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O Spagna o morte. Così si cerca in tutti i modi di scappare. E può costare fino a 800 euro il viaggio della speranza dalle coste del Senegal
all’Europa. Spesso gli scienziati sociali descrivono i flussi dei clande-
Biglietto di sola andata
per l’Eldorado
REPORTAGE
di Emiliano Bos
stini senza averne una conoscenza diretta. Qui si è cercato di fare il
contrario, partendo dagli uomini in carne e ossa, dalla loro fame e dal
loro sudore
Perchè non si ripeta mai più” è scritto
su un cartello appeso alle pareti ocra
della “Maison des esclaves”, sulla piccola isola di Gorée. Invece si ripete ancora,
eccome. Allora schiavi verso le Americhe.
Oggi clandestini verso le Canarie, porta d’ingresso in Europa. Dalla “Casa degli schiavi”
su questo scoglio davanti al porto di Dakar –
tre secoli fa – iniziava un viaggio di sola
andata. Passando attraverso la cosiddetta
“porta del non ritorno”: una piccola uscita
affacciata sul mare dove i bastimenti diretti
oltreoceano imbarcavano il loro carico di
merce umana. Ora i migranti salpano sulle
grandes pirogues dei pescatori senegalesi
trasformate in triremi del Terzo Millennio.
Stesso Atlantico, altra destinazione: i campi
di fragole dell’Andalusia invece di quelli di
cotone dell’Alabama. Per tre euro all’ora
quando va bene. E non si parte più nemmeno da Gorée, simbolo di una schiavitù condannata e abolita. Tra le viuzze di questa piccola isola-museo in un pomeriggio assolato
di luglio trovi cascate di buganvillee e negozietti di souvenir con gl’immancabili batik.
Le guide si disputano le comitive ciabattanti
in arrivo, francesi ma non solo. Scolaresche
in gita scattano le foto della memoria. Sulla
banchina del porto, un gruppo di rasta scan-
“
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disce sui tamburi djembé il ritmo della risacca. Queste onde, ormai, sono solo per i turisti. Le galee della nostra epoca partono di
notte dai litorali senegalesi cercando di sfuggire ai controlli di un’Europa che alza barriere sul mare. Le frontiere dell’emigrazione
intanto si stanno spostando sempre più a sud
e si salpa ormai anche dalla vicina Guinea
Bissau, dalla Sierra Leone e persino dalla
Costa d’Avorio. Una sorta di circumnavigazione del continente all’incontrario, sulla
rotta della disperazione e della voglia di una
nuova vita. Ieri gli avventurieri coloniali
europei calavano dal nord per saccheggiare le
risorse dell’Africa. Oggi i figli africani della
colonizzazione salgono verso il Vecchio
Continente perché a loro è rimasto ben poco.
Mbaye Fall, 31 anni, il suo viaggio se lo
ricorda bene: “Dopo sette giorni di piroga,
sbarcammo alle Canarie l’anno scorso nel
giorno della vittoria dell’Italia contro la
Francia ai mondiali”. Mentre da noi ancora si
festeggiava, lui era già stato rispedito in
Senegal a bordo di un volo organizzato dalle
autorità spagnole. Rimpatriato. Senza soldi
ma con uno stigma: “Essere rimandati a casa
è un marchio di fallimento”, racconta a bordo
del taxi che guida di notte. “L’auto non è
mia”, puntualizza subito. “Me la presta un
Corbis
amico che di giorno lavora come tassista.”
Nel gorgo infernale del traffico di Dakar le
ore notturne sono un sollievo. Di giorno, i
coloratissimi car-rapide – i bus collettivi –
sono api rumorose e inquinanti nell’alveare
della capitale, in un groviglio di lavori in
corso che costringe a interminabili code.
Mamadou, 29 anni. Merce contraffatta, s’intende. Non serve specificarlo. “Anche le stoffe africane non sono più originali”, aggiunge
Ibrahim, che ha appena avviato un’attività in
proprio dopo tre lustri di lavoro a Roma.
“Abitavo a Porta Maggiore, là mi chiamavano tutti Mario.” Ora lo chiamano così anche
nel mercato dei tessuti del quartiere popolaDakar
re di “Pikine”, ribattezzata Pechino per il
Uno dei principali punti di partenza dei
suo milione e passa di abitanti. “Tutte le
migranti irregolari è Saint-Louis, 260 chilo- stoffe esposte sono di fabbricazione cinese”,
metri a nord di Dakar. Occorre però partire
spiega Ibrahim-Mario. Mostra matasse lunda qui, dalla capitale, per comprendere i
ghe dieci metri; se ne vendono a migliaia.
motivi di un inarrestabile esodo di massa, di Sotto gli aghi di vecchie “Singer” a pedale, le
una fuga parossistica verso il sogno chiama- mani abili dei sarti trasformano queste stoffe
to Europa. Avenue George Pompidou – in
negli splendidi bou-bou, i vestiti colorati e
pieno centro – brulica di piccoli commerci
svolazzanti delle donne dell’Africa
informali, una teoria di bancarelle giustapOccidentale. Il vero panno originale della
poste che trasformano i marciapiedi in una
Costa d’Avorio – con gl’inconfondibili ghiri“vuccirria” in salsa afro, un caotico mercato gori multicolore – al tatto ha una consistenall’aperto. È uno zig-zag tra venditori di ara- za diversa che i polpastrelli percepiscono
chidi tostate, calzini, cd, manghi, orologi,
immediatamente: “Però costa il doppio”, sorbanane, scarpe. E t’imbatti pure nelle “soliride il venditore.
te” cinture Dolce&Gabbana vendute dal
La globalizzazione include tutti. ma ne
“solito” senegalese. Proprio come in via
esclude ancora troppi. Come nel quartiere di
Dante a Milano o sul ponte di Castel
Guinaw Rail, periferia polverosa di Dakar.
Sant’Angelo a Roma. Solo che lui stavolta
Per arrivarci si costeggia il mare sulla
gioca in casa. Casa sua. “La merce arriva al
“Corniche”, una specie di tangenziale a
porto di Dakar dalla Cina via Dubai”, spiega ridosso delle onde. A destra, scogli a picco. A
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Contrasto_Reuters
sinistra, ville lussuose e residenze diplomatiche con trionfi di jacarande fiorite. Si oltrepassano le due “mammelle”, due piccole
alture sabbiose così chiamate per la loro
inconfondibile sagoma. Si prosegue verso
punta Almadies, capezzolo proteso della
Madre Africa verso l’Oceano. È questo il
punto più a ovest dell’intero continente. Nel
labirinto della banlieu della capitale spunta
Guinaw Rail, ammasso di casupole tra stradine di sabbia lungo una ferrovia. “Siamo
una rete che riunisce 55 associazioni di
donne per la promozione di attività lavorative” spiega Maye N’Dour, coordinatrice del
“Reseau” di piccole organizzazioni femminili di un quartierone con centomila abitanti.
Una creatività poliforme per campare: tessitura di batik, trasformazione di cereali, produzione di sapone, microgiardinaggio.
Durante un incontro con i delegati della
“Casa della Carità” di Milano, che stanno
studiando alcuni interventi di solidarietà in
Senegal, la donna – avvolta, anche lei, nel
tradizionale abito multicolore – racconta del
loro sistema di risparmio collettivo per le
spese sanitarie. Venti centesimi di euro al
mese per ogni componente della famiglia.
Una mutua-fai-da te con 612 iscritti, che in
caso di necessità possono usare questi fondi
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per pagarsi farmaci e cure mediche. È la
banca di chi non ha soldi e deve inventarsi la
sopravvivenza. Con dignità e fantasia: per
questo il “Reseau” ha realizzato anche un
centro internet, una radio comunitaria e una
cooperativa di produttori di djembé, i popolari tamburi senegalesi. E mentre gli uomini
sono costretti a partire in piroga per una vita
più dignitosa, le donne sono condannate a
restare. Perché sono la locomotiva del continente. E anche la carrozza-Senegal è trainata
dalla forza-motrice di madri e mogli.
Sola andata
In francese li chiamano “candidati” all’emigrazione. Ma non c’è nessun esame né
concorso da superare. Solo la roulette russa
di una bonaccia per sei-sette giorni, il tempo
d’approdare sugli scogli di Tenerife o
Lanzarote. Il proiettile nascosto di questo
gioco pericoloso col destino s’annida tra le
procelle dell’Atlantico. Lo sa bene Yayi
Bayam Diouf, 49 anni. La incontriamo a
Thiaroye sur Mer, casette basse di fronte alla
spiaggia e un dedalo di stradine di sabbia alla
periferia meridionale di Dakar. Da qui nel
marzo 2006 partì suo figlio Al Umar. Non
fece più ritorno, inghiottito dai flutti implacabili di queste latitudini di mare. “Gli dissi
Emiliano Bos
REPORTAGE
_Sopra, quel che rimane della “Maison des ésclaves”,
sull’isola di Gorée, da dove partivano gli schiavi per le
Americhe. Oggi dal Senegal si parte per le Canarie, che
per molti rappresentano la porta d’ingresso in Europa
io stessa di partire per le Canarie pur conoscendo gli enormi rischi. Ho atteso per oltre
un mese la sua telefonata”, racconta la
donna. Il suo figlio unico ventisettenne non
l’avrebbe mai chiamata. “Un parente da Las
Palmas mi comunicò che Al Umar era morto
in mare per una tempesta durante la traversata dell’Oceano insieme a decine di altri
clandestini.” Il ragazzo – prosegue la madre
con voce leggermente incrinata – venne
ingaggiato a Nouadibou, in Mauritania. Un
passeur gli chiese di condurre una piroga
carica di un’ottantina di aspiranti immigrati
sub-sahariani – non solo dal Senegal, ma
anche da Mali, Niger, Guinea, Liberia –
verso le Canarie, territorio spagnolo e
miraggio europeo visto dall’Africa. Da anni
questo tratto di Atlantico inghiotte centinaia, forse migliaia, di clandestini senza
nome; una cinquantina gli ultimi, naufragati
a luglio, e oltre un migliaio quelli spariti nel
2006. Dopo la disgrazia per la perdita del
figlio, Bayam Diouf ha iniziato la sua personale battaglia. “Ho voluto incontrare le
madri delle altre vittime, perché mio figlio
era il responsabile della piroga e sono morti
tutti a causa sua”, spiega. È difficile parlare a
una madre che ha perso un figlio, aggiunge
la donna. “Siamo noi mamme che spesso
finanziamo le loro partenze verso la Spagna.
“Per questo”, dice ancora Bayam Diouf, “ho
iniziato andando in spiaggia a dire di non
partire, di non rischiare la vita.” Le prime
risposte positive sono arrivate da altre
mamme. Da qui l’idea di creare il “Collettivo
delle donne per la lotta all’immigrazione
clandestina”, che tra l’altro promuove attività generatrici di reddito in un’ottica di prevenzione dell’immigrazione clandestina.
“Lottare contro la povertà significa permettere una vita dignitosa senza bisogno di fuggire altrove”, sostiene la mamma anti-immigrazione. Che ha voluto incontrare anche i
pescatori perché “i trafficanti vengono qui
con denaro contante, comprano una piroga e
un motore, poi cercano i nostri figli pescatori
per condurre la barca alle Canarie”. Il ricatto
dei passeur è semplice: a chi si prende il
rischio di salpare alla guida delle carrette
della morte offrono passaggio gratuito e
denaro per la famiglia che resta. “Qui a
Thiaroye sur Mer almeno 600 giovani sono
partiti, 115 sono morti, 19 rimpatriati. E ci
sono degli scomparsi di cui non abbiamo
notizie”, racconta. La sua è la prima associazione impegnata su questo fronte in Senegal
e probabilmente in tutta l’Africa
Occidentale. “Quando si iniziano a mettere
barriere nei mari o costruire muri con scelte
che provocano la morte di giovani”, conclude
Bayam, seduta in un cortile dove una cooperativa di donne produce saponi e pesce essiccato – bisogna fermare queste politiche e
permettere ai nostri giovani di costruire il
loro Paese con dignità e onestà.”
Rimesse, colonna del PIL
Il biglietto di sola andata per l’Europa
può costare fino a mezzo milione di franchi
locali, circa 800 euro. I conti sono presto
fatti: ogni imbarcazione trasporta in media
un’ottantina di aspiranti clandestini, che
garantiscono un bel gruzzolo ai trafficanti. A
giugno la polizia di Sant Louis ha fermato
un gruppo di 98 quasi-immigrati che stava
per salpare sfidando le onde di notte. I passeur avevano denaro contante equivalente al
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BIGLIETTO DI SOLA ANDATA PER L’ELDORADO
reddito annuo di decine di pescatori. “Io ho
già pagato”, ci racconta Abdulaye, 20 anni,
maglietta scura e sguardo timido. Insieme a
un coetaneo è entrato in contatto con uno
dei “mediatori” della rete informale che
gestisce il traffico di piroghe. “Voglio partire
per l’Europa per guadagnare più soldi. Là c’è
denaro e ci sono possibilià di lavoro, qui in
Senegal, invece, se hai fortuna lavori duro
ma non guadagni. Altrimenti aspetti un’occasione che non arriva mai”, sostiene. Il suo
“passaggio” a caro prezzo per l’Europa l’ha
comprato a Mbour, una località turistica
famosa a sud di Dakar. Da lì, il giovane è
arrivato in bus a Saint Louis, l’antica capitale
coloniale francese. Seguiamo anche noi lo
stesso tragitto salendo dalla capitale verso
nord. Su un rullo d’asfalto infuocato – di
primo pomeriggio – si intuiscono meglio i
motivi della fuga da queste terre. La statale
taglia in un due il Sahel, cintura africana tra
deserto e foresta. Il Senegal è tra i primi
produttori mondiali di arachidi. Ti chiedi
dove le coltivino. All’improvviso dalla strada
si intravedono campi che sembrano pettinati
con l’aratro. Qua e là occhieggiano grandi
baobab, isole d’ombra in lastre di sole. La
pioggia è davvero imprevedibile: di solito
concentrata nei temporali tra luglio a settembre. Poi, a volte, zero pluviometrico per
mesi. Si prosegue sfiorando Louga, una delle
città col più alto tasso d’emigrazione del
Senegal. Un nulla rovente e polveroso.
L’Harmattan soffia come un asciugacapelli
puntato dentro il finestrino. Gli emigrati
garantiscono un indispensabile contributo ai
loro famigliari e all’intero Senegal: le rimesse rappresentano ormai il 7-8% del Pil
nazionale. Secondo Mohamadou Mbodi, presidente del Forum Civile di Dakar, i senegalesi portano 250 miliardi di franchi CFA
all’anno, circa 400 milioni di euro. Un circolo
“virtuoso” che transita per Saint Louis, la
città dal fascino decadente con le sue case in
stile coloniale e il grande ponte ad arcate
metalliche costruito da Gustav Eiffel, lo stesso della celebre Torre. Destinato al Danubio,
fu invece montato qui, dove oggi è un trampolino di lancio verso l’Europa.
di passaggio, uno snodo per tutta l’Africa
Occidentale”, spiega Abdullaye Niang,
docente di Sociologia dello sviluppo
all’Università “Gaston Berger” di Saint
Louis. “Da quando sono aumentati i controlli, è cresciuta anche la clandestinità”,
aggiunge il professore durante una conversazione nel suo studio. L’Europa – attraverso
i programmi dell’agenzia “Frontex” – tenta
di sigillare le frontiere via mare. Schiera
motovedette per fermare il flusso
dall’Africa. Il Senegal, in base ai nuovi
accordi con Bruxelles, prova a intensificare
controlli e repressione anche via terra. Ma
da qui si continua a scappare. Con il rischio
sempre più frequente di essere rimpatriati
dopo poche settimane. “A me è andata
male”, racconta Ahmed Kanteh, titolare di
un piccolo chiosco a Guet N’dar, il quartiere
di pescatori di Saint Louis. Aveva racimolato
risparmi suoi e della famiglia allargata per
raggiungere un cugino a Madrid. “Quasi
tutti abbiamo un parente in Spagna o in
Saint Louis, tra fiume e oceano
La certezza di trovare un passaggio per le
Canarie – anche a caro prezzo – attira qui
migliaia di giovani senegalesi e non solo.
“Questa zona è un punto di reclutamento e
speranza miete sempre
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Con un tasso di
disoccupazione ufficiale
del 48%, in Senegal
non ci sono prospettive
per il futuro.
Per tutto il Paese
risuona solo
un tetro refrain:
Barça o Barzak,
Barcellona o l’“aldila”.
O Spagna o morte.
Ma la traversata della
più vittime
REPORTAGE
_Yayi Bayam Diouf ha perso il suo unico figlio durante
una traversata in oceano alla ricerca di una vita migliore.
Ora è promotrice del “Collettivo delle donne per la lotta
all’immigrazione clandestina”
ma con le coste frastagliate delle Canarie,
distanti oltre un migliaio di chilometri di
mare. Sette-otto giorni di navigazione su
grandi piroghe, 80-100 aspiranti clandestini
inscatolati sotto il sole a bordo della stessa
imbarcazione. Nel 2006 sono sbarcati alle
Canarie oltre 31.000 disperati dell’Africa
sub-sahariana; nei primi sei mesi del 2007 si
è registrato un calo, il 55% in meno dell’anno precedente. Impossibile definire il numero di vittime morte durante la traversata.
Una macabra contabilità senza riscontri
oggettivi. “Sappiamo il numero di arrivi ma
non quello delle partenze”, osserva
Mamadou Biaye, direttore del giornale “Le
Quotidien” di Dakar. “Siamo al punto in cui
per gli immigrati è diventata la stessa cosa
morire in mare sulle piroghe o vivere qui in
Senegal: questo è davvero troppo”, commenta Mouhamadou Seck, coordinatore della
Rete africana per la difesa dei diritti umani
(Raddho) a Saint Louis. L’imperativo categorico è uno solo: partire. Qui la quasi totalità
Emiliano Bos
Italia”, spiega il negoziante. “Il vero problema”, aggiunge “è ricominciare dopo aver
investito tutti i risparmi per il viaggio verso
l’Europa”. La solidarietà famigliare permettere di raggranellare i denari per la traversata, poi però i parenti-azionisti chiederanno il
loro dividendo al congiunto che avrà un
giorno trovato lavoro come operaio in provincia di Brescia. Con un tasso di disoccupazione ufficiale del 48%, in Senegal non c’è
prospettiva per il futuro. Per tutto il Paese –
da Dakar a Kaolack fino alle splendide coste
della Casamance nel sud – risuona un solo
tetro refrain: “Barça o Barzak”, Barcellona o
“l’aldilà”, Barzak in lingua wolof. O Spagna
o morte. Qui l’Unione Europea non prende
forma con la sagoma isolata di Lampedusa,
BIGLIETTO DI SOLA ANDATA PER L’ELDORADO
investire denaro per costruire una piroga
destinata ai clandestini: “Poi recluta un
timoniere e un motorista per condurla fino
alle Canarie e organizza un carico a volte
con un centinaio di aspiranti immigrati: è
inaccettabile, occorre fermare questo tipo di
organizzazione”, picchia duro l’attivista dei
droits de l’homme. Sia nel 2006 che quest’anno ci sono stati arresti lungo tutto il
litorale senegalese; a Saint Louis nelle scorse settimane si è aperto il primo processo
contro i trafficanti di immigrati. Le partenze
però proseguono. “Le cause di questa emigrazione di massa sono complesse. Da
decenni assistiamo all’esportazione abusiva
di pesce nel nostro mare e di tutte le nostre
risorse da parte dei pescherecci stranieri”,
osserva l’avvocato. “Lungo le nostre coste
avviene un vero e proprio saccheggio”, s’indigna Oumar Sarr, vice-presidente del
Comitato di quartiere del villaggio di Guet
N’dar, una sorta di vicesindaco. “I battelli
europei di notte invadono i tratti di mare
Emiliano Bos
delle famiglie “può sopravvivere grazie a un
parente emigrato in Europa. Questo spinge i
nostri giovani, dal Senegal e da tutta
l’Africa Occidentale, a salpare verso le
Canarie”, dice ancora Seck, un avvocato che
da anni si occupa di diritti umani. Dalle
testimonianze raccolte, non esiste una vera e
propria rete “criminale”: si tratta sempre
più spesso di gruppi auto-organizzati, con
veri e propri armatori che acquistano le
piroghe dei pescatori per trasformarle poi in
“barconi della disperazione”. “Ormai i carichi di uomini valgono più dei carichi di
pesce”, scuote la testa Samba Diop, un giornalista locale. Per l’avvocato dei diritti
umani si tratta comunque di una speculazione sulla miseria altrui: “Possiamo assimilarlo tranquillamente al traffico di droga,
perché questi ‘passeur’ vendono morte ai
loro passeggeri”. Il meccanismo è semplice:
di fronte alle crescenti difficoltà soprattutto
del settore ittico – spina dorsale dell’economia di questa regione – c’è chi preferisce
REPORTAGE
_Nel porto di Saint Louis sono ancora una volta protagoniste le donne. Sono loro che aspettano le grandes pirogues che rientrano dal mare e che si occupano della trasformazione e della vendita del pescato
loro barche sui grandi battelli e li portano a
pescare in Gabon e Angola per due o tre
mesi”, spiega il vicesindaco. “Poi riportano
qui i nostri pescatori e fanno rotta verso
l’Asia col loro bottino ittico”. Congelato e
pronto da inviare nel mondo.
La risorsa pesce
Eppure la situazione – in termini di
pescato – non sarebbe “catastrofica” secondo
Pierre Morand, dell’Istituto di ricerca per lo
sviluppo di Dakar. “La quantità di pesce presente in questo tratto di mare è piuttosto
stabile e si mantiene sugli stessi livelli anche
quello raccolto dai pescatori artigianali”,
malgrado l’assenza di dati recenti. Secondo
la Direzione per la pesca del Senegal, nel
2003 sono state prodotte 350.000 tonnellate
di pesce “artigianale”, contro circa 100.000
tonnellate di pesce industriale destinato ai
mercati esteri. “Questi dati sono equivalenti
a quelli di cinque-dieci anni fa”, dice l’esperto in un’ampia intervista al giornale “Le
Emiliano Bos
riservati alla pesca artigianale e ci sottraggono enormi banchi di pesci, provocando gravi
conseguenze per tutto il settore a livello
locale.” Guet N’dar è il villaggio di pescatori
più famoso del Paese, abbarbicato sulla
Lange de Barbare, la sottile striscia di sabbia
tra la foce del fiume Senegal e l’Oceano
Atlantico. Dal 2006, dice ancora Sarr, “almeno un migliaio di giovani sono partiti da qui
verso le Canarie. Restano donne, bambini e
anziani, ma intanto perdiamo la nostra
forza-lavoro altamente qualificata”. Sulle
capacità degli esperti di Guet N’dar non ci
sono dubbi. Tant’è che da anni grandi
pescherecci asiatici – prima russi, ora nord
coreani – vengono qui ad “affittare” piroghe
e pescatori. “Caricano i nostri uomini con le
Quotidien”. Il problema – aggiunge un
secondo ricercatore, Didier Jouffre – è un
altro: “Il volume del pescato non si è davvero abbassato, ma sono aumentati i pescatori
e la pressione della pesca”. Le risorse non
sono dimiuinte però – è il ragionamento
degli esperti – se la torta è sempre la stessa e
aumenta il numero di invitati, le fette si
riducono sempre più. Di parere diverso il
sindacato dei pescatori, secondo cui le imbarcazioni europee – che dovrebbero mantenersi ad almeno 8-10 miglia dalla costa – penetrano di notte nelle acque riservate alla pesca
locale. Fino al 2006, gli accordi per permettere l’attività dei grandi motopescherecci stranieri – soprattutto europei, cinesi e giapponesi – garantiva al governo di Dakar 64
milioni di euro all’anno, con un accordo per
assegnare almeno una percentuale minima
di questi ricavi alle associazioni di categoria
dei pescatori. Che invece lamentano la totale
mancanza di sostegno da parte delle autorità
senegalesi. Beffa doppia, perché invece le
società straniere del settore ittico ricevono
forti sussidi dai loro Paesi: la Cina paga due
miliardi all’anno di dollari per il carburante
dei pescherecci, mentre Unione Europea e i
Paesi membri – secondo il “Wall Street
Journal” – non meno di sette miliardi. Non
solo, le ripercussioni negative in Senegal si
abbattono su una filiera di 600.000 persone,
che costituisce il primo settore produttivo
del Paese. E spesso sono le donne a pagarne
le conseguenze. Perché la “trasformazione”
del pesce – e la vendita sul mercato locale – è
tutta affidata a loro.
Per rendersene conto basta andare la mattina
presto nella zona del porto di Saint Louis.
Donne d’ogni età – anche anziane e ragazzine – aspettano le grandes pirogues che rientrano dal mare. Appena si avviciano a riva,
gli scaricatori fanno la spola con la terraferma infilandosi nell’acqua fino alla vita.
Sistemano sulla testa casse di pesce pesanti
decine di chili, che sgocciolano come una
grondaia dopo un acquazzone. Entrano ed
escono rapidi dai flutti come piccoli bulldozer anfibi; ai piedi indossano scivolosi sandaletti di plastica che si trasformano invece in
cingolati di caterpillar. Sgattaiolano verso i
camion-frigo che attendono sulla banchina.
Rombi, razze, occhiate, sardine, branzini. Il
pesce buono prende subito la via di Dakar o
verso l’interno del Paese. Il resto viene scaricato su grandi teli di plastica dove sono pro26
Emiliano Bos
BIGLIETTO DI SOLA ANDATA PER L’ELDORADO
prio le donne del posto a selezionare i pezzi
migliori da prendere a credito e rivendere
poi nell’affollato mercato ittico. Aminata,
una ragazzina fragile che indossa le immancabili infradito, si carica un secchio colmo di
pesce fresco sulla testa e s’incammina verso i
padiglioni del mercato. Chi può permetterselo, evita la fatica del percorso a piedi viaggiando a bordo di un piccolo calesse trainato
da un ronzino bolso, alternativa economica
ai tradizionali taxi. Una parte del pescato è
destinata all’essicazione e alla preparazione
sotto sale. Il “laboratorio” all’aperto – qui,
sulla riva del fiume dove attraccano le piroghe – ha atmosfere surreali da film in bianco
e nero di un’altra epoca. Il terreno è un
melma fangosa grigiastra impastata di scarti
di pesce e conchiglie. Dentro grandi bidoni
ormai neri di grasso si cuociono sardinelle
ricoperte poi di sale. Persino le vesti cangianti delle donne sembrano stinte in questo
girone dantesco, tra lische di pesce marcite e
file di rombi esposti all’aria per l’essicatura.
Mani rugose ma esperte – di donna, ancora
una volta – attizzano un piccolo rogo. Fumi
e miasmi si mescolano nella luce tremula di
un tramonto senza bagliori. “Sono necessarie regole igieniche che qui non sono più
rispettate da tempo”, spiega a East Lamin
Kan Joum, responsabile del “Servizio pesca”
del comune di Saint Louis. “In queste condizioni l’attività di trasformazione non può
continuare, nei prossimi mesi tutta la zona
verrà smantellata”, aggiunge il funzionario
REPORTAGE
per il turista, ripetitiva, ma proteica pietanza
unica per gli abitanti di casa. Il vero piatto
forte è comunque la “teranga”, la proverbiale “ospitalità” senegalese che supera per
calore e spontaneità anche cortesie già collaudate in altre lande d’Africa.
Emiliano Bos
Clandestini di serie B
Intanto chi non fugge è costretto ad arrabattarsi. Pochi chilometri a nord di Guet
N’Dar scorre il confine con la Mauritania,
altra terra di partenza per le piroghe ma, le
cui spiagge sono ormai presidiate dalla guardia costiera locale e spagnola. Dal villaggio di
Gouum Bahx partono anche fuoristrada
imbottiti di persone e mercanzie diretti al
piccolo abitato di Ndiago, poche casette prefabbricate di metallo già in Mauritania. In
mezzo, tra i due Paesi, sette chilometri di
dune e mare con una frontiera non tracciata.
Solo senegalesi e mauritani possono attra_Uno dei principali punti di partenza dei migranti irregoversarla, ma non gli stranieri. Consapevoli di
lari è Saint Louis (sopra a sinistra), paese dedito alla peessere clandestini per un’ora, c’infiliamo
sca e situato a circa 260 km a nord della più caotica Dacomunque su una “4x4” che slitta tra la sabkar (sopra)
bia algida di un mezzogiorno infuocato. Una
manciata di minuti ed è Mauritania. Un
poliziotto blocca subito il “bianco” intrufolariferendosi all’“inferno” in chiaroscuro che
to tra i locali e gli intima di ripartire con la
abbiamo appena visitato al porto. Altrove,
prima jeep disponibile dopo un breve interinvece, la collaborazione con alcune organiz- rogatorio con piglio minaccioso. Decisione
zazioni non governative internazionali ha
non inattesa, che permette comunque di
dato risultati incoraggianti: bisogna percorsbirciare da vicino il via-vai di piccoli traffici
rere un paio di chilometri sulla stessa peniin questa quasi-terra-di-nessuno. Sul tetto
sola e oltrepassare Guet N’Dar. Nel punto
del fuoristrada si accumulano pacchi, bidoni,
dove la lingua di sabbia tra fiume e Oceano
bottiglie di plastica, taniche. Contrabbando
misura poche centinaia di metri, hanno tro- puro e semplice. Come per qualsiasi taxi colvato spazio i locali della “Djamabar Syn”,
lettivo africano, l’unico criterio per la paruna delle quattro cooperative del villaggio
tenza del viaggio di ritorno verso il Senegal
dove lavorano in tutto oltre duecento donne. è il “tutto-esaurito”. Mezz’ora dopo si ragSpazi puliti, igiene, acqua corrente: rispetto
giunge quota dodici passeggeri. Si riparte.
al marasma nauseabondo del porto, qui pare L’auto slitta sulla sabbia come in uno slalom
un padiglione della Nokia. Lo stipendio
del Sestriere. Dal finestrino s’intravvedono
mensile si aggira intorno ai 20-30.000 fran- colline ondulate e colonie di granchi nell’acchi CFA, 35-40 euro. “Troppo poco anche per qua stagnante del fiume. All’improvviso
noi”, spiega una delle coordinatrici, Seneba
dalle uniche palme di tutto il tragitto sbuca
Ndiaye, 48 anni e cinque figli. “La vede
una pattuglia della polizia senegalese.
quella casa? È stata costruita coi soldi dei
Dall’alto del fuoristrada due ragazzi scaricanostri parenti che lavorano in Spagna da
no all’istante ogni tipo di merce, come se
alcuni anni”. Suo figlio Seydou vorrebbe
fosse un copione ben conosciuto. Le taniche
partire per raggiungere un cugino a Siviglia. rotolano tra la sabbia. Attimi di panico a
“Dico di no, è diventato troppo pericoloso”, bordo, l’autista pigia e non si ferma. La
ammette Seneba, che intanto spalanca le
donna di fronte a noi apre una confezione di
porte della sua abitazione semplice ma acco- dodici spray “Ddt” e li distribuisce con gesti
gliente. Subito per l’ospite si prepara tierapidi. Ne infila un paio sotto la sottana,
boudienne, pesce cotto con verdure. Delizia
tutti prendono e nascondono una bottiglietta
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BIGLIETTO DI SOLA ANDATA PER L’ELDORADO
per spirito di solidarietà. Anche noi la infiliamo nello zaino. La pattuglia si ferma nella
striscia di nulla tra i due confini, all’arrivo in
territorio senegalese i passeggeri si dileguano in un batter d’occhio. Ognuno restituirà
poi il “Ddt” alla donna, l’unica che ha salvato il suo piccolo malloppo. Il resto, scivolato
tra la sabbia dal tetto della jeep, è stato
sequestrato dalla polizia. “Accade spesso, la
polizia cerca di spaventare la gente”, commenta sornione l’autista. “Ma noi dobbiamo
pur sopravvivere”.
La stessa frase – letteralmente – che ti senti
rivolgere la mattina dopo all’alba a bordo
della piroga “Ahmadou Bamba”. “Dobbiamo
sopravvivere”, sbotta Doudou Gueye, 22
anni, un terzo della sua vita già trascorsa a
gettare e reti. Salpiamo da Guet N’dar alle
prime luci. Onde alte a ridosso della riva, poi
il respiro lento dell’oceano. Sull’autostrada
invisibile dell’Atlantico il timoniere vira a
babordo come per una sosta all’autogrill. Ha
riconosciuto la porzione di mare dove ieri
mattina – stessa ora, stesse riflessi diafani in
un verde increspato – i marinai avevano gettato le reti. Bottino magro anche oggi: qualche sarago, rombi, occhiate, salpe. “Capisci
perché ce ne vogliamo andare? Qui perdiamo
tempo. Chi è in Spagna lavora davvero.
Anch’io voglio partire come clandestino”,
insiste Doudou. Fosse per lui, farebbe rotta
direttamente verso le Canarie con questa
bagnarola, che invece punta di nuovo verso
Guet N’Dar per il rientro a terra. A mezzogiorno sono allineate centinaia di piroghe
sulla spiaggia, in un mosaico dalle mille tonalità che conferisce alle barche quasi la solennità di sculture colorate. L’immigrazione si alimenta anche di paradossi: dall’Europa le
rimesse dei senegalesi all’estero finanziano le
partenze di nuovi aspiranti immigrati. A poco
finora sono servite le misure dell’Unione
Europea per fermare i boat people africani
con i dispositivi di sorveglianza delle frontiere
marittime. Il bilancio del ministero
dell’Interno del Senegal degli ultimi nove
mesi è di 2.506 fermi, sequestro di 32 piroghe
e di 30.000 litri di carburante. Nella prima
metà del 2007 la Spagna ha già rispedito a
casa – secondo fonti ufficiali di Madrid –
8.142 migranti irregolari. “Ai miei studenti
dico che Italia ed Europa non sono l’Eldorado.
Per convincerli porto a lezione anche gli
immigrati”, scuote la testa il professor
Ibrahim Diawara, docente di Italianistica
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all’Università di Dakar. “C’è qualcuno che fa
credere loro nella partenza come unica soluzione. Ma tocca ai nostri giovani organizzarsi
qui, anche con creatività”. Il “folle volo” – in
senso opposto – verso l’Europa “non è solo
una questione economica ma dipende anche
da una forte volontà di cambiamento”, insiste
il sociologo Abdullaye Niang. Malgrado l’alto
numero di rimpatri forzati, sostiene, “molti
sono recidivi”. Cioè ci riprovano. Nuova colletta famigliare e nuova roulette russa
sull’Oceano cercando un’altra vita nel Vecchio
Continente. I “refoulées” – rispediti in
Senegal per via aerea in base alle nuove
norme europee – qui a Saint Louis si sono
addirittura organizzati in un’associazione.
Conta già 430 iscritti il “Réseau du fleuve”, la
rete di clandestini della regione del Fiume
Senegal, che riunisce i rimpatriati di questa
zona. “Sappiamo che in piroga ci sono rischi
ma non abbiamo altra scelta”, spiega il coordinatore Nouckobaye Ndiouf, mandato a casa
in aereo da Las Palmas nell’ottobre 2005.
“Europa vietata”, scrive “Jeune Afrique” –
una delle migliori riviste del continente – in
un’ampia inchiesta dedicata all’emigrazione.
Un’Europa che adotta “metodi radicali” – vi si
legge – contrari ai suoi stessi principi, adottando misure come espulsioni forzate, manovre militari nel Mediterraneo e nell’Atlantico,
campi di rimpatrio nel Maghreb. Una vera e
propria “guerra” che finora – secondo la rivista – ha portato sì all’abbassamento del
numero di richiedenti asilo ma anche all’aumento delle vittime. A Saint Louis esiste persino un’associazione che cerca di sensibilizzare i giovani sui rischi della traversata in piroga verso l’Europa, coinvolgendo i leader
musulmani della città (il 90% dei senegalesi è
di religione islamica), associazioni locali, parrocchia cattolica e istituzioni. “Non possiamo
fermare gli immigrati”, spiega padre Fernand
Sambou, “ma almeno spiegare loro come si
usa il giubbotto di salvataggio”. Samba non è
in grado di utilizzarlo ma assicura di saper
nuotare. Ha già pagato un passeur di Saint
Louis per un passaggio in piroga alle Canarie.
“Aspetto solo una telefona per sapere quando
salperemo di notte”, confida a east. E garantisce di spedire una mail al suo arrivo in terra
spagnola per confermare il buon esito della
traversata. Non hai paura di morire? “Non ho
alternative”. Insciallah, aggiunge, che Dio ce
la mandi buona. Ma la mail – finora – non è
ancora arrivata.