La scienza cognitiva e il rapporto coscienza-inconscio

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La scienza cognitiva e il rapporto coscienza-inconscio
La scienza cognitiva e il rapporto coscienza-inconscio
MICHELE DI FRANCESCO, MASSIMO MARRAFFA
Introduzione
Oggetto del presente lavoro è la relazione tra coscienza e inconscio così come è venuta a
costituirsi nell’ambito della scienza cognitiva contemporanea – intendendo con questa espressione
la scienza cognitiva matura, che ha pienamente integrato al suo interno i risultati delle neuroscienze.
In questo quadro operiamo un confronto con la tradizione freudiana, mettendo in evidenza le
similarità e soprattutto le differenze tra i due approcci. Va tuttavia chiarito che la concezione della
coscienza e dei suoi rapporti con l’inconscio sviluppata dalla scienza cognitiva non è monolitica, e
presenta anzi una grande varietà di punti di vista, sul piano ontologico, epistemologico e
metodologico. Nel nostro contributo privilegiamo il filone più radicale (quello eliminativista e
maggiormente critico nei confronti delle intuizioni di senso comune e del livello personale di
analisi). Non significa che questa sia l’unica lettura – indichiamo noi stessi alcune di quelle
alternative – e neppure quella in assoluto preferibile. Ma, proprio per la sua radicalità e la sua vis
polemica, essa ci è sembrata quella più utile e (ci auguriamo) più ricca di stimoli per aprire un
confronto con chi appartiene alla tradizione psicoanalitica e si interroga sul contributo che la
scienza cognitiva può offrire allo sviluppo del proprio filone di ricerca.
Il primato della coscienza
Qualunque messa a punto filosofica del concetto di coscienza non può che prendere le mosse
dal modello cartesiano della mente e del soggetto. Qui vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto
che questo modello, lungi dal rappresentare una sorta di elaborazione del senso comune, sorge nel
contesto di una grande rivoluzione che ridisegna la geografia concettuale della mente, modificando i
confini che tra mente e mondo erano stati tracciati dal precedente paradigma aristotelico-scolastico.
Come è noto, per Cartesio mente e coscienza coincidono1. Meno nota e apprezzata è forse la
radicalità della proposta cartesiana, che si configura come una vera e propria ricostruzione dei
confini e della natura del mentale rispetto alle concezioni del suo tempo, e in particolare alla
filosofia aristotelica-scolastica. Per Aristotele l’anima aristotelica ha una struttura tripartita: esiste
un’anima vegetativa, che presiede alle funzioni di base, nutritive e vegetative (comuni alle piante), a
essa si aggiunge quella sensitiva (tipica degli animali), che comprende le funzioni sensoriali, a cui
talvolta si aggiungono le facoltà appetitive e locomotorie, e infine le funzioni intellettive, che
individuano le specificità umane. Il confine tra la mente umana e quella animale si colloca al livello
1
Nelle Risposte dell’autore alle seconde obiezioni, Descartes (1641) definisce la mente come «la sostanza cui inerisce
immediatamente il pensiero»; e il pensiero come «tutto ciò che è talmente in noi, che ne siamo immediatamente
consapevoli». 1 del giudizio e della razionalità. Questa tripartizione viene sovvertita da Cartesio, che da un lato
espelle dal mentale quelle funzioni (vegetative e sensitive) che restano escluse dall’accesso alla
coscienza, e dall’altro raggruppa insieme sensazione (cosciente), immaginazione e intelletto come
caratteristiche della mente umana. Così, nelle Meditazioni Metafisiche Cartesio presenta, per poi
criticarle, le seguenti caratteristiche dell’«uomo»:
«Pensavo anzitutto che avevo un volto, delle mani, delle braccia e anche tutta quella macchina fatta di
membra, quale la si può osservare anche in un cadavere, e che designavo con il nome di corpo. Consideravo
inoltre che mi nutrivo, camminavo, sentivo e pensavo, tutte azioni invero che riferivo alla mia anima» (1641,
217-18).
L’ultima frase citata presenta una lista di caratteristiche bio-psicologiche che rimandano ad
Aristotele: esse esprimono le capacità nutritive, locomotorie, sensoriali-percettive e di pensiero.
Questa caratterizzazione non sopravvive alla nuova epistemologia cartesiana: nel suo attacco
all’empirismo della scienza aristotelica2, Cartesio ha infatti introdotto l’ipotesi del genio
ingannatore e il metodo del dubbio: dobbiamo accettare come vero solo ciò di cui non è possibile
ragionevolmente dubitare. Alla luce del test del dubbio le capacità citate sono eterogenee, e solo
l’ultima sopravvive all’ipotesi scettica: potrei infatti non avere un corpo, ma non è possibile nutrirsi
e camminare senza quel corpo della cui esistenza mi è lecito dubitare, e lo stesso può dirsi del
sentire-percepire (si parla qui del sentire come processo fisiologico, ciò che avviene durante la
stimolazione degli organi di senso). Il pensiero invece non sembra richiedere la verità delle mie
credenze nell’esistenza di qualcosa di esterno.
Ed è nello specificare che cosa rientra nel pensiero che Cartesio offre un elenco di
caratteristiche che ridisegna i confini del mentale rispetto ad Aristotele. Sono infatti escluse le
funzioni vegetative, nutritive e locomotorie, mentre vengono assimilate, in quella che è di fatto la
mente cosciente come noi la concepiamo, facoltà aristotelicamente distinte come sensazione,
immaginazione e intelletto3:
«Ma che cosa, dunque, io sono? Io sono una cosa che pensa. Che cosa è mai questa? È una cosa che
dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente»
(1641, 219).
Qui «sentire» assume un nuovo senso: non ci riferiamo più a un processo fisiologico, ma
all’esperienza che ad esso è normalmente associata – e che potremmo avere anche in assenza di un
corpo se il Genio ci ingannasse. La soggettività diventa così il nucleo essenziale della mente.
Quando ho una sensazione di caldo, anche se il fuoco che ne credo l’origine e il corpo in cui
l’avverto non esistono (sto sognando, sono ingannato) resta il fatto che l’esperienza sussiste: «… è
pur certo che mi sembra di vedere, di ascoltare, di sentire calore» (1641, 220). In termini
contemporanei verrebbe da dire che l’io si trova di fronte all’apparenza di un mondo, offerta nella
coscienza. Come ha autorevolmente affermato Rorty (1979, 43), Cartesio introduce un senso di
sentire come «nient’altro che pensare», e così facendo si allontana dalla distinzione aristotelica «tra
2
3
Cfr. Scribano (2010), per una lucida introduzione alle Meditazioni cartesiane. Seguiamo qui Farkas (2008), cap. 1. 2 la ragione che coglie gli universali e il corpo che si cura della sensazione e del moto». Egli
introduce una nuova distinzione, quella «tra la coscienza e ciò che la coscienza non è».
Farkas (2008) ricava dal progetto cartesiano così ricostruito la tesi secondo la quale il mentale
è ciò a cui abbiamo accesso privilegiato, e nega il rapporto diretto tra questa affermazione e il
dualismo. Si tratta di questioni molto complesse, che non approfondiamo. Ci basterà notare come,
lungi dall’essere una mera concessione al senso comune, la dimensione fondativa della nozione di
coscienza in Cartesio e nella filosofia successiva è il frutto di una rivoluzione epistemologica, che
pone al centro del rapporto tra il soggetto e il mondo, la coscienza. L’io è conosciuto meglio del
corpo e il luogo della conoscenza dell’io è la mente cosciente: è nella coscienza che un mondo si dà
al soggetto (essa è la chiave per l’intenzionalità). E la coscienza appare in qualche senso come il
marchio del mentale.
Questa centralità della coscienza sarà riconosciuta anche da critici del pensiero cartesiano,
come Locke, che vi fonda la sua stessa dottrina dell’identità personale:
«Poiché la consapevolezza sempre accompagnando il pensiero, ed essendo quella che fa sì che
ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso, e in tal modo distingua se stesso da tutte le altre cose pensanti, in
ciò solo consiste l’identità personale: ossia nel fatto che un essere razionale sia sempre il medesimo; e di quel
tanto che questa consapevolezza può essere portata al passato, a qualunque passata azione o pensiero, fin là
giunge l’identità di quella persona; è lo stesso io, ora, che era allora; e quell’azione fu compiuta dal
medesimo io che attualmente se la rappresenta nella riflessione» (Locke, 1690, II, xxvii, §11, 337).
In questo breve passo emergono quei rapporti tra coscienza, io, memoria, responsabilità delle
azioni che caratterizza la modernità post-cartesiana.
Resistenze all’idea di una mente inconscia
L’idea della mente umana come una entità unitaria caratterizzata dal primato della coscienza
cominciò a esser messa in crisi dalla filosofia scettica di Hume e in seguito, nell’Ottocento, da
Schopenhauer e Nietzsche. Tuttavia, alla fine del XIX secolo il mentalismo cartesiano era ancora
imperante; e anzi faceva sentire il suo influsso sulle scienze del cervello e della psiche. Si capisce
allora lo sconcerto da parte di filosofi, psicologi e neuroscienziati al cospetto di fenomeni (per
esempio, la grande isteria convulsiva, la fuga dissociativa, l’amnesia psicogena, il disturbo di
personalità multipla) che sembravano esibire una natura mentale ma al tempo stesso trascendevano
la sfera della consapevolezza e del controllo cosciente.
Al fine di riconciliare l’esistenza di fenomeni mentali apparentemente inconsci con una
visione coscienzialistica della mente si misero a punto due strategie (cfr. Livingstone Smith, 1999,
49). Innanzitutto, alcuni studiosi negarono che si avesse a che fare con fenomeni realmente
inconsci; si trattava piuttosto di casi in cui si era verificata una dissociazione o scissione della
coscienza – con le parole di William James, «la coscienza possibile totale» poteva «essere scissa in
parti che coesistono e purtuttavia si ignorano reciprocamente» (1890, 206). Altri studiosi optarono
per una strategia diversa: negare che i fenomeni in questione fossero autenticamente mentali;
potevano essere più accuratamente descritti come disposizioni neurofisiologiche per stati
genuinamente mentali (per definizione, coscienti).
3 Queste strategie per ricondurre fenomeni mentali apparentemente inconsci nell’alveo di una
visione coscienzialistica della psiche sono ancor oggi in uso. Per esempio, Searle (1992) ha adottato
un approccio disposizionalista agli stati mentali inconsci; e nel proporre la tesi secondo cui
«l’ontologia dell’inconscio è in senso stretto l’ontologia di una neurofisiologia in grado di generare
il conscio» ha ripetuto sostanzialmente quanto il fisiologo Ewald Hering aveva dichiarato nel 1870
(cfr. Livingstone Smith, 1999, 141).
La strategia dissociazionista è stata invece sviluppata dai sostenitori del cosiddetto
«partizionismo psicologico», ovvero uno dei più importanti tentativi di venire a capo dei paradossi
dell’autoinganno. Vediamo di che si tratta.
A prima vista, il termine «autoinganno» evoca casi in cui un agente accoglie deliberatamente
credenze che sono in patente contraddizione con i fatti. Di conseguenza, colui che si inganna è
giudicato «irrazionale»; e l’autoinganno è concepito come una condizione patologica che consiste
nella (temporanea) compromissione dei normali processi deputati alla formazione delle credenze
(«normali» per il filosofo che ritiene che lo scopo epistemico fondamentale sia la generazione di
credenze vere). Inoltre, l’autoinganno è tradizionalmente giudicato un fenomeno che si avvolge in
due paradossi. Il paradosso doxastico: un agente inganna se stesso in relazione a una proposizione p
se e solo se in un primo momento crede la verità p, e poi, in qualche modo, fa in modo di indursi a
credere che non-p (ossia che la proposizione p è falsa). Ma ciò – ecco il paradosso – comporta che,
a un certo punto, l’agente professi due credenze i cui contenuti proposizionali sono reciprocamente
contraddittori (p e non-p): una condizione doxastica – si è obiettato – concettualmente impossibile.
Il paradosso dinamico: l’autoinganno sembra essere un agire secondo intenzione; più precisamente,
un agire con l’intenzione di causare in se stessi la formazione di una credenza falsa. Ma allora ci
troviamo di fronte a una grave difficoltà concettuale: un atto intenzionale è normalmente inteso
come un atto consapevole; ma se l’intenzione di ingannarsi è consapevole, ossia è una deliberazione
autocosciente, come può la conoscenza dell’intenzione non compromettere il progetto stesso di
ingannarsi? (cfr. Marraffa, 1999)
Il partizionista cerca di dissolvere il paradosso doxastico scindendo l’agente in due (o più)
sotto-agenti, nelle cui rispettive menti sono collocate le credenze che p e che non-p; e tenta di
risolvere il paradosso dinamico ipotizzando che il sotto-agente ingannato non abbia accesso
all’attività del sotto-agente ingannatore. Donald Davidson viene indicato spesso come il principale
referente di questa strategia, ma in realtà ne offre solo una versione estremamente moderata.
La posizione di Davidson può essere agevolmente esposta nei termini della ben nota
distinzione fra «personale» e «subpersonale». Il filosofo ritiene che la spiegazione personale sia
autonoma da quella subpersonale: ciò comporta che qualora si inciampi in qualche (apparente)
assurdità della Ragione come, appunto, l’autoinganno, non si debba abbandonare il quadro
concettuale della psicologia personale, ma si debba piuttosto estenderlo in modo da reperire
«altrove» la razionalità prescritta dal «principio di carità». In questo quadro, la divisione della
mente è solo un dispositivo metaforico per descrivere in modo coerente (all’interno del quadro
esplicativo personale) un evento (l’autoinganno) che altrimenti risulterebbe inintelligibile. Per
Davidson una partizione mentale non è nulla più che «un muro metaforico» che separa due
credenze contraddittorie. Non si tratta, dunque, di ipotizzare «due menti, ognuna in qualche modo in
grado di agire come un agente indipendente»; è sufficiente immaginare «una singola mente non
totalmente integrata; un cervello che soffre di una lobotomia autoinflitta, forse temporanea»
(Davidson, 1998, 8).
4 Una versione più forte del partizionismo – opportunamente definito da Johnston (1988)
«omuncolarista» – è stata proposta da David Pears. Qui una partizione mentale non è più il muro
metaforico di cui parla Davidson; è piuttosto una ricostruzione concettuale della seconda topica
freudiana: la psiche è divisa in «un sistema principale» e in «un sotto-sistema»; quest’ultimo è
«costruito intorno al nucleo del desiderio per la credenza irrazionale» ed è «organizzato come una
persona» (Pears, 1984, 87). Il sotto-sistema responsabile dell’autoinganno non solo possiede una
propria razionalità interna (è un abile manipolatore del sistema principale) ma professa credenze e
ha desideri nei riguardi del sistema principale (per esempio, è in grado di soppesare e scegliere fra
modi alternativi di soddisfare i desideri del sistema principale)4. Molto opportunamente, Elster
(1984) ha osservato che «questi requisiti comportano quasi inesorabilmente che il sotto-sistema
debba avere qualche sorta di coscienza».
Ritroviamo dunque qui quella stessa esigenza di ricomprendere il discorso sull’inconscio in
quello sulla coscienza che, alla fine dell’Ottocento, aveva spinto alcuni studiosi a reinterpretare le
prove in favore di stati mentali inconsci come prove della possibilità di una scissione o
dissociazione o dédoublement della coscienza. Alla luce di tale conclusione, viene da domandarsi
come si sia potuto considerare le teorie dell’autoinganno di Davidson e Pears difese della teoria
freudiana (cfr. per es. Davidson, 1982; Pears, 1982). Non è forse vero, infatti, che la psicoanalisi
freudiana ambisce ad essere una psicologia subpersonale che va oltre la psicologia della coscienza
(una «metapsicologia»)? In realtà, il partizionismo cattura effettivamente un aspetto della teoria
freudiana dell’inconscio, aspetto che però, come subito vedremo, è il limite principale di questa
teoria.
Inconscio: da Freud alle scienze cognitive
Quando, nell’ultimo decennio del XIX secolo, Freud interviene nel dibattito sull’inconscio,
dapprima opta per una teoria disposizionalista degli eventi mentali (supposti) inconsci5. Quindi,
nell’ambito degli studi sull’isteria condotti insieme a Breuer e fortemente influenzati dall’approccio
francese alla neuropatologia, Freud si pronuncia a favore della concezione dissociazionista6.
Tuttavia, almeno a partire dal saggio Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa (1896), il
geniale viennese cerca di prendere le distanze dalle teorie disposizionalista e dissociazionista e di
dar forma a una teoria dei fenomeni inconsci intesi come stati mentali occorrenti e intrinsecamente
inconsci. Questa è una posizione di grande audacia teorica, e ricchissima di insight ermeneutici, ma
– come subito vedremo – foriera di forti tensioni epistemologiche.
Il problema è il seguente. Freud aspira a oltrepassare la psicologia scientifica del suo tempo,
che è una psicologia della coscienza; la sua teoria dell’inconscio è, dunque, programmaticamente
avversa al partizionismo nella misura in cui questo continua a pensare l’inconscio in un quadro
4
Non a caso J. Laplanche e J.-B. Pontalis osservano che quando Freud compie il passaggio dalla prima alla seconda
topica, il suo modello assume «un carattere antropomorfico: il campo intrasoggettivo tende a essere concepito secondo
il modello delle relazioni intersoggettive, i sistemi si configurano come persone relativamente autonome nella
personalità» (1993, 636). 5
Per esempio, in Sull’afasia, uno scritto del 1891 fortemente influenzato da John Hughlings Jackson, il quale era per
l’appunto un disposizionalista. 6
Scrivono Breuer e Freud: «…quanto più abbiamo continuato ad occuparci [dei fenomeni isterici], tanto più sicura è
divenuta la nostra convinzione che quella scissione della coscienza così sorprendente nei noti casi classici di double
conscience, esiste in stato rudimentale in ogni isteria, e che la tendenza a tale dissociazione e quindi al manifestarsi di
stati anormali della coscienza […] è il fenomeno basilare di tale nevrosi» (1892-95, 183). 5 coscienzialistico. Tuttavia, oggi occorre riconoscere che, di fatto, nemmeno Freud è riuscito
davvero a uscire da tale quadro. Infatti, malgrado la revisione dell’impostazione cartesiana, ancora
in Freud la definizione di inconscio è data per differenza (e per certi versi anche in subordine)
rispetto a quella di coscienza; quest’ultima è presentata come un dato primario e autoevidente,
anche se viene poi criticata e diminuita rispetto alla concezione tradizionale (cfr. Marraffa, 2011,
XXI-XXIII). E dunque è facile constatare che Freud prova a emancipare il mentale dalla coscienza
soltanto in «pochi casi eccezionali o anomali (lapsus, nevrosi ecc.), e in relazione a una concezione
della mente come paradigmaticamente cosciente» (Manson, 2000, 163). E anche in questi casi,
l’inconscio freudiano non è che un ampliamento, o estensione, di una psicologia – quella del senso
comune – imperniata sull’idea di persona capace di esperienze mentali coscienti:
«come le entità mentali che sfilano nella nostra coscienza, quelle che popolano l’inconscio
[psicoanalitico] sono […] fenomeni «di livello personale» […]; l’ipotesi è che, per quanto attiene almeno ai
loro contenuti, le idee inconsce sono indistinguibili dalle loro controparti coscienti in tutto tranne per il fatto
che noi non ne siamo coscienti» (O’Brien e Jureidini, 2003, 143).
Va detto che alcuni studiosi non ritengono che questo sia un male; e anzi giudicano la
capacità di estendere la concezione ordinaria della mente un punto di forza della teoria
psicoanalitica:
«il fondamento della psicoanalisi risiede […] nella sua capacità di offrire una spiegazione unitaria di
fenomeni (il sogno, la psicopatologia, il conflitto psichico, la sessualità, e via dicendo) che la psicologia del
senso comune non è in grado di spiegare – o quanto meno è scarsamente attrezzata a farlo» (Gardner, 1999,
684).
Questa impostazione è la base di una difesa della psicoanalisi da ben note obiezioni
metodologiche: al pari delle spiegazioni della psicologia del senso comune, le spiegazioni
psicoanalitiche non sarebbero tenute a conformarsi ai canoni epistemologici e metodologici della
scienza sperimentale. Il referente di questa concezione della psicoanalisi è nuovamente Davidson,
per il quale – è ben noto – il livello personale è autonomo e diverso da quello subpersonale e va
studiato con metodi distinti: serve l’ermeneutica e non la ricerca di leggi di natura. Si tratta di una
posizione che ha certamente il merito di battere sulla imprescindibilità della dimensione razionale
del pensiero; e tuttavia essa è a rischio di dualismo epistemologico – ed evita quello ontologico solo
accettando la teoria del rapporto cause/ragioni contenuta in Mental Events (1970)7.
All’impostazione davidsoniana – sostanzialmente una forma di antinaturalismo che priva la
scienza del dominio del mentale, intendendo quest’ultimo come uno spazio delle ragioni piuttosto
che delle cause – si contrappone la metafilosofia «revisionista» di quei filosofi che pongono al
centro della loro riflessione sulle scienze cognitive il seguente quesito: come e in quale misura il
quadro concettuale del senso comune deve essere rettificato alla luce delle scienze della mente e del
cervello? Ed è evidente che se si impostano le cose in questo modo, l’apparentamento con la
7
In questo saggio Davidson afferma che non esistono leggi psicologiche nello stesso senso in cui esistono leggi fisiche,
e che gli eventi mentali hanno efficacia causale solo perché identici ad eventi fisici: le spiegazioni psicologiche non
parlano quindi delle cause del comportamento (descritte dalla «fisica»), ma lo rendono comprensibile alla luce delle
ragioni che lo motivano. Di contro, uno dei meriti teoretici maggiori della scienza cognitiva classica è stato il suo
tentativo di colmare il fossato tra cause e ragioni, garantendo nel contempo una certa autonomia al livello di spiegazione
mentalistico. 6 psicologia del senso comune cessa di costituire un punto di forza della teoria psicoanalitica. In
questa prospettiva, si ritiene che la psicoanalisi muova dal livello della persona per guadagnare il
livello subpersonale, ma poi finisca per dover reintrodurre il livello personale nella sfera
subpersonale in modo da consentire alle componenti subpersonali di svolgere il loro compito. È
insomma una psicologia personale mascherata da psicologia subpersonale.
La reazione del filosofo «revisionista» di fronte a questa difficoltà della psicoanalisi sarà
quella di contrapporre all’inconscio freudiano ciò che gli scienziati cognitivi definiscono inconscio
«cognitivo» (o «computazionale»). In questo caso troviamo un livello di analisi che aspira ad essere
autenticamente subpersonale: il livello dell’elaborazione di informazioni, incuneato tra la sfera
personale della fenomenologia e il dominio subpersonale degli eventi neurobiologici. Tale livello
non prende più la coscienza come un assunto indiscutibile, come un fatto non negoziabile. La mente
cognitivista è un processo di costruzione e trasformazione di rappresentazioni, dove per
rappresentazione si deve intendere un’ipotesi esplicativa in una teoria computazionale della
cognizione; una struttura di informazioni (in qualche modo codificata nel cervello), che è
individuata esclusivamente dal ruolo causale-funzionale che svolge nel comportamento, e dunque
interamente a prescindere dalle sue (eventuali) componenti fenomenologiche8. In breve, fra le
condizioni necessarie e sufficienti che uno stato deve soddisfare per potersi qualificare come
rappresentazionale non figurano considerazioni riguardanti la coscienza. Questa scelta
metodologica si è rivelata estremamente fruttuosa sul piano empirico; ciò non toglie che – come più
avanti avremo modo di accennare – nasconda in sé il germe di problemi assai spinosi.
Intenzionalità e coscienza: che cosa viene prima?
Le scienze cognitive sono dunque impegnate nel tentativo di scindere il legame –
tradizionalmente istituito – fra coscienza e intenzionalità (rappresentazione) e di aprire così uno
spazio concettuale per l’edificazione di un’autentica teoria dell’inconscio – una teoria, vale a dire,
che ottenga l’inconscio non più per sottrazione dalla coscienza. Lo scienziato cognitivo deve prima
di tutto elaborare una teoria dell’intenzionalità che sia autonoma dalla coscienza e più basilare
rispetto ad essa (una teoria che sia in grado di trattare allo stesso modo ogni forma di mentalità
rappresentazionale inconscia – e dunque «nei cervelli, nei calcolatori, nel riconoscimento da parte
dell’evoluzione di progetti selezionati», scrive Dennett, 1991, 457). E quindi, su queste basi, si deve
procedere a costruire una teoria della coscienza, ora intendendo quest’ultima come un fenomeno
derivato piuttosto che, cartesianamente, come il fondamento di tutta l’intenzionalità, di tutta la
mentalità.
Concepire la coscienza non più come qualcosa che spiega ma come qualcosa che va spiegato,
analizzato, smontato, è anche in pieno accordo con il naturalismo darwiniano. Nel chiedersi non già
come sia possibile l’inconscio ma come sia mai possibile la coscienza, si accoglie in pieno
l’impostazione metodologica di Darwin che, assumendo la continuità tra la mente animale e quella
umana, prescrive di portare avanti lo studio della coscienza «a partire dal basso», ricostruendo il
8
Questo a meno che le componenti fenomenologiche non vengano riconcettualizzate in termini funzionali e
rappresentazionali. Ciò avviene, ad esempio, nella teoria rappresentazionale dell’esperienza fenomenologica di William
Lycan. Nella sua prospettiva, se sto osservando una rosa, l’esperienza della sua rossezza non è nient’altro che il vedere
la rosa come rossa; oppure se provo un dolore, questo non è nient’altro che il modo in cui mi rappresento un disturbo o
una lesione in una parte del corpo. In breve, non c’è differenza qualitativa che non faccia una differenza di contenuto.
Cfr. Di Francesco (2005, 78-81). 7 processo che dalle funzioni psicologiche più elementari (indagabili nell’animale e nel neonato)
conduce a quelle funzioni psicologiche più complesse che rendono possibile la mente autocosciente
adulta9.
Questo approccio «dal basso» alla coscienza umana è stato bersaglio degli strali critici di John
Searle. Infatti, la teoria searliana della coscienza porta a giudicare illegittima l’ipotesi di un
inconscio cognitivo inaccessibile, finanche in linea di principio, alla coscienza. Il suo principale
obiettivo polemico è Noam Chomsky. Come è ben noto, il padre della linguistica generativa ritiene
che la capacità di produrre/comprendere gli enunciati di una lingua naturale sia resa possibile dalla
conoscenza di una grammatica universale opportunamente parametrizzata e integrata da un lessico.
Questa conoscenza, sostiene Chomsky, è inconscia o «tacita». Ora, non esiste – neppure nella mente
del linguista generativista – un itinerario introspettivo che dalla conoscenza inconscia dei principi
della sintassi possa condurre alla consapevolezza di essi. Si tratta, appunto, di contenuti inconsci a
cui il soggetto non può accedere introspettivamente nemmeno in linea di principio. Searle lo
definisce «inconscio profondo», e contro di esso restaura un nesso intrinseco fra l’intenzionalità e la
coscienza, che denomina principio di connessione:
«Solo un essere in grado di avere stati intenzionali coscienti può avere stati intenzionali, e ogni stato
intenzionale inconscio è, almeno potenzialmente, cosciente. […] Esiste una connessione concettuale tra
coscienza e intenzionalità, dalla quale consegue che una teoria completa dell’intenzionalità richiede una
spiegazione della coscienza» (Searle, 1992, 132).
Dal principio di connessione discende la delegittimazione del progetto darwiniano di attingere
una comprensione dell’intenzionalità della mente umana partendo dal basso, ossia da sistemi
intenzionali più semplici ed elementari. Il principio ammonisce che a una simile strategia rimarrà
per sempre precluso il livello dell’intenzionalità umana, giacché l’essenza di quest’ultima risiede
nella coscienza. E avendo minato la possibilità di concepire l’esperienza «in prima persona» come
l’autopresentazione di un insieme di funzioni psicobiologiche di cui è possibile ricostruire le
vicissitudini ontogenetiche e filogenetiche10, a Searle non rimane che riproporre la concezione
cartesiana della coscienza come entità primaria e fondante rispetto al resto della vita psichica.
Questo approdo cartesiano avvicina Searle a Brentano. Da un lato, Brentano propone una
concezione innovativa della coscienza come un insieme di modalità di rapporto attivo (=costruzione
di rappresentazioni) da parte di un organismo animale con il mondo ambiente. Si è coscienti di
qualcosa, insomma, non lo si è in astratto. E fra gli oggetti possibili del soggetto vi è un oggetto
particolare, il soggetto stesso, la cui rappresentazione costituisce l’autocoscienza. Dunque,
l’autocoscienza non è un’entità da intendere, idealisticamente, come una consapevolezza di sé
primaria, elementare e semplice, antecedente a qualunque altra forma di «sapere», bensì è una
variante del rapporto col mondo. Dall’altro lato, Brentano mantiene un legame intrinseco fra
coscienza e autocoscienza che è precisamente quello che istituisce Searle. La coscienza d’oggetto –
sostiene Brentano – si dà solo in quanto può essere distinta dalla coscienza di sé: «In ogni atto
9
Jervis (1993, 243) fa notare che questa prospettiva coincide con ciò che è stato definito decentramento del soggetto,
per cui «l’attività del soggetto presuppone un continuo decentramento che lo libera dal suo spontaneo egocentrismo
intellettuale» (Piaget, 1968, 170). 10
Come è ben noto, Searle critica il funzionalismo computazionale con l’argomento della stanza cinese, volto a
mostrare che un computer, in quanto puro manipolatore di simboli, non può possedere l’intenzionalità intrinseca che
compete agli stati mentali. 8 psichico è inclusa la coscienza evidente di sé (cosiddetta coscienza secondaria)» (1997, 539).
Questa posizione sarà poi variamente riproposta da tutti i più importanti esponenti della tradizione
fenomenologica. Per esempio, la «conscience de soi» è per Sartre «le seul mode d’existence qui soit
possible pour une conscience de quelque chose» (1943, 20, corsivo nel testo). E di recente alcuni
filosofi hanno fatto ricorso alla nozione brentaniana di coscienza secondaria, o alla nozione
sartriana di coscienza di sé preriflessiva, per elaborare un’alternativa alle teorie della coscienza di
ordine superiore11. Nella prospettiva neo-brentaniana o neo-sartriana, ogni esperienza cosciente è
vissuta in una prospettiva di prima persona e veicola una forma primitiva, prelinguistica e
preconcettuale, di coscienza di sé (cfr. Gallagher e Zahavi, 2010). Malgrado la sua dichiarata
estraneità a questa tradizione, Searle non sembra offrire molto più di questo12.
Tuttavia, i dati dell’etologia cognitiva e della psicologia dello sviluppo ci spingono
decisamente a tracciare una distinzione netta fra la coscienza intesa come stato di vigilanza (l’essere
presenti al mondo) e la coscienza in quanto autocoscienza (l’essere presenti a se stessi). Prima dei
15-18-20 mesi di vita un bambino non possiede alcuna forma primitiva di autocoscienza; al pari
della quasi totalità degli animali, esso non ha alcuna idea, neppure confusa, di esistere. Ciò non
impedisce che egli possieda una coscienza vigile, che gli consente di costruire una serie di
rappresentazioni d’oggetto (di ricostruzioni interne della realtà) nonché di schemi di azione, e
quindi di interagire in modi duttili, e però non autoconsapevoli, con persone e cose. A 15-18-20
mesi di vita il bambino – al pari di alcune specie non umane, come lo scimpanzé – diviene capace di
un automonitoraggio corporeo, ossia di un’attenzione rivolta all’attore materiale come soggetto
(fisico) di azioni. L’automonitoraggio corporeo si compie e si completa in quanto oggettivazione di
un corpo proprio, la quale costituisce una basilare coscienza di sé. Infine, nella specie umana
l’autocoscienza puramente corporea, stile scimpanzé, se pure è identificabile, è verosimilmente
quasi subito sopravanzata e inglobata dall’autocoscienza introspettiva, ovvero la capacità di
prendere in esame riflessivamente le proprie azioni e i propri progetti, e quindi di rendersene
responsabili: come aveva già ben compreso Locke, questo è il fondamento e la definizione stessa
del concetto psicologico e giuridico di persona (cfr. Marraffa, 2011, XXIX-XXXI).
Da Hume a Dennett (passando per Freud): le illusioni dell’io
Che cos’è questa autocoscienza introspettiva? Nella prospettiva «dal basso», i dati
fenomenologici sono effetti, l’esito dell’autopresentarsi di un insieme di funzioni psicobiologiche,
che per le scienze cognitive sono elaborazioni di informazione realizzate neurobiologicamente. Ora,
ciò su cui ora vogliamo richiamare l’attenzione è il carattere ingannevole di tale autopresentazione:
vedremo infatti che alla luce di molti dati delle scienze cognitive, emerge una sfasatura fra il
carattere composito dell’inconscio cognitivo (una molteplicità di funzioni) e le qualità di unità e
autonomia con cui tale inconscio si presenta alla coscienza.
Il problema era già stato chiaramente formulato da Freud, e ancor prima da Hume.
11
Queste teorie definiscono la coscienza come esperienza di ordine superiore oppure come pensiero di ordine superiore.
La prima si distingue dalla seconda in quanto non fa dipendere la consapevolezza di ordine superiore dall’intervento di
un atto di giudizio, ossia da una rappresentazione concettuale dell’esperienza in questione. Su ciò cfr. Carruthers
(2009). 12
Cfr. Searle (2008). La questione meriterebbe un approfondimento ulteriore - cfr. per es. Bermùdez (1998). 9 Hume nega che noi abbiamo esperienza di ciò che chiamiamo il nostro self (il «sé», il «me
stesso» che per Cartesio incontro nell’introspezione, e anche la persona continua e identica a se
stessa nel tempo di cui parla Locke): «quando mi immergo nell’intimo di ciò che chiamo me stesso,
inciampo sempre in qualche particolare percezione […]. Non mi riesce mai di cogliere me stesso se
non in una (particolare) percezione, e non riesco mai a osservare null’altro che la percezione»
(1739-1740, I, IV, 6). Ma allora, cos’è la mente, dato che non è possibile averne alcuna esperienza,
se non come luogo di percezioni disparate? Hume risponde in un celebre passo:
«La mente è una specie di teatro, dove percezioni diverse fanno successivamente la loro comparsa;
passano, ripassano, scivolano via, si mescolano in una varietà infinita di atteggiamenti e situazioni. Non vi è
in questo né semplicità in un dato tempo, né identità in tempi diversi, qualunque sia la nostra naturale
propensione a immaginarci semplicità e identità. Il paragone col teatro non deve fuorviarci. Ciò che
costituisce la mente è solo la successione delle percezioni; né abbiamo la più vaga idea del luogo dove
vengono rappresentate queste scene, e neppure dei materiali di cui è fatto» (ibidem).
Non solo non esiste una sostanza della mente, ma neppure un luogo definito dove le
esperienze trovino una unità che le abbracci. Ciò che noi chiamiamo mente è un fascio di cose
diverse e separate, un flusso discontinuo ed eterogeneo di percezioni, idee, sensazioni, esperienze,
immagini.
A questo punto Hume (e ogni approccio eliminativista humeano) ci è debitore di una
spiegazione dell’apparenza di un io unitario e continuo nel tempo13. Da cosa si origina la credenza
di esistere identici nel tempo grazie alla permanenza del nostro io? La risposta humeana si basa su
una strategia naturalistica: si tratta di applicare le conoscenze sul funzionamento della mente per
spiegare la genesi dell’illusione del soggetto permanente. Tra le singole percezioni nella mente non
sussiste una relazione di identità e quest’ultima «è semplicemente una qualità loro attribuita a causa
dell’unione delle idee di esse nell’immaginazione, quando vi riflettiamo» (ibidem). Occorrerà
dunque cercare tra i tre «principi unificatori del mondo ideale» (contiguità, somiglianza e causalità)
le basi da cui scaturisce l’illusione della nostra esistenza. A giudizio di Hume, l’io altro non è che
un fascio di percezioni momentanee che sono tenute assieme dall’abitudine. In quest’ottica, l’io
unitario e continuo nel tempo è una mera finzione, magari indispensabile nel suo infondere un senso
di continuità alla nostra esistenza, ma pur sempre una finzione.
La teoria freudiana della persona segue la lezione di Hume. Negli anni Venti Freud mette a
punto il suo concetto di das Ich: l’insieme delle funzioni automatiche che presiedono alla
trasformazione del brodo energetico primitivo dell’inconscio (l’Es) in pensieri, coscienza, azioni
responsabili. L’Io è insomma la struttura stessa della mente, in quanto è la parte strutturata di ciò
che, quando non è strutturato, è l’Es. E non è interamente cosciente. Ora, nell’Ichgefühl questo Io
«ci appare autonomo, unitario, contrapposto a ogni altra cosa» (Freud, 1929, 561); ma si tratta di
un’apparenza fallace: in realtà, l’Io è eterogeneo, eteronomo e secondario. L’Io è dunque l’artefice
di un complesso autoinganno: esso genera la certezza immediata dell’esistenza di una mente
autotrasparente, unitaria e controllabile; una certezza indispensabile, dal momento che consente al
soggetto di viversi come persona14.
13
Dennett, per esempio, è esplicito nell’affermare che un’analisi del soggetto è «un complemento necessario per ogni
teoria seria della coscienza» (2001, 221). 14
Dunque, in Freud la critica humeana si coniuga con l’ipotesi avanzata da Nietzsche – e prima ancora da
Schopenhauer – che quella soggettività che noi chiamiamo «io» non sia primaria ma l’effetto di qualche cosa. L’io –
10 Oggi disponiamo di una ingente letteratura empirica in favore sia della tesi secondo cui
l’architettura neurocomputazionale della nostra mente è composita e decentralizzata, sia dell’ipotesi
secondo la quale il presentarsi di tale apparato alla coscienza costituisce una complessa
autoillusione della soggettività autocosciente15. Queste due idee – genialmente anticipate da Hume e
Freud – trovano una raffinata formulazione filosofico-cognitiva nella teoria dell’identità personale
di Daniel C. Dennett.
Alla luce dei dati della neuroscienza cognitiva, Dennett (1991) respinge l’ipotesi che esista, in
qualche zona del cervello, un luogo dove «tutto converge» (un sistema esecutivo centrale che
coordina tutte le varie operazioni cognitive) e la bolla come un mito, «il mito del teatro cartesiano».
A questo mito Dennett oppone una sofisticata teoria cognitiva della coscienza, il modello delle
multiple drafts, secondo la quale ad ogni istante, in ogni parte del cervello, hanno luogo una miriade
di discriminazioni, denominate «fissazioni di contenuto» o semplicemente «contenuti». Una
coalizione di questi contenuti, tenuti assieme da un tema comune, costituisce un draft. Il carattere
cosciente di questi contenuti non dipende dal fatto che essi prendono corpo in una sede spaziale o
funzionale privilegiata (il teatro cartesiano, per l’appunto), e neppure dal fatto che possiedono un
formato particolare; dipende piuttosto da ciò che Dennett (2005) definisce «la fama nel cervello» o
«celebrità cerebrale». Al pari della «fama», la coscienza non sarebbe una proprietà intrinseca dei
processi cerebrali ma è più simile al «peso politico», vale a dire, la misura in cui un determinato
contenuto influenza lo sviluppo futuro di altri contenuti distribuiti in tutto il cervello.
Un’architettura neurocomputazionale che Dennett ha giudicato compatibile con il modello
delle molteplici versioni è quella del global workspace (Baars, 1997). In questa architettura il ruolo
della coscienza è quello di facilitare lo scambio di informazioni in una società distribuita di
«specialisti», vale a dire processi neurocognitivi inconsci, specializzati e paralleli. La coscienza è
uno stato di attivazione globale in una memoria di lavoro – lo «spazio di lavoro globale», appunto –
i cui contenuti possono essere trasmessi a un’ampia gamma di sistemi cognitivi.
Di recente, la GWT è entrata in simbiosi con la neuroscienza cognitiva, soprattutto per merito
di Stanislas Dehaene e i suoi collaboratori dell’INSERM-CEA di Parigi (Dehaene e Naccache,
2001; Dehaene e Changeux, 2004; Gaillard et al., 2009). Secondo questi ricercatori, nel cervello
sono presenti due spazi computazionali, ognuno caratterizzato da una diversa trama di connettività.
Il primo spazio è costituito dai sottosistemi di elaborazione ipotizzati dalla GWT, ognuno dei quali
è specializzato nel trattare un particolare tipo di informazione (per esempio, nella corteccia occipitotemporale l’elaborazione del colore ha luogo in V4, l’elaborazione del movimento in MT/V5,
l’elaborazione dei volti umani nell’area fusiforme delle facce). L’operare di questi «elaboratori
modulari» si avvale di connessioni locali limitate e di medio raggio. Il secondo spazio è lo spazio di
lavoro globale neuronale (per cui ora si parla di una Global Neuronal Workspace Theory, GNWT):
esso è costituito da neuroni distribuiti, tenuti assieme da connessioni di lunga distanza,
particolarmente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regioni parietali. L’ingresso
dell’informazione in questo spazio di lavoro neuronale è il correlato neuronale dell’accesso alla
scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra – non è qualcosa che è dato, ma è qualcosa che è fatto: «“Io” dici tu, e sei
orgoglioso di questa parola. Ma la cosa più grande, cui tu non vuoi credere, è il tuo corpo e la sua grande ragione: essa
non dice “io”, ma fa “io”». 15
Qui il riferimento alla dimensione illusoria ha a che fare con il piano epistemologico: il soggetto autorappresentato
non corrisponde ai meccanismi che lo generano, e anzi ne offre un’immagine distorta. Diversa è la questione
ontologica, ovvero se da questa mancata trasparenza epistemica debba seguire la tesi di una non efficacia causale (se
non inesistenza) dell’io. Di quest’ultima questione non ci occupiamo però in questa sede: cfr. Di Francesco e Marraffa
(2009). 11 coscienza. Tra le connessioni di lunga distanza stabilite dai neuroni dello spazio di lavoro, quelle
top down svolgono un ruolo essenziale nella mobilitazione temporanea di un dato contenuto nella
coscienza: è infatti l’amplificazione attentiva top down il meccanismo in virtù del quale gli
elaboratori modulari possono essere temporaneamente mobilitati e resi disponibili allo spazio di
lavoro globale16.
La GNWT possiede alcune caratteristiche importanti per Dennett. Innanzitutto, la sua
architettura è a parallelismo elevato, e quindi non ha bisogno di postulare un esecutivo centrale.
Inoltre, essa impiega la scomposizione funzionale ricorsiva, un requisito indispensabile per
sbarazzarsi del super-omuncolo che si annida nel teatro cartesiano. Infine, la teoria consente di
ipotizzare che il sopracitato «peso politico» sia realizzato «dalla “riverberazione” in un “ciclo di
amplificazione prolungata” dei contenuti vincenti» (Dennett, 2005, 137-38).
Ora, dal conflitto fra l’eterogeneità della psiche e la nostra autoimmagine di soggetti unitari
Dennett ricava la stessa morale di Hume e Freud. A giudizio di questi ultimi, l’io unitario e
continuo nel tempo è una mera finzione, certamente indispensabile nel suo fondare la nostra
(lockiana) identità di persone, ma pur sempre una finzione. La teoria dell’identità personale di
Dennett prova a riformulare questa tesi anti-egologica in un modo che sia congruente con i più
recenti sviluppi della neuroscienza cognitiva. Non esiste alcuna reale identità che permane nel
tempo e che potremmo definire «io». Di reale potrebbe esserci tutt’al più un io biologico minimale;
ma questo non è null’altro che un principio di organizzazione che implica la distinzione tra io e non
io, qualcosa che si riscontra in ogni forma vivente e che non è sufficiente a garantire quella
continuità coerente nel tempo che si riscontra nell’esperienza umana. Gli esseri umani hanno però –
ci dice Dennett – qualcosa in più: il linguaggio. Per il filosofo americano, l’autocoscienza umana
non è un sistema biologico ma una macchina virtuale «neumanniana». Questa macchina è il
prodotto di comportamenti appresi, che hanno riprogrammato i nostri cervelli biologici.
Comportamenti che hanno natura linguistica: l’autocoscienza è acquisita attraverso forme di
«autostimolazione» linguistica, come ad esempio parlare a se stessi, producendo, ripetendo e
riorganizzando enunciati nel soliloquio manifesto o silenzioso. Questo flusso di verbalizzazione
interna ha trasformato l’attività cerebrale dei primi ominidi, facendo sì che la loro architettura
parallela simulasse il comportamento di un elaboratore seriale, operante sugli enunciati delle lingue
naturali – la cosiddetta «macchina joyciana». Questo software cerebrale «crea» l’io. Una volta presi
nella ragnatela del linguaggio, iniziamo a tessere storie sulle quali abbiamo ben poco controllo; e il
più importante prodotto di questa tessitura è l’io narrativo («il capitano virtuale»). Questo io, però,
è non già qualcosa di reale ma «un centro di gravità narrativa» astratto, paragonabile alla finzione
teorica del centro di gravità che si trova in ogni oggetto. Nel caso della gravità narrativa, tuttavia,
l’io è il punto astratto e dinamico in cui si incontrano le varie storie (biografiche o immaginarie) che
l’individuo racconta di sé stesso o che altri raccontano su di lui.
16
Il modello GNWT ha ricevuto una serie di importanti conferme sperimentali. In uno studio fMRI, Dehaene et al.
(2006) hanno utilizzato il paradigma del priming di mascheramento per porre a confronto l’elaborazione lessicale
inconscia con quella cosciente. Una parola veniva proiettata su uno schermo per poche decine di millisecondi, subito
seguita da un’altra immagine (la «maschera») che impediva al soggetto di percepire la parola a livello conscio. In
genere, la parola diviene cosciente quando l’intervallo fra essa e la maschera è di circa 50ms. I risultati sono stati i
seguenti. Le parole mascherate (inconsce) hanno indotto un’attività locale nelle parti della corteccia visiva deputate al
riconoscimento di parole. Le parole visibili (coscienti) hanno generato un’intensa attività anche nei lobi parietale e
frontale. Dunque, come vuole la GNWT, l’elaborazione cosciente di informazioni recluta risorse cerebrali fortemente
distribuite, mentre l’elaborazione inconscia è più localizzata. 12 Osservazioni conclusive
Quanto dev’essere radicale la decostruzione del soggetto?
Come accennato, la lettura dell’approccio cognitivista qui presentata è particolarmente
radicale. Essa ha il merito di sottolineare il peso teorico del rapporto di priorità esplicativo tra
fenomeni coscienti e fenomeni inconsci: in una prospettiva omuncolare, naturalista e darwiniana è
naturale aspettarsi che i primi dipendano geneticamente e funzionalmente dai secondi. Nello stesso
contesto, è difficile sottovalutare l’importanza della critica all’auto-rappresentazione cosciente del
soggetto: se è vero che gli esseri umani «secernono un sé», come dice Dennett (1991, 459), o più
prosaicamente che ognuno di noi costruisce una narrativa interiore – un’immagine virtuale di se
stesso, dinamica e interattiva17 –, esistono molte prove sperimentali che mettono in discussione
l’affidabilità di questa immagine come rappresentativa degli effettivi processi cognitivi, affettivi e
motivazionali che governano la nostra azione, quanto meno sul versante cerebrale.
Tuttavia la teoria dell’illusione sopra presentata non è esente da difficoltà, che vale la pena di
illustrare, sia pur brevemente. Un primo importante problema riguarda la separazione tra
intenzionalità e coscienza. Come si è detto, essa è cruciale per tutta la tematica dell’inconscio
cognitivo, e si è rivelata estremamente proficua sul piano metodologico ed epistemologico.
Concentrarsi su sistemi rappresentazionali elementari, per poi salire verso strutture più complesse,
senza preoccuparsi della dimensione auto-rappresentazionale, fenomenologica, soggettiva ha
permesso non solo di ottenere risultati di grande rilievo scientifico, ma anche di raccogliere sotto
l’etichetta di «elaborazione dell’informazione ai fini del comportamento intelligente» quella classe
di fenomeni che è l’oggetto precipuo della scienza cognitiva. In questo quadro, lo studio della
coscienza, quando reso possibile dallo sviluppo delle tecniche di indagine sperimentali, si muove a
partire dal primato del binomio computazioni più rappresentazioni: la coscienza indagata è quella
cognitiva, ovvero un processo di auto-monitoraggio, gestione globale dell’informazione ecc.,
analizzabile in termini funzionali e rappresentazionali. Un grande vantaggio di questo approccio è il
contesto unitario in cui tutto viene spiegato, e l’espulsione di ogni senso di miracolo -- tutto fila
liscio dall’ameba all’essere umano, o, nuovamente con le parole di Dennett, dal termostato a noi
(1987, 53).
Il prezzo pagato è però duplice. Da un lato si apre la questione del significato stesso di
«mentale». Abbiamo visto che dalla filosofia post-cartesiana in poi questo significato era legato
all’idea di mente cosciente. Ora, intendere la coscienza come dipendente in senso definitorio dai
processi inconsci è molto più radicale che ampliare il significato di mentale oltre i fenomeni
coscienti (questo è il succo del nostro confronto col modello freudiano). Da un lato questa scissione
ha generato l’annoso problema dei qualia, gli stati qualitativi puramente intrinseci e non relazionali
(e quindi slegati dall’intenzionalità) che secondo molti rimarrebbero come un residuo non
analizzato a caratterizzare la dolorosità del dolore o la rossezza del rosso18. Ma, al di là delle
complicazioni del barocco dibattito sul qualia, la radicale dipendenza della coscienza dai processi
inconsci (e la sua fragilità ontologica conseguente) ci impone di cercare un nuovo significato di
mentale, un diverso marchio del cognitivo, del tutto distaccato dalla dimensione fenomenologica e
soggettiva. Una simile sfida è tutt’altro che semplice e il suo esito molto incerto. Quale può essere il
nuovo marchio? Parlare di computazioni più rappresentazioni può non essere sufficiente:
17
18
Cfr. Metzinger (2009), per una prima illustrazione di questa posizione. Per una critica di questa nozione di quale, cfr. Crane (2001). Vedi anche sopra, nota 8. 13 «I materiali delle spiegazioni scientifiche cognitiviste – flusso dell’informazione, computazione,
trasformazione di vettori di attivazione ed evoluzione dinamica – pervadono l’universo: soltanto se ci
focalizziamo sulle architetture cognitive integrate arriviamo a delle specifiche spiegazioni cognitive»
(Rupert, 2009, 7).
Qui Robert Rupert sta scrivendo nel contesto del dibattito sulla mente estesa (incentrato sulla
possibilità di concepire sistemi cognitivi che travalicano i confini di cervello, corpo e ambiente19), e
propone un criterio sostanzialmente biologico per isolare i processi genuinamente cognitivi: la
mente è un fenomeno che ha luogo negli organismi viventi. Ma la questione non si risolve così
facilmente: esistono molti fenomeni biologici complessi, che coinvolgono anche il sistema nervoso,
come per esempio la digestione. Dovremmo considerarli mentali, come tra l’altro avrebbe fatto
Aristotele? O dobbiamo in questo caso seguire Cartesio? La risposta è tutt’altro che semplice.
Infine, la lettura eliminativista, imperniata sull’ipotesi di un’illusione del soggetto e della
descrizione-di-livello-personale del comportamento, non appare l’unica compatibile con i dati
sperimentali. Per esempio, nel modello offerto dal neuroscienziato Antonio Damasio l’io si
caratterizza come un’entità ontologicamente meno evanescente di quanto appaia nella prospettiva
eliminativista.
Damasio (1999) propone un modello dell’io incentrato sulla distinzione fra due livelli di
coscienza, «nucleare» ed «estesa». Nell’ontogenesi, sostiene il neuroscienziato, si forma
innanzitutto una coscienza nucleare, che non necessita della memoria ed è in grado di fornire al
soggetto un senso di sé in un dato momento: un «self nucleare»20. Dalla coscienza nucleare si passa
gradualmente a quella «estesa». Questa richiede, oltre alla memoria, il pensiero razionale e il
linguaggio, in modo da munire l’organismo di un senso elaborato di sé: un «io» autobiografico
esteso nel tempo. Questo io si estende dal presente immediato della rappresentazione biologica di sé
a quello culturale e sociale di un soggetto capace di forme di autorappresentazione ricche e
articolate. Sebbene sia chiaro che anche Damasio pone all’origine del self (e della coscienza)
processi sub-personali, egli sembra prendere le distanze dall’idea della loro natura illusoria. In
particolare nel recente Self comes to Mind (2010), propone la metafora della coscienza come una
sinfonia che non è prodotta da un singolo musicista, o da una sezione dell’orchestra, e che si
realizza nella assenza di un direttore. Ma specifica che vi è «assenza di un direttore prima che inizi
l’esecuzione, sebbene, via via che l’esecuzione si sviluppa, un direttore prende vita [comes into
being]» (2010, 23-4). Qui abbiamo, sia pure in senso illustrativo, la compresenza di due elementi
apparentemente inconciliabili; la tesi che coscienza e self nascono dall’inconscio e dal subpersonale e quella che dai processi inconsci e sub-personali emerge comunque qualcosa di reale che
li travalica:
«Ora, a tutti i fini, un direttore dirige l’orchestra, sebbene sia stata l’esecuzione a creare il direttore – il
sé – e non l’inverso. Il direttore viene costruito dai sentimenti e da un dispositivo narrativo cerebrale,
19
Per una prima introduzione al tema, cfr. Di Francesco e Piredda (2011). Nel tradurre testi dall’inglese spesso, ma non sempre, rendiamo «self» con «io» invece che con «sé» (di fatto
trattando, in uno specifico contesto, «sé» e «io» come sinonimi). Non introduciamo però un’identificazione sistematica.
La ragione è che purtroppo non esiste un uso omogeneo di queste espressioni negli autori che prendiamo in esame, e
quindi occorre valutare volta per volta il significato dell’espressione «self» nel contesto d’uso in cui occorre. Nel caso
specifico di Damasio, «io» (I) denomina il soggetto umano pienamente in possesso di un linguaggio; «sé» denomina
invece le forme di soggettività che non presuppongono capacità linguistiche. 20
14 sebbene questo fatto non lo renda in alcun modo meno reale. Il direttore esiste senza alcun dubbio nelle
nostre menti, e non c’è nulla da guadagnare a liquidarlo come un’illusione» (Damasio, 2010, 24).
Non ci interessa qui discutere la correttezza del modello di Damasio, e il suo rapporto preciso
con le teorie eliminativiste sopra esaminate. Lo abbiamo chiamato in causa per mostrare come un
approccio naturalistico alle nozioni di io, coscienza e soggettività non passa necessariamente per
una totale decostruzione del soggetto. Attraverso la creazione dei loro «io» gli esseri umani hanno
compiuto degli importanti passi avanti nella navigazione nel mondo, prima sul piano biologico e poi
su quello socio-culturale, e questo al di là dei limiti delle capacità di autorappresentazione che
abbiamo sopra denunciato. Concepire l’io come frutto dell’incontro tra biologia e cultura, lascia
aperta la possibilità di riservare un ruolo cognitivo ed esplicativo (in senso causale) al discorso
psicologico di senso comune – evitando sia di scavare un solco radicale fra la psicologia scientifica
e le scienze sociali (e il senso comune), sia di dover scegliere tra il naturalismo eliminativistico di
Dennett e l’ermeneutica anti-naturalista di Davidson. Non è detto che questa scelta non ci venga
imposta da sviluppi futuri del dibattito, ma al momento non ci sembra esclusa la possibilità di un
punto di vista intermedio.
SINTESI
L’articolo discute il rapporto fra coscienza e inconscio così come è venuto ad articolarsi nell’ambito
delle scienze neurocognitive. In questo contesto, un confronto è istituito fra il concetto di inconscio freudiano
e quello cognitivista (l’inconscio «cognitivo» o «computazionale»). Anche se in merito al tema della
coscienza e dei suoi rapporti con l’inconscio la scienza cognitiva ha offerto più di una prospettiva (e questo
sia sul versante ontologico che su quello epistemologico e metodologico), il presente articolo privilegia il
filone più radicale, ossia quello eliminativista e dunque maggiormente critico nei confronti delle intuizioni di
senso comune e del livello personale di analisi. Sebbene controversa, la lettura eliminativista ci è parsa, e
proprio in virtù della sua radicalità e vis polemica, la più utile per avviare un confronto con chi appartiene
alla tradizione psicoanalitica e si interroga sul contributo che la scienza cognitiva può offrire allo sviluppo
del proprio ambito di ricerca.
PAROLE CHIAVE: Coscienza, inconscio, intenzionalità, io, scienze cognitive.
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