Frammenti Expo `67: Alexander Calder e Emilio Vedova Venezia

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Frammenti Expo `67: Alexander Calder e Emilio Vedova Venezia
Frammenti Expo ’67: Alexander Calder e Emilio Vedova
Venezia
Magazzino del Sale e Spazio Vedova
6 maggio >18 ottobre 2015
La Fondazione Emilio e Annabianca Vedova dal 6 maggio al 18 ottobre 2015
presenta, in relazione all’evento mondiale Expo 2015 di Milano, Frammenti Expo ’67: Alexander Calder e Emilio Vedova due esposizioni, con l’allestimento di Italo Rota, in cui si riproporranno i contributi di Alexander Calder e
di Emilio Vedova all’Expo del 1967 di Montréal.
Expo ’67
Il tema dell’Expo (fr. Exposition Universelle et Internationale, ingl. International and Universal Exposition, ita. Esposizione universale e internazionale)
del 1967, incentrato sulle attività degli esseri umani nella società moderna,
fu “Terre des Hommes / Man and His World” e si ispirò al libro del 1939 di
Antoine de Saint-Exupéry intitolato Terre des Hommes (tradotto come Terra
degli uomini in italiano e Wind, Sand and Stars in inglese).
Frammenti Expo ’67: Alexander Calder
Trois disques (Man) / L’Homme
In occasione dell’Expo venne commissionata ad Alexander Calder dalla
International Nickel Company of Canada (INCO) la scultura monumentale
della serie stabile che verrà chiamata Trois disques (Man). L’artista considerò
di costruire l’opera in nichel in onore del committente, ma questa soluzione
si rivelò tecnicamente impossibile a quella dimensione. Calder tornò, quindi, al già sperimentato acciaio; per la prima volta nel suo percorso artistico,
l’opera monumentale, non fu verniciata ma lasciata al grezzo, mettendo in
rilievo la sua materialità.
Lo stabile con i suoi 22 m di altezza, 102 fogli di acciaio inossidabile, quasi
un chilometro di fascette e 4000 bulloni sempre in acciaio, venne donata ai
cittadini di Montréal il 17 maggio del 1967, giorno del 325° anniversario della
fondazione della città, e installato all’ingresso dell’Expo in Place de l’International Nickel, dove il pubblico arrivava con la metropolitana per accedere
al grande evento.
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In mostra
La mostra, a cura di Germano Celant e realizzata in collaborazione con la
Fondazione Calder di New York, documenta nello Spazio Vedova, tramite
modelli, film e fotografie del 1967, l’intervento di Alexander Calder nell’ambito dell’Expo di Montréal.
Le maquettes presenti testimoniano il processo di lavoro di Calder. Per i suoi
stabiles (sculture astratte immobili) l’artista costruiva modelli di piccole dimensioni, che, quando venivano confermati per diventare monumentali dai
loro committenti, passavano a una scala media (intermediate maquettes) per
valutarne la fattibilità tecnica ed essere, infine, portati alle grandi dimensioni definitive in una delle fonderie cui Calder si appoggiava. Nel caso di Trois
disques l’opera venne fabbricata nella fonderia Etablissements Biémont a
Tours, non lontano dalla casa di Calder a Saché, nella valle della Loira.
La maquette originale di Trois Disques, il lavoro di Calder per l’Expo del 1967,
è esposta a Venezia. Il titolo dell’opera monumentale venne cambiato in Man /
L’Homme, in ragione del tema dell’Expo.
Per contestualizzare nell’epoca la scultura di Calder, la mostra è arricchita
dalle fotografie di Ugo Mulas.
Oltre a diversi altri stabiles e lavori su carta, la presentazione include un
mobile, un esempio delle sculture cinetiche per cui Calder è più conosciuto, dove il gioco di equilibrio è dinamico, influenzato dalle correnti d’aria e,
quindi, anche dall’interazione con il pubblico.
Frammenti Expo ’67: Emilio Vedova
Percorso/Plurimo/Luce
In occasione dell’Expo di Montréal ’67, Emilio Vedova fu invitato dal Ministero
degli Esteri a qualificare lo spazio architettonico che raccordava, all’interno,
i tre corpi del Padiglione Italiano: uno spazio asimmetrico di 51x24m con
altezze variabili tra 8 e 16m.
Alla sollecitazione l’artista rispose ideando il Percorso/Plurimo/Luce, una
struttura a vela su cui quattordici proiettori, realizzati ad hoc dalla Siemens/
Bauer e programmati elettronicamente, proiettavano 112 lastrine di vetro in
sequenza di movimenti asincroni. In parallelo si sentiva la musica elettronica realizzata da Marino Zuccheri dello Studio Fonologia RAI di Milano.
L’installazione fu il risultato della collaborazione con la ricerca industriale e
universitaria italiane. Sintetizzò la sperimentazione elaborata dall’artista nel
corso di un anno tra la Fornace Venini a Murano – dove, insieme ai maestri
vetrai, ideò un brevetto per la lavorazione delle lastrine – e lo studio nella
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grande ex Abbazia di San Gregorio a Venezia, ottenuta in prestito dalla città e
luogo ideale per simulare in scala gli spazi enormi del Padiglione a Montréal.
In mostra
Frammenti Expo ’67: Emilio Vedova, a cura di Germano Celant con Fabrizio
Gazzarri, propone al pubblico nel Magazzino del Sale una rivisitazione della
modalità di proiezione brevettata per l’Expo.
Nella ricostruzione viene utilizzata la “forma rotante” originale. Fu costruita
ad hoc in alluminio laminato e montata al centro dello spazio, tra gli schermi
e i proiettori del Percorso/Plurimo/Luce come elemento che veniva riflesso e
contemporaneamente riverberava sugli schermi e sul pubblico. Quest’ultimo camminava dentro all’installazione e tra le proiezioni entrando a far parte dell’opera di Emilio Vedova. La mostra include una vasta documentazione
con progetti, disegni e fotografie dell’epoca.
Nei Magazzini del Sale, al di là del Percorso/Plurimo/Luce, verrà riattivata la
macchina ideata da Renzo Piano le cui navette porteranno al pubblico, insieme ad alcune tele degli anni ottanta, per la prima volta a Venezia, diversi
quadri dal ciclo De America, del 1976, tutte pitture in bianco e nero, di straordinario rigore pittorico e forte impatto visivo. Rimandano alle esperienze
dell’artista negli Stati Uniti, maturate in diverse occasioni a partire dagli anni
cinquanta. In questo modo, saranno presentati due diversi aspetti della ricerca di Emilio Vedova: il lavoro sullo spazio e la luce del progetto per Expo
e l’indagine sulla materia e la gestualità pittoriche.
Frammenti Expo ’67
Alexander Calder e Emilio Vedova
Spazio Vedova, Zattere 50
Magazzino del Sale, Zattere 266
dalle 10.30 alle 18.00
chiuso martedì
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Contemporaneità di Vedova e Calder.
Frammenti e testimonianze
Alla vigilia del decennale della morte di Emilio Vedova, preceduta di un mese
dalla scomparsa della sua molto amata, straordinaria moglie Annabianca,
la Fondazione, che porta il loro nome, intende sottolineare l’attualità, si vorrebbe dire la perenne contemporaneità, dell’opera del Maestro veneziano.
Quando il Governo lo invitò, in occasione dell’Esposizione Universale di Montréal nel 1967, a rappresentare gli artisti italiani con il compito particolare
di raccordare i tre corpi del Padiglione Italiano (uno spazio immenso, asimmetrico di 51x24 con altezze variabili tra 8 e 16 metri) Vedova immaginò e
realizzò un percorso di luci e proiezioni (Percorso/Plurimo/Luce) che si inseguivano incessantemente, senza discontinuità né nel tempo né nello spazio.
È in fondo l’immagine del messaggio e dell’arte di Vedova, che insegue
il tempo e che insegue lo spazio per immergervisi incessantemente e
continuativamente e perciò, e in ciò, si realizza una perenne contemporaneità. Non è un caso che Art Basel, “il tempio-mercato” mondiale dell’arte
contemporanea, abbia scelto e voluto quest’anno nella particolare sezione
Unlimited, uno dei capolavori di Vedova, il famoso …in continuum, il lavoro di
109 opere realizzate tra il 1987 e il 1988 e che giustamente furono definite
l’Opera che viene dall’infinito e va nell’infinito.
Così nel Magazzino del Sale quest’anno, per sottolineare la contemporaneità dell’Opera di Vedova, vengono riprodotti i cosiddetti Frammenti di Expo ’67
perché il Percorso/Plurimo/Luce viene rivissuto con proiettori che, come a
Montréal, trasmettono con le lastre dell’epoca realizzate dallo stesso Vedova
(con la Venini di Murano a Murano), immagini continue su uno schermo e su
una forma di alluminio plurima rotante che a sua volta ritrasmette le immagini nell’intero ambiente del Magazzino, facendo rivivere le suggestioni di
Montréal in una incessante immersione nel tempo e nello spazio attraverso
la luce. Nell’altra parte del Magazzino del Sale la macchina robotica immaginata da Renzo Piano condurrà agli spettatori le opere del ciclo vedoviano
De America mai esposte a Venezia.
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Anche Alexander Calder nel ’67 partecipò all’Expo di Montréal il cui tema
“Terre des Hommes / Man and His World” era incentrato sull’attività dell’uomo nella società moderna. Secondo tensioni e stili del tutto diversi Vedova
e Calder hanno posto al centro della loro inesausta ricerca la vicenda degli
essere umani in un eterno scontro di situazioni e contraddizioni. Così oggi
attraverso un dialogo fra Fondazione Vedova e Fondazione Calder continua
un dialogo, nel cosiddetto Spazio Vedova adiacente al Magazzino del Sale,
tra Vedova e Calder le cui voci sono diverse ma i cui obbiettivi coincidono
e Fondazione Vedova è lieta di presentare opere, modelli e documenti del
1967, periodo dell’intervento di Calder nell’ambito di Expo di Montréal.
Molti hanno lavorato e collaborato per le Mostre al Magazzino del Sale e
allo Spazio Vedova e nei miei compiti, peraltro graditi, vi è anche quello dei
ringraziamenti. Così ringrazio Fondazione Calder di New York per la grande collaborazione, Germano Celant e Fabrizio Gazzarri per la ideazione e
cura delle Mostre, Italo Rota e Andrea Bolla per il loro allestimento, tutti
coloro che hanno concorso alla realizzazione di questi eventi, e in particolare Marcella Ferrari e Laura Conconi di Fondazione Celant, Elena Oyelami,
Clelia Caldesi Valeri, Sonia Osetta e Bruno Zanon di Fondazione Vedova. E
poi Studio Systema con Adriana Vianello, Andrea de Marchi e Livia Sartori di
Borgoricco per la comunicazione e CamuffoLab con Giorgio e Marco Camuffo per il progetto grafico. Naturalmente un ringraziamento speciale va agli
sponsor: Veneto Banca, l’Associazione Veneziana Albergatori (AVA) e Garage
San Marco SpA.
Venezia, 5 maggio 2015
Alfredo Bianchini
Presidente Fondazione Emilio e Annabianca Vedova
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Expo ’67: Calder e Vedova
Germano Celant
L’identità delle Esposizioni universali è caratterizzata da un’impostazione e una costruzione, capace di rendere vano qualunque tentativo di
stabilire tratti definitori tra le parti mostrate. Infatti l’istituzione non può arrogarsi il diritto di escludere una cultura o un’altra, un Paese o un altro,
un’etnia o un’altra come non si dà un limite per la selezione degli oggetti
o cose, prodotti o artefatti. Lo spirito di espansione e d’inglobamento è dominante cosicché la ricerca sia indirizzata verso un’integrazione allargata a
tutte le manifestazioni dell’ingegno e della pratica umane. Naturalmente nel
corso del tempo, dal 1851, data della prima Expo a Londra, questo viaggio
nell’universo della messa in scena di prodotti e d’informazioni tesa alla conquista commerciale ha subito accelerazioni legate all’espansione industriale
e tecnologica. È transitato da uno spirito ottocentesco, di stampo imperiale e
coloniale, alle varianti neocapitalistiche della visione mondializzante. Ne ha
riverberato le vicende politiche e sociali, passate da un controllo del vicino
ad un inglobamento dell’estremo lontano.
Nel corso del tempo le Esposizioni universali o Expo si sono proposte
come paesaggio di una rappresentazione enciclopedica: un campo organizzato
per tenere insieme tutte le pratiche e le forme di lavoro e di creatività, di racconti e di storie. Ha funzionato quale riflessione sulla globalità e sull’omogeneizzazione tra le eterogenee caratteristiche nazionali. Così, mentre i singoli
padiglioni sono rimasti “indigeni”, l’intero complesso nella sua estensione territoriale tende a una convivenza totale, se non a una sovrapposizione reciproca
di modelli congiunti e disgiunti sul piano dell’economia, della politica e della
cultura. All’interno, a causa delle rispettive costruzioni linguistiche e storiche,
la trama rimane fluida e irregolare, quale conseguenza di agenti multinazionali e subnazionali. Tuttavia la frantumazione e l’individuazione, in ragione di un
mondo molteplice controllato dalla struttura tentacolare delle imprese multinazionali, sottostanno ad un mito dell’immaginario: quello di un procedere e di
un andare avanti, dalle connotazioni utopiche, che sostiene l’idea di mutazione,
in positivo, delle concatenazioni finanziare e consumistiche. Tale stimolo spinge
l’Expo a costruire sempre un paesaggio d’immagini atte ad assumere configurazioni sempre cangianti. Sono messaggi connessi alle capacità tecnologiche e
ai media che veicolano un’informazione sul tema del futuro dell’umanità.
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Pertanto fin dall’inizio delle Esposizioni universali il repertorio utopico e immaginario è sempre stato considerato e sostenuto. I nuovi concetti
di produzione e di consumo sono stati promossi collegandoli a una nuova
immagine spaziale, quella offerta dagli architetti sperimentali ed innovativi:
da Joseph Paxton con il suo “The Crystal Palace” (Londra, 1851), alla “Tour”
dell’ingegnere e giardiniere Gustave Eiffel (Parigi, 1899), a Mies van der Rohe
con “The Barcelona Pavillion” (Barcellona, 1929), da Alvar Aalto con il Padiglione finlandese (Parigi, 1937), a Le Corbusier con il “Philips Pavillion”
(Bruxelles, 1958), dallo studio Philip Johnson & Richard Foster con il “New
York State Pavillion” (New York, 1964), a Richard Buckminster Fuller con
l’avveniristica cupola dell’USA Pavillion (Montreal, 1967). Il ricorso alla visibilità dell’architettura ha una funzione mediatica. Proponendo un’estetica
forte e sorprendente intende divulgare il messaggio di una nuova vivibilità e
di un diverso pensiero sul vivere. La meraviglia e la sorpresa connessa ad
un abitare altro, che per ora sfugge alla società umana, trova un parallelo,
nell’ambito dell’Expo, nella presenza di opere d’arte che si staccano dal pensiero comune cercando di inquadrare visioni future.
Con il suo carattere enigmatico e innovativo l’arte simbolizza la ricerca di un immaginario inedito, sorgente di profonde ideazioni e sorprendenti
scoperte. Per tale ragione sin dalla prima edizione, a Londra nel 1851, erano
presenti rare sculture che emergevano solitarie, insieme a fontane e marchingegni, tra le navate composte di travi di ghisa e di elementi prefabbricati.
Funzionano ancora da arredo tra gli stand commerciali e le passeggiate con
alberi e sedute. Offrivano un appiglio intellettuale borghese ai gentiluomini
in cilindro e redingote che, con signore, visitavano i padiglioni. Inoltre l’accostamento tra artefatto creativo e manufatto artigianale sottintendeva una
parificazione consumistica, in cui entrambi potevano convivere in nome della novità e del lusso.
Tuttavia la voglia di distinguere le cose esposte per la radicalità del
gusto e delle proposte visuali, sin dal 1853, a Dublino, spinge gli organizzatori della grande Esposizione internazionale a isolare gli oggetti d’arte
raccogliendoli nel Palazzo Benson(1). Negli ambienti aristocratici, oltre a un
intreccio tra suppellettili e oggetti decorativi, un ampio spazio viene dedicato
ad una mostra che raccoglie oltre 650 dipinti d’importanza storica, datati dal
1200 al 1700, tra cui Rubens, Raffaello, Van Eyck, Caravaggio, Rembrandt,
Tintoretto, Hogart, Perugino e Watteau. Tuttavia è inizialmente alla scultura,
per la sua carica scenografica e la sua mobilità, tra interno ed esterno, che
le Esposizioni universali si affidano anche per definire una storia dell’arte
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nazionale. La scelta si allarga anche alla pittura, nel 1867 a Parigi, quando
si concretizza l’idea di allestire l’arte in un territorio autonomo. Al tempo
stesso alcune nazioni, rifiutando l’impianto omogeneizzante della manifestazione, racchiusa in uno stesso contenitore architettonico, come il Grand e
il Petit Palais, stabiliscono di costruire un proprio padiglione. È una convergenza d’intenti per affermare un’autonomia e un’identità che prosegue con
alterne vicende, dando corpo a mostre antologiche o retrospettive di singoli
artisti, oppure esposizioni tematiche, dove lentamente vengono inserite le
altre arti, dalla fotografia al cinema, dal design alla musica. L’apprezzamento più dichiarato dell’Expo verso l’arte si manifesta, però, con le commissioni
e i progetti speciali, svincolati dalle mostre, e realizzati in situ nelle aree comuni, giardini o piazze, o nei padiglioni nazionali. Qui la forza delle opere non
è solo ammirata per il valore storico o contemporaneo ma per la commistione e innesto creativo e fantastico tra espressione artistica e architettura o
ambiente urbano.
Tale intreccio con la creatività multimediale si deve ad un architettopittore: Le Corbusier che nel 1958, progettando il Padiglione Philips, edificio
pubblicitario della ditta olandese specializzata in strumenti altamente tecnologici, mette in atto una visione plurilinguistica, così da includere elaborazione ingegneristica e pensiero poetico, spettacolo musicale e installazione
luminosa. Anche in relazione ad una nuova attitudine dell’Expo di promuovere una presentazione architettonica più innovativa, rispetto al passato, l’edificio si muove nell’aria attraverso un sperimentazione tecno-strutturale,
basata su tiranti e vele, comunicando l’idea di un vuoto che prende forma.
Il concetto architettonico si connette infatti alla produzione “immateriale”
del committente, in maggior parte nell’ambito dell’elettronica, per cui Le
Corbusier progetta un sistema fluido di contrappunti, in cui si percepisca la
presenza di un’assenza oggettuale. Le strutture funzionano da “recinto” così
che l’edificio si tramuti in generatore di vuoto e di non materia, impregnato di
luce e di suono. Il risultato è un’impennata di volumi che si basano su superfici paraboliche e iperboliche, che evitano la distinzione tra tetto e muri, ma
si affermano come involucro totale dall’identità ondulatoria e fluida. I loro
profili si avvicinano a un diagramma su monitor, che trova corrispondenza,
per la musica, nelle sonorizzazioni elettroniche del compositore francese
Edgard Varèse. Nasce così Le poème électronique(2) fatto di suono e di colore che formano un unicum, dove la distinzione tra le arti è dissolta. È una
“costruzione” multimediale, dove architettura, luce e suono s’intrecciano. È
un insieme in cui in sincronia si presentano: un lavoro musicale, l’Electronic
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Poem di Edgard Varèse, da un pezzo visuale realizzato da Le Corbusier, un
film preparato con il suo collaboratore Jean Petit e edito dal regista Philippe
Agostini ed un intervento di Iannis Xenakis, Concrete PH.
Un tutto dove si condensano e si mescolano immagini e musiche che interagiscono con il muoversi del pubblico(3).
Nel 1967, a Montreal, il titolo dell’Expo si focalizza su “Man and His
World”, a parte la discriminazione dei generi che è totalmente conservatrice
e antistorica, il progetto espositivo cerca d’indagare il senso dell’esistenza
umana in relazione alla preponderante tecnologia. Rispetto alla monumentalità spettacolare di Bruxelles, l’Expo ’67 già dalla tematica tende a indirizzarsi verso una comunicazione aperta ad un pubblico che non ha bisogno
di essere sedotto dalle immagini, ma dai contenuti. Unificazione, quindi,
architettonica ed informativa dell’intera struttura, che adotta un carattere
tipografico unico e richiede la semplificazione, se non la modularità, delle
architetture. L’aspirazione è evidenziare che le aspirazioni umane sono interiori e non esteriori, non si basano su manifestazioni teatrali e di potere,
ma funzionali e visionarie, come il padiglione a cupola progettato da Richard
Buckminster Fuller. È la soluzione dei problemi tecnologici a dover aiutare la
vita o a dover assistere nel pensare soluzioni abitative come Habitat di Moshe
Sfadie, fino a supportare la memoria del proprio passato, con la ricostruzione del centro antico di un villaggio del Quebec.
Cercare un’uscita dalla subordinazione al mercato e all’utile per
esaltare il valore visuale e estetico dell’esposizione comporta un’attenzione
maggiore ai fenomeni dell’arte che è simbolo di autonomia. In parallelo l’Expo ’67 evidenzia l’impatto del design, come possibilità di qualificare l’attività
produttiva. La convergenza di queste polarità è attestato di un cambiamento
di segno: l’esposizione non è soltanto connessa al commercio e all’economia ma alla veicolazione di culture, in relazioni ai bisogni degli esseri umani
e della società. Già nel 1964, durante la New York World’s Fair, l’architetto
Philip Johnson aveva commissionato per il Padiglione degli Stati Uniti, 10
opere d’artista tra cui Andy Warhol, James Rosenquist, Robert Indiana e
Roy Lichtenstein, integrandoli nella suo progetto. Si tratta però di un caso
in cui l’arte arredava l’architettura. A Montreal, invece, la sua autonomia e
la sua potenza generatrice di ambienti vengono esaltati. Rispetto alla sollecitazione d’suo, funzionale alla promozione mercantile, la ricerca artistica
ritrova una sua identità e una sua autonomia. Nei giardini dell’isola SainteHélène si realizza la mostra Sculpture, introdotta da Guy Robert(4). È una
raccolta internazionale con opere di Costantin Brancusi e Auguste Rodin,
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Pablo Picasso e Umberto Boccioni, Alberto Giacometti e Alexander Calder,
Isamu Noguchi e David Smith, Arturo Martini e Henry Moore. È un segno
del cresciuto interesse per l’arte moderna e contemporanea che indica un
maggiore e futuro investimento simbolico delle Expo verso le novità visuali.
Così dopo aver investito in merci e produzione, in tecniche e in design, l’arte
diventa protagonista di un’identificazione internazionale. Tale linea di tendenza è rafforzata, in diversi punti dell’Expo ’67, in rapporto ad altre rappresentazione nazionali. L’entrata del Padiglione svizzero era dominata da una
scultura cinetica di Max Bill, 14 × 14 m, che ruotava con la forza e la direzione del vento, mentre l’interno era occupato da un’imponente insieme di ferro
di Bernhard Luginbühl, circondato da altre sculture di Alberto Giacometti e
Jean Tinguely(5).
Sempre sull’isola Sainte-Hélène, Alexander Calder realizza un imponente
e spettacolare stabile, commissionato dalla International Nikel Company,
collocato in Place de l’International Nickel e donato alla città per celebrare
il 325° anniversario della sua fondazione. Il concetto della scultura data nel
1966, con il titolo Three disks / Man ed è sviluppato nello studio di Calder a
Saché e presso gli Etablissements Biémont, a Tours, attraverso maquette di
diversa scala, in lamiera di metallo e in acciaio verniciato al carbonio. Dopo
un intenso studio progettuale e ingegneristico, confluito in decine e decine
di disegni e di progetti, la fabbricazione richiese 32.000 ore di lavoro per la
definizione di porzioni di acciaio e per il loro successivo montaggio. Un primo
test costruttivo in scala reale della scultura è attuato, sempre in Francia, nel
gennaio 1967 per essere poi trasportato in Canada per l’evento mondiale che
durerà dal 28 aprile al 27 ottobre. È certamente “the largest and most significant work, even bigger than Spoleto, Italy’s monster”(6). Composto di elementi di acciaio che per la prima volta nel percorso creativo dell’artista non
sono dipinti ma tenuti grezzi, Man risulta alta 20 m e lunga 29 m, per un peso
di 46 tonnellate ed è appoggiata su un piedistallo di cemento. La monumentalità della scultura affonda le sue radici nel procedere libero dell’artista tra
caos e ordine. Tutte le sue opere, dagli insiemi astratti a Circus, dai Mobile
agli Stabile, sono sempre aggregazioni che presentano qualcosa di naturale
e di vivente, dal comportamento libero, ma soggetti a precise strutturazioni
ed equilibri. Appaiono come apparati composti di cellule che possiedono una
loro specificità e creano un sistema molteplice. Guardano all’ordine della
natura e ai suoi effetti dinamici, così da trasformare la materia inanimata,
filo di ferro o porzioni di acciaio in figurazioni molto complesse. Ognuna è
basata su uno schema d’ordine che è qualcosa di fermo, ma è un punto di
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partenza per un movimento continuo. In alcuni casi questo si irrigidisce e
costruisce un fenomeno statico. In tale senso la forma si blocca e nel tempo
diventa riconoscibile: lo stabile, la cui modellazione è alquanto costante, ma
di cui sussistono infinite varianti. In questo caso il processo di progettazione
è inizialmente manuale e libero, per poi transitare in processi progettuali e
fisici che possono essere descritti secondo parametri d’ingegneria, come
succede per Man del 1967. Qui le permutazioni delle forme e delle strutture in metallo devono riflettere la primitività, del procedere manuale, ma
al tempo stesso essere monumentali. È una transito dalla giocosità e dalla
ariosità alla solidità e alla stabilità. Il processo di “solennizzazione”, secondo la grande dimensione della sue leggere sculture inizia nel 1958, quando
Calder, dopo l’intervento per l’UNESCO a Parigi, decide di realizzare grandi stabiles in occasione della sua mostra alla Galleria Perls di New York,
nell’inverno 1958(7).
Nel 1962 otto modelli vengono portati a grande scala, sempre nelle officine
di Biémont, così da raggiungere l’altezza, in un caso, di sei metri. Sono la
conseguenza di piccole maquettes, che vengono tradotte in forme di carta a loro volta usate per ritagliare le lastre di metallo. Un primo intervento
nell’ambito di una Expo internazionale accade a Bruxelles, nel 1958, dove
l’artista presenta The Whirling Ear, alta 6 m, in alluminio e acciaio dipinti di
nero che, fissata al centro di una fontana, ha la parte superiore resa ruotante
da un meccanismo nascosto. I primi stabile, costruiti presso la Segre Iron
Works a Waterburya in Connecticut, poco distante dalla sua casa di Roxbury, si presentano infatti come un innesto tra staticità e mobilità. Succede
anche per Back from Rio del 1958 e per Spirale del 1959, con l’idea che la
monumentalità sia affidata a una porzione di scultura che si muove nell’aria,
quindi un capovolgimento di peso, tra cielo e terra. È nel 1962 a Spoleto in
occasione della mostra di scultura all’aperto, curata da Giovanni Carandente, che con Teodolapio lo stabile si fa “trionfale”, una scultura conduttrice del
potere dell’arte. Costruita negli stabilimenti siderurgici dell’Italsider a Genova, è trasportata a Spoleto. Da immaginata, la scultura si afferma fisicamente per arrivare a occupare lo spazio urbano. Si rigenera: da esperimento in
studio a punto d’incrocio visuale di diverse strade della città.
La posizione al centro dello snodo viario tramuta la forma e il suo materiale in una mediazione del transito. Vale a dire rigetta la restrizione di opera
autonoma, per proporsi anche funzionale. Per questo risulta aperta vero la
dimensione della terra e del cielo. Combina la forza del peso e della gravità
con la leggerezza del vuoto e della trasparenza. È un elemento in divenire
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visivo, un’apparizione che sorprende il viandante e il viaggiatore. Di fatto
la libertà dinamica dei mobiles si trasforma in circolazione di prospettive
immaginarie nel grande stabile. Smaterializza i supporti della forma tradizionale e ne sollecita la dinamicità, aumentando i collegamenti spaziali in
alto e in basso. Negli anni a seguire, dal 1962 al 1966, Calder continua ad
impegnarsi in interventi scultorei di maggior scala. Nel 1963 realizza Le Guichet installata al Lincoln Center a New York nel 1965, e poi nel 1966 Crossed
Baldes collocata accanto ad una torre progettata da Pier Luigi Nervi a Sideny
in Australia e La Grande Voile posizionata presso il MIT - Massachussets Institute of Tecnology, Cambridge (Mass.). Quest’ultima, alta 12 m, offre una
diversa mobilità ottica, ottenuta dall’incrocio di diversi elementi laminati. Infine Man che nella sua apparente leggerezza sembra tendere ad eliminare la
gravità della scultura monumentale. Dal lato del visitatore, infatti, si proietta
leggera nel cielo, quasi a scomparire, aiutata anche dal rapporto con l’azzurro dell’acqua, che circonda l’isola Sainte-Hélène. Rispetto al Teodolapio
di Spoleto, questa sembra rifuggire da ogni investimento corporale, nel suo
ergersi. È piuttosto organizzata intorno al “fiorire” delle forme e degli aculei,
che vanno verso l’alto e il basso. Riflette una sensibilità più naturale, quasi vegetale, anche se il titolo assunto è legato alla dimensione umana. Si
fa dominare da questa enunciandone le infinite diramazioni nell’ambito del
pensiero e della vita.
Nell’Expo ’67 il programma del Padiglione Italia fu elaborato da una
commissione che comprendeva, tra gli altri, Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi
e Palma Bucarelli. Carlo Scarpa progettò il settore della poesia, Leonardo
Ricci quello delle diverse stazioni del costume, Bruno Munari quello dell’industrializzazione e Emilio Vedova realizzò un ambiente di luce e di suono
nella grande area centrale di raccordo del percorso espositivo. Nel percorso dell’artista veneziano l’opera rientra nell’ennesimo tentativo di distruzione e dissolvimento delle forme, iniziata già negli anni quaranta. Soltanto
che a Montreal la pittura materica lascia campo alla proiezione luminosa
e immateriale: Percorso/Plurimo/Luce. L’installazione è basata sull’idea di
un luogo evocativo di una dinamica, che si rapporta storicamente al futurismo, ma aspira ad esplodere in un territorio più ampio del quadro. Le radici
affondano nelle esigenze interiori dell’essere umano che rimanda con i suoi
gesti alla vita e con le materie alla sua linfa. Quasi forte richiamo allo spiritualismo di Kandinskij, professato però in senso laico, dove il movimento
interno non è né spirituale né metafisico ma sociale e politico, così da trovare una dimensione operativa nell’agorà di un’Expo mondiale. Il ricorso ai
vetrini, inventati e realizzati a Murano e al loro uso luminoso sembra allora
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riecheggiare la trasparenza degli “Hinterglasmalerei” o “painting on glass”
di Kandinskij. Prodotti nel 1911, questi lavori furono esposti alla Galleria
Thannhauser di Monaco e, per dichiarazione dello stesso artista, furono “a
way I could free myself of certain thoughts (or, perhaps, dreams)”(8). Anche
per Vedova le lastre di vetro sono segni di un’impronta viscerale, che viene
dall’inconscio. Il riferimento è a una disintegrazione della nozione logica e
geometrica, nonché iconica, che sembra iniziare a dominare, con la Pop e
la Minimal Art, il pensiero e il fare dell’arte. Come Kandinskij che esprime
una “inclination toward the hidden, the concealed, [that] saved me from the
harmful side of folk art”(9), la stessa che alimenta Vedova(10) nei riguardi
del recupero dell’iconografia popolare dei consumi di massa. In entrambi a
contare è lasincerità del costruire, quasi in maniera primordiale, in uno nel
modo tipico del Der Blaue Reiter, nell’altro con la gestualità dell’Informale e
dell’Action painting.
Nel Percorso/Plurimo/Luce l’artista porta a estreme conseguenze l’espansione ambientale della sua pittura, già iniziata nel 1964 con i Plurimi. Soltanto
che a Montreal la tangibilità e la fisicità dei frammenti lignei, spezzati e modulati così da renderli mobili ed articolabili, si traducono in intangibile materia, la luce. È un transito verso una spettacolarità avvolgente e inglobante,
che si era già espressa nell’esperienza scenografica di Intolleranza ’60, in
collaborazione con Luigi Nono. L’idea è far percepire un “concreto drammatico”. Non mera “esposizione esteriore di situazioni sfiorate o passivamente
accettate”. Si tratta di consegnare immagini “‘strutture della coscienza operante’, come scrive Sartre”(11). Un impegno dunque verso il risveglio politico
del pubblico che, nella progettazione dell’insieme di Montreal ricorda storicamente l’invenzione del multiscreen panoramico inventato da Fred Walter
per la World’s Fair del 1939 che suscitò entusiasmo e sorpresa, positivi dopo
la grande Depressione. Una maniera di sollecitare visivamente le grandi
masse delle Esposizioni universali, per renderle partecipi dell’evento cromatico e narrativo, che, come descritto in precedenza, nel 1958 è ripresa da
Le Corbusier nel Padiglione Philips a Bruxelles. Tuttavia rispetto all’assenza
materica di queste esperienze anticipatorie, Vedova è teso a mantenere una
relazione tra materia e immagine. Non lavora sul vuoto, ma sul pieno di un
elemento dinamico, rotante e asimmetrico, realizzato in alluminio anodizzato, che rimanda le proiezioni. Di fatto è la materia, “plurima” perché circolare ed avvolgente, a possedere lo spazio e a creare le sue modificazioni.
Impregna tanto l’architettura quanto l’attenzione del pubblico con il riflesso,
che è sull’ambiente quanto sulle persone, quindi sugli esseri umani (si ricor-
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di che il titolo dell’Expo è “Man and His World”) quanto sul mondo. L’effetto
è di essere avvolti in un universo di gesti sospesi che fluttuano: una camera
oscura che è attivata dal mutare degli innesti sorprendenti di materia vetrosa. Un luogo virtuale di accadimenti in cui il gesto distruttivo e critico dell’artista si rivela attraverso forme che risvegliano e spingono ad interrogarsi sul
loro formarsi, che è quello del vivere con intensità le perturbazioni del vivere.
Nel Percorso/Plurimo/Luce Vedova raggiunge il massimo della dissoluzione
del suo dipingere, non offre un quadro finito e concluso, ma una continua
rigenerazione dell’energia cromatica e visuale. Il suo fare non concretizza un
territorio concluso ad altri, ma è pronto a ricevere l’incontrollabile invasione
degli sguardi altrui. Si spinge al massimo sull’assenza della pittura a favore
dell’azione di un artista che è capace di produrre uno stato di sospensione
immateriale della sua presenza. È un fondo evanescente illimitato che si
adatta al luogo, un’energia prestata che indica un cammino interiore, basato
sulla variabilità e sul mutamento.
© 2015 Germano Celant
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(1) Linda Aimone e Carlo Olmo, Storia delle esposizioni universali, Allemandi,
Torino 1990, pp.174-177.
(2) Le poème électronique Le Corbusier, Editions de Minuit, Paris, 1958; Wolfgang Friebe, Building of the World Exhibitions, Edition Leipzig, 1985; Alessandra Capanna, Le Corbusier. Padiglione Philips, Testo & Immagine, Torino,
2000; Paolo Colombo, Le Esposizioni Universali. I mestieri d’arte sulla scena
del mondo (1851-2010), Marsilio, Venezia, 2010.
(3) Charles de Meaux, L’art au temps des expositions universelles, Les Presses
du réel, Dijon 2012.
(4) Guy Robert, International exhibition of contemporary sculpture / Exposition
Internationale de Sculpture Contemporaine, Expo ’67, Montreal, 1967
(5) Wolfgang Friebe, op.cit., p. 172.
(6) «Il lavoro più imponente e significativo, anche più grande di quello di Spoleto, il mostro in Italia» (traduzione mia) da: Alexander Calder, Statement, in
Man – a Living Symbol, «The Boston Sunday Globe», Boston, March 5, 1967.
(7) Robert Osborn, Calder International Monuments, in «Art in America», vol.
57, n. 2, marzo-aprile 1969, pp. 32-49.
(8) «un modo in cui potevo liberarmi di alcuni pensieri (o, forse, sogni)» (traduzione mia). Citato in Hans Konrad Röthel, Introduction, in Kandinsky. Painting on Glass, The Solomon R. Guggenheim Museum, New York, 1966.
(9) «inclinazione verso ciò che è nascosto, segreto, la quale mi ha salvato
dal lato dannoso dell’arte popolare» (traduzione mia), Hans Konrad Röthel,
op.cit. p. 8.
(10) Emilio Vedova, Dattiloscritti, inediti, 1948 e Appunti, 1983.
(11) Emilio Vedova, Mia esperienza teatrale, in Bühnenbilder der Gegenwart,
Staatlichen Kunsthalle Baden-Baden, 1964.
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Percorso/Plurimo/Luce - Montreal - 1967
Il Percorso/Plurimo/Luce, che Emilio Vedova realizzò in occasione dell’Expo
universale e internazionale di Montreal del 1967, è un momento particolarmente significativo nel complesso percorso della sua ricerca artistica e testimonia, una volta di più, l’inesauribile energia sperimentale che lo sollecitava
senza sosta verso nuove modalità espressive. Questa opera, così anomala e
innovativa ma anche fortemente vedoviana nelle sue implicazioni poetiche e
spazio/temporali, lo impegnò per circa 18 mesi su più fronti a dimostrazione
di come, accanto all’ormai conosciuto Vedova espressionista, ve ne fosse un
altro di marcate capacità progettuali e pronto a misurarsi con problematiche
tecniche di grande complessità, coinvolgendo e confrontandosi con alcune
delle eccellenze industriali più avanzate di quegli anni.
Il tema dell’Expo “Terre des Hommes / Man and His World” era assolutamente congeniale alla sua sensibilità vincolata a quel necessario processo
critico, verso il mondo e i suoi fatti, che da sempre aveva caratterizzato la
sua posizione di artista e di intellettuale.
Invitato dal Ministero degli Esteri a produrre un’opera che potesse esprimere la qualità dei valori e del progresso raggiunti dalla società italiana del
tempo, così come le sue profonde contraddizioni, gli fu assegnato un grande
spazio che raccordava i 3 poli espositivi del Padiglione italiano.
Qualche anno prima, nel 1961, Emilio Vedova fu chiamato dall’amico Luigi
Nono ad una collaborazione per le scenografie della sua opera Intolleranza
’60 che si sarebbe tenuta in prima mondiale al Teatro La Fenice di Venezia.
Per questa appassionante esperienza con la realtà teatrale dell’epoca e stimolato dalla necessità di promuovere un rapporto dinamico e coinvolgente
con lo spettatore, Vedova ricorse alle proiezioni da vetrini dipinti riversando
sulla scena “proiezioni dirette di sentimenti, di sequenze in tutti i punti dello
spazio…”.
L’eco e il successo internazionale fu di grande rilievo ed è proprio a Intolleranza ’60 che Vedova ripensò per decidere quale opera produrre per Montreal. Questa esperienza arricchì profondamente la consapevolezza della sua
ricerca tesa ormai verso una problematica sempre più coinvolta tra lo spazio
architettonico e lo spettatore. I vetrini dipinti usati alla Fenice, tuttavia, avevano indicato un limite insormontabile che per il progetto di Montreal, per il
quale erano previste 10 ore di proiezioni al giorno per 6 mesi, rappresentava
una inattuabilità dal punto di vista tecnico: la pittura, anche la più inalterabile, non poteva resistere a lungo, logorata dal forte calore prodotto dalle lam-
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pade e dai raggi ultravioletti. Parallelamente rimanevano delle perplessità
riguardo ai risultati poco soddisfacenti dei vetrini dipinti per quanto riguarda
la luminosità e la qualità dei colori. L’imponente Percorso/Plurimo/Luce progettato da Emilio Vedova in più prevedeva l’uso di 14 proiettori di grande potenza per poter aggredire tutto lo spazio in un concerto luministico di grande
impatto espressivo. La tecnica di proiezione doveva, quindi, essere pensata
e sperimentata secondo parametri che potessero soddisfare necessità particolarmente complesse.
In quel momento critico Emilio Vedova ebbe una sorprendente intuizione che
gli permise di risolvere la difficoltà e di inventarsi una nuova tecnica poi brevettata: realizzare direttamente le lastrine, con il vetro stesso quindi e non
dipinte, a Murano nelle Fornaci Venini. Iniziarono 4 mesi di intenso lavoro
con le maestranze più qualificate che sperimentarono insieme a lui nuove e
audaci soluzioni tecniche di fusione, taglio, incisione, graffito, collage/vetro,
inserzione di metalli e materiali diversi con acidi e materiali chimici a caldo
e a freddo.
Il progetto, che andava delineandosi con sempre maggiore precisione, prevedeva che ogni proiettore fosse provvisto di una particolare struttura circolare
che conteneva 8 lastrine e ruotava cambiando immagine in una programmazione di movimenti asincroni con le altre lastrine degli altri proiettori.
I numerosi schizzi, progetti e appunti realizzati per questa opera, che così intensamente lo coinvolse a più livelli, testimoniano la particolare complessità
tecnica volta a soddisfare la sua ricerca poetica tesa ad una sorta di opera
totale nella quale lo spazio architettonico si integrava ad uno spazio visivo e
ad uno spazio sonoro.
Le lastrine scelte per completare il Percorso/Plurimo/Luce, ognuna di misure 10 × 8,5 × 1 cm, erano 112 e il risultato fu di eccezionale rilievo perché la
qualità di quelle proiezioni, dove la luce attraversando lo spessore del vetro realizza immagini dalle intense proprietà espressive, superava qualsiasi
confronto possibile. Più volte sentii Emilio Vedova affermare che questa idea
nacque soprattutto osservando le vetrate delle chiese di Venezia, la città
dove la tradizione del vetro è antichissima e con una straordinaria qualità
produttiva.
Per poter sperimentare i vari procedimenti tecnici ed effettuare prove in vista del definitivo allestimento a Montreal, gli fu concesso di usare la ex Abazia di San Gregorio a Venezia.
In questo antico luogo veneziano Vedova realizzò un modello in scala 1/3
rispetto alle dimensioni previste per Montreal e ricostruì un frammento di
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parete originale dove fosse possibile sperimentare uno dei 14 proiettori realizzati appositamente per lui dalla Bauer attraverso la Siemens Italia. Le
prove, nel modello in scala, si svolsero con l’aiuto dei ragazzi del carcere
minorile che aveva sede proprio lì alle Zattere poco distante dall’Abazia e che
movimentavano a mano, su piccoli proiettori teatrali, quella che poi a Montreal sarebbe stata la definitiva programmazione azionata elettronicamente.
A San Gregorio fu, quindi, possibile effettuare una serie di test, mettere a
punto i vari strumenti e affrontare le problematiche tecniche: scelta degli
obiettivi per una massima messa a fuoco rispetto alla distanza dalla parete,
studio del ritmo-colore-segno-luce di ogni lastrina in relazione agli schermi/parete e alle lastrine degli altri proiettori, tempo del fermo proiezione,
velocità del movimento cambio immagine, dispositivi frangiluce della proiezione e quant’altro.
Lo spazio di Montreal, asimmetrico di 51 × 24 m con altezze variabili da 8 a
16 m, venne adattato alle esigenze del progetto vedoviano sia sfruttando le
pareti esistenti del Padiglione Italia sia alzandole dove necessario e utilizzandole come schermi. Le pareti/schermo erano progettate secondo forme
completamente diverse tra loro: curve, ad angolo, di differenti altezze e costruite con materiali che potessero soddisfare la massima qualità possibile
della proiezione. Alcuni schermi, anche trasparenti, furono posizionati pure
a soffitto e inseriti nelle strutture in ferro dell’entrotetto attraverso grandi
tagli che lo stesso Emilio Vedova eseguì nel soffitto ascendente del padiglione. Il soffitto, le parti retrostanti gli schermi bianchi e il pavimento furono
dipinti di nero opaco in modo da poter assorbire al massimo la luce debordante e non avere riflessi inopportuni.
Nella parte centrale Emilio Vedova installò un grande elemento asimmetrico
in alluminio specchiante come fulcro dinamico del Percorso/Plurimo/Luce,
quasi un plurimo come quelli da lui realizzati prima a Venezia nel 1961-1962
e poi a Berlino nel 1963-1965, che, appeso ad una certa altezza, ruotava su
se stesso intercettando e riflettendo le proiezioni in movimento, questo oggetto fu realizzato dalle industrie Laval di Marghera.
La parte sonora del Percorso/Plurimo/Luce fu affidata al compositore Marino
Zuccheri titolare di quel celebre Studio di Fonologia della RAI di Milano che
negli anni cinquanta e sessanta, insieme ai centri di Parigi e Colonia, produsse ricerca di musica contemporanea con tecniche elettroniche di assoluta eccellenza. Nacque così Parete ’67, rielaborazione elettronica di alcuni
materiali sonori di Luigi Nono.
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Per Emilio Vedova il Percorso/Plurimo/Luce, con la sua immateriale potenza
espressiva, rappresentò forse il punto più estremo della ricerca artistica di
quegli anni, dopo lo Spazio Ambiente a Palazzo Grassi nel 1959, Intolleranza
’60 al Teatro La Fenice 1961 e i Plurimi dell’Absurdes Berliner Tagebuch ’64
esposti alla Documenta di Kassel del 1964. Tuttavia non si decise mai ad una
sua ricostruzione forse perché troppo complesso e impegnativo rispetto alla
sua natura di artista sempre proiettata nel futuro e a nuovi progetti espressivi. Insieme ad Annabianca archiviò con cura le lastrine, la grande forma
rotante in alluminio specchiante e tutta la parte progettuale costituita anche
di rapporti con le ditte coinvolte, carteggi, documentazione ecc.; il materiale
preziosissimo e di preciso riferimento consultabile oggi.
La Fondazione Emilio e Annabianca Vedova è lieta, quindi, di poter esporre in
Frammenti Expo ’67: Emilio Vedova un tranciato di quella esperienza, insieme
al materiale documentale e alla proiezione del primo film a colori della RAI
realizzato appositamente per questa occasione, Pittura - Luce per Montréal,
riprodotto nella puntata della trasmissione Incontri con a cura di Gastone
Favero.
Nella sede del Magazzino del Sale è stato ricostruito, nell’allestimento curato dallo Studio Rota, uno schermo in scala 1/3 rispetto al suo corrispettivo di
Montreal sul quale sono proiettate 8 lastrine originali in sequenza. La forma
rotante in alluminio, la stessa che rifrangeva la luce nello spazio a Montreal,
è stata rimessa in funzione, sospesa alle capriate del Magazzino del Sale a
dimostrazione del risultato espressivo raggiunto con questa tecnica innovativa. Nelle vetrine, inoltre, sono esposte diverse lastrine di vetro, documentazione del lavoro alle Fornaci Venini a Murano, progetti di Emilio Vedova. A
corredo, oltre al film, una animazione dimostrativa dello spazio a Montreal
che mette in rilievo la tipologia degli schermi e delle proiezioni, insieme al
loro funzionamento.
Parete ’67 di Marino Zuccheri accompagnerà la visita in questa mostra, dove
è possibile intendere a prima vista le motivazioni di tanta ricerca investita
nell’ottenere una particolare qualità delle proiezioni. e del coinvolgimento
nello spazio.
Fabrizio Gazzarri
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DA VENEZIA ALL’EUROPA: NEL 2015 LA FONDAZIONE VEDOVA
A BASILEA, SALISBURGO E PARIGI
L’attività della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova nel 2015 sarà caratterizzata
da un’eccezionale proiezione internazionale, non solo perché, come di consueto,
gli spazi delle Zattere ospiteranno, parallelamente a quelle di Vedova, le opere un
grande artista di rilevanza mondiale, l’americano Alexander Calder, ma soprattutto
in quanto il lavoro del grande artista veneziano sarà protagonista di importanti
iniziative al di fuori dei confini del nostro Paese.
Dal 18 al 21 giugno sarà infatti il gigantesco ciclo di …in continuum uno dei
principali focus di Art Basel 2015, sicuramente la più importante fiera d’arte
contemporanea al mondo, dove – presentati dalla Galleria Lo Scudo – i 109 quadri
che compongono l’opera saranno ospitati nell’ambito di Unlimited, la sezione
centrale della rassegna. La presenza ad Art Basel di quest’imponente opera di
Vedova è un riconoscimento della straordinaria, inesauribile, contemporaneità di
un protagonista che ha caratterizzato l’arte del ‘900. Prodotto nell’arco di un anno
tra il 1987 e il 1988, ...in continuum si rapporta in modo dialettico con lo spazio,
interagendo apertamente con esso in linea con la sua continua ricerca: un’opera
corale, imponente e drammatica, concepita per esprimere in un’estrema tensione
espressiva una visione poetica frammentata, sincopata e transitoria, una sorta di
accumulo “senza inizio e senza fine”.
L’appuntamento ad Art Basel sarà preceduto da un’importante mostra alla Galerie
Thaddaeus Ropac a Villa Kast di Salisburgo, Georg Baselitz & Emilio Vedova, dove
i teleri degli anni ‘80 di Vedova dialogheranno con opere recenti di Georg Baselitz,
un artista che fu legato al pittore veneziano da grande amicizia e profonda intesa
intellettuale sin dai tempi del soggiorno berlinese di Vedova, come testimoniato
anche dall’omaggio che Baselitz rese a Vedova in occasione della Biennale del
2007, ad un anno dalla sua scomparsa. La mostra, che sarà inaugurata nella città
austriaca il 24 maggio e resterà aperta fino al 31 luglio, è l’inizio di una collaborazione
che proseguirà con una grande personale di Emilio Vedova che verrà allestita tra
alcuni mesi nella sede della Galerie Ropac di Parigi.
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VEDOVA E L’AVANGUARDIA MUSICALE
Magazzino del Sale, 21-24 ottobre 2015
Questo progetto intende sottolineare i rapporti di Emilio Vedova con alcuni
protagonisti della neoavanguardia europea sotto il profilo delle consonanze culturali e affettive. L’interesse del pittore veneziano per la Nuova Musica nasce ai tempi di Intolleranza 1960 di Luigi Nono, l’opera teatrale per
la quale ideò una serie di diapositive che fecero epoca e che rivelavano una
tagliente affinità ideativa tra musica e immagine. L’Omaggio a Vedova per
nastro magnetico del 1961 codifica un incontro che sarebbe durato fino alla
scomparsa del compositore. Il tardo quartetto Fragmente-Stille An Diotima
segna in Nono una mutazione, per il tono estatico e meditativo, rispetto al
veemente giovanile impegno politico; ma nell’ideologia del silenzio si scoprono echi dei climi dissolti dei Carnevali che Nono tanto amava. D’altronde
nelle pittografie di alcune partiture affiorano vaghe affinità con le gouaches
di Vedova. Helmut Lachenmann, massimo esponente del pensiero radicale
europeo, ha frequentato Vedova tra il 1969 e il 1971, quand’era allievo di
Nono. La sua concezione razionale e strutturalmente organizzata è lontana
dalla pittura d’azione (esiste però una “geometria nera” del primo Vedova); e
tuttavia l’evidenza corporea della materia sonora rivela qualche affinità con
il maestro veneziano. Una attrazione profonda lo legava al poetico compositore ungherese György Kurtág anche per le radici mitteleuropee. I KafkaFragmente per voce e violino sono una crestomazia di testi dello scrittore
ceco, 40 frammenti liederistici struggenti, demoniaci, ironici, funerari. La
musica evoca liricamente i fantasmi del passato, nella rivelazione del cosmo
kafkiano, tra speranza illusoria e l’ombra della negatività. Wolfgang Rihm,
uno dei compositori tedeschi più intensamente soggettivi e originali, è particolarmente vicino anche oggi alle idee di Vedova, come ai tempi del primo
Nono. Il suo tumultuoso mondo poetico nelle tensioni neoespressioniste è
affine alla pittura arroventata e drammatica dell’artista lagunare. Gli ha dedicato il suo ultimo quartetto, Gest, una prima mondiale scritta per questa
occasione veneziana, a conferma di una vicinanza artistica e morale. Infine
la Grande Fuga di Beethoven allude ad una tensione utopica non estranea a
Vedova. Schönberg e Bartók sono inseriti nella programmazione per allargare lo spettro stilistico e perché le composizioni contemporanee più significative vivono nella storia.
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Con particolare cura sono stati scelti gli interpreti. Il Quartetto Minguet, uno
dei più reputati quartetti tedeschi, è specialista di Rihm, di cui ha registrato
l’intera, vastissima, produzione quartettistica; Monica Bacelli è per la prima volta impegnata nel Secondo Quartetto d’archi con voce di Schönberg; il
Quartetto Diotima, è il più celebre quartetto francese molto interessato alla
produzione contemporanea; il soprano e il violinista, entrambi ungheresi,
Ann Komsi e András Keller sono esecutori di fiducia dello stesso Kurtág
(Keller è stato suo allievo). Accanto a questi esecutori di fama figura il Quartetto Noûs, cui è stato recentemente assegnato alla Fenice il “Premio una
vita nella musica – Giovani”.
Mario Messinis
PROGRAMMA
21 ottobre
QUARTETTO MINGUET,
MONICA BACELLI soprano
Wolfgang Rihm, Quartetto
(prima assoluta)
Arnold Schönberg,
Secondo quartetto con voce op.10
Ludwig van Beethoven, Grande Fuga
22 ottobre
QUARTETTO DIOTIMA
Helmut Lachenmann, Terzo quartetto
Ludwig van Beethoven,
Quartetto op.132
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23 ottobre
QUARTETTO NOUS
Luigi Nono, Quartetto
Béla Bartók, Quinto quartetto
24 ottobre
ANU KOMSI soprano,
ANDRAS KELLER violino
György Kurtág, Kafka Fragmente
per voce e violino
Alexander Calder (1898 – 1976)
Alexander Calder con il suo genio innovativo cambiò profondamente il corso dell’arte moderna. Nato in una famiglia di artisti riconosciuti, benché di
formazione più classica, sviluppò una nuova modalità di fare scultura: piegando e attorcigliando cavi, “disegnava” figure tridimensionali nello spazio.
È famoso per l’invenzione dei mobiles, i cui elementi sospesi e astratti si
muovono e bilanciano in armonie cangianti. Il termine mobile venne coniato
da Marcel Duchamp nel 1931; la parola “mobile” in francese fa riferimento
sia a movimento che a motivo. I primi mobiles venivano mossi da un sistema di manovelle e motori, sistemi meccanici che furono abbandonati via via
che Calder sviluppò mobiles che rispondevano alle correnti d’aria, alla luce,
all’umidità e all’interazione con il pubblico. Creò, inoltre, opere stazionarie
astratte che Jean Arp soprannominò stabiles.
Dagli anni cinquanta in poi, Calder si concentrò soprattutto su incarichi internazionali e si dedicò principalmente alla costruzione di sculture monumentali fatte di lastre di acciaio imbullonate, installate all’aperto. Tra queste
alcune delle commissioni più importanti sono: .125, per la New York Port
Authority nel John F. Kennedy Airport (1957); Spirale, per la sede UNESCO
di Parigi (1958); Teodelapio, per la città di Spoleto, Italia (1962); The Man /
L’Homme, per l’Expo di Montréal (1967); El Sol Rojo, per i Giochi Olimpici a
Mexico City (1968); La Grande vitesse, la prima opera d’arte pubblica finanziata dal National Endowment for the Arts (NEA), per la città di Grand Rapids, Michigan (1969); e Flamingo, per la General Services Administration a
Chicago (1973).
Grandi retrospettive sull’opera di Calder mentre lui era in vita vennero allestite dalla George Walter Vincent Smith Gallery, Springfield, Massachusetts
(1938); dal The Museum of Modern Art, New York (1943-44); dal Solomon R.
Guggenheim Museum, New York (1964-65); da The Museum of Fine Arts,
Houston (1964); dal Musée National d’Art Moderne, Parigi (1965); Fondation Maeght, Saint-Paul-de-Vence, Francia (1969); e dal Whitney Museum of
American Art, New York (1976-77). Calder morì a New York nel 1976 all’età
di settantotto anni.
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Emilio Vedova (1919 – 2006)
Nato a Venezia da una famiglia di artigiani-operai inizia a lavorare intensamente da autodidatta fin dagli anni trenta. Nel 1942 aderisce al movimento
anti-novecentista “Corrente”. Antifascista, partecipa tra il 1944 e il 1945 alla
Resistenza e nel 1946, a Milano, è tra i firmatari del manifesto “Oltre Guernica”. Nello stesso anno a Venezia è tra i fondatori della “Nuova Secessione
Italiana” poi “Fronte Nuovo delle Arti”.
Nel 1948 partecipa alla sua prima Biennale di Venezia, manifestazione che
lo vedrà spesso protagonista: nel 1952 gli viene dedicata una sala personale,
nel 1960 riceve il Gran Premio per la pittura, nel 1997 riceve il prestigioso
Leone d’Oro alla carriera.
All’inizio degli anni cinquanta realizza i suoi celebri cicli di opere: Scontro di
situazioni, Ciclo della Protesta, Cicli della Natura. Nel 1954, alla II Biennale
di San Paolo, vince un premio che gli permetterà di trascorrere tre mesi in
Brasile la cui estrema e difficile realtà lo colpirà profondamente. Nel 1961
realizza al Teatro La Fenice le scenografie e i costumi per Intolleranza ‘60 di
Luigi Nono con il quale collaborerà anche nel 1984 al Prometeo. Dal 1961 lavora ai Plurimi, prima quelli veneziani poi quelli berlinesi realizzati a Berlino
tra il 1963 e il 1964 tra cui i sette dell’Absurdes Berliner Tagebuch ’64 presenti
alla Documenta di Kassel nel 1964 manifestazione cui partecipò in diverse
edizioni.
Dal 1965 al 1967 lavora al Percorso/Plurimo/Luce per l’Expo di Montréal.
Svolge un’intensa attività didattica nelle Università americane e poi alla
Sommerakademie di Salisburgo e all’Accademia di Venezia. La sua carriera
artistica è caratterizzata da una costante volontà di ricerca e forza innovatrice. Negli anni settanta realizza i Plurimi Binari dei cicli Lacerazione e i Carnevali e negli anni ottanta i grandi cicli di “teleri” fino ai Dischi, Tondi, Oltre e
…in continuum.
Tra le ultime mostre personali di rilievo, la grande antologica al Castello di
Rivoli nel 1998 e, dopo la sua scomparsa nel 2006, alla Galleria Nazionale
d’Arte Moderna di Roma e alla Berlinische Galerie di Berlino.
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Frammenti Expo ’67
Alexander Calder
Opere in mostra
Le poisson de huit heures, 1965
Lamiera metallica,
fil di ferro e vernice
50 x 80 cm
Calder Foundation, New York
Four Planes Escarpé (maquette),
c. 1967
42 x 48,3 x 24,2 cm
Lamiera metallica
Calder Foundation, New York
Monsieur Loyal
(1:5 maquette intermedia),1967
Lamiera metallica, bulloni e vernice
188 x 127 x 101,6 cm
Calder Foundation, New York
Untitled (maquette), c. 1967
Lamiera metallica,
fil di ferro e rivetti
54,6 x 81,3 x 42 cm
Calder Foundation, New York
Trois pics (maquette intermedia), 1967
Lamiera metallica, bulloni e vernice
243,9 x 160 x 169 cm
Calder Foundation, New York
Untitled, 1967
Lamiera metallica, asta,
fil di ferro e vernice
235,6 x 216,5 x 83,8 cm
Calder Foundation, New York;
Purchase, 2012
Trois disques (maquette), 1966
Lamiera metallica e fil di ferro
75,6 x 85,1 x 50,8 cm
Calder Foundation, New York; Mary
Calder Rower Bequest, 2011
Six Planes Escarpé (maquette), c. 1967
Lamiera metallica e fil di ferro
39 x 57,2 x 38,1 cm
Calder Foundation, New York
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Ixe (cartoon for tapestry), 1967
Gouache e inchiostro su carta
74,9 x 109,2 cm
Calder Foundation, New York
Untitled, 1967
Inchiostro e gouache su carta
74,6 x 109,9 cm
Calder Foundation, New York
Film
Fotografie di Ugo Mulas
Alexander Calder: The Creation
of a Stabile (1967)
London Film Unit of International
Nickel Co., New York.
16mm, colore,
audio (inglese); 8 min.
Regia di Dennis G. Hannaford
Alexander Calder, Trois disques,
Expo - Esposizione universale
e internazionale, Montréal, 1967
Foto di Ugo Mulas
© Eredi Ugo Mulas. Diritti riservati
Courtesy Archivio Ugo Mulas,
Milano - Galleria Lia Rumma,
Milano/Napoli
Alexander Calder, Trois disques,
Expo - Esposizione universale
e internazionale, Montréal, 1967
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Milano/Napoli
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Opere in mostra
Opere in movimento
Frammenti Expo ’67
Emilio Vedova
De America ’76 - 5
1976
206,8 x 199,9 cm
Idropittura, carboncino, carta,
pastello e sabbia su tela
Proiettore con struttura girevole
con otto lastrine originali
Schermo riproducente in scala
1:3 l’originale del 1967
Forma rotante originale del 1967
in alluminio laminato (330 x 300 cm)
Serie di lastrine originali realizzate
da Emilio Vedova alla ditta Venini
di Murano
Animazione in 3D del Percorso/
Plurimo/Luce a Montréal
Vetrina con materiale illustrativo
del processo realizzativo
del Percorso/Plurimo/Luce
Marino Zuccheri, Parete 1967
per Emilio Vedova
Musica elettronica
per Percorso/Plurimo/Luce
Realizzato nello Studio di Fonologia
della RAI di Milano, 1967
Riproduzione del servizio televisivo
RAI Pittura – Luce per Montréal
di Alfredo Di Laura (riprese filmate
di Giancarlo Pizzirani; montaggio
di Mariano Arditi), puntata
della trasmissione Incontri
con a cura di Gastone Favero
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De America ’76 - 6
1976
207,5 x 203 cm
Idropittura, carboncino,
carta e pastello su carta intelata
De America ’76 - 7
1976
206,7 x 202,3 cm
Idropittura, carboncino, pastello
e pittura alla nitro su carta intelata
De America ’76 - 8
1976
206,9 x 202,5 cm
Idropittura, carboncino e pastello
su carta intelata
De America ’76 - 9
1976
207 x 204,5 cm
Idropittura, carboncino, carta,
pastello e pittura alla nitro
su carta intelata
De America ’76 - 10
1976
209,2 x 203,5 cm
Idropittura, carboncino,
carta e pastello su carta intelata
De America ’76 - 12
1976
207,6 x 203 cm
Idropittura, carboncino,
carta e pastello su carta intelata
De America ’76 - 13
1976
208 x 204 cm
Idropittura, carboncino, carta,
pastello e pittura alla nitro
su carta intelata
De America ’76 - 15
1976
207 x 203,8 cm
Idropittura, carta e pastello
su carta intelata
De America ’76 - 16
1976
207,2 x 200,5 cm
Idropittura, carboncino,
carta e pastello su carta intelata
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Non alveo ’82
1982
235 x 235 cm
Pittura su tela
Supporti Transitori ’82 - 2
1982
235 x 235 cm
Pittura su tela
Supporti Transitori ’82 - 3
1982
235 x 235 cm
Pittura su tela
Da Dove (1983-4)
1983
235 x 235 cm
Pittura su tela
Di Umano ’83 - 6
1983
235 x 235 cm
Pittura su tela
Impianto automatico stoccaggio e movimentazione opere
Premessa
Il meccanismo installato all’interno del Magazzino del Sale consente, unico
al mondo, di allestire mostre dinamiche di opere d’arte, dove lo scenario
espositivo può essere cambiato a piacimento, riposizionando le opere nello
spazio senza vincoli, il tutto completamente servo assistito da macchine automatiche.
Lo spazio è dotato di un magazzino robotizzato di stoccaggio e di 10 navette
semoventi in grado di trasportare e posizionare le opere nell’ambiente (fig.
1). Il tutto è gestito da un software creato appositamente che mette il curatore della mostra in condizione di decidere dove, come e in che sequenza
esporre le opere, e di realizzare potenzialmente un numero infinito di scenari memorizzabili che si compongono e alternano in modo automatico, dando
vita a una mostra in movimento e sempre diversa.
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Rack stoccaggio opere
L’archivio delle opere è ottenuto mediante la realizzazione di una struttura
Rack (fig. 2) con una capacità max. di 30 opere, dove un particolare trasloelevatore ha il compito di depositare e prelevare le opere stesse dalle posizioni
di stoccaggio. La movimentazione è assicurata da speciali servomotori elettrici controllati a microprocessore per garantire movimenti assolutamente
dolci e precisi. Il magazzino di stoccaggio è completamente automatico e
ha la funzione come di un magazziniere: al macchinario viene richiesto di
prelevare o di consegnare le opere in automatico, in una data successione
alla navetta di trasporto che, a sua volta, avrà il compito di portarle fino alla
posizione espositiva.
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Navette movimentazione
Per poter disporre le opere nello spazio espositivo sono state progettate e
realizzate 10 navette di trasporto e posizionamento, degli speciali organi
semoventi che, correndo in un binario dedicato e ancorato al soffitto (fig.
3), percorrono in senso longitudinale tutta l’area espositiva, partendo dalla
zona di prelievo o deposito fino al punto di esposizione dell’opera, per poi
ripercorrere a ritroso le operazioni per riportare l’opera nel deposito di stoccaggio.
Le navette semoventi possono movimentare le opere in 4 dimensioni o posizioni: longitudinale, trasversale, rotazione, altezza da terra.
Come per il magazzino anche le navette sono dotate di speciali servomotori
comandati a distanza (senza fili).
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La Fondazione Emilio e Annabianca Vedova
La Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, istituita dal Maestro e dalla moglie, ha come scopo essenziale la valorizzazione dell’arte e del lavoro di Emilio Vedova e lo studio della sua figura nella vicenda artistica del XX secolo,
attraverso una serie di iniziative culturali quali, ad esempio, studi, ricerche,
analisi, esposizioni, percorsi e spazi di didattica, convegni, borse di studio,
premi.
La Fondazione, presieduta dall’avvocato Alfredo Bianchini, segue fedelmente la volontà del grande pittore veneziano che sottolineava come la custodia
e la conservazione delle sue opere non potesse essere disgiunta da iniziative
che ne diffondessero la conoscenza, anche in rapporto con i maggiori musei
e istituzioni culturali internazionali, sempre tenendo presente l’impegno di
valorizzare le tematiche “pittura - spazio - tempo - storia” che, a ben vedere,
costituiscono le coordinate di fondo della sua arte e del suo impegno.
La Fondazione, in prossimità della sua sede alle Zattere, ha uno spazio
espositivo permanente delle opere di Emilio Vedova ai Magazzini del Sale.
Tale spazio espositivo – realizzato su progetto di Renzo Piano con Alessandro Traldi e Maurizio Milan e affidato alla cura artistica e scientifica di Germano Celant e di Fabrizio Gazzarri direttore della Collezione e dell’Archivio
– è dotato delle più moderne tecnologie per la conservazione e la fruibilità
delle opere d’arte ed è aperto ai lavori degli artisti di tutto il mondo per un
confronto dialettico con le opere di Vedova.
Da giugno 2010 grazie al restauro dello Studio del Maestro – realizzato sempre sotto la supervisione di Renzo Piano – la Fondazione dispone di un nuovo
spazio multifunzionale in grado di accogliere eventi di carattere non solo
espositivo.
La Fondazione è retta da un Consiglio d’Amministrazione composto da sei
membri, compreso il Presidente, scelti da Emilio e Annabianca.
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Frammenti Expo ’67
Alexander Calder
Curatore
Germano Celant
Con la Collaborazione
Calder Foundation, New York
Alexander S. C. Rower, President
Produzione
Fondazione Emilio e Annabianca
Vedova
Assistente al Curatore
Clelia Caldesi Valeri
Coordinamento
Elena Oyelami Bianchini
Progetto di Allestimento
Studio Italo Rota, Milano
Allestimento
Teatro Tre, Milano
Comunicazione e Ufficio Stampa
Studio Systema, Venezia
Adriana Vianello
Andrea de Marchi
Livia Sartori di Borgoricco
Progetto Grafico
CamuffoLab, Venezia
Marco Camuffo
Trasporti
Arteria s.r.l., Milano
Masterpiece International Ltd, New
York
Assicurazione
MAG JLT s.p.a., Roma
La Fondazione Emilio e Annabianca
Vedova Ringrazia
Veneto Banca, Venezia
AVA, Venezia
Garage San Marco, Venezia
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Frammenti Expo ’67
Emilio Vedova
Curatore
Germano Celant
con Fabrizio Gazzarri
Produzione
Fondazione Emilio e Annabianca
Vedova
Coordinamento
Elena Oyelami Bianchini
Ricerca ed assistenza curatoriale
Clelia Caldesi Valeri e Sonia Osetta
Archivio Digitale
Bruno Zanon
Progetto di Allestimento
Studio Italo Rota, Milano
Allestimento
Teatro Tre, Milano
Comunicazione e Ufficio stampa
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Adriana Vianello
Andrea de Marchi
Livia Sartori di Borgoricco
Progettazione Grafica
CamuffoLab, Venezia
Marco Camuffo
Trasporti
Arteria s.r.l., Milano
Masterpiece International Ltd,
New York
Assicurazione
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Fondazione Emilio e
Annabianca Vedova
Presidente
Alfredo Bianchini
Organizzazione generale
Elena Oyelami Bianchini
Consiglieri
Massimo Cacciari
Germano Celant
Fabrizio Gazzarri
Bruno Giampaoli
Coordinamento archivio
Sonia Osetta
Collegio sindacale
Riccardo Avanzi
Vittorio Raccamari
Michele Stiz
Comunicazione e Ufficio stampa
Studio Systema, Venezia
Adriana Vianello
Andrea de Marchi
Livia Sartori di Borgoricco
Direttore Archivio e Collezione
Fabrizio Gazzarri
Curatore Artistico e Scientifico
Germano Celant
Assistente al curatore
Maddalena Pugliese
e Clelia Caldesi Valeri
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Archivio Digitale
Bruno Zanon
Progetto grafico
CamuffoLab, Venezia
Marco Camuffo
Informazioni
Magazzino del Sale, Zattere 266
Spazio Vedova, Zattere 50
dal 6 maggio al 18 ottobre 2015
10.30 – 18.00
chiuso il martedì
Biglietteria
Spazio Vedova, Zattere 50
intero 8 euro
ridotto 6 euro
studenti fino a 26 anni 4 euro
famiglia (due adulti con figli minorenni) 16 euro
bambini fino a 10 anni gratuito
Ingresso ridotto 6 euro
soci FAI, soci Touring Club Italiano, senior over 65 anni, guida turistica
senza gruppo previa esibizione di tesserino di riconoscimento, disabili
con accompagnatore, giornalisti (con tessera stampa valida per l’anno
in corso), forze dell’ordine (con documento d’identità o in divisa).
Ingresso studenti 4 euro
ragazzi dagli 11 ai 18 anni, studenti fino a 26 anni in possesso
di una tessera studenti valida.
Ingresso gratuito
bambini fino a 10 anni, giornalisti (previo accredito via mail), accompagnatori
gruppi (minimo 15 persone), accompagnatori disabili, il lunedì
per i residenti nel Comune di Venezia, membri dell’Associazione Guide
Turistiche di Venezia.
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