenza fosse assicurata dalla dilatazione enorme della fase informativa, cioè scritta e segreta, che restringesse al massimo il diritto dell’accusato alla conoscenza degli atti ed alla
difesa legale: un inquietante richiamo era rappresentato, in questo senso, dal veneziano
Consiglio dei Dieci, che adottava una procedura rapida, segreta, senza difensore in giudizio.
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Le respublicae togate, che costituirono una delle risposte “italiane” alla crisi del ‘600, mo-
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Cfr. sul tema, per l’area italiana, il recente volume di O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali
in Italia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari, Laterza 2007.
stravano tratti dissimili in ciascuno degli antichi stati della penisola, ed esercitavano un
ruolo politico assai più rilevante nelle città che nei territori provinciali. All’indubitata centralità dei togati nella città di Napoli – ben dimostrata dal ruolo centrale delle cappe nere
durante la rivoluzione del 1647 – faceva da contrappeso l’élite giuridica della provincia,
che stentava ad emanciparsi, particolarmente in Sardegna ed in Sicilia, dalla deferenza verso i feudatari. Se nel regno del Piemonte o nel ducato di Milano, il peso delle grandi magistrature, pur non paragonabile a quello dei regni meridionali, era tuttavia rilevante, le città
di formazione commerciale e aristocratica, come Genova, Venezia, e Lucca si mostravano
più diffidenti nei confronti dei giuristi, e decise a limitarne la scalata a ruoli di potere. Il
diverso peso politico esercitato dai togati si riflette nel grado di ostilità o nelle possibili
complicità poste in essere dai patriziati cittadini o dalla nobiltà feudale nei confronti dei
giuristi. Dappertutto, le vecchie oligarchie urbane manifestavano un misto di diffidenza e
d'invidia quando si sentivano escluse dall'amministrazione della giustizia o ferite nei loro
privilegi di ceto, ma si capisce che la coabitazione fosse particolarmente difficile nel regno
meridionale, dove l'odio dei nobili napoletani esplodeva nell'accusa contro «l'altura così
intolerabile in cui stanno tutti li togati » (p. 144). Negli ultimi decenni del secolo, la perplessità per un potere dei giudici sempre più esteso e sfuggente suscita gli interventi dell'assolutismo tesi a semplificare la gerarchia degli apparati di giustizia: la stessa repubblica
veneziana guarda con favore all'esempio delle grandi ordonnances francesi, che hanno puntigliosamente fissato limiti ai poteri dei giudici; a Roma viene istituita una Congregazione
per la riforma dei tribunali, per riaffermare regole certe e la supremazia della volontà sovrana; a Firenze la creazione della Ruota criminale da parte di Cosimo III ( che però la sopprimerà nel 1699 ), attesta una precisa volontà di razionalizzazione della giustizia penale
rispetto alla quale la tradizionale magistratura degli otto di Guardia e di Balia si era mostrata inadeguata.
L'ampliamento dell'arbitrium delle corti sovrane che aveva caratterizzato il XVII secolo
nutre la critica serrata al potere dei giudici che scandisce i decenni centrali del secolo seguente. Da Muratori a Beccaria, la denunzia vibrata degli intellettuali diffonde nella pubblica opinione topoi di lunga durata sui mali della giustizia. Se nei Difetti della giurisprudenza è soprattutto il carattere giurisprudenziale ed incerto del sistema e l'arbitrarietà dei
procedimenti ad essere biasimata, nell'opera ben più corrosiva – e più tarda – di Beccaria il
quadro fosco del sistema inquisitorio viene smascherato anche nei suoi elementi socialmente inutili, mentre la prospettiva utilitarista invoca un rapporto ragionevolmente dissuasivo
tra reato e pena. Mentre ancora il Senato milanese si erige a potenza intermedia tra “principe” e popolo, il gruppo riunito intorno a Beccaria ed ai fratelli Verri è deciso ad appoggiare
la propria rivolta alle decisioni del sovrano. Non solo in Italia, «il potere normativo e non
più, come per i principi cinque secenteschi, la funzione giurisdizionale esprime la summa
potestas dei sovrani» (p.174). Nel richiamo alla supremazia della legge si profilava un'ambiguità ancora irrisolta tra nuova legittimazione del potere legislativo – e dunque il nodo
della rappresentanza – e rafforzamento dell'intervento del sovrano in funzione del bene
comune e della limitazione della mediazione giudiziaria. Nell'area italiana, il riformismo
settecentesco si misura con convinzione con la riorganizzazione del materiale normativo:
Bellabarba ricorda il tentativo di riforma territoriale affidato nel granducato di toscana a
Pompeo Neri; l'azione di Bernardo Tanucci a Napoli, dove le prammatiche del 1738 costituirono il più ampio tentativo di riforma di tutto il periodo borbonico; l'intervento incisivo
delle Costituzioni sabaude, che vietavano a giudici e avvocati ogni riferimento all'opinione
dei dottori.
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L'assolutismo illuminato, tuttavia, affrontava il tema della giustizia e dei suoi mali con una
prospettiva assai diversa da quella che imponeva di correggerne il rigore inquisitorio e la
crudeltà inefficace delle norme penali: affidando cioè il disciplinamento sociale non agli
strumenti formalizzati e tecnici della giurisdizione, ma al sistema parallelo della polizia,
grande istituzione settecentesca, strutturata sui parametri diversi della giustizia economica,
spiccia, esemplare, apparentemente mite e sostanzialmente antigarantista. A questo slittamento dalla giustizia alla polizia, corrisponde, secondo Bellabarba, un mutamento delle
origini per così dire cetuali della violenza, che vede come figure protagoniste non più gli
aristocratici ma le frange emarginate e inquiete provenienti dal mondo rurale, moltiplicate
dall' incremento demografico che caratterizza la seconda metà del secolo. Questa popolazione di sradicati, vagabondi, contadini impoveriti che invadono le città diviene il bersaglio
privilegiato delle forze di polizia, che hanno sostituito largamente le tradizionali istituzioni
ecclesiastiche nei compiti di controllo sociale, disciplinamento delle famiglie e dei costumi.
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La volontà di riforma si arrestava di fronte ad alcune soglie che i sovrani e gli stessi giuristi-politici che dovevano porle in atto esitavano a varcare: prima di tutto, la struttura pluralista del sistema normativo e giurisdizionale d'antico regime. Farne tabula rasa a favore di
una legislazione costruita ex novo rischiava di porre in discussione quel fondamentale concetto di “tradizione giuridica”su cui l'intero edificio dell'antico regime si fondava; attestarsi
sulla linea di compromesso, come spesso avvenne, significava far ancora riferimento al
ruolo fondamentale della mediazione giuridica, alla capacità dei giuristi di raccordare –
talora solo fittiziamente – le tessere composite e talvolta contraddittorie dell’universo normativo del tardo diritto comune. È possibile infatti accostare simbolicamente, come fa Bellabarba nella pagina finale del libro – assumendo il caso dei giudici protagonisti della difesa dell'ordine pubblico nel Piemonte sabaudo battuto dall'esercito rivoluzionario – , il tramonto dei togati e la caduta dell'antico regime: «Ma appena la loro consumata abilità di
mediatori dei conflitti fu spazzata via dagli occupanti napoleonici, la violenza della rivoluzione attraversò da un campo all'altro la penisola e l'antico regime crollò con essa» (p. 207).
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Un racconto così sinteticamente événementiel rischia di lasciare in ombra i molti nodi storiografici con cui Bellabarba si misura, che si stringono soprattutto intorno a due questioni:
la comunicazione tra sfere diverse di giustizia in un quadro di pluralismo normativo ed istituzionale; il ruolo della violenza aristocratica nell’orientare o contrastare le politiche della
giustizia negli antichi Stati italiani.
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Il pluralismo giurisdizionale, dato comune della prima modernità europea aveva, nell’area
italiana, caratteri peculiari dovuti alla presenza di un “sovrano pontefice” e delle sue corti
in una vasta area territoriale; all’irrisolta tensione tra diritto civile e diritto canonico;
all’attività di tribunali inquisitoriali di natura diversa. La molteplicità di fori è stata interpretata, nella fondamentale Storia della giustizia di Paolo Prodi6, come elemento antiautoritario della storia occidentale, dove la tensione tra le diverse sfere di giustizia avrebbe garantito una minore pressione sulle coscienze di quella esercitata dallo Stato monopolista (della
violenza, delle norme, delle istituzioni) della seconda modernità. Anche Paolo Grossi ha
insistito, nei suoi studi7, sulla positiva assenza di un centro unico di irradiazione delle nor-
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P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e
diritto, Bologna, il Mulino 2000.
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Cfr. almeno Paolo Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza 1995; Ancora
me e del potere nel lungo medioevo italiano ed europeo. Bellabarba è assai attento a questa
lezione, e ne approfondisce talune implicazioni antropologiche sottolinendo, ad esempio,
gli aspetti non meramente punitivi dell’ allargamento della legislazione del comando : «
Attraverso i suoi proclami la giustizia disegna i confini morali, prescrive dove corre la linea
tra bene e male, tra condotte giuste e sbagliate, e sorveglia con i suoi guardiani notte e giorno questa linea. Oltre ad essere un catalogo scritto di azioni proibite, essa compone un
grande inventario dei precetti etici dominanti in una società» (p. 81). Il linguaggio giuridico, largamente contaminato da altri saperi, ha perciò larga potenzialità comunicativa, ed è
capace di porre in relazione i segmenti alti e quelli bassi della società: all’interno di questi
ultimi, la concezione della giustizia come bene comune appare dato culturale di lunga durata. Bellabarba è quindi restio a ridurre il diritto a mero linguaggio di potere, e ad attraversare il paesaggio complicato del pluralismo giurisdizionale lungo lo spartiacque segnato dalla
contrapposizione tra community law e State law o, per usare la fortunata espressione usata
da Mario Sbriccoli, giustizia negoziata e giustizia egemonica8.
Certo persistevano, ben oltre la linea segnata dalle grandi regolamentazioni penali del secondo ‘500, le pratiche della pace privata, della transazione, della mediazione amicale; tuttavia l’analisi dimostra che queste forme non furono necessariamente espressione di una
giustizia di comunità conciliante e risarcitoria, ma si rivelano di volta in volta segmenti
perfettamente inseriti nelle procedure della giustizia ordinaria, patti forzatamente imposti
dalla parte più forte alla più debole per evitare gli esiti finali del processo, strumenti di lucro per la giurisdizione feudale. Il tema della giustizia negoziata, tutt’altro che ignorato
dall’analisi, viene così destrutturato come unificante categoria idealtipica, e ricondotto di
volta in volta a specifici contesti e significati.
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Tra istituzioni e comunità si situa lo spazio ampio e tumultuoso della violenza aristocratica,
elemento tutt’altro che marginale, per Bellabarba, per i percorsi della giustizia nell’area
italiana. Qui, infatti, il rafforzamento degli apparati, delle procedure speciali e delle norme
penali dalla fine del ‘500 derivò anche da una forte, diffusa consapevolezza del fitto intreccio tra fazioni e patronage aristocratico, della nefasta alleanza tra banditismo e criminalità
nobiliare. L’aristocrazia, da parte sua, oppose agli interventi che tentavano di riportare i
conflitti negli spazi delle giustizia “pubblica” una strenua resistenza, ed una serie di astute
strategie; esemplari in questo senso quelle poste in atto dalla feudalità siciliana, che ricorse
all’iscrizione al foro dell’Inquisizione per sottrarsi alle procedure speciali della giustizia
delegata, o che giunse sino alla guerra di bande per contestare il divieto di comporre anche
delitti gravissimi: ossia, nella versione aristocratica, di «redimere il proprio sangue». Il libro mette in forte relazione violenza aristocratica e giustizia comunitaria, sottolineando che
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sull’assolutismo giuridico (ossia della ricchezza e della libertà dello storico del diritto) in Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, Giuffrè 1998.
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Quest’ultima, segnata da uno spiccato carattere di apparato, e tendente più alla realizzazione di
strategie di potere che alla conciliazione ed al risarcimento, avrebbe dal tardo medioevo eroso gli
spazi della giustizia comunitaria, regolata da norme e prassi condivise, e diretta alla riparazione
dell’offesa: cfr. M. Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica: riflessione su una nuova
fase degli studi di storia della giustizia criminale, in M. Bellabarba, G. Schwerhoff, A. Zorzi,
Criminalità e giustizia, cit. alla nt. 4, pp.356 ss.
la comunità d’antico regime non occupa uno spazio vuoto, ma è stretta nella rete di potere
che domina il territorio; per questo motivo l’intervento della giustizia del “principe” non
può sempre essere letto solo come intrusione in conflitti negozialmente risolvibili, o come
lacerazione della “costituzione”armonica delle piccole società, ma che talora «Strappare le
cause dagli ambienti in cui sono nate sembra l’unica ricetta possibile per portare i litiganti
lontano dagli sguardi padronali» (p.147).
Questa lettura antiideologica, che interviene a complicare troppo schematiche contrapposizioni tra i differenti piani di soluzione del conflitto, appare uno dei pregi del libro, che mantiene lungo tutta l’analisi un prezioso equilibrio tra apertura alle suggestioni multidisciplinari e solidissimo racconto istituzionale.
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