L`uomo è nato libero... - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano

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L`uomo è nato libero... - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano
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L'uomo è nato libero, ma ovunque è in catene
di
Marco Santarcangelo, Raffaele De Musso, Francesco Deangelis, Francesco Guidarelli Mattioli Classe V E
Leggendo Verga, ci siamo accorti, di nuovo, come quando abbiamo affrontato nello studio le
posizioni degli stoici o degli epicurei, di Leopardi, o di D'Annunzio, che il punto importante, forse unico per
ognuno e per tutti è la ricerca della felicità.
Ci siamo chiesti se – in tutto il percorso dei nostri studi e per noi stessi – ci sia qualcuno che non vorrebbe
ottenere la “sua” felicità.
La felicità di Peppa è stare con un uomo che neanche conosce:
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“Io voglio bene a Gramigna, le disse la ragazza, e non voglio sposare altri che lui!” ;
la felicità per Seneca è:
“è dunque felice la vita consona alla sua natura, che non si può ottenere altrimenti che se anzitutto la mente
non è sana e in perenne possesso della sua sanità, quindi forte e vigorosa, poi mirabile nel sopportare,
capace d’adattarsi alle circostanze, del suo corpo e di ciò che lo riguarda attenta ma non ansiosa, inoltre delle
altre cose necessarie alla vita diligente senza ammirarne alcuna, pronta a usare i doni della fortuna non a
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farsene schiava” ;
la felicità secondo Solone è:
“[...]colui che duri nel possesso del maggior numero di questi beni e poi chiuda serenamente la vita, costui,
[…], a mio giudizio ha il diritto di ottenere l'appellativo di felice. Di ogni cosa bisogna considerare la
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Jean-Jaques Rousseau, “Il contratto sociale”, op. cit., p. 55.
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Giovanni Verga, dalla novella “L’Amante di gramigna”
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Lucio Anneo Seneca dal “De vita beata”
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conclusione, come andrà a finire; poiché a molti già il dio lasciò intravedere la felicità e poi li precipitò nella più
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profonda rovina” .
Per Dante e Leopardi è ancora più completa: non è una felicità astratta, ma la ricerca di un godimento
pieno...
“e io, che mai per mio veder non arsi / più chi'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi / ti porgo, e priego che non
sieno scarsi, / perchè tu ogne nube li disleghi / di sua mortalità co' prieghi tuoi, / sì che 'l sommo piacer li si
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dispieghi” ;
“l'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè
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sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere” .
A noi forse interessa proprio quest'ultima per raggiungere la quale bisogna fare un viaggio al centro del
problema, guardare in faccia il Dolore e il Male, per poi risalire, purgarsi e, infine, toccarla, così come il viaggio
di Dante il quale non poteva percorrere altra strada per giungere al godimento del Paradiso se non quella che
passava prima per l’inferno e il Purgatorio poi..
“ la forma universal di questo nodo / credo ch’i vidi, perché più di largo, / dicendo questo, mi sento ch’i
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godo” .
Ci siamo allora chiesti: i personaggi di Verga avevano questa tensione verso il piacere, verso la felicità che
abbiamo noi, che aveva Leopardi, Dante...
Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia
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Erodoto, Storie I 32 trad. di L. Annibaletto
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Dante Alighieri : Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII vv. 28-33
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Giacomo Leopardi , “Lo Zibaldone”
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Dante Alighieri: Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII vv. 91-93
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William Shakespeare, da “Amleto”
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La prima impressione che abbiamo avuto leggendo “I Malavoglia” è stata quella di una famiglia che mai
avrebbe potuto essere felice: basti leggere le pagine della morte di Bastianazzo, la Provvidenza che affonda
con quel carico di lupini che avrebbe fatto la fortuna della famiglia, poi la morte di Luca, il giovane nipote di
Padron ‘Ntoni, della Longa e infine dello stesso capostipite della famiglia, l’unico che sembrava ancora
aggrappato all’idea di riuscire ad ottenere un po’ di felicità, non per se stesso, ma per i suoi nipoti ormai orfani.
“lasciatelo stare! esclamò la Longa, i danari dello zio Crocifisso portano disgrazia! Anche stanotte ho sentito
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cantare la gallina nera!” .
Sembrerebbe una tragedia greca alla pari di quelle eschilee dove un divinità adirata con un uomo per aver
peccato di ubris lo punisce assieme a tutta la sua discendenza.
“bisogna accontentarsi di quello che si ha, senza bramare troppo di più, perché Zeus punisce l’orgoglio
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eccessivo” .
Questo romanzo ci ha fatto riflettere non meno della novella “L’amante di Gramigna”. In questa novella
abbiamo riconosciuto il nostro tempo; con questa novella ci siamo accorti che quello che ha scritto Verga è
realtà, è attualissimo. Peppa non conosce Gramigna e lo cerca:
“io non l'ho visto. Ne ho sentito parlare. Sentite! ma lo sento qui, che mi brucia!”
Molti criminali ricevono lettere d’amore da parte di alcune ammiratrici che, pur non avendo mai conosciuto
quel criminale, se ne sono innamorate: Breivik, l’assassino norvegese, autore di una carneficina riceve lettere
d’amore da centinaia di ammiratrici; Pietro Maso aveva vent’anni quando uccise i genitori il 17 aprile 1991
perché voleva godere subito dell’eredità. Ha scontato la pena in carcere, dove riceveva lettere da donne di
tutte le regioni;
Salvatore Parolisi riceveva lettere d’amore appassionate di fanatiche che si offrirebbero a lui molto volentieri
(Melania Rea, la moglie, è stata ritrovata morta in un bosco l’anno scorso).
Tutto questo per dimostrare che ciò che ha scritto Verga non è solo una realtà, ma è anche una realtà
attualissima. L’uomo commette sempre gli stessi errori o, comunque, compie sempre le stesse azioni.
Nella novella sembra impossibile un'azione del genere. Ci siamo interrogati a lungo per trovare qualche
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Giovanni Verga, “I Malavoglia”
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Eschilo , tragedia “I Persiani”
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ipotesi razionale di risposta a questi comportamenti apparentemente assurdi, razionalmente incomprensibili e
ci siamo accorti che l’uomo più semplice, l’uomo che tutti potrebbero odiare o, comunque, escludere dalla
società, può essere il più felice di tutti, un uomo come Rosso Malpelo che trova la vera felicità, la sua libertà
nella semplice ricerca delle sue origini, del suo essere figlio.
Prima di continuare, dobbiamo spiegare cosa intendiamo con libertà, la stessa libertà che poi abbiamo
riscontrato in Malpelo, riportando le parole dello stesso Verga perché, come abbiamo detto, egli parla della
realtà ma soprattutto – ci siamo accorti – del nostro mondo, mette a nudo fatti che accadono
Verga analizza il fatto umano, perché vede nelle semplici azioni dell’uomo, nel semplice fatto umano
appunto, qualcosa che va oltre la semplice apparenza, oltre all'azione stessa. Verga descrive il semplice fatto
umano in terza persona, stando lontano da coinvolgimenti personali, affinché noi possiamo avere la possibilità
di soffermarci su di esso e coglierne l’altro lato: il significato.
La parola simbolo può essere usata per definire il fatto umano. Symbolum vuol significare la metà di un
insieme, l’altra parte o l’altra faccia di una stessa cosa. Per questo il fatto umano è un simbolo, perché esso è
la metà, una parte di un insieme. Un insieme costituito da due parti distinte: il fatto umano da una parte - il
quale può sembrarci irrazionale a volte - e il significato profondo di quel fatto dall'altra.
Leggendo Verga ogni fatto, ha lasciato trapelare un simbolo: in “Certi Argomenti” un uomo affronta dei
briganti pur di salvare una donna, che non ricambia l’amore per questo
“In due settimane voi passate dall'antipatia all'entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su di me, e mi fate il
sacrificio della vostra vita, senza sapere se io ne sia degna. - È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una
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bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di una donna, […]” ,
Peppa invece decide di abbandonare la sua vita per un criminale che non aveva mai visto prima.
Non riusciamo a cogliere il significato di un fatto se lo osserviamo in prima persona se vi siamo coinvolti.
Verga però usa il metodo dell’impersonalità dandoci modo di interpretare al meglio possibile, senza
influenzarci, una determinata azione, cercando così di coglierne il vero significato. Allora ci siamo accorti che
a noi interessava l'insieme, o, meglio, a cosa corrisponde l’unione del fatto con il suo significato. La risposta
ultima che abbiamo scoperto che gli unici personaggi che ci sembrano felici sono quelli liberi e abbiamo
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Giovanni Verga , “Certi Argomenti”
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ritenuto che proprio la libertà rende contenti. Ci ha colpito allora, andando a verificare le nostre idee, che
questa libertà e questa felicità siano nascoste spesso da un'apparenza che è il loro contrario e che non ha
regole o non ha le regole che ci aspettiamo. Per esempio Alessi non può sposare la Nunziata se non ha
raccolto prima un po’ di denari
“Alessi gli raccontò che voleva pigliarsi la Nunziata, quando avrebbe raccolto un po' di denari, ed Alfio gli
rispose che faceva bene, se la Nunziata aveva un po' di denari anche lei, ché era una buona ragazza, e tutti
la conoscevano in paese”.
Diodata invece non può dichiarare la sua passione per Gesualdo, poiché questo vuole raggiungere la sua
libertà e quindi la sua felicità, sposando una donna di rango civile superiore. Ma non per questo noi non
riusciamo a notare quanto Diodata lo ami anche nel momento in cui egli deve partire per Palermo
“- Ah, Diodata... Sei venuta a darmi il buon viaggio?... - disse lui. Essa fece segno di sì, di sì, cercando di
sorridere, e gli occhi le si riempirono di lagrime.
- Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del tuo padrone...
Affacciò il capo allo sportello, cercando forse degli altri, ma siccome pioveva lo tirò indietro subito.
- Guarda che fai!... sotto la pioggia... a capo scoperto!... E’ il tuo vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammenti?
- Sissignore, - rispose lei semplicemente, e continuava ad accompagnare le parole coi cenni del capo. 12
Sissignore, fate buon viaggio, vossignoria” .
La libertà non è il raggiungimento di un obiettivo, non il soddisfacimento dei propri desideri, è magari un
lavoro pericoloso per una persona amata, come quando Janu pur con la febbre lavora per assicurare quel
poco di mantenimento per Nedda e per se stesso
“egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e
s’era concio in quel modo. — Il cuore te lo diceva: — mormorava con un triste sorriso. Ella l’ascoltava coi suoi
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grand’occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli morì” .
È magari scegliere di non sposarsi con l'uomo che si ama
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Giovanni Verga, “Mastro Don Gesualdo”
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Giovanni Verga, “Nedda”
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“- Ora non son più da maritare; - tornava a dire Mena col viso basso, e sminuzzando gli sterpolini della siepe
anche lei. - Ho ventisei anni, ed è passato il tempo di maritarmi.”
per rimanere come caposaldo della famiglia. È magari sacrificarsi per un altro,
“- Ascoltate, Roberto, ora è la madre che vi abbraccia! Anna è morta. Pensate a mia figlia; amatela per me e
per essa. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità la farà rifiorire. Voi l'amerete come non avete mai
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amato... Dimenticherete ogni cosa... siate tranquillo! –“
e, pensando a noi stessi, ci siamo accorti che anche per noi è così: ci siamo accorti che non sempre
l'obiettivo che ci poniamo risponde al nostro vero desiderio, ci siamo accorti che, ad esempio, nella fatica di
questo lavoro della tesina – soprattutto nella fatica del confronto tra di noi e nel sentirci chiamati a dare una
risposta vera alle domande che emergevano - c'era una sofferenza che, poi, però, ha generato qualcosa di
molto vicino al piacere, ha aperto uno spiraglio e ci ha fornito un giudizio. Ad esempio in questi giorni – come
tutti sappiamo – ci confrontiamo inevitabilmente sulle elezioni politiche e ci siamo accorti di usare la stessa
domanda: ma si può essere felici, esiste una possibilità di esserlo veramente, la realtà effettiva nasconde un
significato più profondo... Anche per parlare di Grillo o di Ingroia ci siamo ritrovati ad utilizzare gli stessi
metodi.
Così, parlando dello scandalo che ai nostri occhi rappresentano le donne che contattano dei mostri in
prigione o dallo scandalo provocato da Peppa in tutto il Paese, abbiamo pensato che forse per dare un
giudizio e prendere una decisione vera,
bisognerà superare l'aspetto meramente superficiale o
apparentemente “mostruoso” di certi candidati alle elezioni e, concretamente, guardare alla profondità e al
significato che – speriamo! - ci sia.
Libertà va cercando...
Leggendo L'Amante di Gramigna, all'inizio, abbiamo pensato che l’amore che ha colto Peppa fosse un
amore irrazionale, inspiegabile. Inspiegabile perché lei, pur non avendo mai visto Gramigna, si innamora di
lui. Ci siamo chiesti come fosse possibile una cosa del genere, e come fosse possibile che una cosa del
genere accadesse ancora ai nostri giorni. Grazie a Verga, però, abbiamo avuto la possibilità di soffermarci e
riflettere. Perché una ragazza bella, con corredo pronto e con un fidanzato bello e ricco si innamora di un
criminale mai visto? Cosa spinge Peppa a cercare Gramigna? Evidentemente con tutta la sua vita ben
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Giovanni Verga, “Drammi Intimi”
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programmata, con tutte le aspettative - le migliori che una donna di quell'epoca potesse avere – nella sua vita
qualcosa non rispondeva alla sua vera domanda di felicità. C'è in lei come un male di vivere, un male di
vivere che l’avrebbe tormentate se lei non avesse provato a cercare quell’uomo. Un male scaturito da una
passione “vera” che aveva bisogno di esternarsi. Perché abbiamo usato l'aggettivo “vera”? Perché abbiamo
notato che Peppa, dopo aver espresso la sua passione andando in cerca di Gramigna prima, e seguendolo
poi, nonostante i maltrattamenti che subiva, era riuscita ad alleviare quella sofferenza che è propria dell'uomo.
A Peppa non importa essere picchiata o vivere come una vagabonda. Lei si sente libera nel momento in cui
ha realizzato ciò che la sua passione la spingeva a fare. Per questo parliamo di passione vera, per indicare
quella passione che procura la libertà e allo stesso tempo la felicità. Peppa, se non avesse esternato quella
passione, avrebbe continuato a vivere con quel dolore che attanaglia l’uomo nel momento in cui questo non
riesce ad essere libero. Sotto questo punto di vista potremmo dire che Peppa è una sorta di “sopravvissuta”
del male di vivere.
A questo punto ci siamo trovati a sostenere che possiamo essere liberi e felici nel momento in cui esterniamo
una vera passione. Ma, continuando a leggere la novella, siamo ritornati con i piedi per terra, notando che la
stessa Peppa, dopo che Gramigna fu incarcerato, continua a soffrire perché le è stato tolto l’oggetto, il suo
modo di sfogare la passione, e ha quindi perso la felicità e quel briciolo di libertà che aveva acquisito. In preda
allo smarrimento ella non sa più che fare, non sa più come ritrovare quella sensazione di libertà e felicità che
aveva quando stava con Gramigna. Infatti la novella si conclude mostrandoci chiaramente una Peppa
smarrita, che non potrà più essere libera e, quindi, felice dato che Gramigna non è più con lei.
“Vivacchiava facendo dei servizi ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato
tetro e silenzioso, e pei carabinieri poi che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, e gli avevano
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rotto la gamba a fucilate, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza”
Dunque l’uomo può essere temporaneamente felice, può temporaneamente alleviare quel male di vivere
in cui si trova fin dal momento della nascita. Verga sa che la sensazione di successo che viene nel momento
in cui esterniamo una passione è intinta d’inganno e di amaro e, in un certo senso, ci mette in guardia perché,
il momento in cui l’uomo trova il godimento è anche il momento in cui il piacere svanisce. Egli vorrebbe vivere
nuovamente quella passione e renderla eterna e tende quindi a reiterarla. Di fatto ripete semplicemente il
travaglio perché come dice D'Annunzio nel Piacere:
“quell'oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l'acqua amara”;
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Verga stesso ci dice quanto l’uomo pur ottenendo le piccole gioie della vita, sarà comunque costretto a
soffrire
“ognuno a questo mondo è fatto per pensare a tirare la carretta che gli ha data Dio, come l'asino di compar
Alfio, che adesso faceva chissà cosa, dopo che era andato in mano altrui”.
Dante però se non fosse stato in quella “selva oscura” non avrebbe mai avuto l’opportunità di percorre quella
strada che partiva dall’Inferno e giungeva fino al Paradiso, il posto in cui l’uomo può trovare il suo godimento.
Verga ci descrive dei personaggi che vogliono provare quel godimento, e l’unico modo per farlo è esternare
quella passione. Quel godimento infinito è una possibilità che forse non si avvera per nessuno dei personaggi
verghiani. Verga però ad alcuni dà il coraggio di prendere decisioni apparentemente irrazionali
“- Mi dicono che sono una matta: ma mi accorgo che una matta è sempre più ragionevole dell'uomo più savio.
[…]” ,
pur di tentare di trovare quel “quid” che li possa rendere eternamente felici. Verga conosce il male di vivere
–secondo noi- conosce il tedio – leopardiano o baudeleriano- e ci comunica come è meglio reagire. Forse non
trova la soluzione, ma ci dice come dovremmo comportarci.
L’anno scorso, studiando Leopardi, più volte ritornava la domanda che è ben descritta dai versi di “A Silvia”:
“O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?”
E, soprattutto, nella parte finale del “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”:
“Forse s’avess’io l’ale / da volar su le nubi, / e noverar le stelle ad una ad una, / o come il tuono errar di giogo
in giogo, / più felice sarei, dolce mia greggia, / più felice sarei, candida luna / o forse erra dal vero, / mirando
all’altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a
chi nasce il dì natale.”
Leopardi utilizzava sempre quel “forse” nelle sue domande e anche nelle risposte, quel “forse” che sta a
sottolineare il mistero della vita umana. Un semplice avverbio che è necessario nel momento in cui non
sappiamo quale sia la verità di un particolare fatto o delle grandi domande che ci poniamo ancora oggi. Lo
stesso “forse” che potremmo attribuire a Peppa ne “L'amante di Gramigna”, cercando di spiegare il perché si è
innamorata di quel criminale :”forse era pazza”, “forse era attratta dall’uomo che si comporta come un
animale”, “forse voleva vivere come lui, nella più grande libertà di fare quello che le pare”.
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Diverse risposte accomunate sempre da quel forse, che sottolinea la presenza di qualcosa che non
conosciamo, ma dal quale dipendiamo o dal quale siamo attratti. Dietro a quel forse c’è qualcosa che si
manifesta come “passione” per Verga, come “desiderio” per Leopardi.
Le domande che poneva Leopardi possiamo riportarle allo stesso Verga che sembra riproporcele
indirettamente in modo tale da permetterci di notare da soli l’ambiguità del fatto umano.
Qual è dunque la vera felicità, sempre che ci sia? Leopardi arrivò addirittura a dire che la felicità è nella
cessazione delle sofferenze della vita che avviene solo nel momento in cui giunge la morte. Subito dopo si
accorse che era una soluzione troppo semplice da dare e anche irrispettosa verso la Natura alla quale
toglieva anche l'ultima incombenza. La sua risposta è stata quella di titanismo “spezzarsi ma non piegarsi”.
Nella Ginestra questo concetto è espresso così:
“Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
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O dal fato o da te fatte immortali” .
L’uomo non deve piegarsi a questa Natura, Sorte, Fato al male di vivere verghiano o come lo si voglia
chiamare.
Verga, come noi, come ogni uomo, ha una domanda che può magari rimandare nel tempo, ma che, prima o
poi, deve porsi se non vuole rinunciare ad essere uomo.
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Giacomo Leopardi, “La Ginestra”
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Perché l’uomo esiste? Non c’è una risposta univoca, ma Leopardi ci dice una cosa fondamentale: l’uomo
esiste e per questo non deve arrendersi alla sofferenza che avvolge la vita. L’uomo non è un animale o,
peggio, un oggetto che può essere utilizzato come si vuole. Sembra che Leopardi voglia dirci che l’uomo non
deve vivere come uno schiavo di un volere superiore, deve reagire. Tuttavia, come fare a reagire?
Leopardi ci propone una protesta, Verga invece con “L'Amante di Gramigna” ci mostra un donna - quindi un
caso concreto - che ha avuto il coraggio di ribellarsi veramente a quella sofferenza interiore scaturita
dall’impossibilità di darsi una risposta. Reagisce alla sofferenza provocata dal destino (infatti stava per
sposare un uomo che non amava), reagisce dunque a quella sorte, a quel fato, a quel male di vivere, alla
Natura. Decide di non piegarsi ad essa. Non si piega perché dà libertà alla sua passione che la spinge ad
amare un criminale. E, come già detto da Leopardi, lei si è spezzata, ma non si è piegata:
“E tu, lenta ginestra, / che di selve odorate / queste campagne dispogliate adorni, / anche tu presto alla crudel
possanza / soccomberai del sotterraneo foco, / che ritornando al loco / già noto, stenderà l'avaro lembo / su
tue molli foreste. E piegherai / sotto il fascio mortal non renitente / il tuo capo innocente: / ma non piegato
insino allora indarno / codardamente supplicando innanzi / al futuro oppressor;”.
I ciclo dei romanzi di Verga è denominato “Il ciclo dei vinti”, proprio perché in qualsiasi modo l’uomo reagisca
alla sorte, al suo destino, resterà sempre un vinto. Se egli reagirà, prima o poi si spezzerà e sarà sconfitto. Se
si piegherà, vivrà comunque come uno schiavo di un qualcosa di più grande. Gesualdo si è piegato e pur
avendo raggiunto ciò che voleva si è fatto vincere da un Fato inamobivile, è diventato vittima della Rubiera e
del Frate, che dentro sé disperava. È meno libero di Peppa, è meno libero di Rosso, è più ricco,
apparentemente in grado di affrontare e modificare il suo destino. Ma la stessa roba lo schiavizza, lo uccide,
riduce la sua libertà di uomo ad una semplice pedina di uno schema prefissato, la società, la casta, la
famiglia, il sistema.
Leopardi scrive che l’uomo, nel momento in cui ottiene l’oggetto del suo desiderio, scopre che quest'oggetto
non risponde a tutta la sua domanda di piacere che è dentro il suo cuore e quindi verrà continuamente spinto
a cercare altro che possa soddisfarlo. Nello Zibaldone:
“Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non
può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha
limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua
durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la
natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto”.
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Verga ci mostra la stessa cosa attraverso il romanzo “Mastro-Don Gesualdo”; ci aveva già spiegato lo stesso
meccanismo nella “Roba”. Mazzarò vuole essere felice e pensa di poterlo essere attraverso la roba; pensa di
essere libero, evitando ogni legame – non si sposa e invece rimane più solo, più schiavo, più oppresso di tutti.
“Quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba per lasciare la sua anima, uscì nel cortile come un
pazzo, barcollando e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini e strillava <<Roba
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mia, vientene con me!>>”
Anche nel primo romanzo del “Ciclo dei vinti”, “I Malavoglia”, è presente un'analogia col concetto leopardiano
di titanismo, espresso nella Ginestra. Padron ‘Ntoni pensa che con l’affare dei lupini possa migliorare la
situazione della sua famiglia ma, in questo modo, come Mastro-Don Gesualdo, egli sarà destinato a
“spezzarsi”, poiché l’imbarcazione che trasporta il carico che gli avrebbe fruttato la ricchezza, affonda e,
assieme ad essa, annega il figlio Bastianazzo. Come il peccato di ubris di Peppa e di Gesualdo, adesso
Padron ‘Ntoni subirà le conseguenze del suo “reagire al destino”. Uno dei suoi nipoti, Luca, muore, come
anche la Longa, moglie di Bastianazzo. La nipote più piccola, Lia, diventa una prostituta e ‘Ntoni, il nipote più
grande, si macchia di un crimine: l’assassinio.
Abbiamo recepito nei romanzi di Verga il messaggio di dover rimanere fedeli alla “tradizione” ovvero
rimanere fedeli al destino che ci è stato prescritto, come già prefigurato in “Fantasticheria”, ma leggendo i
vari testi, ci siamo chiesti se il rimanere attaccati allo scoglio possa salvarci ed effettivamente se è vero che
possiamo condividere la scelta di Mena.
La stessa Mena, nipote maggiore di padron ‘Ntoni decide di non sposarsi più con Alfio Mosca perché ha
capito di dover rimanere fedele alla sua famiglia, rimanere fedele a quel cognome: i Malavoglia. Sa che un
possibile cambiamento nella sua tradizione e dunque la possibilità di entrare a far parte di una nuova famiglia
con Alfio Mosca, potrebbe essere la causa di una sventura maggiore.
“Non mi avete offesa, no, compare Alfio; e vi avrei detto di si anche quando avevamo la Provvidenza e la casa
del Nespolo, se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa quel che ci avevo in cuore quando ve ne siete
andato alla Bicocca col Carro dell'Asino, e mi pare ancora di vedere quel lume nella stalla e voi che mettevate
tutta la vostra roba sul carretto, nel cortine; vi rammentate?”.
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Giovanni Verga, dalla novella “La roba”
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Mena è un eroina secondo il nostro punto di vista, perché è come se si sacrificasse per non causare altre
possibili disgrazie alla sua famiglia ma, allo stesso tempo, è un esempio dell’essere umano che può farsi
sentire, che può far sapere di esserci anche nel momento in cui è egli stesso a decidere di rimanere nella
“tradizione” e dunque decide di accettare il suo “destino”. Forse Leopardi avrebbe considerato Sant’Agata
(Mena) un'anti-eroina che va contro il suo pensiero di “spezzarsi ma non piegarsi”, ma Verga sembra dirci di
più. Riprendendo in un certo qual modo il concetto dell’essenza dell’essere umano, essenza che consiste nel
farsi sentire e reagire al proprio destino, egli ci fornisce un’altra soluzione al “come l’uomo può non piegarsi
alla sorte, alla Natura”. Attraverso Mena, Verga ci mostra che l’essere umano può farsi sentire, può essere
un emblema anche nel momento in cui egli decide di accettare la sua situazione. Mena non fa domande
perchè sa quello che deve fare, sa qual è il sacrificio che le è richiesto e lo accetta: è un'altra forma di libertà.
'Ntoni deve partire per sentirsi libero; Mena ottiene la sua libertà rimanendo nella casa del Nespolo.
Più leggiamo i due romanzi e le varie novelle e più ci rendiamo conto che “il semplice fatto umano” di cui
parla Verga è variegato, è il volto di ognuno di noi, è misterioso e – a volte - incredibile e proprio per questo
non c'è una regola, proprio per questo “farà pensare sempre” perchè non è riconducibile ad un determinismo.
Abbiamo provato ad immedesimarci nei protagonisti delle sue opere e ci siamo accorti che la nostra
esperienza - quella di ogni giovane - non era uguale ma non era da meno; è un'altra sfaccettatura, è un altro
fatto umano.
Ci siamo chiesti se ci sentivamo più Mena o 'Ntoni e non abbiamo raggiunto un risultato univoco, anzi ci
siamo scontrato con una terza possibilità, con un altro modo ancora di essere liberi: Diodata.
Diodata, personaggio non poco rilevante di Mastro-Don Gesualdo, è un esempio dell’uomo che si piega alla
sua condizione accettandola e soffrendo. Diodata è stata sempre al servizio di Gesualdo e lo ha sempre
amato, ma non ha mai avuto quel coraggio, che ha avuto Peppa, nel dichiarare di voler sempre vivere con lui.
Al contrario di Mena, Diodata accetta di sposarsi solo perché glielo dice Gesualdo.
Nell'obbedienza a Gesualdo, all'uomo che ama, è la sua libertà. Nell'obbedienza alle circostanze è la sua
libertà; nella disponibilità alla realtà è la sua libertà. Non è una libertà eclatante come quella di Peppa, non è
eroica, come quella di Mena, è la libertà di amare, è la libertà del cuore, è la libertà muta di un essere vero.
La libertà può essere quindi da una parte “seguire la tradizione”, dall'altra volere qualcosa di più che ti rende
felice.
'Ntoni vuole qualcosa di più e affronta il mare per trovarlo; Diodata è legata alle regole sociali e la trova
nell'accettarle.
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Vinti ma liberi: Rosso e Diodata alla ricerca del padre
Diodata è una trovatella che come Rosso Malpelo non ha un padre. Abbiamo notato che Diodata ama
Gesualdo non solo in quanto uomo ma anche come possibile figura paterna. La tenerezza rude del padrone e
il suo atteggiamento di protezione virile, con quella sfumatura indefinita di malinconia e di bontà senza limiti
che si sente sempre nelle parole di Diodata. Ci è sembrato che Diodata soffrisse il distacco da Gesualdo
soprattutto perché stava riperdendo una figura paterna che aveva ritrovato dopo molto tempo. La famiglia
assume in Verga una grande importanza. Come abbiamo detto Verga diede come soluzione al “non piegarsi “
alla Tradizione, l’accettazione. La famiglia dunque potrebbe essere il modo in cui l’autore siciliano ci mostra
l’importanza e la felicità che riceviamo nel momento in cui siamo e rimaniamo tra i nostri genitori e parenti,
rimanendo dunque nella Tradizione. Forse anche Malpelo sarebbe riuscito a diventare felice trovando il
padre. Rosso non ha avuto quella possibilità di avere una famiglia. Non ha avuto la possibilità di trovarsi in
una Tradizione sin da subito. Egli infatti si accontenterebbe di avere ciò che tutti hanno già, dei genitori, di
quelle persone su cui ci si può fidare e da cui non rimaniamo delusi. Forse sarebbe stato felice se avesse
trovato il padre. Ma questo non lo sappiamo, lasciamo che la nostra immaginazione ponga un lieto fine per
un ragazzo che ha sempre vissuto da cane e che forse nel suo ultimo viaggio può veramente trovare quella
felicità che l’uomo ancora cerca. La vera felicità infinita ed eterna è nell’immaginazione . Forse proprio per
questo Verga non ci racconta se Rosso sia riuscito a trovare suo padre. Egli è l’unico che a nostro parere ha
capito come essere davvero felice. Egli ci mostra l’importanza dell’insegnamento di Verga, ovvero che la
felicità è nel restare in una Tradizione che è manifestata dalla famiglia. E Rosso va a cercare questa famiglia,
vuole avere l’opportunità di possedere una sua Tradizione. E anche se non vi sia riuscito, se non sia riuscito a
trovare il padre questo non lo possiamo sapere. Posiamo solo immaginare fantasticamente che sia riuscito ad
essere felice.
Nella novella che la maggior parte di noi ha visto con gli occhi di un bambino, o nei libri di antologia delle
scuole medie, stiamo parlando di Rosso Malpelo, si nasconde a nostro avviso un messaggio interessante. Il
povero orfano, maltrattato da tutti e scacciato dai suoi coetanei a causa del suo aspetto “malvagio” potrebbe
essere la personificazione della libertà. Quante volte capita di vedere in tv il nuovo prodotto che va di moda
e quindi adeguarsi alla massa comprandolo? Quasi sempre. E quante persone cercano di non omologarsi e
vengono chiamati “alternativi” e magari denigrati? È un must della nostra società, e a quanto pare è sempre
esistito, così come lo vediamo in Verga. Rosso Malpelo, il solo nome incute timore e nessuno si fiderebbe di
qualcuno che nel cognome ha il male. E se questo bambino avesse provato ad aiutare i suoi amici, sfruttati
come lui nella cava? Tutti lo scacciavano, tutti scacciavano la possibilità di redimersi, perché è dura da
accettare, così come Rosso veniva rifiutato. La libertà da lui rappresentata fallisce nell'aiutare l'uomo, e, alla
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fine del suo viaggio, capisce di aver bisogno anch'egli di dover trovare le sue origini, ed è così che Rosso va a
cercare suo padre, la libertà va a cercare le sue origini. E nella cava correvano le voci che questa libertà
era svanita, era morta, o tendeva ancora degli agguati, i bambini avevano paura ad avventurarsi da soli nella
miniera, così come noi abbiamo paura di guardare in faccia la realtà, così come noi ci siamo resi conto di
quanto sia difficile ottenere la libertà e preferiamo quindi soffrire.
Conclusione
Alla fine del nostro lavoro si è aperto come un varco su due personaggi che ci hanno colpito non perché
fossero vincitori o eroici rispetto agli altri ma perché sono accomunati da un’idea di libertà diversa e
accattivante, un’idea che ci ha toccato intimamente e ci ha provocato delle domande, tanto che abbiamo
riletto i passi più importanti in cui loro due erano protagonisti. Si tratta di Rosso e Diodata. Li abbiamo riletti a
partire da un’ipotesi. Entrambi cercano un padre, cercano le radici della loro origine, cercano un volto in cui
riconoscersi.
Non cercano e non ricevono carezze:
“Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a
vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di
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lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra.”
Cercano un luogo che gli sia proprio, in cui soffrire magari, ma in cui sentirsi a casa:
“Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t'è mancato, di'?”
Gesualdo è stato un amante per Didodata, ha avuto due figli da lui, e come li ha chiamati ? Con i nomi del
nonno paterno e del padre. Diodata ama i figli: non è interessata alla roba del loro padre naturale, è
interessata all’identità dei figli stessi: non vuole che soffrano la mancanza che sente lei, non vuole che siano
orfani. Dà loro un’impronta incancellabile, un nome che è una sicurezza, la sicurezza di esistere perché fatti
da qualcuno, la sicurezza di un’identità.
Gesualdo è amante per Diodata, padre dei suoi figli ma la tratta come un padre, è marito e padre, è piacere
e sicurezza, è brusco e rozzo ma si preoccupa per lei, fino a trovarle un marito:
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Giovanni Verga, Rosso Malpelo
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“Il Signore c'è per tutti... Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!... La coscienza mi dice di no... Ti
cercherei un marito...”
E, come una figlia - perché ormai non può essere altro – e certo non ci sembra né un’amante né una serva –
Diodata sente che non lo rivedrà più e lo va a salutare mentre lui parte per Palermo. Come per una figlia,
l’ultimo pensiero di Gesualdo è per lei e per i figli di lei.
Rosso ha una sola identità se si elimina quella che gli hanno costruito intorno al colore dei suoi capelli: è il
figlio di un padre che lo ama, che lo protegge dal pericolo,
“- Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa! - Tutt'a un tratto, punf!
"Malpelo", che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché
fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.”
che gli lascia i pantaloni, che gli lascia il desiderio di ritrovare quell’identità di figlio che gli aveva fatto
sperimentare.
“Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col
pane, il fiasco del vino, e se ne andò: ne più si seppe nulla di lui.”
Né Rosso né Diodata trovano un padre, sia pure spirituale, nel corso della narrazione che li riguarda, tuttavia
l’esito della loro esistenza non viene narrato: non sappiamo la fine di Rosso né conosciamo gli ultimi anni di
Diodata e ci piace pensare che Verga abbiamo voluto lasciarci l’incarico di scrivere l’ultima pagina sui due.
Ci piace pensare a Rosso che, dopo essersi sperimentato come padre per Ranocchio, sia divenuto
veramente padre e abbia ritrovato nel suo cuore Mastro Misciu e continui a mettere paura ai ragazzini come
un fantasma della miniera solo per farli riflettere, per ribadire che lui almeno una volta da qualcuno è stato
amato…E Diodata, che non sa ancora trovare le parole, ma ha la consapevolezza istintiva che l’incontro con
Gesualdo da giovane e quell’addio reverenziale davanti alla lettiga in cui gli ha dato per l’ultima volta del
vossignoria, abbia segnato la sua vita e gli abbia dato un senso perché Gesualdo le ha voluto bene e glielo
ha dimostrato ancora, ricordandosi tutto di lei, proteggendola, come un padre : “Guarda che fai!...sotto la
pioggia…a capo scoperto!...E’ il tuo vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammenti?”
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Bibliografia
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Giovanni Verga “I Malavoglia”, Milano, Treves, 1881.
•
Giovanni Verga “Mastro Don Gesualdo”, Milano, Treves, 1889.
•
Giovanni Verga “Nedda”, Bozzetto siciliano, Milano, Brigola, 1874.
•
Giovanni Verga “Rosso Malpelo”, in "Fanfulla", 2-5 agosto 1878.
•
Giovanni Verga “La roba”, in "Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti", 26 dicembre 1880.
•
Giovanni Verga “Drammi intimi”, Roma, Sommaruga, 1884.
•
Giovanni Verga “Certi Argomenti”, Milano, Brigola,1877
•
Giovanni Verga “L’amante di Gramigna””, Milano, Treves,1880
•
Giacomo Leopardi “La ginestra o Il fiore del deserto”, Canti, 1845
•
Giacomo Leopardi “Lo Zibaldone”
•
Giacomo Leopardi “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, 1830
•
Giacomo Leopardi “A Silvia”, 1828
•
Dante Alighieri “Divina Commedia”, Paradiso
•
Lucio Anneo Seneca “De vita beata”
•
Erodoto “Storie I 32” trad. di L. Annibaletto
•
Eschilo “I Persiani” (rappresentata nel 472 a.C)
•
William Shakespear “Amleto,1600-1602
•
Jean-Jaques Rousseau, “Il contratto sociale” 2010.
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