Pagine 01 - 64 (2012 completo) - Associazione Augusta

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Pagine 01 - 64 (2012 completo) - Associazione Augusta
Augusta
Sommario
2012
SANDRA BARBERI
... une pluÿe si épaisse avec des effraÿants
éboulements de terre...
Il ricordo di un drammatico evento della storia
di Issime nella pala d’altare della cappella
di San Valentino.
2
STEFANO PULGA
Tre dipinti su tela provenienti dalla chiesa
parrocchiale di Issime: relazione di restauro.
10
Presidente
Ugo Busso
MICHELE MUSSO
Lo stendardo processionale della chiesa
parrocchiale di Issime: un’opera ritrovata del
pittore Johann Joseph Anton Curta.
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Direttore responsabile
Domenico Albiero
DONATELLA MARTINET
Macchine … ad acqua!
19
COMITATO DI REDAZIONE
LUIGI BUSSO Schützersch-Dschoansch
Il mulino di Rollie ad Issime: Schützersch Mülli.25
Coordinatore di redazione
Michele Musso
FRANCESCO SPINELLO
L’Alta Valle del Lys: un’area ricca di siti
di interesse geomorfologico.
Membri
Michele Musso
Luigi Busso
27
BATTISTA BECCARIA
La comunità walser del Piemonte e della Valle
d’Aosta di fronte alle novità della Riforma
protestante.31
Foto di copertina
Gressoney-La-Trinité - L’anfiteatro morenico del Monte Rosa e
l’Alpe Cortlys dai pascoli dell’Alpe Sikken. Alla destra orografica le morene di Felik, e alla sinistra quelle di Salzen.
Foto scattata da Sebastiano Ronco il 15 maggio 2012.
MARIA DE LA PIERRE
L’uomo selvaggio e l’eremita: i solitari delle
montagne Walser.
Foto della quarta di copertina
Issime, Duarf (Capoluogo) 1888. Processione religiosa.
La casa in primo piano, della famiglia Christillin – LoeischMattisch, fu costruita nel 1739, davanti ad essa era collocato,
fino alla prima metà dell’Ottocento, il seggio su cui sedeva il
Giudice della Vallesa fino al XVIII secolo; aveva iniziali e nodo
sabaudo nella trave principale nonché sugli architravi in pietra degli ingressi anteriore e posteriore. La casa fu demolita
nell’inverno del 1962-63 per costruire il nuovo Municipio.
Foto Archivio Guindani di Gressoney-Saint-Jean.
37
IMELDA RONCO Hantsch
Z’Phiffatji un z’Phaffatji.43
JOLANDA STEVENIN, GUIDO CAVALLI
Da un campanile all’altro: Santa Margherita
e San Giovanni.
45
ANNA MARIA PIOLETTI
La cultura walser va a scuola: esperimenti
di insegnamento nella scuola dell’infanzia
e primaria.
53
LAURA AGOSTINO
ClimAlpTour : une opportunité incontournable.
Le Mont Rose au centre d’une nouvelle
stratégie de développement durable où culture
et environnement constituent la bonne voie
vers l’adaptation aux changements climatiques. 58
Altre foto: Sandra Barberi, don Paolo Papone, Michele Musso, Stefano Pulga, Donatella Martinet, Francesco
Spinello, Sara Ronco, Sebastiano Ronco, Guido Cavalli, Dino Capodiferro, Willy Monterin, Lino
Guindani, Stefano Venturini.
Tutti i diritti sono riservati per ciò che concerne gli articoli e
le foto.
ROLANDO BALESTRONI
Al muntagni Runda e Rundeta
La Montagna Ronda e la Rondetta.
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WILLY MONTERIN
Gressoney-La-Trinité
Osservatorio meteorologico di D’Ejola
(m 1850 s.l.m.).
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Augusta: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina
IN MEMORIAM
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Proprietario ed editore: Associazione Augusta
MICHELE MUSSO
Oratorio di Tontinel.
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Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007
Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)
Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta
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A U G U S T A
... une pluÿe si épaisse
avec des effraÿants
éboulements de terre...
Il ricordo di un drammatico evento della storia di Issime
nella pala d’altare della cappella di San Valentino
Sandra Barberi*
È
ancora vivo il ricordo della tragica alluvione
che, tra il 14 e il 16 ottobre del 2000, causò
in Valle d’Aosta 17 morti, migliaia di sfollati
e danni per mille miliardi di lire.
Era metà ottobre anche nel 1755, quando
la Vallesa fu colpita da una terribile inondazione. La descrizione delle drammatiche ore vissute in quella circostanza dalla comunità di Issime ci è pervenuta attraverso
la memoria che il notaio Mathieu Christillin, ancora profondamente scosso, scrisse l’anno seguente sul suo registro, al fondo delle trascrizioni degli atti relativi al 17551.
La pioggia, caduta incessante per molti giorni, causò
spaventose frane e gonfiò le acque dei torrenti, che inondarono i terreni di Issime da Pont-Trentaz, a nord del
territorio di Gaby (all’epoca unito al comune e alla parrocchia con Issime con il nome di Issime-Saint-Michel,
dal titolo della parrocchiale di Gaby) fino a Guillemore,
al confine con Fontainemore. Tutti i ponti di legno esistenti furono travolti, persino quello in pietra di Gaby2
cedette alla furia della piena, mentre quello di Seingle
riuscì a resistere grazie alla robustezza degli antichi pilastri che lo sostenevano. Un uomo, un certo Jean Cervier, morì letteralmente di paura nella sua abitazione, la
casa detta tuttora tsch’Hieruhous sul poggio di fronte alla
piazza, colpito forse da un infarto mentre il Lys continua
a salire, minacciando l’abitato. Pregarono in tanti, quel
giorno, e come per effetto di quell’accorata devozione
collettiva al paese fu evitato il disastro: le acque del Lys
avevano già oltrepassato gli argini, allagando la piazza
e riversandosi nei giardini vicini e nei prati della Curia,
ma come per miracolo risparmiarono la chiesa e le cappelle intorno al sagrato, il cimitero, la casa parrocchiale
e il suo giardino, e la maggior parte dei principali edifici
circostanti.
In segno di ringraziamento, gli abitanti di Issime fecero
dipingere un grande ex-voto, che nell’estate dell’anno seguente portarono in processione al Santuario di Oropa3.
Del resto, il culto della Madonna di Oropa era vivo da
Storica dell’arte e membro dell’Accademia di Sant’Anselmo.
Si veda la trascrizione integrale in appendice, effettuata da Maria Bartolotta per il Progetto Interreg III A Alcotra France Italie 2000-2006 curato dall’Assessorato del Territorio e ambiente della Regione Valle d’Aosta. Devo un grazie particolare a
Michele Musso, che mi ha introdotta nel microcosmo van Eischeme fornendomi il materiale storico utilizzato nel presente
scritto e svelandomi opere più e meno note del patrimonio artistico della parrocchia.
2
Per il motivo già spiegato, nella memoria del notaio Christillin Gaby è indicata come Saint-Michel.
3
Ex voto. Religiosità popolare in Valle d’Aosta, catalogo della mostra di Aosta, Quart 1983, pp. 204-205. L’ex-voto è firmato «F.
Mosca fecero» (cognome diffuso tra il Biellese e Ivrea; un Giacomo Mosca da Ivrea restaurò a fine ‘800 i Misteri del Rosario
nelle cappelle di fronte alla chiesa parrocchiale). Nel Santuario vi sono altri due ex-voto valdostani offerti rispettivamente
dalla comunità di Perloz e Lillianes (pp. 204-205) e dalla comunità di Fontainemore (pp. 72-73) per aver ottenuto finalmente
la pioggia dopo un lungo periodo di siccità tra 1684 e 1685.
Così ricorda l’alluvione Jean-Jacques Christillin nel suo volume Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys (Aoste 1901,
p. 250): «Une des inondations les plus extraordinaires qu’aient vues les habitants de la Vallaise fut celle du 14 octobre de
l’année 1755. Après une pluie torrentielle, les eaux débordèrent partout. De mémoire d’homme on n’avait jamais vu le Lys
et ses affluents aussi démesurément grossis. Les eaux couvrirent tout le pays, et la plaine, du Gaby à Guillemore, fut complètement ravagée. Le Lys sortit de son lit un peu au-dessous du pont de Stolunbach, traversa les prés et arriva jusqu’au
chef-lieu d’Issime. La chapelle des Olives, qui se trouvait dans le pré, à côté d’un vieux chemin où existe encore la croix
de Mission de l’année 1864, fut emportée. Le Dorf d’Issime était en grand danger et, dans leur détresse, les habitants, qui
n’avaient plus à compter sur des secours humains, tournèrent leurs regards vers la Reine du ciel. Peu à peu, comme par miracle, les eaux diminuèrent et les gens d’Issime, reconnaissants, firent peindre un grand tableau représentant l’inondation
*
1
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A U G U S T A
L’ex-voto del 14 ottobre 1755 al Santuario di Oropa. La casa del notaio Christillin è la prima a sinistra del gruppo di edifici centrale, con tre piani e il tetto a due spioventi.
secoli in Valle, come attestano le numerose icone sparse
nelle chiese e nelle cappelle del territorio, e già molto prima del 1585, anno in cui un documento cita per la prima
volta in maniera esplicita il pellegrinaggio da Fontainemore a Oropa, era tradizione che i fedeli della Vallesa si
recassero a venerare la Madonna Nera attraversando il
colle della Balma4. Giova ricordare inoltre che la critica
più recente concorda sull’origine valdostana della famosa statua ancora oggi collocata sull’altare del Santuario: è
noto, infatti, che Aimone di Challant, già vescovo di Aosta
e, dal 1273, presule di Vercelli, nel 1295 dotò e consacrò a
Oropa una chiesa dedicata alla Vergine, dove fu collocata
l’immagine realizzata appositamente nella più prestigiosa bottega di scultura lignea attiva a quell’epoca in Valle
d’Aosta5.
Quel fatidico 14 ottobre 1755 anche Mathieu Christillin
dovette pregare con fervore. La sua bella casa affacciata
sulla piazza di Issime6, costruita neanche vent’anni prima, aveva mostrato di non essere poi del tutto sicura,
così il notaio l’aveva lasciata per rifugiarsi assieme alla
du chef-lieu. L’été suivant, ils portèrent triomphalement ce tableau au sanctuaire d’Oropa. On y voit les habitants de cette
paroisse à genoux et revêtus de leur costume pittoresque, invoquant Notre-Dame d’Oropa.»
4
Sulla devozione alla Madonna di Oropa in Valle d’Aosta si veda A. M. Careggio, La religiosità popolare in Valle d’Aosta. Il
Culto Mariano e la Devozione ai Santi, Aosta 1995, pp. 4, 30-34.
5
E. Rossetti Brezzi, La scultura in legno, in Arti figurative a Biella e a Vercelli. Il Duecento e il Trecento, a cura di V. Natale e
A. Quazza, Biella 2007, pp. 119-120.
6
U. Torra, La Valle di Gressoney: le sue antichità, II edizione, Ivrea 1966, p. 104, così descrive la casa del notaio Christillin:
«All’angolo della piazza, a sinistra, vi era fino a poco tempo fa, una grande casa che anticamente fu già sede del Comune;
davanti ad essa era collocato il seggio [quello su cui sedeva il Giudice della Vallesa fino al XVIII, conservato fino alla metà
dell’Ottocento presso l’abitazione dei Christillin]. Questa casa è stata demolita per costruire il nuovo Municipio. Aveva la
data 1739, con iniziali e nodo sabaudo nella trave principale nonché sugli architravi in pietra degli ingressi anteriore e posteriore». La casa fu demolita nell’inverno del 1962-63.
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A U G U S T A
famiglia nella dimora avita a Grand Champ ancora oggi
chiamata z’Loeisch Mattisch7, al riparo dal rischio di inondazione, ma esposta al pericolo delle frane dal lato della
montagna che la sovrasta. La fotografia del 1888 riprodotta in quarta di copertina8 mostra la processione in
sosta proprio davanti alla casa del notaio, perfettamente
riconoscibile anche nell’ex-voto del Santuario di Oropa,
mentre l’edificio sullo sfondo in alto, parzialmente coperto, è la casa di Grand Champ. Come gli altri abitanti del
paese tranne il povero Cervier, i Christillin scamparono
San Giacomo e la Vergine di Oropa, dipinto donato da un
certo Jacob Lapalvg [?] nel 1673. Impossibile, per il momento, risalire con certezza al committente che pare essersi
fatto rappresentare nei panni del santo eponimo: forse era
legato alla famiglia Laba, registrata con più membri, alcuni
dei quali di nome Jacques, nel Catasto di Issime del 1645.
Il quadro è pervenuto alla chiesa parrocchiale dalla cappella di San Valentino; la sua collocazione originaria era forse
nella primitiva cappella di San Valentino o in quella di San
Rocco di Proasch. La tela è stata restaurata nel 2012 dalla
ditta CO.RE. di Aosta. (foto Pulga)
La Madonna Incoronata nell’abside della chiesa parrocchiale. Con il San Giuseppe che le fa da pendant, la tela fu acquistata a spese del nobile avvocato Mathieu Biolley, che
l’11 marzo 1715 stipulò una convenzione con il parroco Jean
Praz per dotare la chiesa di alcuni nuovi arredi in occasione del cambiamento dell’intitolazione da San Giacomo alla
Vergine Santissima Incoronata. L’iconografia di questa Madonna deriva con ogni evidenza da quella di Oropa, da cui si
differenzia solo perché non è nera. (foto Musso)
al peggio, ma i tragici fatti del 1755 segnarono profondamente Mathieu, che ne volle lasciare memoria perpetua
ai posteri attraverso le volontà testamentarie. Si spiega
infatti così la sua generosità nei confronti della cappella di San Valentino del villaggio del Pra, dedicata a un
santo caro alla devozione locale, invocato in caso di calamità di ogni genere. L’esistenza della cappella è documentata fin dalla metà del XVII secolo; situata sul Lys,
proprio in un punto cruciale dell’inondazione del 17559,
fu ricostruita nel 1772 e, nelle forme neogotiche attuali,
L’abitazione, attualmente di proprietà della famiglia Yon, fu acquistata da Jacques-Eugène Yon Valguiveira (1855-1925) nel
1923 circa (poi ristrutturata nel 1928), quando gli ultimi discendenti della famiglia Loeisch Mattisch emigrati in Francia a
La Roche-sur-Foron – figli di Jean-Léopold Christillin (1821-1891) del fu Jean-Lin (1785-1853) e di Marie Joséphine Linty
z’Avukatsch (1820-1890) del fu Jean-Louis notaire (1764-1845) – vendettero le ultime proprietà a Issime (informazioni raccolte presso Giovanna Nicco e Lea Consol da Michele Musso). Un’altra abitazione a Grand Champ della famiglia Loeisch
Mattisch (oggi proprietà Busso-Consol) porta la data 1773 e le iniziali LCN per “Louis Christillin notaire”, figlio di Mathieu.
8
La fotografia appartiene all’archivio Guindani (Gressoney-Saint-Jean).
9
Il Lys ruppe gli argini poco più a valle nel punto di confluenza con il torrente Stolenbach.
7
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A U G U S T A
La Madonna col Bambino tra i santi Valentino e Matteo, dipinto donato con legato testamentario del 1772 da Mathieu Christillin,
già sull’altare dell’antica cappella di San Valentino al Pra e ora nella chiesa parrocchiale. (foto Musso)
nel 189810. Duplice è la tradizione agiografica relativa al titolare san Valentino,
festeggiato il 14 febbraio: l’una ricorda
il vescovo di Terni che subì il martirio
per decapitazione nel 273, dopo aver miracolosamente guarito il figlio epilettico
di un maestro di retorica; l’altra si riferisce a un presbitero martirizzato sulla
via Flaminia sotto l’imperatore Claudio
il Gotico (268-270 d. C.), e tuttavia parrebbe fondata su una lettura equivoca,
per cui Valentino sarebbe in realtà il
benefattore che finanziò la costruzione
della basilica omonima.
Mathieu Christillin dettò al notaio Joseph Alby (1735-1813), che era anche
suo genero, le sue ultime volontà il 21
luglio 1772; una settimana più tardi, il 28
luglio, apportò al testamento alcune modifiche e aggiunse una donazione di 204
lire alla cappella di San Valentino, allora in costruzione, «pour la décorer d’un
autel, soit retable, et y acheter des parements pour la celebration de la S.te Messe dès qu’elle sera parachevée»11. Grazie
a questo legato – come attesta l’iscrizione “EX LEGATO D[OMI]NI MATTEI
CHRISTILIN NOTARŸ” nella parte inferiore della tela – sull’altare della cappella
sarebbe stato collocato un dipinto con la
Madonna col Bambino affiancata da san
Valentino, raffigurato nei panni del presbitero che la palma stretta nella mano
sinistra qualifica come martire, e dall’evangelista Matteo, il patrono onomastico del notaio Christillin. Questa bella
tela, oggi trasferita nella chiesa parrocchiale, è stata di recente sottoposta a un
intervento di restauro12. In assenza della
firma – fatto peraltro assai comune all’epoca – non siamo in grado di identificarne l’autore, un
pittore di buone capacità espressive al quale sulla base
delle somiglianze stilistiche possiamo ricondurre, grazie
alla preziosa indicazione di don Paolo Papone, altri due
La cappella esistente prima della ricostruzione del 1772 è indicata in una carta topografica della metà del Settecento riprodotta a p. 18. L’edificio fu più volte danneggiato dalle acque del Lys, ragione per cui alla fine dell’Ottocento si procedette a
una nuova ricostruzione in un sito più lontano dal corso del torrente, lungo la strada provinciale che si realizzò per il territorio di Issime intorno al 1892. L’edificio antico, sconsacrato, fu utilizzato come fabbricato rurale come testimonia la fotografia
qui riprodotta dell’inizio del Novecento.
11
Archivio Notarile di Aosta, Tappa di Donnas, DO 124, Avvocato Joseph Alby. Il testamento di Mathieu mi è stato gentilmente
segnalato da Claudine Remacle, che qui ringrazio.
12
Si veda infra, S. Pulga.
10
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A U G U S T A
La Madonna col Bambino e i santi Bernardo e Teodulo,
pala d’altare della cappella di San Teodulo a Cerellaz (Avise),
circa 1755. Sono particolarmente evidenti le somiglianze
con i santi Valentino e Matteo della tela donata
dal notaio Christillin. (foto don P. Papone)
dipinti presenti sul territorio valdostano: la pala d’altare
della cappella di San Teodulo di Cerellaz (Avise) e quella
della cappella di Sant’Agata di Liveroulaz (Saint-Nicolas).
Il notaio Christillin sarebbe morto poco più che sessantenne nel 1773 (era nato nel 1712). Il nipote Louis lo ricorda come «notaio dei Signori Esperti Collegiati della
Corte di Conoscenza e del Consiglio di Giustizia, cioè
dei giudici dei diritti consuetudinari, e commissario
esterno di tale Corte per le informazioni e le inchieste»;
soprannominato “l’avvocato del diritto consuetudinario”
per essere particolarmente ferrato nel diritto romano
(come risulta dalle sue memorie e dai suoi appunti),
partecipò in qualità di membro e giudice di detta Corte
all’Assemblea dei Tre Stati del 1755 e del 176613. Dal matrimonio contratto nel 1735 con Marie Consol erano nati
La Madonna col Bambino tra le sante Barbara e Agata,
pala d’altare della cappella di Sant’Agata a Liveroulaz
(Saint-Nicolas), terzo quarto del XVIII secolo. Significativi
i raffronti con la figura della Madonna e i panneggi
delle figure del dipinto issimese. (foto don P. Papone)
diversi figli: Jean (1738-1808), avvocato fiscale sostituto
del Duché d’Aoste, presidente del tribunale di Aosta nel
1804; Antoinette (1740-1820) che sposò nel 1760 Joseph
Alby (1735-1813) della famiglia detta Wéisse, che fu notaio, giudice di pace e sindaco di Issime dal 1802 al 1813;
Louis (1745-1778), notaio e segretario baccalaureato in
giurisprudenza; Mathieu; Marie-Christine, che sposò
Jean-Joseph Roncoz, negoziante e consigliere e sindaco
di Issime; Marie, che sposò il notaio Jean-Jacques Linty,
figlio dell’ultimo giudice della Valle del Lys, l’avvocato
Jean-Pantaleon.
Il figlio di Louis, battezzato col medesimo nome del padre (1776-1859), è uno dei più illustri rappresentanti della
storiografia valdostana della prima metà del XIX secolo;
magistrato e presidente del tribunale della Municipalità
Queste informazioni sono ricavate da un manoscritto di Louis Christillin. Di questo testo esistono due trascrizioni: una, la
più antica, a Parigi presso discendenti della famiglia Alby, l’altra a Torino nell’archivio della famiglia del fu Giuseppe Alby.
La traduzione dal francese è dell’ingegnere Renato Alby, autore del testo non pubblicato La famiglia Alby: notizie storiche
genealogiche e biografiche della casata raccolte e narrate da Renato Alby, Torino 1982.
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A U G U S T A
L’avvocato Jean Christillin (1738-1808), figlio di Mathieu,
in un ritratto donato dal canonico François-Gabriel Frutaz
alla chiesa parrocchiale di Issime. Il canonico Frutaz ne era
venuto in possesso insieme con quelli della consorte MarieThérèse Mazé de La Roche e del figlio Jean-Antoine-Dominique (1780-1818). Quest’ultimo, sacerdote, fu benefattore
dell’Ospedale Mauriziano, cui Frutaz donò il dipinto. (foto
L. Guindani)
L’avvocato Louis Christillin (1776-1859), nipote di Mathieu,
in un ritratto donato nel 1911 all’Accademia di Sant’Anselmo dal canonico François-Gabriel Frutaz, allora presidente
dell’istituzione. Del gruppo di ritratti della famiglia Christillin pervenuti al Frutaz faceva parte anche quello di Elisabeth Blanchard, moglie di Louis. (foto L. Guindani)
di Aosta, nutrito delle idee illuministe, fu il campione della tradizione e del particolarismo valdostano. Fu l’ultimo
dei membri del Conseil des Commis, che si estinse con
lui; nel 1852 pubblicò un testo dal titolo Mémoires historiques sur la Vallée d’Aoste, primo e di fatto unico volume
di quella che doveva essere un’opera ambiziosa, frutto
delle ricerche di un’intera vita, e nel 1855 fu tra i fondatori
dell’Accademia di Sant’Anselmo14.
Figure di prestigio non solo nell’ambito locale furono
pure i figli di questo Louis Christillin e della consorte
Elisabeth Blanchard: Louis-Lin (1814-1904) avvocato, autore del volume nel 1897 La Vallée du Lys. Études historiques, Aoste 1895, e Jean (1818-1874), medico comunale
a Châtillon e poi a Morgex, che morì appena cinquanta-
seienne vittima – come ricorda il fratello nel testo già
menzionato – «de son devoir et de sa philantropie», colpito da una forma acuta di pleurite contratta nell’esercizio
della sua professione15.
Appendice
Mémoires del notaio Mathieu Christillin, Archivio notarile di Aosta, Tappa di Donnas, DO 460.
(trascrizione di Maria Bartolotta)
Memoires
Mon Dieu, quoÿque, pour cause de nos pechés, vous
aÿiés permis une pluÿe si épaisse avec des effraÿants
L. Christillin, Mémoires historiques sur la Vallée d’Aoste, divisés en douze époques principales et notions supplémentaires etc.:
avec table chronologique de l’histoire sacrée et profane, Aoste 1852.
Per il suo ritratto si veda L. Ferretti, Nos ancêtres. Il ritratto in Valle d’Aosta nel XIX e all’inizio del XX secolo. Con note critiche
a cura di Sandra Barberi, Quart 1992, scheda n. 16, p. 46.
15
Ibidem, scheda n. 69, p. 110.
14
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A U G U S T A
éboulements de terre, sous le quatorze octobre mille
sept cents cinquante cinq, qu’elle at inondé, submergé
et devasté tout le meillieur terrain de la paroisse d’Issime
sis en la plaine du dit lieu depuis le Pont de Trenta jusquá Guilmord, aussÿ emporté et demolÿ les pont á bois
du Pont de Trenta, des Glairs dessus et dessous, du
torrent de Niel, d’en cen Delabá, du Ricard, du rial de
Stolen, d’en Cirizolles, d’en cen de Romer, et celuy de
pierre dessous le village de Saint Michel, aussi qu’elle
at forcé le fleuve Deÿlex á changer de liet et á decouler
par ces beaux et pretieux biens du Bodo et de la Condemina, secutivement par la place publique d’Issime, par
les jardins ÿ contigus et par le beau millieu du pré de
la cure, Vous avés neantmoins, ô mon Dieu, seu conserver en état et sans nul dommage, la venerable église du
glorieux ápôtre Sainct Jacques, le cimitiere, les chapelles
soit oratoires qui l’environnent, le clocher, le presbitaire,
et son jardin, avec la majeure partie et les plus belles et
plus principales maisons du voisinage, le tout pour nôtre
consolation et par un effect miraculeux de vôtre infinie
bonté et misericorde, bien plus, ô mon Dieu, Vous avés
dans une occasion si effraÿante et perillieuse, preservé
un chacun de mort subite et de tout autre facheux accident personnel, sinon Jean Cervier qui, quoÿque hors
de tout danger d’inondation, est decedé chez luÿ dans
sa maison appelleé des seigneurs, de seule épouvante,
apres avoir vû que les eaux touchaient pres que d’une
côte á l’autre.
Le pont des Ceingles á bien risqué d’etre emporté, sans
le secours des vieux pillier qui l’ont garentÿ.
Ma maison soit les boutiques á sel de la commune d’Issime ont dans, cette occasion, montré les fondements
peu solides. Procés en 1756 occasionés par cette inondation, qu’on peut voir dans les greffes tenus par Jean
Baptiste Albert, notaire greffier des deux bancs d’Issime.
Je me suis avec ma famille retiré le dit 14 octobre 1755 : et
autres jours suivants, au lieu dit Grand Champ, ou Dieu
nous á preservé des éboulements de terre que nous craignions du coté de Prassavin soit du Toirats.
Il dottor Jean Christillin (1818-1874), pronipote di Mathieu,
in un ritratto oggi in collezione privata aostana. (foto L.
Guindani)
Memorie
Mio Dio, sebbene a causa dei nostri peccati abbiate permesso il 14 ottobre 1755 una pioggia così abbondante,
accompagnata da spaventosi smottamenti di terra, che
ha inondato, sommerso e devastato tutti i migliori terreni della parrocchia di Issime situati nella piana da Pont
Trenta fino a Guillemore, travolto e demolito i ponti in
legno di Pont Trenta, di Glair di sopra e di sotto, del torrente di Niel, di quelli per andare ai villaggi di Delabá e
di Ricard, del torrente di Stolen, del villaggio di Cirizolles e il ponte dei Romer16, e
il ponte di pietra sotto il villaggio di SaintMichel; e che ha forzato il torrente Lys a
cambiare il suo corso e scorrere sopra i
preziosi terreni del Bodo e della Conde-
Firma di Mathieu Christillin in un testamento di Jacques Freppa (tailleur) dell’8 febbraio
1752 (Archivio Giovanna Nicco di Issime).
Il ponte dei Romer si trovava nei pressi di un altro ponte che attraversava il Lys e che conduceva al villaggio di Seingles,
detto z’Endrusteg, distrutto dall’alluvione del 1948. Romer era un nome di famiglia oggi estinto, famiglia che abitava nel
villaggio attualmente chiamato z’Andschaltsch al di sotto della confluenza fra il Rickurtbach e il torrente Lys.
16
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A U G U S T A
Il villaggio del Pra nei primi anni del Novecento, in basso a destra lungo il torrente Lys si trova l’antica cappella di San Valentino
ormai sconsacrata ed utilizzata come fabbricato rurale. (Archivio Agostino Busso di Issime).
mina e, successivamente, fino sulla piazza pubblica di
Issime, nei giardini vicini e nei prati della Curia, nondimeno Voi avete, mio Dio, saputo conservare integri e
senza danni la venerabile chiesa del glorioso apostolo
Saint Jacques, il cimitero, le cappelle ossia gli oratori
che la circondano, il campanile, il presbiterio e il suo
giardino, assieme alla maggior parte e alle più belle e
principali case vicine. Il tutto per nostra consolazione,
e in più, per l’effetto miracoloso della Vostra infinita
bontà e misericordia, o mio Dio, in un’occasione così
spaventosa e pericolosa avete preservato ciascuno da
morte improvvisa e da ogni altro increscioso incidente
personale, fatta eccezione per Jean Cervier che, sebbene al riparo da tutti i danni dell’inondazione, è deceduto,
presso la sua abitazione chiamata “dei Signori”, di solo
spavento, dopo aver visto che le acque salivano da una
parte all’altra. Il ponte di Ceingles17 ha rischiato di essere travolto, se non fosse per i vecchi pilastri che lo
hanno preservato. La mia casa e le botteghe del sale del
comune di Issime, in questa occasione hanno mostrato
fondamenta poco solide. Processi nel 1756 causati da
questa inondazione, che si possono vedere nelle cancellerie tenute da Jean Baptiste Albert notaio, cancelliere
dei due banchi di Issime.
Il 14 ottobre 1755 e i giorni seguenti io mi sono ritirato,
assieme alla mia famiglia, a Grand Champ, dove Dio ci ha
preservati dalle frane che temevamo dal lato di Prassavin
ossia Toirats.
In töitschu chiamato z’Endrusteg.
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A U G U S T A
Tre dipinti su tela provenienti
dalla chiesa parrocchiale di
Issime: relazione di restauro
Stefano Pulga1
Grazie all’interessamento di Guido Pession, che da molti anni offre gratuitamente il suo impegno
disinteressato e operoso verso la chiesa e la comunità di Issime, e al coinvolgimento dell’Amministrazione comunale di Issime, nella persona dell’Assessore all’Istruzione e cultura Luisella Ronc, recentemente sono stati restaurati, a cura dell’Assessorato all’Istruzione e Cultura della Valle d’Aosta
e ad opera della ditta CO.RE di Andrée Gruaz e Stefano Pulga, tre dipinti su tela: la Madonna con
i Santi Valentino e Matteo, dipinto donato dal notaio Mathieu Christillin alla cappella di San Valentino del villaggio del Pra di Issime per testamento del 1772, oggetto dell’articolo a cura di Sandra
Barberi in questo numero della rivista, il San Giacomo e la Vergine di Oropa datato 1673, anch’esso
proveniente dalla cappella di San Valentino, e una tela che rappresenta il Sacrificio di Isacco dei primi
dell’800 conservata nella chiesa parrocchiale.
Guido Pession, convinto promotore di questa iniziativa, che vive nella casa sulla piazza di Issime che
fu del suo antenato l’avvocato Jean-Pantaleon Linty (1708-1771), ultimo giudice Giudice della Vallesa, è il discendente diretto per due volte di Mathieu Christillin attraverso le due figlie di quest’ultimo, Antoinette e Marie.
Qui di seguito pubblichiamo la relazione di restauro e le immagini delle tele, materiale che ci ha gentilmente fornito Stefano Pulga.
Michele Musso
Madonna con Santi Valentino e
Matteo (seconda metà XVIII secolo)
STATO DI CONSERVAZIONE
TELAIO. Il telaio risultava essere un assemblaggio approssimativo di listelli, tarlato, con attacco xilofago in
atto. La dimensione del telaio, evidentemente non originale, non rispetta l’effettiva dimensione del dipinto (le
teste dei putti nella parte superiore sono innaturalmente
‘tagliate’ dalla cornice).
TELA. La tela di dimensioni 93 x 135 (parte rettangolare) e 153 cm alla sommità curvilinea, appariva comple-
tamente snervata e sfilacciata in corrispondenza delle
numerose lacerazioni. Presenti anche numerosi fori. Sul
retro sono presenti numerose e sommarie riparazioni di
strappi e lacerazioni, che possono essere ricondotte ad
almeno tre interventi:
• irregolari lacerti di tela grossolana (iuta), fissati
con caseato di calce;
• irregolari toppe di tela di sacco (canapa) fissati con
colla animale (colla da falegname, o ‘Garavella’);
• toppe di cotone blu e bianco, tratte da un materasso, fissate con colla animale.
PELLICOLA PITTORICA. Lo strato dipinto è spesso,
steso su una fine mestica rossastra. L’inadeguatezza del
telaio ha causato un grave rilasciamento della trama e
dell’ordito, che a loro volta hanno dato origine a deforma-
Della ditta CO.RE S.n.c. CONSERVAZIONE E RESTAURO di Andrée Gruaz & Stefano Pulga, Rue du Petit Seminaire 9 –
11100 AOSTA Tel (+39) 0165236072 E-mail: [email protected]
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A U G U S T A
La Madonna col Bambino tra i santi Valentino e Matteo, prima del restauro (vedi p. 5,
dopo il restauro). Dipinto donato con legato
testamentario del 1772 da Mathieu Christillin, già sull’altare della antica cappella di San
Valentino al Pra e ora nella chiesa parrocchiale. (foto Pulga)
zioni e ondulazioni in corrispondenza dei
quali la pellicola pittorica è gravemente
screpolata e sollevata. Numerose le cadute della pellicola pittorica e, in alcuni casi
della preparazione.
Si nota una discontinuità dell’aspetto della
superficie dipinta. Alcune zone sono aride
ed opache, altre brillanti. Si ipotizza che in
tempi non remoti si sia cercato di ovviare
ai sollevamenti con una non meglio definita ‘verniciatura’. Questo intervento ha
causato ulteriori tensioni, asimmetriche,
che hanno aggravato lo stato generale del
dipinto.
Visto in controluce, il dipinto è crivellato
da miriadi di lacune che hanno lasciato la
trama del supporto scoperta.
INTERVENTO
Vista la precarietà dello stato di conservazione, la pittura ha dovuto essere sottoposta a complesse operazioni preliminari
per evitare ulteriori cadute della pellicola
pittorica.
Dopo il fissaggio e la protezione della superficie dipinta con carta giapponese, il
dipinto è stato girato per procedere alla
preparazione del retro della tela ad una
foderatura. Per foderatura si intende l’incollaggio di una nuova tela sul retro della
vecchia, per permettere al nuovo tessuto
di sopportare le tensioni necessarie a tenere la tela in uno
stato di planarietà.
Compiuta questa delicata operazione, la superficie pittorica ha potuto essere pulita e consolidata.
In seguito le cadute della pellicola pittorica sono state stuccate e ritoccate per consentire una corretta lettura dell’insieme, senza ‘camuffare’ le offese del tempo e senza interpretare le mancanze della pittura originale.
San Giacomo e la Vergine di Oropa
(datato 1673)
STATO DI CONSERVAZIONE
TELAIO. Il telaio è costituito da listelli inchiodati di te-
sta, senza tensori. Il legno è tarlato e l’attacco xilofago in
atto. Non assicura la stabilità dimensionale e la necessaria rigidezza, e deve essere sostituito.
TELA. La tela di dimensioni 85 x 74 cm, appare snervata e deformata. Il bordo inferiore è staccato dal telaio e
sfrangiato. Il retro è coperto da depositi incoerenti e sono
presenti colonie fungine. Si notano alcuni fori ed alcuni
strappi della tela.
PELLICOLA PITTORICA. Lo strato dipinto è sottile su
una mestica fine, a sua volta male ancorata alla tela. La
pellicola pittorica appare opaca ed arida, percorsa da una
fine crettatura, i cui bordi sono sollevati. Numerose le cadute della pellicola pittorica, ed in alcuni casi anche della mestica, che lasciano a vista la tela. L’insieme appare
notevolmente offuscato da depositi di nerofumo, dall’os-
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A U G U S T A
San Giacomo e la Vergine di Oropa, prima del restauro (vedi p. 4
dopo il restauro). Dipinto donato
da un certo Jacob Lapalvg [?] nel
1673. Il quadro si trovava nella
cappella di San Valentino e ora
nella chiesa parrocchiale, la sua
collocazione originaria era forse
nella primitiva cappella di San Valentino o in quella di San Rocco di
Proasch. (foto Pulga)
sidazione del legante, da spesse
verniciature ingiallite e, in alcuni casi, sbiancate (Chanci). Si
notano alcune ridipinture fra le
testa e la mano della Madonna,
in corrispondenza della totale
perdita dell’insieme preparazione/pellicola pittorica.
Dal tipo di danneggiamento
della pellicola pittorica si può
dedurre che la tela è rimasta a
lungo arrotolata e schiacciata.
Le lesioni sono infatti parallele
al lato minore e regolarmente
spaziate.
INTERVENTO
Per potere intervenire sulla
pittura è stato indispensabile
procedere alla protezione delle
scaglie, con carta giapponese
ed un blando collante. Il retro della tela, gravemente
infestato da colonie batteriche e fungine, è stato sottoposto ad un trattamento antibiotico prima di rimuovere
gli sfilacciamenti del tessuto e procedere alla sutura di
strappi e fori.
Una nuova tela è stata quindi incollata sul retro della tela
originale, per permettere al nuovo tessuto di sopportare
le tensioni necessarie a tenere la tela in uno stato di planarietà.
Le cadute della pellicola pittorica sono state stuccate e
ritoccate per consentire una corretta lettura dell’insieme,
senza ‘camuffare’ le offese del tempo e senza interpretare
le mancanze della pittura originale.
Sacrificio di Isacco
(inizio XIX secolo)
STATO DI CONSERVAZIONE
TELAIO. Il telaio, di dimensioni 96 x 78 cm, è visibilmente ‘fuori misura’: la superficie dipinta svolta infatti
sul bordo e sul retro del listello inferiore. Si tratta di un
adattamento assai sommario della tela ad un telaio preesistente, e notevolmente più piccolo della tela. L’approssimazione degli interventi subìti dal dipinto è evidente in
ogni aspetto.
TELA. La tela appare moderatamente deformata, anche
a causa dell’inadeguatezza del telaio. Si nota uno strappo
nella parte alta, sulle nuvole a destra dell’angelo. Contrariamente alle prime osservazioni fatte in situ, (si rimanda al nostro preventivo del 26/04/2011) il dipinto aveva
subìto gravissimi danni, ed era già stato foderato con una
sottile, e debole, tela di cotone del tutto insufficiente a
sostenere le trazioni e le tensioni originate dalla pellicola pittorica e dai numerosi trattamenti che questa aveva
sopportato. La tela di rifodero è risultata essere incollata
con colla di farina.
PELLICOLA PITTORICA. Lo strato dipinto è spesso,
reso lucido da pesanti verniciature, anche recenti, a base
di coppale. La superficie pittorica è percorsa da due tipi
di crettatura: una a modulo fine, ad andamento poligonale, i cui bordi non sono sollevati; una ad andamento per
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A U G U S T A
Il Sacrificio di Isacco dei primi dell’Ottocento conservato
nella chiesa parrocchiale, prima e dopo il restauro.
(foto Pulga)
lo più orizzontale, con i bordi moderatamente sollevati,
probabilmente dovuta alle asimmetrie di tensione indotte
dal telaio.
Ad un esame ravvicinato e fotografie il luce U.V., risultano pesanti ed estese ridipinture che in luce visibile erano
sfuggite all’osservazione.
Gli strati di vernice, che rendono la superficie assai lucida, sono almeno tre e tutti alterati in modo da conferire
all’insieme una tonalità arancione.
Il più recente sembra essere stato a base di ‘coppale’ o di
pece greca, in eccesso di solvente, cosa che ha provocato
una finissima crettatura, lo sbiancamento ed il sollevamento della vernice, ed in alcuni casi lo ‘strappo’ della
sottostante pellicola pittorica.
INTERVENTO
Come prima operazione, la tela è stata rimossa dal telaio,
evidenziando una porzione di cm 14, nella parte bassa,
che era stata rivoltata ed inchiodata al listello inferiore.
Questa porzione del dipinto era estremamente essiccata
e fragile, e si è quindi dovuto ammorbidirla per poterla
distendere. La pellicola pittorica è poi stata protetta con
carta giapponese ed un blando adesivo.
Rigirato il dipinto, si è potuto procedere alla rimozione
della tela di rifodero, che ha permesso di evidenziare alcuni inserti di tela messi in opera nel precedente restauro. Alcuni erano correttamente realizzati e sono stati conservati, mentre altri, troppo spessi, avevano deformato la
superficie pittorica e sono stati rimossi.
Gli inserti insoddisfacenti e le lacerazioni sono state suturate con fili di lino e resina. In totale sono stati applicati
circa 800 punti di sutura.
La tela aveva subìto vaste e gravi lacerazioni, tali da fare
pensare ad atti di vandalismo, in parte riparati dall’intervento descritto più sopra. La resistenza della tela originale era praticamente nulla, la struttura fibrosa della tela
era compromessa, probabilmente a causa dell’esposizione ad un intenso calore.
È stato quindi indispensabile procedere alla foderatura,
cioè l’incollaggio di una nuova tela sul retro della tela originale, per permettere al nuovo tessuto di sopportare le
tensioni necessarie a tenere la tela in uno stato di planarietà.
Le cadute della pellicola pittorica sono state stuccate e
ritoccate per consentire una corretta lettura dell’insieme,
senza ‘camuffare’ le offese del tempo e senza interpretare
le mancanze della pittura originale.
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A U G U S T A
Lo stendardo processionale della
chiesa parrocchiale di Issime:
un’opera ritrovata del pittore
Johann Joseph Anton Curta*
Michele Musso
L
o stendardo da processione, ritrovato una
ventina di anni fa nel sottotetto della sacrestia della parrocchia di Issime, è stato restaurato a cura dell’Assessorato all’Istruzione e Cultura della Valle d’Aosta.
Le due pitture a olio dipinte sulle due facce di una stessa tela che compone la parte centrale dello stendardo,
costituiscono certamente la prova di un fortunato e
importante rinvenimento. La tela, dalle dimensioni di
84x66 cm, è inserita in una finestra di damasco di seta
rossa. Su un lato è rappresentata La Sacra Famiglia con
al centro Gesù adolescente, e, in alto, lo Spirito Santo in
forma di colomba e Dio Padre, inserita in una cornice
a volute di gusto tardo rococò completata agli angoli da
Le due facce della tela dello stendardo processionale, 1780. Issime, chiesa parrocchiale.
L’articolo sullo stendardo di Issime è già stato pubblicato, sempre a nome di Michele Musso, sul Messager Valdôtain del
2012.
*
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A U G U S T A
quattro medaglioni con i busti degli Evangelisti; sull’altro lato, entro una incorniciatura analoga, compaiono
San Giacomo e San Sebastiano, patroni della parrocchia
di Issime-Saint-Jacques, circondati dai primi Dottori
della Chiesa, Sant’Agostino, San Gregorio, Sant’Ambrogio e San Girolamo. I due dipinti furono realizzati nel
1780, come indica la data sulla tela stessa, ma non sono
siglati.
Nel 1780 era da nove anni parroco di Issime Jean-Joseph
Curta (1725-1784) e vice parroco Jean-Baptiste-Christophe Curta (1752-1818), suo lontano cugino, entrambi
originari di Gressoney-Saint-Jean (P.-E. Duc, Histoire
des églises paroissiales de Gressoney-Saint-Jean-Baptiste
et de Gressoney-Très-Sainte-Trinité, Aoste 1866, pp. 143144). Quest’ultimo era il fratello di Johann Joseph Anton
Curta (1754-1794) pittore attivo a Gressoney e in Valle
d’Aosta, figli di Jean-Christophe (1706-1777) pittore e
mercante nella cittadina di Stans (Svizzera) (arch. Curta-Guindani). È facile quindi immaginare che l’opera sia
stata commissionata dai parroci al giovane artista loro
La Madonna del Rosario con i SS. Domenico e Chiara, 1793.
Arvier, chiesa parrocchiale.
Tela dell’altare di San Sebastiano (particolare del Santo),
1824. Derby, chiesa parrocchiale. (foto Stefano Venturini).
parente. Ciò che appare, però, del tutto convincente per
quel che riguarda l’attribuzione di quest’opera al pittore
gressonaro è la assoluta vicinanza della Madonna alle figure della Vergine e di santa Caterina da Siena della tela
della Madonna del Rosario, siglata “Curta 1793”, dipinta
per la chiesa parrocchiale di Arvier: coincidono, oltre ai
toni cromatici simili, i panneggi animati da svolazzi ridondanti, con tipici rigonfiamenti convessi “a ombrello”,
il disegno accademico delle mani affusolate e la dolcezza
sorridente e un po’ affettata delle figure, in particolare la
tipologia della Vergine con la fronte spaziosa, le grandi
palpebre abbassate, gote paffute e il mento sfuggente.
Le stesse analogie le ritroviamo sul volto e nei panneggi
del Cristo crocifisso della chiesa parrocchiale di Saint-Gilles di Verrès, in particolare nel confronto col San Sebastiano, chiesa di cui si iniziarono i lavori di costruzione
nel 1776.
Il figlio di Johann Joseph Anton Curta, Johann Joseph
Anton Curta (1782-1829), anch’egli pittore, utilizzerà ampiamente i modelli del padre: infatti ritroviamo sorpren-
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A U G U S T A
dentemente uguale il San Sebastiano dello stendardo di
Issime sulla tela dell’altare eponimo della chiesa parrocchiale di Derby, dipinta nel 1824 (E. Brunod, L. Garino,
Alta Valle e valli laterali II, Aosta 1995, p. 114).
Grazie all’albero genealogico (arch. Curta-Guindani) fornitomi dagli attuali discendenti che vivono a Gressoney,
si capisce come i nominativi dei diversi Curta siano tutti
riconducibili a un’unica famiglia. Il ramo della famiglia
chiamato a Gressoney Moalersch (del pittore), che conterà sei generazioni di pittori fra il XVIII e il XX secolo, proveniva dal villaggio di Tschemenoal (Chemonal) e di obrò
Chastall (Castell sup.)1. Nella discendenza famigliare, dal
XVII alla prima metà del XIX secolo, si annoverano castellani, notai e quattordici sacerdoti2 (Duc, pp. 121, 141144), fra i quali un canonico della cattedrale Jean-Joseph
(1683-1728) che fondò per testamento, presso la cattedrale di Aosta, la cappellania della Sacra Famiglia cui legò
un beneficio ecclesiastico destinato a un sacerdote della
famiglia battezzato a Gressoney-Saint-Jean (Duc, pp. 68,
138). Con un numero così alto di prelati la famiglia partecipò attivamente alla vita religiosa della Valle per più di un
secolo. Del beneficio ecclesiastico della cappellania della
Santa Famiglia godette anche Jean-Baptiste-Christophe
(1752-1818), fratello del pittore, dal 1786 al 1790, mentre
il fratello maggiore Johann Franz Valentin (1746-1805) fu,
come nella tradizione gresssonara, krämer (mercante) a
Hüfingen (Germania mer.) dove si trasferì con la famiglia.
Secondo le informazioni fornite da P.-E. Duc (Duc, p.
121), nel 1770 Johann Joseph Anton Curta frequentò
l’Università di Augusta, poi quella di Besançon. La sua
attività è poco conosciuta, ma dalle opere note possiamo dedurre che, come poi i figli, si dedicherà sia alla
Cristo crocifisso, fine XVIII secolo. Verrès,
chiesa parrocchiale di Saint-Gilles. (foto Musso).
I due rami della famiglia, uno di Castell-Chemonal, e l’altro del Capoluogo-Prédelais (Predeloasch), hanno come capostipite
Jean-Angelin Curta, notaio di Castell, vissuto a cavallo del XVI-XVII secolo. La casa avita della famiglia Curta si trova nel
villaggio di obrò Chastall (Castell sup.). L’edificio fu costruito lungo la mulattiera che risaliva la Valle, e si trova di fronte alla
cappella privata fondata nel 1670 da Angelin Curta notaio, dedicata a Nostra Signora delle Grazie e a San Giovanni Battista.
La casa aveva, sul lato della mulattiera, uno sporto del tetto molto ampio che fungeva da riparo per i viandanti, è infatti conosciuta col nome di ‘De vorschäre’. Sotto il portico e su una trave di sostegno dello stadel era incisa la scritta, ora nascosta
dalle modifiche apportate all’edificio, “Halt dich wohl und leb mit Eren, vertrau allein Gott deinen Herr” Vivi bene e con
onore, confida solo in Dio tuo Signore, e la data 1580.
2
I quattordici sacerdoti sono raffigurati in una tela, datata 1827, dipinta da Johann Joseph Anton Curta (figlio), attualmente
conservata presso la Biblioteca di Gressoney-Saint-Jean. Al ramo di Castell e Chemonal appartengono, Pierre (†1638),
parroco a Gressoney-Saint-Jean dal 1614 al 1638, Jean-Jacques (1661-1727) parroco di Saint-Germain, Jacques (1669-1720)
parroco di Chevrot, Jean-Joseph (1683-1728) canonico della Cattedrale e fondatore della Cappella della Santa Famiglia (questi ultimi tre sono fratelli), Jean-Joseph (1704-1746) primo beneficiario della cappellania della Santa Famiglia, Jean-Antoine
(1713-1743) parroco di Saint-Martin-de-Corleans, Jean-Baptiste (1720-1784) parroco di Chevrot e secondo beneficiario della
cappellania (questi ultimi tre sono fratelli, e nipoti dei precedenti), Jean-Antoine (1697-1741) vicario di Gressoney-Trinité
(cugino dei precedenti), Jean-Baptiste-Christophe (1752-1818) parroco di Gressoney-Saint-Jean, vicario di Issime (17771786), e beneficiario della cappellania (fratello del pittore Johann Joseph Anton e cugino di secondo grado dei precedenti);
al ramo del Capoluogo-Prédelais appartengono, Jean-Pierre (1670-1718) fondatore della Cappella e rettoria di Predeloasch,
Jean-Joseph (1698-1779) rettore di Predeloasch (cugino del precedente), Jean-Joseph (1725-1784) parroco di Issime (17711784), Jean-Pierre-Emmanuel (1737-1807) parroco di Pontey, Jean-Pierre-François (1798-1867) beneficiario della cappellania della Santa Famiglia.
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A U G U S T A
Tela raffigurante i quattordici sacerdoti della famiglia
Curta, dipinta da Johann
Joseph Anton Curta (figlio)
nel 1827, attualmente conservata presso la Biblioteca di Gressoney-Saint-Jean.
Il primo in alto a destra è
Jean-Baptiste-Christophe
Curta (1752-1818), vicario
di Issime dal 1777 al 1786,
mentre il primo a sinistra
in alto nella seconda fila è
Jean-Joseph Curta (17251784), parroco di Issime
dal 1771 al 1784. (foto Sara
Ronco).
pittura di soggetto sacro
sia alla ritrattistica, per
la committenza di uomini
di chiesa e pii benefattori. Le opere finora note
oltre alle due già citate
sono: settantasei quadri
con i misteri della vita di
Gesù e della Vergine nel
chiostro della chiesa di
Gressoney-St-Jean (citati
da Duc assieme al Cristo crocifisso di Verrès, p.
122), che andarono probabilmente distrutti nella
disastrosa alluvione del
1868 che colpì il capoluogo di Gressoney; il ritratto di Nicolas Vincent e
della consorte Anna Maria Franziska Linty, 1789
(coll. privata, pubblicati
in M. F. Gregori, Jean-Nicolas Vincent, Aosta 2003,
p. 11); il ritratto del can. Grat-Jean Réan, 1790 (coll. privata); e infine il ritratto del can. Jean-Barthelémy Carrel,
1785 (coll. privata). L’elenco si può arricchire con altre
tele attribuibili per via stilistica (ringrazio qui Sandra
Barberi e don Paolo Papone per il prezioso apporto):
quelle di S. Lorenzo nella collegiata di S. Orso (1782),
dell’altare del S. Spirito a Valpelline (1785) e dell’altare di
S. Apollonia nella cattedrale di Aosta (c. 1786). A questo
punto lo stendardo di Issime risulterebbe la prima opera
nota del pittore gressonaro.
Grazie al forte spirito di rinnovamento che ebbe origi-
ne dal Concilio di Trento, a partire dal XVII secolo nelle
parrocchie valdostane si susseguirono intensi lavori di
ristrutturazione: le navate furono ampliate, nuovi altari
furono eretti, si edificarono nuove cappelle, molti nuovi
arredi sacri furono realizzati.
Fu questo il motore propulsore che diffuse in Valle la
cultura barocca alpina. Da questo presupposto, dalle
caratteristiche storiche, sociali e culturali della società
gressonara e dalla posizione della famiglia nella società
valdostana del tempo, la vena artistica dei Curta trovò
pieno sfogo.
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A U G U S T A
Carta Topographica in misura del Ducato di Aosta, divisa in quattro parti, Archivio di Stato di Torino, Corte, Carte Topografiche
per A e B, Aosta, n. 4, parte I, stralcio relativo all’abitato di Issime e al Vallone di San Grato, con il cerchietto rosso sono indicati
tre dei mulini descritti nell’articolo di Donatella Martinet, quello di Rollie, di Brochnu Mülli e di Stubbi; mentre in alto a destra
è indicata l’antica cappella di San Valentino al villaggio del Pra, di cui si parla nell’articolo di Sandra Barberi; poco sopra è anche
segnata la cappella del Proasch. (Foto di Dino Capodiferro, Torino). Si tratta di una carta tematica, suddivisa in quattro parti in due
fogli separati, in cui è rappresentata, in modo dettagliato e preciso, l’intera valle centrale della Dora Baltea con le vallate laterali. La
carta venne presumibilmente delineata in occasione dei rilevamenti del territorio valdostano promossi dall’Amministrazione centrale sabauda tra il 1755 e il 17571 per una più precisa conoscenza dei percorsi alpini e soprattutto per individuare correttamente la
presenza di miniere, di cave e di opifici. Si tratta infatti di una delle numerose carte tematiche promosse dall’Amministrazione civile
sabauda con campagne di rilevamento organizzate tra il 1750 ed il 1766 dall’Ufficio cartografico del Regno (istituito nel 1738) (Cfr.:
CARASSI, La conoscenza del territorio, in Archivio di Stato di Torino, Il tesoro del principe, Titoli carte memorie per il governo dello
Stato, S.E.I., Torino 1989, pp. 124-144). Il disegno, realizzato su carta pesante (recentemente intelata), è a penna, inchiostro nero e
rosso, acquerello a più colori, ed è firmato in basso a destra: “Originale dai sig.ri Avico Durieu, Carelli Denis e Sottis”; la scala grafica adottata è quella di 1100 trabucchi. In basso a destra è presente la legenda o “Indice de Segni” utilizzati nella rappresentazione.
Questi comprendono le indicazioni relative ai percorsi (“Strade Carreggiabili”, “Strade a Cavallo” e “Strade a Pedoni”), nonché
quelle sulla presenza di “Capelle e Pilloni”, “Croci di legno” e “Fontane”. Rivestono un particolare interesse le segnalazioni relative
alla presenza di miniere (d’oro, d’argento, di rame, di ferro e di carbone), di cave di calce, “Molini et Edificij” (i mulini sono indicati
con un asterisco) e le varie indicazioni toponomastiche. Gli estensori della carta sono tutti ingegneri topografi al servizio dell’Amministrazione sabauda tra gli anni centrali del Settecento e la fine del secolo, incaricati delle diverse operazioni di rilevamento del
territorio, dei confini dello Stato e di alcune piazzeforti: Giovanni Giuseppe Avico, in servizio già nel 1747 e morto a Torino il 31
agosto 1790; Antonio Durieu, ingegnere effettivo dal 14 gennaio 1744 e pagato nel 1766 per la formazione di una parte della carta
topografica dei Regi Stati, edita poi nel 1772 (con incisioni di Giacomo Stagnone su disegni di Vittorio Boasso); Domenico Carello
(o Carelli), nominato ingegnere topografo il 24 aprile 1739; Pietro Vincenzo Denis, la cui attività è documentata soprattutto per gli
anni Ottanta del Settecento anche per il rilevamento di alcune piazzeforti; Giovanni Battista Sottis, in carica dal 21 aprile 1738 e direttore applicato all’Archivio delle carte topografiche del Regno dal 28 aprile 1761, morto a Torino presumibilmente nel 1770 (Cfr.:
C. BRAIDA, L. COLI, D. SESIA, Catalogo degli Ingegneri ed Architetti operosi in Piemonte nel Sei e Settecento, in “Atti e Rassegna
tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino”, n.s., XVII (marzo 1963), n. 3, pp. 82-142, ad vocem).
Catalogo della mostra La Vallée d’Aoste sur la scène – Cartografia e arte del Governo, 1680-1860, a cura di 24 ORE Cultura,
Pero (MI), 2011, ppgg. 80-81.
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A U G U S T A
Macchine … ad acqua!
Donatella Martinet
L
a forza dell’acqua è stata utilizzata sin dai
tempi antichi per muovere macchinari in
luogo degli animali, o degli uomini.
L’opificio più antico è stato ritrovato in Turchia, a Cabira, nel palazzo di Mitridate ed è
stato datato tra il 120 e il 63 a.C.1.
In Valle d’Aosta, come su tutto l’arco alpino, soprattutto
dal Medioevo, a partire dal secolo XI, i signori feudali
hanno promosso politiche di estensione delle terre coltivabili con incentivi “fiscali”, tra cui il patto di dissodamento, incoraggiando grandi opere collettive di bonifica,
di irrigazione, di messa a coltura che hanno prodotto un
periodo di espansione dell’agricoltura. La diffusione dei
mulini idraulici è uno dei risultati di tali impulsi.
Gli opifici delle zone di montagna non venivano edificati direttamente sul torrente, ma lungo canali artificiali
costruiti appositamente – in termini dialettali “meuneresse”, in töitschu (il dialetto di Issime) “wüli” – sia per
tentare di scongiurarne la distruzione da eventuali eson-
dazioni sia per regolare la portata dell’acqua. Si sfruttava
il salto di quota, non la massa dell’acqua.
La tipologia usuale del mulino prevede una piccola casetta in pietra con tetto a capanna, con relativa porta di
accesso ed eventuale finestra, all’interno della quale sono
alloggiati i macchinari per la macinatura, sul sottostante
canale.
Una coppia di macine di pietra, di cui quella superiore
ruota e quella sottostante è fissa, è sistemata in una sorta
di tino. Al di sopra vi è la tramoggia, una specie di “imbuto” squadrato ligneo, che convoglia le granaglie in modo
uniforme sulla coppia di macine, grazie alle vibrazioni
della macchina. Al di sotto vi è il setaccio, per vagliare la
farina, la cui granulometria dipende dalla distanza tra le
due mole.
Il movimento del macchinario è a “presa diretta”, dove la
ruota idraulica orizzontale, propriamente detta ritrecine,
composta da pale, poste radialmente rispetto ad un asse
verticale, viene messa in movimento dall’acqua del ca-
Ruderi del mulino dei Schützersch a Rollie lungo il Rickurtbach. (foto Musso)
M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Editori Laterza, Bari 1990, pag. 74.
1
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Ruderi del frantoio dei Schützersch a Rollie. (foto Musso)
nale che la colpisce tangenzialmente, trasmettono direttamente il movimento, tramite l’asse stesso, alla macina
soprastante orizzontale.
A corredo del mulino vi erano gli utensili per intervenire
in caso di guasti, ma, soprattutto, un particolare martello,
con una punta estraibile per essere resa sempre efficiente, utilizzato per martellinare la coppia di macine (quella
rotante e la sua base) e mantenerle scabre. Per sollevare
le macine dalla loro sede sulla parete alle loro spalle era
presente solitamente un argano, corredato di una catena
alla quale agganciare la mola; è costituito da un rullo ligneo orizzontale, incernierato in due mozzi e provvisto di
fori per potervi infilare dei bastoni, con funzione di leva,
e farlo così girare agevolmente.
Una variante del mulino è il frantoio, “la pista” o “la pila”,
dove il movimento idraulico è uguale, ma la macina è
verticale (spesso di forma troncoconica) e ruota su una
base lapidea con bordi rialzati. Serviva, come ancora oggi
quello per le olive, a frantumare noci, mele e altri frutti,
ma anche la canapa.
I mulini che vediamo abitualmente in rassicuranti pubblicità con famiglie felici sono l’evoluzione del nostro macinatoio arcaico. La grande ruota verticale esterna gira
grazie alla massa dell’acqua che colpisce le sue pale o riempie via via le sue vasche e il suo asse di trasmissione,
in questo caso orizzontale, arriva a muovere la macina, o
la serie di macine, grazie a sistemi di ruote dentate che
aumentano il movimento iniziale. Il congegno è più sofisticato del precedente perché, grazie agli ingranaggi di
trasmissione, anche un minimo movimento della ruota
idraulica esterna può essere aumentato per far ruotare la
macina interna velocemente.
La combinazione tra acqua e fuoco, condita con tanto
rumore, si aveva nelle fucine. I magli, indispensabili per
lavorare il metallo incandescente, erano anch’essi mossi
dalla forza idrica, grazie ad una ruota e ad un albero a
camme.
La ruota idraulica, formata da palette a raggiera, è verticale e viene inserita nel canale, trasmette la rotazione ad
un albero a camme. È un
asse con delle sporgenze
eccentriche che, girando, dapprima schiacciano l’estremo del manico
del maglio verso il basso, sollevandone il capo
(detto testa d’asino) e
poi lo liberano lasciandolo cadere pesantemente.
Una delle camme può
azionare anche il mantice che ravviva il fuoco; in
questo caso premendo il
manico del mantice, che
soffia fuori l’aria, e cessando l’azione nel proseguo della rotazione.
La macina del mulino di
Rollie. (foto Musso)
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A U G U S T A
L’ultimo passo, nell’era dell’industrializzazione, è stata
l’invenzione dell’energia idroelettrica. Nel 1859 Antonio
Pacinotti costruì la prima macchina in grado di trasformare l’energia meccanica in energia elettrica continua;
nel 1883 venne inaugurata a Milano la prima centrale
idroelettrica italiana.
In successione vi è stata la diffusione di questa nuova tecnologia sul territorio nazionale, con la turbina idraulica
che è quel dispositivo meccanico che trasforma l’energia
cinetica dell’acqua in energia meccanica e poi elettrica,
grazie ad una spira che ruota in un campo magnetico costante.
Le tipologie di opifici descritte sono state edificate nel
corso dei secoli sul territorio di Issime, soprattutto nel
fondovalle, lungo il Lys, torrente a volte irrequieto. Il
susseguirsi di diverse inondazioni dall’epoca medievale
ai giorni nostri ha fatto sì che gli edifici venissero costruiti e poi ricostruiti in aree diverse dall’impianto originario.
Gli eventi calamitosi storici più prossimi a noi sono stati
studiati con un progetto dedicato proprio ai rischi naturali, tra questi l’inondazione 14 ottobre 1755 del Lys, a
seguito della quale è stato trascritto il contratto di lavoro
per la riparazione del mulino dei fratelli Albert e Jaccon
di Gaby, datato di soli dieci giorni dopo il disastro2, nonché la ricostruzione di dighe sul torrente Lys e sul torrente Stolen3. Inoltre, si richiamano i danni provocati dai
nubifragi primaverili e autunnali (16-17 maggio e 17-18
ottobre) del 18484.
Così, le tracce di mulini, frantoi, turbine, nonché delle
barriere per tentare di arginare la furia delle acque impetuose dei torrenti, più che sul territorio le ritroviamo
nei documenti d’archivio; tra questi le reconnaissances
di epoca medievale, atti di infeudazione che determinavano i benefici che il detentore del bene doveva versare
al signore locale per l’utilizzo del bene stesso, il Catasto
comunale di Issime del 1645 (solo per un breve accenno
ad un ru, poiché riguarda solo gli appezzamenti, non gli
edifici), il Cadastre sarde (datato 1772) e il successivo
Catasto di Origine dello Stato (1898-1914)5. Un piccola
puntualizzazione sui catasti, tutt’ora attuale. Essi sono
elenchi di beni a fini fiscali: non è detto che agli accatastatori non sia sfuggito (o fatto sfuggire) qualcosa! Sono,
Canale di adduzione dell’acqua ai mulini dei Schützersch
a Rollie. (foto Musso)
quindi, di grande aiuto, ma i dati ivi contenuti potrebbero
non essere completi.
Dalla lettura dell’inventario degli archivi dei Vallaise6 troviamo alcuni riferimenti sulla possibilità edificatoria degli
opifici, di seguito riportati.
Il 13 novembre 1363 i fratelli nobili cosignori Etienne e
Rolet di Vallaise danno in feudo diretto a Yans di Nicolin
R.A.V.A., Presentazione dei risultati del progetto Interreg III ALCOTRA 2000-2006, Aosta, 24.11.2006, Gestione sociale dei
rischi naturali, G. Thumiger, “la communauté d’Issime et l’inondation de 1755”, pag. 225.
3
Ibidem, pagg. 227 e 228.
4
R.A.V.A., Presentazione dei risultati del progetto Interreg III ALCOTRA 2000-2006, Aosta, 24.11.2006, Gestione sociale dei
rischi naturali, M. Bortolotta, “l’evento naturale, il danno, il rischio e. .. la proprietà privata – gestione e modalità d’intervento”, pag. 233.
5
I dati di queti ultimi due catasti, così come la schedatura degli edifici e il relativo studio storico, sono tratti dal censimento
realizzato dalla Soprintendenza per i beni culturali e ambientali. Nel 1987, grazie al coordinamento dell’arch. Flaminia Montanari, la Soprintendenza ha promosso una serie di corsi di formazione per rilevatori del patrimonio architettonico minore.
Issime è stato censito nella campagna 1997-2000. Sotto la guida attenta dell’arch. Claudine Remacle, hanno lavorato, a vario
titolo, sul territorio: Fabrizio Giatti, Denise Vercellin-Nourrissat, Mauro Paul Zucca.
Si ringrazia la R.A.V.A., Assessorato Istruzione e Cultura, per l’accesso alla consultazione dei risultati del censimento.
6
Par O. Zanolli, Bibliothèque de l’Archivium Augustanum, XXII, Inventaires des archives des Vallaise, Tome troisième, Industrie grafiche editoriali Musumeci, Aoste 1988.
2
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di Vauteret, di Issime (scritto Ussima), un setier7 di castagne pelate di rendita annua, che producevano Vulliermin
di Jean Perrer, gli eredi di Jean e Bonin Rubey e di Jean
Pariset, di Chuchal (scritto Chuchallo), e tre quartaines8
La roggia realizzata per azionare i mulini di Rollie e che serviva anche all’irrigazione dei prati e dei campi dei villaggi
sottostanti, è certamente una delle più antiche opere collettive esistenti sul territorio issimese che abbia continuato ad
operare nei secoli ininterrottamente fino agli anni ‘80 del
secolo scorso. (foto Musso)
di segala di rendita che avevano sul mulino che tenevano Jean di Pétrellin e quelli di Serta9 (ora del comune di
Gaby10).
In data 11 dicembre 1456 il signore Bertholin di Vallaise,
a nome suo e dei suoi nipoti Jean-Jacques, François e Arduçon, dà in feudo diretto a Antoine Roffini de Insulla, di
Issime, e a suo fratello Pierre, un pezzo di terra, sbarramento, pascolo e bosco al Gler di Issime11.
Il 31 gennaio 1503 il signore Pierre di Vallaise dà in feudo
diretto a Jean Verra, figlio di Jean, della parrocchia di Issime, alcuni beni siti a Sertaz, consistenti in mulini, tutto
il necessario per macinare e tutti i diritti di costruire i
mulini che già aveva Jean Doves di Sertaz, su tutto il territorio della parrocchia di Issime12. È impossibile sapere
se vi è incluso il mulino del 1363.
L’infeudazione fatta il 18 luglio 1583 da Louis di Vallaise e
Catherine figlia e legataria di Antonio di Vallaise, vedova
De Jordanis, a Jennin Chincheré di Jean, di Issime, consiste in un artificio di mulino con i suoi rivi e altri edifici
viciniori, a le Fond du Grand Pra di Issime, per la rendita
di servizio annuale di una hémine13 di segala e un gros,
moneta di Aosta14.
Consultando il Cadaste Sarde, troviamo edifici censiti
quali mulini a Sengles Zengji, Grand Praz Gran Proa e
Rollie15 dessous Rolji.
Quello di Sengles, accatastato con il prato e il greto del
torrente attigui, era di Joseph Ronco fu Jean-André, confinava a est e nord con il sentiero, a sud con Jean Consol
e a ovest con il Lys (denominato Eslex).
A Grand Praz ve ne erano due. L’uno, di 7 tese e 3 piedi16,
apparteneva a Rolland Jacques fu Jean-Baptiste, l’unico
confine fisico era a est, il sentiero. L’altro era sempre di
un Rolland, Jean-Antoine fu Antoine, censito con l’abitazione e un prato, aveva il sentiero a est e la fontana a
ovest.
Di tali opifici non abbiamo più riscontro in epoca successiva, non saprei dire se erano già rudere a fine ottocento
o se siano definitivamente scomparsi con la costruzione
della diga di Guillemore nel 1920.
Infine, quello di Rollie era di proprietà dei fratelli JeanPierre e Pierre Bussoz (Schützersch), figli maggiorenni
di Jean-Jacques; è censito insieme alla loro dimora, prati
e pascoli circostanti. Il tutto confina con il torrente deno-
Per la calce 1 setier corrispondeva a 0.061 m³ in L. Colliard, La vieille Aoste, tome second, Musumeci Editeur, Aoste 1979,
pag. 176.
8
1 quartaine rase corrisponde a 11,2 litri, L. Colliard, pag. 176
9
O. Zanolli, pag. 392, n. 68. Sertaz, sul territorio di Gaby
10
Divenuto Comune autonomo nel 1948.
11
O. Zanolli, pag. 277, n. 40.
12
O. Zanolli, pag. 284, n. 70.
13
1 hémine comble corrisponde a 28,97 litri, L. Colliard, pag. 176.
14
O. Zanolli, pag. 461, n. 79.
15
Il mulino di Rollie è già segnalato, con un asterisco e senza indicazione toponomastica, sulla carta Topografica in misura
del Ducato di Aosta (vedi immagine qui pubblicata), realizzata tra il 1752 e il 1753 da Avico Durieu, Carelli Denis e Sottis,
conservata presso l’Archivio di Stato di Torino.
16
Corrispondenti a 26.28 m² (6 piedi fanno una tesa), L. Colliard.
7
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minato de Tualcha (Valca Walkhu) a sud, le mulattiere a
nord, così come a est, oltre a Jean-Joseph Angélin Bussoz, e i beni comuni a ovest.
All’epoca del Catasto di Origine dello Stato (1898-1914)
scopriamo che questi due opifici di Rollie erano un frantoio (quello più a monte) e un mulino (quello verso il torrente Rickurtbach, anche detto Walkhunbach).
Il frantoio apparteneva alla vedova di Giovanni Pietro
(Jean-Pierre) Busso Schützersch (1812-1882) fu Jean-Jacques, fu Jean-Pierre Bussoz, Luigina Fresc, e alla schiera
dei suoi figli (Maria, Antonietta, Giuseppina, Anna, Giacomo, Nicodemo, Giovanni, Pietro, Delfina, Luigi, Valentino, Giuseppe Amedeo); mentre il mulino era solo di
quest’ultimo, Giuseppe Amedeo, che peraltro abitava a
Rollie dessous nella casa avita dei Schützersch.
Entrambi gli opifici sono ancora presenti sul terreno, ma
in stato di rudere; tuttavia persiste, fiera contro il tempo,
una macina del mulino. La roggia realizzata per azionare
i mulini e che serviva anche all’irrigazione dei prati e dei
campi dei villaggi sottostanti, è certamente una delle più
antiche opere collettive esistenti sul territorio issimese
che abbia continuato ad operare nei secoli ininterrottamente fino agli anni ‘80 del secolo scorso. L’acqua del
torrente Walkhunbach era convogliata in due rogge, una
quella dei mulini, l’altra più a monte, che originava dalla
cascata del Gründji. Del Ru, detto di Rollie, rimangono
importanti ed evidenti tratti, nei prati dei villaggi di Rollie
Rollji, di Crose Kruasi, di Gran Champ Gran Tschamp,
nei prati chiamati Ritscharmuru, e della Cugna Künju.
La casa dei Busso Schützersch (vedi foto p. 25), poco distante dai mulini, ricostruita nel 1825 (millesimo sul trave di colmo) da Jean-Jacques Busso e Marie Antoinette
Consol, genitori del già citato Jean-Pierre (1812-1882) e
di Jean-Jacques (1814-1891), era dotata di un forno per la
cottura del pane, ed il piccolo edificio antistante l’abitazione fungeva da rivendita. Il forno fu attivo fino all’inizio del
secolo scorso. Jean-Jacques Busso (1814-1891) edificò nel
1863 (millesimo sul trave di colmo) la propria abitazione
di fronte a quella di famiglia ereditata dal fratello JeanPierre17.
Vi è quindi continuità, nel lasso di tempo a cavallo tra
settecento e novecento, per la proprietà in mano ai Busso
Schützersch (persino il nome di battesimo risulta tramandato!), sia per l’opificio, sia per la casa di abitazione.
A nord di Praz inferiore Under Proa sino a pochi anni or
sono era visibile il mulino ottocentesco, ora ristrutturato
e destinato a civile abitazione; un piccolo edificio a due
livelli, quello inferiore per la ruota motrice e quello superiore per la macina, che sfruttava l’acqua del Pennebach.
La struttura era in pietra a vista, con tetto a capanna coperto in lose. Sul colmo campeggiavano la data (1842) e
le iniziali (IIS – dove S poteva essere Stévenin). All’inizio del ‘900 apparteneva alle sorelle Stévenin Maria (in
Chamonal), Leontina (in Stévenin), Luigia, Valentina (in
Ronco) e Anna Maria, figlie del defunto Giosué Lino.
Mulino della Farettaz nel territorio di Fontainemore, la
struttura risale al XV secolo e conserva al suo interno la macina e i meccanismi con i quali si macinava. (foto Martinet)
Nel 1772 a Praz non esisteva un mulino, e nemmeno la
famiglia Stévenin.
Sul territorio comunale, per la precisione a Plane superiore Andschaldsch sussiste un edificio a due piani e sottotetto con il colmo datato 1747 (decorato anche col calvario
e i tre chiodi della crocifissione di Cristo) all’interno del
quale era presente un mulino, la cui ruota idraulica era
in ferro, oltre ad ambienti di abitazione (l’edificio è stato
abbattuto per fare posto ad un moderno edificio).
Nel catasto del 1772 non era censito come tale, nel catasto d’origine sì, ed apparteneva a Giuseppe Angelo Ronco, figlio di Giovanni Angelo. Peraltro la struttura edilizia, di impianto settecentesco, era stata modificata nel
corso dell’ottocento e ora verte in stato di rudere. Anche
il canale di adduzione dell’acqua, denominato in mappa
“roggia del mulino di Plane” è indice della sua origine
ottocentesca.
L’edificio a sud-est di questo, verso il Lys, era destinato
M. Musso, Oratorio dei Schützersch al villaggio di Gran Pra, in Augusta 2011, pag. 72.
17
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Interno del mulino della Farettaz (Fontainemore). La parte
centrale della macina, proveniente dalla Germania, fu trasportata a spalle dagli uomini del villaggio lungo la mulattiera che dal capoluogo di Fontainemore porta a Farettaz.
(foto Martinet)
a fucina e apparteneva a Giovanni Giacomo Pantaleone
Christillin fu Giacomo.
Una curiosità estemporanea, ma legata alla collettività: a
Plane Pioani a fine settecento esisteva l’Ecole d’Issime.
Un altro sito protoindustriale era Tontinel Tunterentsch.
A valle della casa della musica, già piccolo stabilimento
ittiologico, sussistevano gli opifici, messi in movimento
dall’acqua della “roggia del mulino di Tontinel”.
Un edificio a due piani coperto da tetto a capanna, con
colmo datato 1850, conteneva una serie di stanze a varie
destinazioni, tra le quali una locale per la turbina, una fucina, una camera, un fienile, una rimessa e una soffitta.
Le stanze della turbina e della fucina erano attigue; un
asse di trasmissione le attraversava e azionava da un lato
il maglio e dall’altro le pale motrici. La turbina produceva
energia elettrica per tutto il comune.
A valle di quest’ultimo vi era un mulino, ora scomparso.
Entrambi a cavallo tra ottocento e novecento appartenevano al dottor cavaliere Giovanni Goyet fu Pantaleone;
mentre l’edificio della casa della musica era di Gustavo
Christillin Pintsche fu Luigi Gustavo.
Stesso proprietario per l’altra enorme struttura sita a sudovest, a valle dell’antica strada per Gressoney, dove, forse, all’interno vi era un’altra fucina, ma gli elementi a noi
pervenuti non sono chiari.
Oltre ai dati recuperati nei documenti storici, sussistono
quelli materiali sul territorio, quelli ricostruibili dalla toponomastica e quelli tramandati dalla tradizione orale.
Difatti, essendo il catasto, come già anticipato, un elenco
di beni per scopi fiscali, non è detto che all’epoca dei diversi censimenti i mulini fossero in attività, o che siano
stati tutti censiti come tali. Diverso sarebbe stato se anche in Valle d’Aosta vigesse il catasto austro-ungarico18,
le cui risultanze hanno efficacia costitutiva, oltre che probatoria, per i trasferimenti immobiliari19.
Nel Vallone di San Grato gli opifici erano due: uno tramandato anche nei racconti, l’altro di testimonianza materiale20.
Il primo, detto Brochnu Mülli (letteralmente mulino diroccato), è il mulino legato alla leggenda del folletto mugnaio
di Pressiro, raccontata da Jean-Jacques Christillin Tunterentsch nelle “leggende e racconti della Valle del Lys”21.
L’altro, detto dei Busso (dei Schützersch-Dschoantsch) in
località Stubbi, del quale permane un possente architrave in pietra datato 1605, presenta ancora, ovviamente a
monte, un piccolo bacino di raccolta dell’acqua, ora un
po’ insabbiato, e il canale di adduzione.
Anche all’inizio del vallone di Bourinnes, lungo il torrente Stolenbach, vi era un mulino ora scomparso, nei pressi
della zona, un tempo coltivata, chiamata Moartasch Acher
(campo dei Chamonal) e d’Hoalti, località nei pressi del
villaggio di Bourinnes in pendio lungo il torrente.
Regolato dalla regia patente di Francesco I d’Austria del 23 dicembre 1817 e formato fra il 1817 ed il 1861, in vigore nelle
province di Trento, Bolzano, Trieste, Gorizia ed in alcuni comuni delle province di Udine, Brescia, Belluno e Vicenza.
19
Infatti, nel Libro fondiario non si trascrivono i titoli, ma i diritti medesimi reali e quei pochi personali che la legge tassativamente ammette; l’iscrizione tavolare è, almeno per gli atti tra vivi, elemento costitutivo del diritto stesso anche tra le parti
contraenti pur sulla base del necessario titolo documentale; è un requisito “sostanziale” per l’acquisto ed il trasferimento
della proprietà e dei diritti reali su immobili.
20
I due mulini sono già segnalati, con un asterisco e con l’indicazione, l’uno semplicemente moulin, l’altro moulin des Toubes,
sulla carta Topografica in misura del Ducato di Aosta (vedi immagine qui pubblicata), realizzata tra il 1752 e il 1753 da Avico
Durieu, Carelli Denis e Sottis, conservata presso l’Archivio di Stato di Torino.
21
La leggenda, in breve, narra che gli Issimesi lasciavano i sacchi di segala davanti alla porta del mulino e il giorno seguente
li ritrovavano ricolmi di farina. Un giorno una donna curiosa lasciò il suo sacco e si nascose, lo vide sparire nel mulino, si
avvicinò e, spiando dal buco della serratura, vide un nanetto vestito di una tunica multicolore tutta toppe e rammendi intento
a macinare. I valligiani decisero di dare in dono al folletto una tunica di lana rossa per ringraziarlo del lavoro che eseguiva
per loro, ma da quel giorno egli partì cantando verso la Betta e nessuno lo rivide.
18
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Il mulino di Rollie ad Issime:
Schützersch Mülli
Luigi Busso Schützersch-Dschoansch
I
l mulino di Rollie nel corso dei secoli è stato posseduto da varie famiglie, tutte residenti a Rollie o a Crose e imparentate tra
loro, ed è possibile ricostruirne in parte la
sequenza dei proprietari grazie ad alcuni
interessanti documenti.
Nel 1645 appartiene ad Antoine de Jean Pierre Christilly
(Sic!), come si evince dalle proprietà e dai confini del “Li-
vre terrier del Tiers Dessoubz soit du Plan”1. Successivamente diviene di proprietà della famiglia Clos che verso
la metà del XVIII secolo lo cede unitamente ad altri beni
alla nobile famiglia Biolley (che a Rollie aveva già alcuni
terreni) per far fronte alla necessità di denaro, in particolare dell’Honorable Jeanne feu Jean Pierre de Pierre de
Jean Ronc Favre, vedova di Jean de Pierre Clos.
Pochi anni dopo, però, quei beni ceduti ai Biolley sono
Issime, villaggio di Rollie inferiore, la prima casa a destra fu edificata nel 1863 da Jean-Jacques Busso Schützersch (1814-1891),
a monte la casa avita dei Busso Schützersch (oggi Consol) ricostruita nel 1825. I due mulini sorgevano a poca distanza lungo il
Rickurtbach. (foto Musso)
1
Archivio comunale di Issime.
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L’edificio che la tradizione identifica con la rivendita del
pane a Rollie di fronte all’abitazione dei Schützersch. (foto
Sara Ronco)
acquistati dal fratello uterino (stessa madre, padre diversi) dell’Honorable Jeanne Ronc Favre, Maitre Jean Jacques
Busso (Schuzzer o Chuzzer) feu Pierre con un atto del Notaio Jean Alby del 13 gennaio 1757 e con due atti stipulati
a pochi giorni uno dall’altro dinnanzi al Notaio Mathieu
Christillin2. Con il primo, del 29 marzo 1757, Jean Jacques
Busso concede una “retraction lignagere” a favore del Noble Jacques Antoine Biolley avente ad oggetto beni a Rollie
de Poijer (Pöitzersch nome di fam. dei Christille) tra cui
il prato, chiamato “le champ et verney de Clos” o anche
“Ahra”, in cui è situato il mulino, oltre ad altri beni, tra
cui la casa con il forno chiamata la “Daille de Jean Clos”
ed altri situati al di là del torrente, tra cui un prato ed il
“Chastelleriet”.
È significativo che tra i beni oggetto del contratto vi sia
il mulino e la casa con il forno perché Jean Jacques Busso
possiede già numerosi campi (come risulta dall’atto di divisione tra lui e suo fratello maggiore Jean del 18 marzo
17443) e, in questo modo, diventa proprietario di tutti i
beni strumentali alla produzione del pane, ossia può controllare l’intera filiera, dalla coltivazione della segale alla
vendita del pane, con evidenti vantaggi economici.
Con il secondo atto, del 4 aprile 1757, invece, gli stessi
annullano il primo perché nel frattempo Jean Jacques Busso è riuscito a pagare al Noble Biolley il prezzo pattuito.
Raramente il debitore riusciva a saldare il proprio debito
e ad evitare la perdita del bene dato in garanzia, anche
quando disponeva della somma, perché spesso al creditore interessava di più incamerare il bene e cercava di
evitare che gli fosse pagato quanto gli spettava. Ancora
più straordinario è proprio questo caso perché si tratta
di beni di grande importanza economica nell’economia
rurale dell’epoca: un mulino ed una casa con un forno.
Pertanto, le ragioni per cui il Noble Biolley ha accettato il
pagamento di Maitre Jean Jacques Busso e annullato l’atto
precedente devono essere ricercate nel prestigio goduto
anche da quest’ultimo all’interno della comunità issimese
e nei rapporti personali o di affari che li legano.
Ancora il Notaio Mathieu Christillin redige, l’8 marzo
17594, il testamento di Jean Jacques Busso, il quale dispone, tra l’altro, che “le moulin de Poijer soit de Clos” vada
ai suoi figli Maitre Jean Pierre e Pierre e che all’altro suo
figlio Jean Antoine (di cui non è molto contento) spetti
solo il diritto di macinarvi il proprio grano gratuitamente.
Quest’ultimo documento è oltremodo interessante perché specifica che all’epoca il mulino non è funzionante,
per cui il diritto di Jean Antoine è subordinato al fatto che
i fratelli lo rimettano in funzione.
Da quanto riportato emerge che il mulino di Rollie era
importante per l’economia rurale di Issime, tanto da essere preso in considerazione anche quando non era funzionante.
Inoltre, si può concludere che sovente, influenzati dalla
realtà attuale, siamo indotti a pensare che anche in passato vi fosse una certa stabilità nella titolarità di case e
terreni. Tuttavia, esaminando presso l’Archivio notarile di Aosta questi e altri antichi rogiti ci si rende conto
dell’infondatezza di tale convincimento. In epoche in cui
la ricchezza si esprimeva nei beni immobili e il denaro
scarseggiava, i primi erano oggetto di vari contratti che
ne trasferivano la titolarità o, almeno, lo sfruttamento,
proprio per sopperire alla mancanza di moneta. Compravendite, affitti, donazioni, ipoteche, costituzioni di
rendite, contratti matrimoniali, erano gli strumenti più
frequenti per soddisfare tale esigenza e quella di avere
unità colturali idonee a garantire il sostentamento delle
famiglie.
Archivio notarile di Aosta, Tappa di Donnas, Notaio Mathieu Christillin, volume n. 460.
Archivio notarile di Aosta, Tappa di Donnas, Notaio Mathieu Christillin, volume n. 458.
4
Archivio notarile di Aosta, Tappa di Donnas, Notaio Mathieu Christillin, volume n. 461.
2
3
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L’Alta Valle del Lys: un’area ricca
di siti di interesse geomorfologico
Francesco Spinello1
Gli elementi del paesaggio
S
pesso in letteratura sono stati delineati
i concetti relativi all’idea di paesaggio,
non solo come “l’immagine da noi percepita di un tratto della superficie terrestre”2, ma anche come l’insieme degli
elementi naturali ed antropici di una zona3.
L’attaccamento alle proprie radici e l’amore per l’ambiente in cui è inserita una comunità4 fanno scaturire giuste
preoccupazioni ogni qualvolta vengano presentati progetti di intervento che potrebbero modificare ed intaccare in
modo irreversibile l’integrità di un paesaggio fino a quel
momento inviolato5.
In molti casi la normativa, nazionale e regionale, è intervenuta per proteggere zone di pregio artistico, culturale e ambientale6, attraverso specifiche forme di tutela, e
fermare azioni di inurbamento o di costruzione di grandi
opere, a volte a sfondo speculativo, a tutto danno dell’ambiente e del paesaggio locali7.
Il paesaggio dell’Alta Valle del Lys è fortemente connesso
con le vicende di avanzata e ritiro del ghiacciaio del Lys.
Il movimento di queste masse glaciali ha prodotto una tipica conformazione valliva a U, con valli sospese laterali,
ed ha lasciato indelebili tracce sul paesaggio circostante:
massi erratici, rocce montonate, morene, forre, torbiere.
Tutte queste forme del paesaggio, tipiche dell’ambiente
periglaciale alpino, sono importanti non solo come te-
stimonianze di un’attività glaciale oggi in regresso8, ma
anche per lo studio dell’evoluzione dell’ambiente che va
ora formandosi con il ritiro dei ghiacci, oltre che come
archivio naturale degli eventi climatici del passato9.
Tali elementi sono quindi oggetto continuo di studio, ma
anche elementi di pregio sia dal punto di vista estetico,
essendo caratteristici di un determinato paesaggio, sia dal
punto di vista didattico, come materiale rappresentativo di
fenomeni fisico-chimici o storico-culturali. Non raramente, infatti, le formazioni rocciose possono avere valore di
bene culturale e rappresentare la memoria storica di una
comunità: si vedano ad esempio i siti minerari10, le incisioni su talune pietre anche di grandi dimensioni (spesso
massi erratici), come riporta il Nangeroni per la Lombardia, le pietre a coppelle11 (o a scodella), i massi avello e le
pietre incise in periodi preistorici o storici, generalmente
afferibili al XIX secolo12, come quelle di Issime13.
I geositi
I beni geologici (o geomorfologici) possono essere considerati geositi (o geomorfositi), cioè beni di pertinenza
geologica, quando sia possibile attribuire loro dei valori
(valenze) e i relativi punteggi. Le valenze più comuni possono essere: l’importanza scientifica intrinseca del bene,
il valore didattico, storico, socio-economico, di rarità naturalistica, di fruizione turistica finalizzata alla divulgazione scientifica, l’importanza culturale-tradizionale ed il
valore estetico, in quanto elemento del paesaggio.
Spinello Francesco, Naturalista, Dottorando in Scienze della Terra presso il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e del
Territorio (DISAT) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
2
MUSSO M., Il paesaggio: uno spazio culturale, Augusta, 2004.
3
MARTINET D., I segni del paesaggio culturale, Augusta, 2008.
4
LANZI L., Integrità ambientale e civiltà della montagna nel Vallone di San Grato, Augusta, 2004.
5
DIRETTIVO ASS. AUGUSTA, Sen Kroasch Gumbu. Il Vallone di San Grato ad Issime, un patrimonio di bellezze naturali e
storiche: alcune osservazioni sul progetto di sviluppo rurale, Augusta, 2010.
6
MARTINET D., Il paesaggio di tutti, Augusta, 2007.
7
FITZTHUM G., Anche ad Issime si finanzia la distruzione del paesaggio montano, Augusta, 2008.
8
MONTERIN W., Evoluzione della fronte glaciale del ghiacciaio del Lys dall’anno 1812 al 2008, Augusta, 2009.
9
RAVAZZI C., Tremila anni di storia in Valle d’Aosta. La registrazione dell’anfiteatro del ghiacciaio del Lys, Augusta, 2011.
10
SQUINDO E., Le miniere d’oro alla base del Monte Rosa, Augusta, 2008.
11
JANS R., Winterjatz, un lieu de culte préhistorique, Augusta, 2009.
12
REMACLE C., Pierres écrites, Augusta, 2010.
13
PRAMOTTON A. e SOUDAZ S., Segni di pietra nel Vallone di San Grato, Augusta, 2009.
1
— 27 —
A U G U S T A
Debris flow
e morena destra.
(foto Spinello)
L’attribuzione dei punteggi relativi alle valenze di pertinenza dei
beni individuati deve
altresì includere criteri connessi allo stato
di conservazione degli
oggetti considerati e
alla loro vulnerabilità:
infatti i beni geologici,
a differenza di quelli
biologici, hanno tempi
di formazione lunghissimi e tempi di distruzione anche molto brevi (come ad esempio le
concrezioni calcaree
ipogee, i funghi o piramidi di terra, i ghiacciai), senza possibilità
di adattamento a nuovi
ambienti, come avviene invece per gli organismi viventi. È per questo motivo che da più di un decennio tali beni vengono censiti in
tutta Italia e catalogati nel Repertorio Nazionale dei Geositi gestito dall’Istituto Superiore per la Protezione e la
Ricerca Ambientale (ISPRA) e spesso posti sotto tutela,
mediante le forme previste dalla normativa nazionale (L.
394/91), come monumenti naturali o all’interno di aree
protette.
I potenziali geositi dell’Alta Valle del Lys
All’interno dell’anfiteatro morenico del ghiacciaio del Lys
vi sono sicuramente dei potenziali siti di interesse geologico/geomorfologico da ascrivere a geositi e da poter
catalogare all’interno del Repertorio Nazionale. Partendo
da Stafal, presso Gressoney La Trinité, in direzione del
ghiacciaio, si possono incontrare i seguenti elementi:
1. presso l’Alpe di Cortlys: torbiere, massi erratici,
rocce montonate, forre meandriformi;
2. lungo il torrente Salze (sentiero n.7): nicchie di distacco di frane attive, torbiere, morene “napoleoniche”;
3. sul versante destro idrografico: morene laterali,
debris flows, conoidi;
4. presso le sorgenti del Lys: morene frontali e laterali, rocce montonate, rock glaciers, laghi proglaciali.
Alpe Cortlys
Quest’area è ricca di siti prodotti dall’azione della fron-
te glaciale in epoche passate: morene frontali e laterali,
parzialmente erose e totalmente colonizzate dalla componente vegetazionale affiancate ad aree di accumulo
di acque di fusione (torbiere); rocce solcate dall’azione
abrasiva del fondo del ghiacciaio (rocce montonate) e
formazioni rocciose alloctone trasportate dal ghiacciaio
in movimento (massi erratici). Su molte di queste strutture la componente lichenica, dove presente, può indicarne l’età di formazione o di collocamento nella posizione attuale.
In quest’area, inoltre, il corso del Lys presenta una conformazione interessante: esso viene ad incassarsi all’interno di una forra meandriforme (orrido) che presenta
un ramo laterale “morto”, anch’esso meandriforme;
quest’ultimo fu probabilmente utilizzato in passato dal
corso d’acqua, per un breve periodo, ed abbandonato
successivamente, come accade per le lanche dei tratti di
pianura dei grandi fiumi.
Torrente Salze (sentiero n.7)
Nell’ultimo tratto a valle del torrente Salze, prima di incontrarsi con il Lys, vi sono due aree di frana ancora attive che portano detriti dalla nicchia di distacco (posta a livello del sentiero n.7) al letto del torrente. Tali movimenti
sono evidenziati dall’asportazione e piegamento di parte
del materiale arboreo ivi presente. In questa zona, inoltre,
la forte pendenza del versante è percepibile anche dalla
deformazione dei tronchi dei larici, a forma di sciabola,
che indicano un lento ma inesorabile scivolamento della
— 28 —
A U G U S T A
Morena sinistra
napoleonica.
(foto Spinello)
porzione superficiale
del suolo per fenomeni
di soliflusso.
Il sentiero n.7 risale il
torrente Salze fin quasi alla sua sorgente,
per poi deviare verso
la sorgente del Lys;
per buona parte del
tragitto il sentiero si
snoda lungo la imponente morena laterale
sinistra detta “napoleonica”, perché relativa
al più recente periodo
di espansione glaciale,
la Piccola Età Glaciale
(PEG), il cui massimo
si ebbe all’inizio del
XIX secolo.
Alla base della morena, il torrente Salze
forma delle piccole torbiere nelle aree più pianeggianti.
Versante destro
Sul versante opposto è ubicata la sequenza “speculare” delle morene laterali, una delle quali solcata da un
affossamento dovuto all’azione delle acque di ruscellamento (debris flow) che portano detriti a valle. Su
questo versante sono ben visibili, inoltre, cumuli di detrito di tipo gravitativo (conoidi) e forme da movimento
valanghivo.
Sorgenti del Lys
La sorgente del Lys è
l’area più caratteristica
dell’ambiente periglaciale, perché contiene
tutti gli elementi tipici
di questo ambiente: le
acque di fusione, raccolte in piccoli laghi
proglaciali in continua
espansione, il ghiaccio intrappolato dai
sovrastanti sedimenti (rock glacier), le
rocce montonate con
i solchi diretti verso
valle, le serie di morene formate dai diversi
movimenti di ritiro
Roccia montonata
a Cortlys.
(foto Spinello)
— 29 —
A U G U S T A
Sorgente del Lys.
(foto Spinello)
ricca di beni geologici
e geomorfologici potenzialmente ascrivibili a geositi, inseriti
in un ambiente che
sta mutando nel tempo. Da ciò si evince la
necessità di intraprendere uno studio geomorfologico della zona
analizzata e dei beni in
essa presenti. Un tale
lavoro sarà utile per la
valorizzazione dell’area stessa e potrà essere di stimolo all’economia locale attraverso
la fruizione pubblica
dei geositi individuati.
della fronte, dalla PEG ai nostri giorni, ed, anch’esse,
in continua formazione. In questo paesaggio costituito
prettamente da acqua, ghiaccio e rocce si sta sviluppando lentamente una prima forma di colonizzazione da parte della componente vegetazionale, con l’insediamento
dei primi larici. Quest’area è quindi fondamentale per lo
studio dell’evoluzione dell’ambiente periglaciale e delle
variazioni delle forme del paesaggio. È inoltre un’area
molto vulnerabile proprio a causa della sua continua trasformazione.
Un progetto per lo studio geomorfologico
In conclusione si può affermare che lo studio delle forme
del paesaggio si dimostra utile nella individuazione dei
beni geomorfologici. Questi ultimi, infatti, possono essere definiti come “siti o beni che risultano strategicamente
importanti, spesso unici, per comprendere alcune vicende dell’evoluzione del paesaggio nel tempo” (Marchetti, 1999) e possono quindi avere tanto valore di studio,
quanto valore didattico, storico, culturale e paesaggistico; l’alterazione o la scomparsa, per cause antropiche, di
detti elementi provocherebbe la perdita di un importante
patrimonio di studio e di memoria storico-scientifica.
Inoltre la valorizzazione di detti geositi porta allo sviluppo di nuove forme di economia sostenibile, in particolare
di forme di turismo più rispettose dell’ambiente (geoturismo), come avviene già per i geoparchi e i parchi minerari.
Nel caso dell’Alta Valle del Lys, tutta l’area posta tra la
località di Stafal e la fronte del ghiacciaio del Lys risulta
Bibliografia
NANGERONI G., (1975) - Le “pietre a scodelle”sono d’origine naturale o di fattura umana?. In: Scritti geografici
del prof. Giuseppe Nangeroni. Vita e Pensiero, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Brescia 1975, pp.
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CARTON A., CAVALLIN A., FRANCAVILLA F., MANTOVANI F., PANIZZA M., PELLEGRINI G.B., TELLINI
C., (1994) – Ricerche ambientali per l’individuazione e la
valutazione dei beni geomorfologici – metodi ed esempi. Il
Quaternario, 7(1), 1994, pp 365-372.
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tempo, pp 69-87.
MONTERIN U. (1922), Fenomeni carsici nei calcemicascisti della “Zona delle pietre verdi” (Alta valle di Gressoney). Estr. dagli Atti della Reale Accad. Delle Scienze di
Torino, vol LVIII, 1923. In: Raccolta di scritti di Umberto
Monterin (1986), vol I, Dal Monte Rosa al Tibesti, pp. 3142.
MONTERIN U. (1924), La valle di Gressoney e la sua geomorfologia. Estr. dal Bollettino della Flore Valdotaine, 17,
1924. In: Raccolta di scritti di Umberto Monterin (1986),
vol I, Dal Monte Rosa al Tibesti, pp. 91-126.
MONTERIN U. (1932), Le variazioni secolari del clima
del Gran San Bernardo: 1818-1931 e le oscillazioni del
ghiacciaio del Lys al Monte Rosa: 1789-1931. Estr. dal
Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano, 12, 1932.
In: Raccolta di scritti di Umberto Monterin (1986), vol II,
Il clima e le sue variazioni, pp. 153-202.
— 30 —
A U G U S T A
La comunità walser del Piemonte
e della Valle d’Aosta di fronte alle
novità della Riforma protestante
Battista Beccaria
D
urante il periodo controriformistico, soprattutto tra gli anni Quaranta-Settanta
del XVI secolo, l’attenzione dei vescovi del
Nord dell’Italia fu volta alla ricerca dell’eresia in seno al gregge dei propri fedeli. A
partire, invece, dagli anni Ottanta dello stesso secolo, la
ricerca degli eretici passò in second’ordine per lasciare
posto alla caccia e alla persecuzione di streghe e stregoni
segnatamente sull’arco alpino nord-occidentale. Le comunità di lingua walser, poste a sud delle Alpi, ne furono coinvolte in maniera diretta per due ordini di motivi.
Queste comunità parlavano idiomi di antica ascendenza
germanica, inoltre erano, perlopiù, a stretto contatto coi
Cantoni elvetici riformati, posti appena al di là della catena montuosa, pertanto andavano subito tenute accuratamente d’occhio. I loro abitanti, almeno quelli alfabetizzati e con un certo grado d’istruzione, erano in grado
di leggere e capire i libri luterani e calvinisti scritti in
tedesco. Le inquisizioni, sia quella vescovile che quella
domenicano-papale, si attivarono quindi presto, con una
capillare rete spionistica, per controllare le idee e i libri
proibiti circolanti nei villaggi walser e per regolare - con
particolari permessi d’espatrio verso i cantoni “infetti” d’eresia - l’emigrazione stagionale per lavoro di questa gente,
emigrazione che andava ad integrare una magra economia di sussistenza agro pastorale nei paesi d’origine. Gli
emigranti dovevano dire in quale cantone intendevano
recarsi, presso quali famiglie elvetiche e, al ritorno in patria, dovevano esibire degli attestati di frequenza religiosa
rilasciati da curati cattolici d’Oltralpe, che ne certificavano la buona condotta e la non frequentazione di persone
sospette. Tutto questo, però, non bastò a circoscrivere “il
contagio”, come veniva definito allora, con terminologia
desunta dalla medicina. Però, rispetto ai Paesi d’Oltralpe, ricettivi nei confronti delle novità religiose, al di qua
dei confini di questi, Chiesa cattolica e Stati sovrani non
permisero il dilagare del protestantesimo, il quale rimase sempre un fatto marginale e sporadico. La particolare
attenzione posta dagli inquisitori verso i villaggi walser,
ma anche verso i villaggi italofoni confinanti con i Cantoni
riformati, mise, però, questi “segugi” a difesa della retta
1
fede in diretto contatto con le credenze e con l’immaginario collettivo di quelle popolazioni marginali, che vivevano
una religiosità ibrida, metà cristiana e metà ancor pagana!
Tutto ciò scatenò, attraverso una criminalizzazione di tali
credenze superstiziose e con la sollecitazione di delazioni
fra vicini di uno stesso villaggio, quella che noi definiamo
la “Caccia alle streghe” d’Età moderna. Questo fenomeno
coinvolse in maniera massiccia, sull’arco alpino nord occidentale, la maggior parte delle località di alta montagna
e, perciostesso, le comunità walser. Di tutto ciò ho trattato
negli ultimi due numeri della rivista Augusta, ora dovrò
appuntare la mia attenzione sugli sporadici casi di eresia
presenti nei villaggi walser, negli immediati decenni dopo
la ribellione luterana. Come di consueto, circoscriverò il
fenomeno alle due confinanti diocesi di Novara e di Aosta (la valle del Lys confina con la Valle del Sesia, posta
in provincia di Vercelli ma in diocesi di Novara). Vorrei
subito far osservare che la popolazione umile, che seguiva un’abitudinaria pratica religiosa, rimase in genere al
di fuori delle diatribe teologiche del tempo, le quali coinvolgevano ed appassionavano invece il clero più istruito
e alcuni pochi intellettuali laici. Non è fuor di luogo sottolineare, infatti, come gli eretici allignassero proprio fra
quei parroci culturalmente più preparati e desiderosi di
una vera riforma della Chiesa, scandalosamente collusa
col potere e i cui vertici, tutti e solo di sangue blu, erano
corrotti e dissoluti oltre ogni limite di sopportazione cristiana ed etica. Le comunità passavano di solito all’eresia
soltanto quando i loro pastori, i curati, avevano di fatto
aderito alle novità d’Oltralpe e le predicavano in chiesa.
Alcuni episodi in diocesi di Novara
Nel 1556 don Stefano De Giuli era curato di Formazza
(Pomatten) e, pur essendo originariamente italofono,
stando per lungo tempo in quella parrocchia di lingua walser, aveva appreso l’idioma locale. La qual cosa gli aveva
permesso di leggere e capire libri protestanti. In quello
stesso anno, infatti, il prete formazzino fu inquisito come
eretico perché, si disse, riportava affermazioni chiaramente luterane sulla confessione auricolare1. Tredici anni
dopo, nel 1569, un altro parroco di confine, don Stefano
ASDN – Actorum Curiae, IV, 1556;
— 31 —
A U G U S T A
Quirico di Lomese, curato di
udito da costui in pulpito non
Montecrestese nell’Ossola,
si dovessero “comprare” gli
venne tradotto a Novara e
anni, mesi e giorni del Purinterrogato dagli inquisitori,
gatorio5. Un vecchio walser,
perché avrebbe negato la preprobabilmente oriundo di
senza reale di Cristo nell’ostia
Agaro, tale Domenico Pigno2
lo, espertissimo casaro nel laconsacrata . Anche altri preti
furono posti in una lista nera
vorare lo “sbrinzo” – conteso
di sospetti: quasi tutti risultain ugual misura dai casari di
vano essere parroci di monAslè, nei Cantoni eretici, che
tagna, che tenevano in casa
da quelli di Croveo-Baceno in
libri messi all’indice, perché
Valle Antigorio – passava in
contenenti dottrine eretiche.
continuazione dall’Ossola alla
Probabilmente costoro si
Svizzera per il suo lavoro ed
procuravano i libri nei cantoera costretto a barcamenarni calvinisti tramite quei loro
si tra protestanti e cattolici.
parrocchiani che erano soliti
Quand’era oltralpe, doveva
emigrare stagionalmente in
partecipare al sermone del
Svizzera per lavoro. Lo spiopastore calvinista la domeninaggio verso i “sospetti” era
ca il lunedì e il venerdì, pena
organizzatissimo e capillare.
l’essere frustato; quando torAll’archivio vescovile di Novanava in Ossola doveva assira si conserva un intero fondo
stere alla messa domenicale
di Foro ecclesiastico denomie comunicarsi, pena il finire
nato Libri Informationum,
nelle carceri inquisitoriali. Il
il quale non è altro che una
poveretto cercava di adeguarserie di volumi manoscritti
si, di volta in volta, a seconda
di denunce - alcune palesi, la
della bisogna, pur di evitare
più parte anonime - fatte perfrusta e carcere, ma la cosa
venire in Curia da semplici
non poté durare a lungo. Pizcurati, Vicari foranei o affiliati Particolare del pannello in noce intagliato del pulpito della zicato a Croveo sopra un alal servizio degli inquisitori3, chiesa parrocchiale di Issime realizzato nel 1710, è rappre- peggio, mentre preparava il
come quei cosiddetti “cavalie- sentato l’episodio biblico del profeta Giona che viene gettato suo rinomato “formaggio di
Sbrinzo”, fu tradotto a Novara
ri di san Pietro Martire”, una in mare e un ‘grande pesce’ lo inghiotte. (foto Musso)
dai satelliti vescovili (sbirri di
confraternita che si poneva a
Curia) e costretto a un umiliante atto d’abiura, sul palco
completa disposizione del Santo Tribunale domenicano
allestito davanti al Duomo, rivestito con l’abitello degli
per ogni occorrenza: difendere con la spada i padri inquieretici. A nulla erano valse le sue proteste: «…credevo
sitori spesso aggrediti dalla gente inferocita; catturare i
che quelli che vivono alla luterana si potessero salvare
rei su mandato dell’inquisitore diocesano; fare da spioet andare in paradiso, ma hora che sono tornato qua, io
ni e denunciare i sospetti d’eresia o stregoneria; aiutare
creddo di no. Et, signorsì, andrò a la messa in chiesa ogni
i torturatori o il boia durante il loro specifico servizio4.
Un arguto ossolano che, dopo la morte della moglie, non
festa, mi confessarò et comunicarò una volta il mese et
aveva voluto far celebrare messe di suffragio dal suo parfarò tutto quello che si dovrà fare… et ne dimando perroco, il curato di Vogogna, per la compagna defunta, fu
dono al Signor Iddio et a Voi anchora!»6. L’inquisizione
da questi denunciato come negatore del Purgatorio, fatto
fu inflessibile col povero vecchietto oramai in malarnese,
arrestare e tradurre al carcere episcopale di Novara. Foril quale, comunque, ebbe salva almeno la vita. Nel 1562
tunatamente lo scaltro montanaro riuscì a incolpare un
il cardinale Serbelloni, vescovo di Novara (1560-1574), e
frate servita del locale convento, adducendo che aveva
l’Inquisitore Generale romano Michele Ghisleri, futuro
ASDN – Actorum Curiae, IV, 1569;
ASDN – Foro Ecclesiastico - Teca XII, 2, 2 Liber informationum (1585-1589); Teca XII, 2, 3 Liber informationum (1590-1591);
Foro Ecclesiastico - Teca XII, 2, 3 Liber quaerelarum et informationum (1593-1596);
4
ASDN – Fondo Frasconi, In Fastos Coenobii Novariensis Commentarius, ms. del secolo XVIII di un domenicano del convento
di San Quirico di Novara; Anonimo di Sant’Eustorgio di Milano, I domenicani e l’Inquisizione a Novara, storia manoscritta,
poi in parte edita nell’Ottocento per i tipi della “Grafica Novarese di Varallo”, s.d.
5
ASDN – Foro Ecclesiastico - Teca XII, 2, 5 Liber Constitutorum in causis fidei (1596-1603), processo contro Fabrizio Morigia
di Vogogna (1601);
6
ASDN – Foro Ecclesiastico - Teca XII, 2, 5 Liber Constitutorum in causis fidei (1596-1603), foll. 120 v. – 165r.;
2
3
— 32 —
A U G U S T A
ossolano Domenico Pignopapa Pio V, ordinavano all’inlo, nel 1594 fu messo sotto
quisitore di Milano e al Gotorchio un tal Guglielmotto
vernatore spagnolo del Duca(Wuillielmetus, un walser?)
to di far condurre una severa
che, insieme ai suoi famigliainchiesta sulle voci circolanti
ri, avrebbe ascoltato sermoni
che la diocesi di Novara fosse
7
eretici quand’era emigrato in
brulicante di Valdesi . L’indagine pare non abbia avuto poi
Francia. Ma alla fine fu assolun seguito, ma penso che più
to10. Altri quattro casi di perche di Valdesi si trattasse di
sone inquisite nella diocesi, al
Valdesiani (cioè dei seguaci
tempo dell’ascetico presule,
dell’erasmiano e adumbrado
non riguardarono però fatti
spagnolo Juan de Valdés).
avvenuti in territori di lingua
Prima del Serbelloni, cugino
vallesana. Il Bascapè fu così
di san Carlo e nipote del papa
intelligente e preveggente
Pio IV, era vescovo di Novara
nell’evitare che l’eresia si difil cardinale Giovanni Morofondesse in certi ambiti gerne, il quale dimorò ben poco
manofoni della sua diocesi
a Novara, essendo impegnache si procurò dei chierici dal
to a presiedere, per ben due
Vallese da formare ad hoc nei
sessioni, il più volte interrotto
suoi seminari, per poi inviarli
(dai papi) Concilio tridentino.
come parroci a Macugnaga
Costui era in stretto contatto
piuttosto che a Ornavasso
con personaggi dei cenacoli
o a Formazza11. Ai tempi di
formatisi intorno al Valdés.
uno dei suoi predecessori,
Può darsi, dunque, che amici
il vescovo Romolo Archinto
ed ex collaboratori del Moro(1574-1576), ci furono prone abbiano portato a Novara
cessi contro teste calde, liberi
le idee dello spagnolo8. Anpensatori, contestatori delle
che sotto l’episcopato di quel
istituzioni ecclesiastiche, ma
sant’uomo che fu il vescovo
nessun vero e proprio eretiCarlo Bascapè (1593-1615), Particolare della maschera del diavolo in noce intagliato del co12. Invece sotto il vescovo
personaggio ascetico, il qua- pulpito della chiesa parrocchiale di Issime. (foto Musso)
Francesco Bossi (1579-1584),
le non fece mai bruciare una
ad Alagna Valsesia, fu scopersola strega della quarantina che il suo tribunale di Curia
to un maestro che, insieme ai suoi allievi di lingua tedeinquisì ed esaminò in poco più di dieci anni9, ci furono
sca, tenevano e leggevano in classe libri di Lutero e Zuinalcuni casi di sospetti eretici. Oltre al già ricordato casaro
glio13. Non ci è dato sapere che fine facessero maestro
A. Borromeo, Contributo allo studio dell’Inquisizione e dei suoi rapporti con il potere episcopale nell’Italia spagnola del Cinquecento, in “Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età moderna e contemporanea”, XXIX e XXX (1977-1978), pagg. 219-276.
8
Il vescovo di Novara precedente il Serbelloni, il cardinale Giovanni Morone, amico del cardinale inglese Reginald Pole e presidente, per ben due sessioni, dell’assise tridentina, aveva frequentato a Roma il circolo di Vittoria Colonna, Giulia Gonzaga,
Pietro Carnesecchi, Michelangelo e altri simpatizzanti del Valdés, poi tutti o quasi divenuti sospetti e in odore d’eresia agli
occhi dei cardinali inquisitori della Curia romana. Che ci fossero Valdesiani anche a Novara poteva ben essere dunque. D’altronde, lo stesso cardinal Morone fu persino accusato d’eresia e rinchiuso in Castel Sant’Angelo sotto i papi ex-inquisitori,
da dove lo fece uscire il pontefice milanese Pio IV, zio di Carlo Borromeo e del Serbelloni, che subito si affrettò a rimetterlo
in sella come presidente del Concilio di Trento.
9
Battista Beccaria, Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento, in “Una terra tra due fiumi. La provincia di Novara nella storia”, vol. II: L’età moderna, Novara 2003, pp. 545-581. Battista Beccaria, Inquisizione episcopale e Inquisizione
romano-domenicana di fronte alla stregoneria nella Novara post-tridentina (1570-1615). I processi del Buelli (1580) conservati al Trinity College di Dublino, in “Novarien.” 34 (2005), pp. 165-221.
10
ASDN – Foro Ecclesiastico - Teca XII, 2, 6 Criminalia (1576-1583), foll. 94r. – 95v.;
11
Battista Beccaria, Il vescovo Carlo Bascapè e i Walser del Novarese (1593-1615), in «Storia di Rimella in Valsesia. “Alpes ville
comune parochia”», a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 123-146.
12
Battista Beccaria (s.v. Giambattista), Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui monti d’ Antigorio, in “Domina et Madonna. La figura femminile tra Ossola e lago Maggiore dall’antichità
all’Ottocento”, Mergozzo 1997, pp. 111-193, specialmente a p. 22 e alla nota 30.
13
ASDN – Actorum Curiae, IV, 1, 102 (1574);
7
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A U G U S T A
Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa parrocchiale di Issime, il paradiso. Francesco Biondi 1698. (foto Musso)
ed allievi, così aggiornati sulle novità in campo dottrinale
dell’altro versante alpino!
In diocesi di Aosta dopo la riforma protestante
Il primo vescovo aostano che si trova ad aver a che fare
con i problemi posti dalla Riforma protestante è il presule,
di origini vercellesi, Pierre Gazin (1528-1557). Costui,
più avvezzo a maneggiare le armi che non il pastorale, si
preoccupa però moltissimo che l’infezione degli eretici
non entri nella sua diocesi. Nel 1529, infatti, prende un’intelligente iniziativa pastorale. Visto l’analfabetismo religioso presente in molta parte della Chiesa valdostana,
grazie a un clero che pensa solo alle prebende e non alle
anime, dà avvio a un’opera capillare di istruzione religiosa
e di catechizzazione delle popolazioni, anche quelle più ai
margini. Tant’è che inizia subito la sua visita pastorale da
Gressoney e Issime, già fin dal suo primo anno di episcopato. L’8 ottobre 1528 è a Gressoney St.-Jean in visita a
quella popolazione, retta dal curato Generis e dal suo vicario Jean Vanitoz. Il giorno seguente scende a Issime, dove
14
incontra il parroco Jean Christiani. Gressoney, a quella
data, non ha ancora eretto una chiesa a La Trinité. Il vescovo, l’11 aprile 1529, si reca a Chambéry, dove si tiene
una Sinodo di tutti i vescovi degli Stati soggetti ai Savoia,
per deliberare sul modo di porre rimedio al pericolo di
una penetrazione protestante. I colleghi lo delegano a recarsi a Roma da papa Clemente VII14 per chiedere lumi sul
da farsi. Essendo uomo prammatico e d’armi, il vescovo
– come rimedio – comincia col chiedere alle autorità civili
(il braccio secolare) di far decapitare 12 gentiluomini, che
hanno aderito al protestantesimo, penetrato in valle dalla
Borgogna settentrionale e dalla contea di Neuchâtel. Anche gli abitanti di Torgnon e di Antey, coi loro curati, passano in blocco ai Riformati. Che fare? Non si può certo
ammazzarli tutti. Si decide allora di farli “abiurare” collettivamente e poi di riammetterli, purgati, alla comunione
della vera Chiesa, con tanto di assoluzione papale! Ad
ogni buon conto, per evitare altre clamorose defezioni di
massa, il vescovo si convince a dedicarsi meno alle armi e
di più a convocare periodiche Sinodi diocesane. Nella si-
“Venerabiles fratres archiepiscopi, episcopi et alii ducatus Sabaudiae prelati, ab ipsis lutheranis eis vicinis invadi metuentes
et propriis viribus non confidentes, per venerabilem fratrem episcopum Augustensem, eorum omnium nomine, ad Nos
pro causa expressa destinatum, auxilium contra eosdem lutheranos a Nobis et Sede apostolica postularunt…”, (Arch. Vat.,
Litterae Pontificum).
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A U G U S T A
Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa parrocchiale di Issime, il purgatorio. Francesco Biondi 1698. (foto Musso)
nodo del 19 agosto 1533, vista l’ignoranza religiosa dei fedeli, si ingiunge a tutti i parroci – sotto pena di 60 soldi
d’ammenda – di far imparare ai fedeli, durante l’offertorio
della messa festiva, i 10 Comandamenti di Dio, spiegandone il significato ed esortando gli stessi a osservarli. Ai curati delle comunità non francofone viene prescritto di insegnare il Decalogo verbis maternis. Ai tempi di Gazin,
molti ecclesiastici valdostani passarono ai Luterani e ai
Calvinisti, confidando nell’immunità che vantavano nei
confronti dell’Ordinario diocesano, ma il vescovo chiese
al papa di annullare tali immunità e perseguì i ribelli, che
furono costretti alla fuga o all’abiura15. Verso la fine dell’episcopato di Gazin era parroco di Issime e Gressoney, riunite nuovamente dopo una breve separazione, il curato
Bernardo di Freppa. Il 4 maggio 1557 il vescovo aostano
fece bruciare vivo l’eretico Niccolò Sartori di Chieri, arrestato a St. Rémy. Qualche giorno appresso, anche lui, colpito da improvvise febbri, morì in quello stesso mese di
maggio del 1557. Voglio ora lasciar da parte le tradizioni
sulla venuta Calvino ad Aosta nel 1536 ed il transito di
15
Bernardino Ochino, generale dei Cappuccini, in fuga
dall’Inquisizione nel 1542 e vedo di continuare a seguire
l’operato dei vescovi locali, in modo speciale quelli che
hanno a che fare con protestanti in genere ed eretici in
specie. Al Gazin era subentrato, sulla cattedra di San Grato, Marc’Antonio Bobba (1557-1567), di Casale Monferrato, fortemente voluto, se non proprio imposto, dal duca
Emanuele Filiberto di Savoia, benché non fosse stato neppure ordinato prete. Alla morte del Bobba era stato poi
eletto vescovo Gerolamo Ferragatta (1568-1572) che,
subito già dal primo anno, indisse una Sinodo diocesana il
17 novembre. In essa uno dei decreti obbligava chiunque
a denunciare all’Inquisizione episcopale coloro che fossero “sospetti nella fede” e coloro che parlassero male della
Chiesa. Un altro decreto vietava (soprattutto ai preti) di
tenere in casa libri proibiti e comunque senza l’imprimatur dell’Ordinario. Un altro ancora imponeva di segnalare
ai parroci quei fedeli che non si fossero accostati alla comunione pasquale, cosa assai “sospetta”! Prima del suo
episcopato, gli inquisitori papali (francescani o domenica-
“…quamplurimi clerici et aliae ecclesiasticae etiam regulares personae existunt, quae diversa crimina, excessus et delicta in
dies committere et perpetrare non erubescunt, et nonnulli alii haeresim lutheranam profiteri non verentur, et sub pretextu
quod a tua ordinaria iurisdictione immunes… correctionem tuam minime timent… in scandalum plurimorum…”, (Arch.
Vat., Brevium minutae).
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A U G U S T A
ni) non avevano fatto che sporadiche apparizioni in diocesi - quasi sempre in incognito - e non avevano mai esercitato alcuna giurisdizione ordinaria. Il Ferragatta, senza
curarsi dell’avversione del Conseil des Commis verso ogni
ingerenza di corpi giurisdizionalmente estranei allo Stato,
negoziò con Roma l’invio di un inquisitore del Santo Tribunale romano. Il 16 febbraio 1572 Francesco Umberto
Locato da Bagnorea, commissario generale del Sant’Offizio di Roma, nominò l’inquisitore vercellese, il domenicano Cipriano Uberti, inquisitore papale, oltre che per la
Chiesa di Vercelli anche per la diocesi di Aosta. L’Uberti
fu investito del potere di «procedere contro gli eretici, le
streghe e gli stregoni e i loro aiutanti (adiutores), di farli
catturare e gettare in prigione, di assolverli nel caso fossero stati riconosciuti innocenti, di punirli – anche con il
rogo – se fossero invece stati trovati colpevoli, per dare un
salutare esempio a tutti i fedeli non obbedienti (ut aliis
transeat in exemplum)». Di soppiatto si tentava di far entrare il Tribunale della Santa Inquisizione anche nella Valle d’Aosta. Non posso qui narrare cosa avvenne in seguito
e quali reazioni ci furono, ma il Ferragatta in ogni caso ci
provò e Roma s’illuse per un momento di potersi insediare, col suo Santo Tribunale, in quella regione, così gelosa
delle sue autonomie non solamente politico-amministrative ma altresì ecclesiastiche! Monsignor Ferragatta fu solerte nel controllare che le Comunità di lingua tedesca
della Valle del Lys non fossero infettate da eresie provenienti dai Cantoni svizzeri e che non circolassero libri
prohibiti fra i valligiani. Per vero, si era anche interessato
seriamente che gli abitanti di Gressoney potessero procurarsi un loro curato di lingua titsch. Questi, infatti, erano
ancora soggetti alla parrocchia madre di Issime, retta dal
curato Bredelin de La Salle, francofono. Costui aveva bensì promesso ai gressonari, suoi comparrocchiani, di inviar
loro, di lì a poco, un vicecurato germanofono, ma in seguito, prima per non perdere parte della sua prebenda non
l’aveva fatto, poi perché gli andava bene anche così, aveva
inviato loro un cappellano che comunque non capiva il
titsch locale. Sia il parroco titolare di Issime-Gressoney
che il nuovo cappellano si assentavano dalla valle molto
spesso, cosicché non una volta sola i poveri fedeli furono
costretti a seppellire i loro morti senza le esequie del prete. Quelli di Gressoney, poi, e soprattutto le donne, erano
costretti a servirsi di un interprete per confessare i propri
peccati al loro vice curato. Il vescovo Ferragatta rimbrottò
il curato Bredelin de La Salle, il quale si giustificò dicendo
che, malgrado l’avesse cercato, non era riuscito a trovare
nessun prete di lingua tedesca. Ma il vescovo fu irremovibile e scorporò il beneficio di Gressoney dal complesso
della prebenda parrocchiale, cosicché il curato non potesse più goderlo in proprio. In attesa che il prete germanofono venisse finalmente trovato, un vicario provvisorio,
nella persona di Jean Vuillermod, avrebbe provveduto alla
cura d’anime dei gressonari! Il solerte vescovo controriformista non aveva visto male, quando, appena insediato
da poco, aveva invitato i fedeli a denunciare i sospetti d’eresia. Proprio a Gressoney era stato subito segnalato Damien Ronchot (Damiano Ronco) come infetto di luteranesimo, in quanto aveva aderito al protestantesimo. L’interrogatorio fece emergere che il Ronco negava la presenza
reale di Cristo nell’Eucaristia, l’esistenza del Purgatorio e
quindi il valore delle indulgenze, il precetto del digiuno e
dell’astinenza e, cosa ancor più grave, il primato del Sommo Pontefice nella Chiesa sopra tutti gli altri vescovi! Al
Ronco, per aver salva la vita, non rimase che pentirsi e
chiedere perdono dei suoi errori. Ai lapsi pentiti e non
pervicaci veniva concesso quasi sempre il perdono, previo però un “auto da fé” pubblico, così come pubblica era
stata la professione d’eresia. Alla presenza del vescovo
Ferragatta, il Nostro fece atto di sottomissione e di pubblica abiura16, promettendo di attenersi sinceramente alla
santa fede Romana nella sua integrità. A questo punto il
presule –inquisitore, lo assolse, alla presenza dei fedeli,
dalla scomunica e da ogni censura ecclesiastica in cui fosse incorso. Gli impose, inoltre, una salutare ma tenue penitenza (rispetto al rogo). Il gressonaro fedifrago avrebbe
dovuto, nei prossimi quaranta giorni, ascoltare devotamente quaranta messe. Inoltre doveva donare in elemosina, alla chiesa del convento di Santa Caterina di Aosta, 25
scudi d’oro17!
Il documento col formulario d’abiura da recitarsi dovrebbe essere custodito ancora all’Archivio vescovile di Aosta, ma, per
indisponibilità alla consultazione (l’archivio accoglie solo due studiosi al giorno e bisogna prenotarsi con largo anticipo),
non ho potuto né vederlo di persona, né tantomeno pubblicarlo in calce. Una seconda copia di tali “atti d’abiura” andava poi
solitamente inviata a Roma, all’Archivio della Santa Inquisizione Centrale Romana o Sant’Ufficio.
17
Per tutto quanto concerne i vescovi, di cui abbiamo qui sopra trattato, rimando al mio saggio pubblicato su questa stessa
rivista nel numero del 2008: Battista Beccaria, Vescovi controriformisti e comunità walser tra Piemonte e Valle d’Aosta (15281601). I rapporti tra i vescovi postridentini delle due diocesi di Novara e di Aosta e le Comunità walser di Valle Formazza
(Pomatten), di Valle Antigorio (Salecchio Inferiore, Salecchio Superiore, Agaro, ecc.), di Valle Sesia (Rimella Valsesia, Alagna
Valsesia), di Valle Strona (Campello Monti), di Valle Anzasca (Macugnaga) e della Valle del Lys (Issime e Gressoney) nella
seconda metà del Cinquecento, in “Augusta” 2008, pp. 22-30. Inoltre sono sempre fondamentali questi due studi di base: J.-A.
Duc, Histoire de l’Église d’Aoste, voll. I-X, Aoste 1901 (1985 2ème); Abbé Duc Pierre Étienne, Histoire des églises paroissiales
de Gressoney S. Jean Baptiste et de Gressoney T. Ste- Trinité, Aoste 1866; Interessante sarebbe confrontare l’eresia luterana
del Ronco con quella di una donna di Cureggio, in diocesi di Novara, inquisita nel 1580 per gli stessi motivi e che subì l’atto
di abiura nel medesimo anno. Cfr. Battista Beccaria, Un’eretica del Borgomanerese processata dall’inquisitore domenicano
Buelli nel 1580. Caterina di Cureggio abitante a Cressa. Dai documenti del Trinity College di Dublino, (The Mediaeval and
Renaissance Manuscripts at Trinity College, Dublin – The Roman Inquisition, “Registri delle sentenze e delle abiure” - Ms.
1225), in “Antiqvarivm” (anno II – 2005), pp. 30-55.
16
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L’uomo selvaggio e l’eremita: i
solitari delle montagne Walser
Maria De La Pierre
O
mo sarvadzo, Salvan, Salvanèl, Om Pelos, Omenet Ros, Urciat, Mazarol, Wilder
Mann, Billmon: questi sono soltanto alcuni dei nomi assegnati all’uomo selvaggio.
La sua presenza è diffusa in tutte le regioni dell’arco alpino: Valle d’Aosta, Piemonte, Delfinato,
Prealpi Lombarde, Alto Adige, Tirolo e Svizzera.
A seconda delle località in cui è stato avvistato possiede
nomi differenti: om salvadig in Val d’Ossola, das Wilte
Mandiè ad Alagna, z’Wild Mandji ad Issime, Homo Sarvadzo a Valtournenche, in Valle d’Aosta, ums selvadis nei
Grigioni e Wilde Mann nel Tirolo.
L’intricato libro della natura non possiede segreti per lui,
vista la sua perfetta simbiosi con essa: la vita solitaria nelle grotte lontano dalla società, ha esaltato le sue caratteristiche fisiche facendolo assomigliare sempre più ad un
animale. Proprio per questo motivo, egli veniva spesso
scambiato dalla popolazione autoctona per un orso, a causa del suo aspetto goffo e peloso.
Nella maggior parte delle narrazioni, infatti, è piuttosto
piccolo e tozzo, barbuto e coperto con pelli di animali selvatici o fogliame. Il suo aspetto stravagante è reso ancor
più grottesco in certi racconti, dove lo si incontra dotato
di piedi palmati o caprini, che gli conferiscono l’aspetto di
una creatura diabolica1.
Nonostante l’apparenza primitiva, egli è un profondo conoscitore e portatore di arti e tecniche non solo casearie
ma anche minerarie, pastorali, mediche2 e tessili. La sua
grande forza sembra renderlo invulnerabile, poiché non
teme né pioggia né neve, soltanto il vento3 sembra intimorirlo fortemente.
Nel mondo leggendario, assume spesso una connotazione positiva, tanto che l’antropologo e linguista Vladimir
Propp lo descrive in questo modo (Centini M., 2000,
L’uomo selvaggio antropologia di un mito della montagna,
Scarmagno (Torino), Priuli & Verlucca: 10):
L’uomo selvaggio è il genio del bosco, svolge un incarico
prevalentemente pedagogico e rappresenta l’essere depositario di verità maturate sulla scorta di una profonda
capacità di entrare in risonanza con l’ambiente.
Egli rappresenta perciò un essere allo stato primordiale,
dotato ancora di una sapienza originale, che gli permette
di vivere in armonia con sé stesso e con la natura circostante.
Il suo essere “diverso” dalle persone “civili”, provocato
da una vita solitaria in località isolate, lo rende bizzarro,
tanto che nei racconti si riportano le sue strane abitudini,
come ad esempio, la consuetudine di succhiare direttamente il latte dalle mammelle delle capre.
Nonostante il suo aspetto primitivo, che lo faceva apparire scontroso, nella maggior parte delle leggende alpine,
egli è paziente, servizievole, inoffensivo e per lo più ingenuamente fiducioso: egli si trasforma in un “buon alleato”
per gli alpigiani, i quali consci della sua ingenuità, gli affidano spesso il compito di pascolare le mucche o le capre.
Nelle aree Walser italiane, questa consuetudine è presente soltanto ad Issime dove lo z’Wild Mandji custodiva le
capre; mentre invece questa peculiarità, in base alle leggende raccolte, è inesistente presso i Walser piemontesi:
ad Alagna l’uomo selvatico viveva completamente solo in
un luogo isolato e all’interno della narrazione non viene
specificato se il “solitario” custodisse del bestiame, mentre invece a Salecchio si narra che i Pubrina4 avevano la
pessima abitudine di rubare i bambini.
In Val d’Ossola, questo curioso personaggio era anche
conosciuto con l’appellativo om salvac ed era descritto
La chiesa demonizzò tutte le divinità appartenenti ad altre religioni. Questo avvenne anche per il dio Pan, divinità dei pastori
e dei greggi che può essere considerato come il predecessore dell’uomo selvaggio.
Il lato “demoniaco” dell’homo sylvanus si può riscontrare in una leggenda di Davos, sopra Furna, nel Canton Grigioni, dove
gli uomini selvatici se ne andarono non appena le campane del villaggio cominciarono a suonare.
Come si può notare, le campane svolgono una funzione esorcizzatrice, allontanando per sempre quelle creature che non
sono considerate esseri umani, ma probabili figli di satana.
2
L’uomo selvatico è in grado di guarire le mucche malate, poiché non solo conosce le virtù delle erbe curative, ma sa anche
distinguerle da quelle velenose.
3
La paura dell’uomo selvatico per il vento è rimasta talmente viva tra la popolazione di Valtournenche che ancora oggi, gli anziani del villaggio usano dire: “ Quando piove piove, quando nevica nevica; ma quando tira vento, meglio è fare come l’uomo
selvatico, e nascondersi” (Gatto Chanu T., 2011, Saghe e leggende delle Alpi, tra diavoli e santi, nani, fate streghe e folletti, alla
scoperta del magico mondo dell’immaginario alpino, Roma, Newton & Compton: 375).
4
Con questo appellativo venivano chiamati abitualmente gli uomini selvatici.
1
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A Gressoney-Saint-Jean il signor Joseph Delapierre chiama la sua osteria “Uomo Selvaggio”, come si può leggere in quest’atto del
1830. (Archivio Renato De La Pierre)
come un uomo barbuto, peloso e sapiente. In questa vallata, essi erano considerati grandi “marciatori” in quanto
erano capaci di camminare molte ore senza parlare ed
inoltre, erano in completa simbiosi con tutti gli animali
del bosco.
L’esistenza dell’uomo selvaggio è testimoniata anche a
Campello Monti e a Carcoforo: nel primo paesino, si racconta che abitava in una balma della parete rocciosa del
monte Pruvùr (Ballestroni R., ‘L Vecc dal Kali: una leggenda di Campello Monti (Valle Strona), in Augusta 2001:
2), era un tipetto di bassa statura, pelosissimo e abitava
nelle grotte; nel secondo villaggio, è raffigurato come una
creatura piuttosto timida che se ne sta lontano dalla gente, nutrendosi di cacciagione e trote.
Nell’area in cui la cultura Walser è ancora
“viva”, ho ritrovato soltanto una leggenda
ad Issime riguardante questa straordinaria
creatura: in questo villaggio vi era un uomo
selvaggio che pascolava le capre e aveva
chiesto alla popolazione locale di venirlo
a trovare di tanto in tanto quando il tempo diventava brutto. Come nella vallata di
Valtournenche, lo z’Wild Mandji non aveva
paura della pioggia, ma del vento che ad Issime ne aveva provocato addirittura la morte (testimonianza Ronco Imelda).
Nella altre località della Valle del Lys invece, la sua esistenza è caduta nel “dimenticatoio” in quanto la sua presenza non è testimoniata.
Tuttavia, in questa vallata il retaggio di
questo stravagante personaggio si può riscontrare in un modo di dire conosciuto
tra la popolazione di Niel che recita: Fei po’
cumme lou salvagio de Peire Desout! (‘non
comportarti come il selvaggio delle Peire
Desout’5). Questa frase è usata ancora oggi
per indicare una persona non particolarmente socievole e non amante della compagnia delle persone.
A Gressoney-Saint-Jean invece, il signor Joseph Delapierre rievoca questa figura leggendaria chiamando la sua osteria “Uomo
Selvaggio”, come si può leggere in un atto
del 1825 e del 1830.
Fortunatamente nelle aree Walser d’oltralpe, l’esistenza di questo straordinario personaggio non è caduta nell’oblio: in Svizzera,
nei Grigioni e più precisamente a Prättigau,
a Schanfigg, a Davos, a Monbiel e a Savien, lo si ritrova
spesso pastore di mucche: conduce nei pascoli migliori il
bestiame e lo nutre di erbe “speciali” capaci di offrire un
ottimo latte. I suoi servigi di solito vengono apprezzati
dalla popolazione autoctona, la quale ricompensava il fidato aiutante con del cibo.
Nella Kleinwalsertal, in Austria, ad esempio, ogni sera le
contadine avevano preso l’abitudine di offrirgli un pezzo
di pane con un po’ di formaggio e burro. Ovviamente, le
giovani, conoscendo il suo carattere timido ed introverso,
depositavano su di una roccia le varie cibarie.
La collaborazione tra uomini selvatici e persone “civili”,
si rinsalda sempre più, tant’è che gli abitanti decidono di
premiare maggiormente il loro generoso collaboratore:
Una località situata poco distante dalla frazione Niel.
5
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a Savien, nei Grigioni, con un paio di pantaloncini di pelle e una cintura rossa, a Monbiel, sempre nei Grigioni,
con un paio di scarpe, a Schaan, nelle vicinanze di Triesenberg, nel Liechtenstein con un vestito, a Bürstegg,
nella Kleinwalsertal, con un bel vestito con tanto di cappuccio.
Questi doni, anziché spronarlo a continuare il suo lavoro
lo inducono a riflettere a proposito della sua situazione:
egli è un uomo e non una bestia perché può indossare
degli abiti e delle scarpe. La nuova scoperta lo rende talmente euforico, tanto da indurlo ad abbandonare la compagnia degli alpigiani per dirigersi verso nuove terre.
La convivenza tra uomini selvatici e popolazione locale
è alternata da momenti di collaborazione e tensione, di
conseguenza la coabitazione non sempre risulta pacifica.
Infatti, nel mondo leggendario compaiono varie narrazioni, in cui si credeva che l’homo sylvanus non solo rubasse
i bambini6, ma scambiasse i propri figli con quelli degli
alpigiani.
A Klosters, nei Grigioni, come pure a Bosco Gurin nel
Ticino e a Campello Monti (Valle Strona), un neonato è
stato scambiato con il bimbo di due uomini selvatici. I genitori si sono accorti immediatamente della sostituzione,
poiché quel bambino era brutto e rugoso.
Non solo i selvatici, ma anche altri personaggi fantastici
localizzati nell’area valdostana e Walser, scambiano i propri orribili figli con quelli dei montanari: la bellissima fata
di Colombera, che abitava a Perloz, nella valle del Lys,
abbandonò il suo orchon (‘orchetto’) gobbo, macilento e
muto per sostituirlo con il bambino più bello del villaggio,
i nani di Migiandone, per vendicarsi di uno scherzo poco
gradito, scambiarono il loro bimbo con quello di un abitante della zona.
Come si può notare, i nani migiandonesi si comportano
allo stesso modo degli uomini selvatici, facendo pensare
al lettore che probabilmente essi sono la “fusione” di due
personaggi diversi, ma in un certo senso simili.
Nell’area Walser ai piedi del Monte Rosa, infatti, la somiglianza dei nani o gnomi con gli uomini selvatici è veramente eclatante: ad Agaro vi è un nano pastore, a Formazza invece, ve ne è uno esperto nella lavorazione del
formaggio che viene premiato, come pure quello presente nel mulino di Issime, con un bel abito e infine, a Ma-
cugnaga, queste creature sembrano essere addirittura in
grado di trasformare le foglie o il carbone in oro!7
La “fusione” di questi due personaggi, è evidente soprattutto ad Agaro, dove in una leggenda, la parola nano viene spesso sostituita dal nome uomo selvatico. Probabilmente, si è verificato questo avvenimento poiché uomini
selvatici e nani si comportano entrambi allo stesso modo:
ingenui, bizzarri, ma anche saggi, servizievoli8 ed esperti
nell’arte casearia9.
Invece l’associazione nano - uomo selvatico, è meno evidente negli altri paesi Walser, dove si ritrovano soltanto
alcuni aspetti, in particolar modo si può notare la loro
suscettibilità provocata dagli scherzi da parte della popolazione locale che non riusciva a comprenderli, oppure
non aveva la minima intenzione di stabilire dei contatti
con loro, visto il grande divario culturale che li separava.
A Macugnaga, un Götwiargjni è scomparso dopo che la
ragazza di cui era innamorato ha arroventato la pietra su
cui era solito sedersi durante la veglia.
Ad Agaro e Formazza, un Twergi è sparito quando una
moglie stufa di essere soggiogata dalle molestie di un
nano, decide di confessare tutto al marito, il quale impartisce una bella lezione al nanerottolo importuno piantandogli lo scardasso acuminato nel sedere.
I selvatici come i nani sono molto suscettibili, un minimo
sgarbo può provocare la loro scomparsa, come accade,
ad esempio, in un paese Walser dei Grigioni.
La leggenda narra la storia di una Fänggenmannli10 che
aveva deciso di trasformare la sua grotta in un rudimentale caseificio, ma la sfortuna volle che un ragazzo un po’
troppo curioso scoprisse il suo segreto, provocandone la
sua dipartita (Imesch L., 1983, Was die Walser erzählen,
Zurigo, Buchclub ex libris: 155).
Un selvaggio aveva deciso di adibire una grotta a caseificio. Un giorno, un ragazzo di Safiental capitò per sbaglio
nella sua caverna dove gli fu offerto dello squisito formaggio di camoscio. Il giovane non appena rientrò a casa,
raccontò al fratello ciò che aveva degustato e gli suscitò
una tale curiosità che egli volle scoprire il segreto della
preparazione di quella bontà.
Dopo essersi camuffato, entrò di soppiatto nella caverna
e con l’inganno spiò l’uomo selvaggio intento a preparare
il formaggio prelibato.
Questa caratteristica si può anche notare in paesi non appartenenti all’area Walser: nella Valsugana il Salvanel rapiva i bambini piccoli per allevarli nella sua caverna ed era molto amorevole nei loro confronti.
Questo avvenimento dimostra di conseguenza, che ci furono dei rapporti tra gli autoctoni e i “nuovi arrivati”.
7
In Austria, il Kasmandl (‘piccolo uomo selvaggio del formaggio’) aveva l’intenzione di insegnare ai pastori come ricavare
l’oro dal formaggio.
8
Ad Issime e a Gressoney-la-Trinité vi era un Stockji o Kuerch che macinava gratuitamente il grano senza richiedere nulla in
cambio alla popolazione locale.
9
I nani avevano insegnato agli abitanti di Agaro e di Issime a produrre burro, formaggio e ricotta.
A Macugnaga i Götwiargjni avevano intenzione di far apprendere agli abitanti l’uso del siero. Il tockhji di Issime, abbandonò, offeso, la comunità quando lo derisero mettendo in dubbio la sua capacità di riuscire ad utilizzare anche l’ultimo siero
skoeitju (Ronco I., Musso M., 2007, Eischemgseiti – Les dictons van a voart, Aosta, Tipografia valdostana: 163).
10
Gli uomini selvatici nei racconti tedeschi sono chiamati anche Fänggen e si dice che discendano dalla stirpe dei nani. Diverse leggende, narrano che essi vivevano nei boschi e nelle insenature rocciose, conoscevano perfettamente le condizioni
meteorologiche ed erano esperti di erbe.
6
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Il mulino di Brochnu Mülli nel Vallone di San Grato ad Issime, è il mulino legato alla leggenda del folletto mugnaio di Pressiro.
(foto Sebastiano Ronco)
Sfortunatamente, l’intento del giovane fu presto scoperto
e l’uomo selvatico ne rimase talmente ferito che decise di
andarsene per sempre.
In questo breve estratto si possono notare alcune peculiarità riscontrabili nel comportamento dell’homo sylvanus:
• la sistemazione in un sito appartato;
• la fuga per il comportamento ingrato della comunità locale;
• la ricerca di una nuova solitudine.
Queste caratteristiche, presenti in quasi tutte le storie
che parlano dell’uomo selvatico, non si incontrano invece
ad Alagna, dove la vicenda è incentrata sull’incontro con
il maligno. Quest’ultimo, non viene descritto fisicamente,
ma in base alla promessa da lui proposta si capisce immediatamente che si tratta di satana.
Egli infatti, propone al selvaggio di tagliare un pezzo di
montagna11 per rendere il luogo in cui abita meno inospitale, ma per assecondare questa richiesta il demonio
chiedeva in cambio la sua anima.
Il selvaggio rifiutò categoricamente la sua proposta, dando la possibilità al lettore di trarre un insegnamento morale: meglio continuare a vivere in una terra aspra dagli
scarsi frutti che cedere la propria anima al demonio.
A Salecchio, i Pubrina vengono definiti anche uomini
selvatici e il loro aspetto indefinito gioca a favore di queste creature: esse diventano facilmente esseri mostruosi
assalitori di bambini. La loro natura richiama perciò l’aspetto dell’orco, trasformando questo personaggio mite
in una figura malvagia.
Questa connotazione negativa si può riscontrare anche
nell’area cimbra, dove essi vengono raffigurati non solo
come rapitori di bambini, ma anche come cannibali. Probabilmente, questi aggettivi gli sono stati donati, vista la
sua diversità fisica e intellettiva: egli assomiglia agli uomini, ma appare alla popolazione locale come un essere
dotato di scarsa intelligenza e di conseguenza, facilmente
manovrabile.
Nonostante ciò, egli è in grado di stupire gli alpigiani con
L’eliminazione della montagna per ottenere una terra più feconda compare anche a Rimella dove la popolazione stufa della
presenza del Caval, una montagna situata poco distante, decide di farne “sparire” un pezzettino grazie all’aiuto di uno strano
individuo che si è proposto nell’intento (Bauen M., 1999, La lingua di Rimella tra cultura alto tedesca e italiana, Borgosesia,
Centro studi Walser di Remalju: 329).
11
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le sue conoscenze in svariati campi ed è per questo motivo che questo personaggio può essere facilmente ricondotto all’abitante autoctono delle Alpi.12
La sua vita sedentaria e il suo continuo contatto con la
natura hanno fatto in modo che egli potesse carpirne i
segreti più nascosti, rivelandogli addirittura il modo di
sopravvivere in ambienti ostili.
Il suo status rievoca di conseguenza, la condotta dagli
eremiti, che si trovano soprattutto nelle aree Walser valdostane, dove la sua apparizione pare rievocare l’uomo
selvatico presente nelle vallate piemontesi13.
Ad Issime, abitava a Pressevin, quasi sul bordo del precipizio, nella grotta abbandonata ormai da molto tempo
dalla fata che vi dimorava.
Egli era considerato dalla popolazione locale come un
poco di buono in quanto non veniva mai a messa.
Un giorno, però decise di presentarsi alla funzione per
ricevere la comunione, ma vergognandosi di presentarsi
davanti al Signore con il mantello tutto rattoppato decise
di levarlo ed appenderlo ad un raggio di sole.
A Gressoney-La-Trinité, si narra che l’eremita abitasse in
una baita al di sopra di Staffal e la leggenda che lo riguarda non è soltanto simile a quella di Issime, ma anche a
quella dell’eremita di Thornalen, sopra Valtournenche14.
A Résy, una località situata sopra Saint-Jacques, in Val
d’Ayas, vi era un vecchio eremita che si nutriva di bacche
e latte e parlava non solo con le sue pecore, ma anche
al Signore utilizzando una corda su cui aveva fatto dei
nodi15. La sua storia è anche in questo caso, molto simile
a quella dell’eremita di Valtournenche, dove il protagonista convocato dal vescovo, appese il suo mantello ad un
raggio di sole.
In queste leggende, i preti sono coscienti delle condizioni
di vita di queste persone e si preoccupano di non vederli
partecipare alle funzioni sacre, ad eccezione del caso di
Issime, dove non viene fatto nessun riferimento ad un’azione da parte del parroco.
L’inconveniente legato alla mancata partecipazione alla
messa viene risolto presentando i “solitari” ad un prete
o addirittura al vescovo (ad eccezione del caso di Issime,
dove l’unico elemento in comune è il mantello appeso al
raggio di sole), il quale si accorge ben presto che l’esorcismo non è necessario, poiché la loro fede è testimoniata
da un atto miracoloso, che in questo caso, si è manifestato con il mantello appeso al raggio di sole.
Tra le leggende Walser piemontesi raccolte, ho ritrovato
soltanto due narrazioni che parlano di eremiti: nel paese di Agaro e di Rimella. In quest’ultimo paese, non vi è
soltanto un “solitario” come ad Agaro, ma pare che addirittura un’intera famiglia conducesse una vita appartata
all’Alpe Emra.
In questa leggenda rimellese, infatti, la santità della famigliola non viene dimostrata appendendo un mantello
sopra un raggio di sole: gli abitanti dell’alpeggio oltre ad
assistere alla messa senza la presenza di un sacerdote,
avevano fatto crescere miracolosamente delle rape.
L’esistenza di genti amanti della solitudine è rimasta talmente radicata nella vita delle genti montane che ancora
oggi, vi sono alcuni luoghi che ricordano la loro presenza: a Thornalen, in Valtournenche e ad Agaro vi sono ancora impresse sopra la pietra su cui era solito pregare un
eremita, le orme delle sue ginocchia e ad Issime invece,
si trova una grotta nota col nome Ermutun Balmu (‘la
balma16 dell’eremita’).
Come l’eremita anche l’uomo selvaggio ha lasciato i propri “segni”, in particolar modo nella cultura, nel lavoro
e nella toponomastica: in certe località occidentali occitane e francoprovenzali vi sono località dette Lou Salvage, a Monbiel, paese Walser nei Grigioni, una pietra
è stata denominata Uzystein, in ricordo di Uzy, il selvaggio che pascolava le mucche degli abitanti della zona, a
Ochsenkopf, nelle vicinanze di Triesenberg, una caverna
è stata denominata Wildmannkirchle in ricordo della sua
presenza.
L’uomo selvatico può essere considerato come il rappresentante della vera popolazione autoctona. Purtroppo l’uomo civile
insediandosi nel suo territorio l’ha costretto a spingersi nei luoghi più alti e impervi.
Questa credenza è stata ribadita anche da un pastore della Val Camonica, il quale afferma: pòta hèrto, prima de nòter gh’era
dòma lur, i pagà (‘già certamente prima di noi c’erano i selvatici’).
13
La presenza dell’uomo selvaggio si riscontra soprattutto nel Biellese, dove compaiono numerosi racconti riguardanti la sua
esistenza.
A Bele, una località situata sopra S. Giovanni di Andorno, l’om salvéi aveva insegnato alle donne a produrre burro, formaggio e miasse. In cambio delle sue “lezioni” gradiva una scodella di latte o un po’ di vino, un pugno di farina, un pezzo di lardo
o di formaggio, a volte qualche pelle di montone.
14
Si narra che a Thornalen, vivesse un vecchio eremita che aveva avuto il dono di poter assistere alla messa senza recarvisi.
Il vescovo di Aosta inorridito dalle menzogne di quell’impostore, decise di convocarlo al suo cospetto, dove chiese all’anziano come pregava il Signore.
Quando l’eremita volle allargare le braccia e levare le mani al cielo per mostrargli come si rivolgeva a Dio, si accorse che il
mantello lo impacciava e così lo posò su di un raggio di sole.
Il gesto stupì a tal punto il vescovo che egli si inginocchiò immediatamente di fronte all’eremita.
15
In questa leggenda, a differenza delle altre narrazioni l’eremita è anche deriso a causa della sua ignoranza nel recitare il
rosario.
Un viandante infatti, accorgendosi dell’ignoranza del povero vecchio, spiegò che ad ogni nodo di funicella che gli passava
tra le mani doveva ripetere:”Groppo di corda”.
16
La balma è una parete o un masso sporgente che offre un riparo parziale. Questa costruzione può trasformarsi in un vero e
proprio “locale” con l’aggiunta di muretti laterali.
12
— 41 —
A U G U S T A
Purtroppo oggi giorno, l’homo sylvanus sembra essere
letteralmente scomparso ed è per questa ragione che è
bello ricordarlo nella memoria collettiva: mentre pascola
capre, mucche o camosci, oppure intento a raccogliere
qualche bacca o addirittura impegnato nella preparazione di qualche squisito formaggio.
LEGGENDE:
L’eremita di Pressevin [Loc. Pressevin, Imelda Ronco,
2011]
A Issime, a Pressevin, viveva un eremita che era considerato dalla popolazione locale come un “poco di buono”
perché non abbandonava mai la sua dimora per recarsi
alla messa.
Un giorno però, con grande stupore da parte degli alpigiani, si presentò alla funzione per ricevere la comunione. La vita solitaria, ai margini della realtà non aveva reso
sicuramente ricco quest’uomo: egli era vestito miseramente ed era avvolto da un mantello tutto rattoppato.
Per questa ragione, egli si vergognava immensamente di
presentarsi al Signore con un simile abbigliamento e decise così di levarsi il soprabito sgualcito.
Il povero eremita si guardò intorno e non trovando nulla
su cui appendere il proprio mantello decise di appoggiarlo sopra a un raggio di sole.
Quest’azione stupì moltissimo la popolazione, la quale si
rese conto che quell’eremita non poteva essere sicuramente un “poco di buono”, visto il prodigio da lui commesso.
L’uomo selvatico [Imelda Ronco, 2011]
L’uomo selvatico, conosciuto con il nome di z’wild Mandji,
abitava negli alpeggi situati sopra il villaggio di Issime.
Egli pascolava le capre e aveva chiesto alla popolazione
locale di venirlo a trovare quando il tempo diventava brutto. Gli abitanti accettarono di buon grado la sua proposta
e, infatti, in una giornata di pioggia particolarmente intensa, si recarono presso la dimora dell’uomo selvaggio
per assicurarsi che stesse bene.
Egli rimase molto stupito nel veder arrivare qualcuno a
trovarlo, poiché per il wild Mandji la pioggia non rappresentava alcun tipo di pericolo, al contrario del vento che
lo intimoriva fortemente.
Purtroppo la popolazione locale non era a conoscenza
della sua paura e, infatti, durante le giornate particolarmente ventose, non si preoccuparono di salire immediatamente all’alpeggio.
Dopo alcuni giorni, decisero di far visita al wild Mandji
per assicurarsi che fosse in salute. Giunti all’alpeggio,
cercarono il selvaggio dappertutto, ma ben presto si accorsero con raccapriccio che il poveretto era morto assieme a tutte le sue capre.
Campo di Segale anni ’30 del Novecento (Valle d’Aosta). (Archivio Guido Cavalli).
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A U G U S T A
Z’Phiffatji un z’Phaffatji
Imelda Ronco Hantsch
Ds Pfiffaci
und ds Pfaffaci
(filastrocca di Alagna-Im Land)
Ds Pfiffaci und ds Pfaffaci sind g’gange us und us in as gassalti.
Ds Pfiffaci häd g’geicht dam Pfaffaci ds hibali.
“Gimmer mis hibali!”
“Ich gibbider nid dis hibali,
bist mer du nid gist as stickji worems broud”.
Fun dos ds Pfaffaci ist g’gange
zam oufe haisu worems broud.
“Ich gibbider nid ds worems broud
bist mer du nid gist taig”.
Nos ist g’gange zam ucker haisu taig.
“Ich gibbider nid taig
bist mer du nid gist melu”.
Nos ist g’gange zar mili.
“Ich gibbider nid melu
bist mer du nid gist houre”.
Nos ist g’gange zam acher.
“Ich gibbider nid houre
bist mer du nid gist mist”.
Nos ist g’gange zar chua.
“Ich gibbider nid mist bist mer du nid gist hai”.
Nos ist g’gange zar mattu haisu hai.
“Ich gibbider nid hai
bist mer du nid bringst d’sagasu”.
D’sagasu häd untchede di haige neitig schwinis.
Nos ist der g’gange zam schwi.
Ds schwi hämmu g’said dos chmad mu nid geh schwinis
bist mu nid bringt klubia.
Nos ist g’gange zam schwimangi haisu klubia.
Entlich ds schwimangi hämmu g’ge d’klubia.
Nos häd sija g’brunge dam schwi.
Ds schwi hämmu g’ge ds schwinis.
Mit dam schwinis häd’s g’mige salbu d’sagasu.
D’sagasu hämmu g’ge ds hai,
ds hai häd er g’brunge dar chua, d’chua hämmu g’ge der mist,
der mist häd er g’brunge dam acher,
der acher hämmu g’ge ds houre,
mit dam houre ist er g’gange zar mili,
d’mili hämmu g’ge ds melu,
ds melu häd er g’brunge dam ucker,
ds ucker hämmu g’ge der taig,
mit dam taig ist er g’gange
zam oufe und der oufu hämmu g’ge
ds worem broud dos der häd g’ge dam Pfiffaci
und er häd umum g’hobe sis hibali.
Z’Phiffatji
un z’Phaffatji
(dialetto di Issime)
Phiffatji un Phaffatji sén kannhen ous in as gassilti.
Z’Phiffatji het kiet z’houbi dam Phaffatji.
“Gimmer méis houbi”.
“Ich gibbender nöit déis houbi
wénn dou nöit mer gibbischt as stükhji woarms bruat”.
Dé z’Phaffatji ischt kannhen zam uave
hoeischun woarms bruat.
“Ich gibbender nöit lljinz bruat
unz das di nöit gibbeschmer teig”.
Darnoa is kannhen zar multu hoeischun teig.
“Ich gibbender khén teig
wénn dou nöit mer gibbischt meelu”.
Dé is kannhen zar mülli.
“Ich gibbender nöit meelu
wénn dou nöit mer gibbischt chuare”.
Darnoa is kannhen zam acher.
“Ich gibbender nöit chuare
unz das dou nöit mer gibbischt mischt”.
Dé is kannhen zar chu.
“Ich gibbender khén mischt wénn dou nöit mer gibbischt hoei”.
Darnoa is kannhen zar mattu hoeischun hoei.
“Ich gibbender nöit hoei
wénn di nöit mer brinnhischt d’seegersu”.
D’seegersu het antcheede dŝchi heji manhal schmoalz.
Zu is kannhen zam schwéin.
Z’schwéin het mu gseit is mieji nöit mu geen schmoalz
wénn z’mu nöit brinnhi pachtunh.
Dé is kannhen zam schwéinumandji hoeischun pachtunh.
Z’schwéinumandji het mu du keen pachtunh.
Is hets troan dam schwéin,
z’schwéin het mu keen da schmoalz.
Mit dam schmoalz hets muan salbun d’seegersu.
D’seegersu het mu keen z’hoei,
is het troan z’hoei dar chu, d’chu het mu keen da mischt,
dé is het troan da mischt dam acher.
Dan acher het mu keen z’chuare,
mit dam chuare is kannhen zar mülli.
D’mülli het mu keen z’meelu,
dé, hets troan z’meelu dar multu.
D’multu het mu keen dan teig,
mit dam teig is kannhen zam uave
un dan uave het mu keen z’woarm bruat,
du hets is brunnhen dam Phiffatji
un hets amum kheen dŝchéis houbi.
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A U G U S T A
Pfiffaci e
Pfaffaci
Pfiffaci e Pfaffaci
andarono fuori in un vicolo.
Pfiffaci prese
il berrettino a Pfaffaci.
“Dammi il mio berrettino!”
“Io non ti do il tuo berrettino
finché tu non mi dai
un pezzettino di pane caldo”.
Allora Pfaffaci andò
dal forno a chiedere
del pane caldo.
“Io non ti do il pane fresco
finché tu non mi dai pasta
da pane”.
Allora andò dalla madia
a chiedere pasta da pane.
“Io non ti do pasta da pane
finché tu non mi dai farina”.
Allora andò dal mulino.
“Io non ti do farina
finché tu non mi dai grano”.
Allora andò dal campo.
“Io non ti do grano
finché tu non mi dai letame”.
Allora andò dalla mucca.
“Io non ti do letame
finché tu non mi dai fieno”.
Allora andò dal prato
a chiedere fieno.
Cloasch Gassi,
un tratto dell’antica
mulattiera “Grand chemin”
che risaliva la Valle del Lys,
nei pressi del villaggio
di Preit ad Issime.
Oggi non esiste più!
(foto Musso)
“Io non ti do fieno
finché tu non mi porti
la falce da fieno”.
La falce da fieno rispose
che aveva bisogno di lardo.
Allora andò dal maiale.
Il maiale gli disse
che non poteva dargli lardo
finché non gli portava
pastone di latticello.
Allora andò dal porcaro
a chiedere pastone
di latticello.
Finalmente il porcaro
gli diede il pastone
di latticello.
Allora lo portò al maiale,
il maiale gli diede il lardo.
Con il lardo poté
ungere la falce da fieno.
La falce gli diede il fieno,
ed egli portò il fieno alla mucca.
La mucca gli diede il letame,
così portò il letame al campo.
Il campo gli diede il grano,
con il grano egli andò
al mulino.
Il mulino gli diede la farina,
ed egli portò
la farina alla madia.
La madia gli diede
la pasta da pane,
con la pasta da pane
egli andò al forno
e il forno gli diede
il pane caldo
che egli diede al Pfiffaci:
così ebbe di nuovo indietro
il suo berrettino.
Issime, villaggio
di tsch’Hieruhous
inizio anni ’30 del Novecento,
l’uomo al pascolo è Jacques
Jaccond (1878-1938).
(Su concessione della Regione
autonoma Valle d’Aosta Archivi Assessorato istruzione
e cultura - Fondo Baccoli).
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A U G U S T A
Da un campanile all’altro:
Santa Margherita e San Giovanni
A
Jolanda Stévenin, Guido Cavalli*
partire da questo numero, ci siamo proposti di concentrarci sugli aspetti iconografici legati alla religiosità popolare e,
particolarmente, sulle figure di Santi che
un tempo ornavano le pareti delle nostre
case e che tuttora decorano le nostre chiese e gli edifici
di culto minori, quali le cappelle e gli oratori di campagna.
Si tratta di un patrimonio di elevato valore etnografico e
socio-culturale che permette di scoprire il vissuto religioso dei nostri predecessori.
Nella prefazione all’opera di Maurizio Bergamini Les
saints en Vallée d’Aoste (Imprimerie Jona, Novembre
2000), l’allora priore di Sant’Orso Monsignore Franco
Lovignana, attuale vescovo della diocesi, ebbe a scrivere:
“In occasione delle feste patronali di villaggio, ho più volte
constatato che molti presenti (giovani e meno giovani) non
sono in grado di dire quale sia il Santo celebrato. Nel caso
di persone anziane restano almeno collegamenti vitali con
la tradizione di un tempo, ma nei giovani questo non esiste più. La festa vive cioè senza radici e quindi privata di
importanti elementi, capaci di darle significato e valore”.
Ci associamo al rammarico di Monsignore Lovignana e
cerchiamo di ritrovare, per quanto sia possibile, le tradizioni religiose della nostra gente.
La nostra ricerca inizia da Santa Margherita a cui sono
dedicate parecchie cappelle nel territorio valdostano.
Essa è tra l’altro la patrona delle chiese d’Entrèves e di
Bionaz.
Pure a Lillianes troviamo una cappella dedicata a Santa
Margherita: detta cappella esisteva già nel XVI° secolo,
però, inizialmente, si chiamava Portasiour ed era dedicata ai santi Grato, Rocco, Fabiano e Sebastiano. Poi,
riferisce lo storico Zanolli : “depuis 1673, la chapelle de
Portasiour fut mise sous le vocable de Sainte Marguerite,
comme elle est encore aujourd’hui”. (1)
Il nome di questa santa, frequentissimo in tutti i tempi fra
le donne, è bello nell’uso e nel significato. Esso è infatti
il nome di un fiore modesto e gentile. In origine però, in
greco come in latino, margarita significa “perla”. Il fiore
fu così designato perché assimilato a una perla dei prati.
Molte sono le sante di nome Margherita, raccolte nel calendario.
La santa Margherita di Issime è quella che si celebra il 20
luglio. In tale data si venera Margherita (Marina) di Antiochia, vissuta nel terzo secolo, fanciulla quindicenne, ora
patrona delle partorienti perché fu ingoiata dal maligno
sotto forma di drago al quale squarciò il ventre con la croce, fuoriuscendone illesa. Fu successivamente decapitata.
In Valle d’Aosta il culto a Santa Margherita è spesso associato a quello di San Grato.
Entrambi sono invocati contro le calamità naturali e per
la protezione dei raccolti.
L’abbé Henry scrisse in proposito:
“…en juin 1603, sur autorisation de l’Evêque, on porta en
procession de Aoste au lac du Rutor, la précieuse relique du
chef de saint Grat, puis, en 1606, on résolut de construire
en ce lieu une chapelle en l’honneur de Saint Grat et de
Sainte Marguerite, de s’y rendre annuellement en procession et d’y faire célébrer la messe.(2)
Sempre allo scopo di invocare la protezione celeste contro le periodiche esondazioni del lago del Rutor, che seminavano rovina e lutti in tutta la Valdigne, da LaThuile
solevano salire ogni anno in processione fino alla cappella di Santa Margherita in riva al lago.
Nella parrocchiale di Courmayeur troviamo una cappella
dedicata ai Santi Grato e Margherita.
Committente dell’opera il canonico Louis Berthod di
Courmayeur che fu anche insigne teologo della diocesi e
inviato al Concilio di Trento (13 dicembre 1545).(3)
Ma veniamo a Issime dove, al Buart del vallone di San
Grato, venne eretta una cappella sotto il patrocinio di Santa Margherita.
Costruito nel XVII° secolo, l’edificio fu più volte rifatto e fu
assunto agli onori della cronaca perché legato al mitico processo inscenato contro il diavolo nel gennaio del 1601.(4)
Nel dicembre 1993, lo storico Orfeo Zanolli ebbe ad annotare a tale proposito; “Dans le document de la Bibliothèque
du Grand Séminaire d’Aoste, contenant l’exorcisme au diable fait par le révérend Annibale Serra de Pettinengo (Biella), dans le vallon de Saint Grat, il est dit que le dit exorciste,
après avoir visité la chapelle de Saint Grat, revenant sur ses
pas pour retourner à Issime, “fece piantar una gran croce con
soi misteri ad un loco della ruina, dove si voleva fabricarsi
una cappella per Santa Margherita già da longamano avuta
per voto a Iddio di farla fare et, in essa croce,per ogni banda
gli pose alcuni preservativi et furono sigillati nel concavo di
detto legno”: l’exorcisme terminé, d’aucuns disent que “après
le départ, et dans un endroit où auparavant avait été érigée
une croix, fut bâtie la chapelle de Sainte Marguerite:car le
diable avait été là pour punir,ajouta l’exorciste, les habitants
d’Issime, coupables de ne s’être pas acquittès du voeu de bâtir
une chapelle en l’honneur de Sainte Marguerite sur le lieu
Tutte le immagini dell’articolo sono dell’Archivio di Guido Cavalli.
*
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A U G U S T A
où le démon lui était apparu au moyen d’un tremblement de
terre,de la fumée sortant d’une caverne puis d’une ruine ex
halant de mauvaises odeurs, faisant de tumultes, de fracas et
autres phénomènes extraordinaires; sa présence dans ce lieu
était due au fait que les gens d’Issime “firent un voeu à Dieu
de vouloir bâtir une chapelle en l’honneur de la bienheureuse Marguerite, vierge et martyre, et en icelle distribuer une
aumône bénite de pain pour le Saint Esprit et ne le firent ni
se soucièrent de l’accomplir…”.
Concludendo lo storico Zanolli avanza questa ipotesi:
“Il pourrait se faire que la chapelle existât déjà, même
avant 1601, et que, au lieu de la construction de la chapelle en l’honneur de Sainte Marguerite il se serait agi de la
reconstruction de la chapelle qui aurait existé en ces lieux
avant et en ruine précédemment à 1601, cela n’est pas
invraisemblable, bien au contraire…même probable.”(5)
L’ipotesi del dottor Zanolli è quanto mai suggestiva perché farebbe cadere il capo d’imputazione del celebre processo.
Iconografia di s. Margherita
La santa è quasi sempre raffigurata mentre tiene fra le
mani la palma del martirio e la spada, strumento del martirio, spesso è accompagnata da un rettile, a volte alato,
con le fauci spalancate. I quattro esempi iconografici che
riportiamo sono di produzione torinese della metà dell’
800, di quattro manifatture diverse, cioè Verdoni, Molina,
Briola e Cordey. Si tratta di litografie acquarellate, molto
diffuse all’epoca, prima dell’avvento delle cromolitografie
di produzione veneta (Bassano) o tedesca, come l’immagine successiva alle litografie acquarellate, della manifattura Gustav May di Francoforte.
Come già detto, in valle d’Aosta, s. Grato e s. Margherita
sono spesso associati e invocati come santi protettori con-
tro le calamità naturali e a protezione dei raccolti. Inoltre,
il II vescovo di Aosta Grato, è quasi sempre raffigurato con
la testa del Battista, che la leggenda (Magna Legenda Sancti Grati), vuole egli avesse ritrovato in terra santa e riportato a Roma, quindi ad Aosta (la sola mandibola). I tre santi
Margherita, Grato e Giovanni Battista sono quindi, sia pur
indirettamente, legati nell’iconografia e nella venerazione
popolare. La litografia acquarellata della manifattura Ver-
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A U G U S T A
doni di Torino (1860 circa), mostra il santo Vescovo Grato,
con la testa del Battista su di un libro, vestito dei paramenti
sacri, mentre neutralizza grandine e fulmini, indirizzandoli
in un pozzo. Innanzi a lui una famiglia di contadini inginocchiati, sullo sfondo due carri mentre si rovesciano, con
scarse conseguenze, immaginiamo, per le persone, grazie
al santo Vescovo. Al piede dell’immagine è scritto:
“PER L’INTERCESSIONE DI S. GRATO
Iddio ci liberi da folgori e tempeste e da ogni alto male”
Il particolare qua sotto mostra molto bene la scena, anche grazie ad uno stato di conservazione perfetto della
litografia.
San Giovanni Battista
Il Battista, a cui sono intitolate alcune chiese e cappelle,
è uno dei Santi più popolari e venerati della Valle d’Aosta.
In particolare, egli è il patrono delle parrocchie della cattedrale di Aosta e di Gressoney-Saint-Jean.
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A U G U S T A
La sua festa solenne cade il 24 giugno, giorno in cui si
celebra non la morte ma la nascita, unico in questo tra
tutti i Santi del calendario.
Giovanni Battista è il precursore di Gesù, colui che battezza con acqua, in attesa di colui che battezzerà con il
fuoco.
In Valle d’Aosta il culto a San Giovanni Battista viene fatto
risalire al tempo del vescovo Gal, che resse la diocesi tra
il 529 e il 546.
Nel museo della cattedrale di Aosta si conservano alcune
reliquie di San Giovanni Battista, contenute in un prezioso busto d’argento dorato, opera donata da François di
Challant nel 1421.
Nella parrocchiale romanica di Saint-Martin di Arnad
(1020), in un affresco della navata è raffigurata Erodiade
che riceve da Erode la testa di San Giovanni Battista, episodio biblico che ricorda la sua decapitazione.
Il culto di San Giovanni Battista si diffuse in Valle anche
ad opera dei Cavalieri appartenenti all’Ordine di SaintJean de Jérusalem.
Verso il 1150, essi ressero gli antichi ospizi di Ruméyran,
al Bourg Saint-Etienne di Aosta, di Ploue di Montjovet e
di Saint Jean de la Pierre tra Donnas e Bard.
In ognuna di queste case di ospitalità per pellegrini e
viandanti, si trovava una cappella dedicata a San Giovanni
Battista.
Nel 1660, fu istituita la parrocchia di Gressoney-Saint-Jean che elesse San Giovanni Battista a patrono. Fino all’anno 1686 da essa dipesero anche i fedeli di Gressoney-LaTrinité.
La festa patronale di Gressoney-Saint-Jean viene celebrata ogni anno con grande solennità.
In passato essa prevedeva una sequenza di riti, sia pubblici che privati, di grande valore simbolico.
Alcuni di questi riti sono caduti in disuso, per le mutate
condizioni di vita e di mentalità, altri invece permangono
con tutto il loro fascino secolare.
Quando la sussistenza si fondava essenzialmente sull’economia agro-pastorale, si parlava della Benedizione di
San Giovanni. Alla vigilia della festa del Santo patrono, i
contadini solevano portare nel fienile ormai vuoto, perché si era vicini alla fienagione, un grosso fascio d’erba,
appena falciata, per propiziare un buon raccolto di foraggi
e un tempo favorevole.
Si riteneva anche che, la notte di San Giovanni, la rugiada
avesse dei particolari effetti benefici.
Per questo motivo, nella notte della vigilia, le mamme
stendevano un panno di lino sul prato e, il mattino successivo lo ritiravano rorido di rugiada e lo passavano sulle braccia e sul viso dei bambini e degli altri familiari per
proteggerli dalle punture degli insetti.
Spesso, intorno alla festa di San Giovanni, fa cattivo tempo. Allora si parla dell’Inverno di San Giovanni.
Questa espressione fa riferimento ad una leggenda secondo cui qualcuno, nella notte di San Giovanni, si sarebbe macchiato di un infanticidio. La leggenda vuole che,
da quel giorno, il Signore faccia cadere sulla terra una
pioggia gelida, per ricordare all’umanità quell’atroce delitto.
Un’usanza plurisecolare che si pratica ancora è quella del
Fuoco di San Giovanni (Sentjohanzfir).
Alla vigilia del patrono viene acceso un falò attorno ad un
palo mentre, contemporaneamente, sulle alture si accendono altri fuochi.
In passato c’era l’usanza di raccogliere un tizzone da portare a casa e conservare, come un amuleto, contro il pericolo di incendio.
Il fuoco è simbolo di gioia e purificazione: l’usanza di accendere i falò sulle alture è molto diffusa nell’arco alpino;
essa viene fatta risalire agli antichi riti propiziatori precristiani.
Attualmente, la festa di San Giovanni si incentra su alcuni
momenti particolari: i fuochi della vigilia, la santa messa
con il rito dell’offerta degli agnellini, la solenne processione e la benedizione dei bambini (Chénnòsage).
Ai giorni nostri, l’offerta degli agnellini ha un valore meramente simbolico, in ossequio ad una secolare tradizione. In altri tempi l’offerta era l’espressione di un ex-voto.
Parecchie famiglie contadine promettevano di offrire un
agnellino (con notevole sacrificio per la loro stentata economia), da vendere all’incanto che si teneva dopo la messa a beneficio delle opere parrocchiane.
Di grande suggestione e molto partecipata è la processione di San Giovanni che si snoda attraverso le vie del
capoluogo dopo l’Eucaristia.
In capo al gruppo sfila colui che porta la croce, seguito da
tre ragazze in costume recanti lo stendardo che raffigura
il santo patrono. Seguono i gonfaloni comunali, le autorità, gli uomini, i giovani, una portantina su cui è appoggiata la testa di San Giovanni Battista, a ricordo della sua
decapitazione, e un’altra portantina su cui è posizionata
la statua del Santo, condotta da quattro coscritti. Seguono i numerosi sacerdoti officianti, le donne nell’elegante
costume rosso tradizionale, gli altri fedeli e la cantoria.
Al termine della processione, dopo il ritorno in chiesa, i
bambini vanno a baciare la testa del Santo per chiederne
grazie e benedizioni.
La festa si conclude sul sagrato con il sigillo musicale della banda del paese.
In un lontano passato, nel giorno di San Giovanni si usava
portare in chiesa del vino perché fosse benedetto.
L’abbé Henry scrive in proposito nella sua Histoire:
“A Gressoney-Saint-Jean il y avait l’usage, communs aux
peuples germaniques, de porter bénir à l’église, le jour de
La Saint-Jean, du vin qu’on buvait ensuite à la maison”.
Questa pratica, a cui allude l’Henry, era denominata Vinage ed era praticata nel medioevo in molte parrocchie
valdostane, in occasione di grandi festività. (6)
Sempre a proposito della devozione a San Giovanni Battista, nei secoli andati parecchi fedeli della valle del Lys
solevano frequentare assiduamente il santuario di San
Giovanni della Barma che sorge a quota m 1020, nell’adiacente valle di Andorno, su di un’antica via della transumanza.
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A U G U S T A
Alle sue origini troviamo una grotta, la barma,che racchiude una statua lignea raffigurante San Giovanni Battista, Questa barma, denominata sacello, è inglobata, attualmente, in un maestoso santuario seicentesco, costruito a ridosso della roccia stessa.
Inizialmente la spelonca, che si apriva nella roccia decomposta, era più vasta e grondava acqua dalle pareti. I
pellegrini attribuivano a quell’acqua dei poteri taumaturgici: l’acqua era bevuta e portata a casa per gli ammalati.
A San Giovanni della Balma i pellegrini, provenienti anche dalla nostra Vallaise attraverso i numerosi colli alpini,
solevano trascorrere la notte che precede la festa del Santo (24 giugno, natività del precursore, 29 agosto, martirio
del Santo), celebrando i riti denominati Vigiliae.
Nella Historia gratie e miracoli del santo simulacro di
San Giovanni Battista (Torino, Fontana, 1702) sono citati
alcuni pellegrini che sarebbero stati miracolati: Valentino De La Pierre di Grassoneto (1664); Mattia Vercellino
da Fontanamora (1688); la moglie di Giovanni Fresco da
Issima (1689); il figlio di Giovanni Pietro Tosco da Niel
(1693).
Iconografia di s. Giovanni Battista
Il Battista è uno dei santi più riprodotti nelle stampe popolari. Incisioni, litografie acquarellate, cromolitografie,
torinesi, tedesche, francesi, una grandissima quantità di
immagini presenti in chiese, cappelle, abitazioni, baite, a
testimonianza della devozione estremamente radicata fra
la popolazione. Al contrario di altri santi, la cui iconografia è monotematica, nel caso del Battista, la rappresentazione è multiforme e può essere schematizzata in tre
fasi della sua vita cioè l’infanzia (il piccolo s. Giovanni),
la predicazione (s. Giovanni nel deserto), il battesimo
di Cristo e l’unione
spirituale con il Cristo
stesso (unione e religione, il salvatore del
mondo). In tutti i casi il
Battista è rappresentato sempre con la croce
su cui è avvolto un nastro con la scritta “ecce
agnus dei”, vestito con
una pelle di cammello, accompagnato da
un agnello collocato
in modo vario. Nelle
immagini giovanili è
sempre raffigurato con
la chioma riccia. Nelle
immagini in cui il Battista è raffigurato con
il salvatore del mondo,
questi tiene sempre fra
le mani la sfera, simbolo del mondo con la
croce a uno dei poli.
Fra le immagini che abbiamo selezionato questa qui sotto
è sicuramente la più comune, diffusissima in tutta l’area
nord occidentale. È una litografia acquarellata realizzata da Verdoni di Torino circa nel 1870 e ritrae il Battista
bambino con i suoi più classici canoni iconografici.
L’immagine che segue mostra un doppio Battista, uno
prodotto da Gadola a Lione, l’altro da Codoni a Parigi,
(litografie acquarellate), posti in una sola cornice. Nei
riquadri piccoli al di sotto del Battista, due scene di battesimo di Cristo.
— 49 —
A U G U S T A
Ulteriore esempio del Battista bambino è in questa immagine, attibuita a Verdoni, posta in una notevole cornice di
noce filettato in bosso.
La più vecchia immagine che proponiamo è una piccola
incisione di metà settecento di area tedesca, realizzata a
foglia d’oro, con una scena di battesimo.
L’immagine seguente, della litografia Cordey di Torino
(1860 circa), raffigura il Battista mentre predica nel deserto
La seguente litografia acquarellata di Crettè e Vergnano
di Torino (1870 circa), mostra il Battista adulto con la
classica iconografia a cui si aggiunge la ciotola uasata per
battezzare. In due scene più piccole il battesimo di Gesù
e la decapitazione del Battista.
— 50 —
A U G U S T A
Le quattro immagini qua sotto, mostrano la frequente
associazione iconografica fra il Battista e il Salvatore del
Mondo, entrambi bambini. Le scritte al piede dell’immagine sono generalmente: “Ecco l’agnello di Dio che
toglie i peccati del mondo”, “S. Giovanni e il Salvatore
del mondo” e “Unione e Religione noi saremo idivisibili”,
quest’ultima a significare il legame tra Cristo e il Battista
assimilabile alla Chiesa e ai suoi sacramenti. Le prime tre
immagini, di Verdoni, mostrano il Battista e il Cristo bambini abbracciati insieme, mentre la quarta, francese, di
Pinot di Epinal. Mostra i due personaggi separati, posti in
due ovali diversi, entro una trama di motivi gotici.
Anche questa iconografia era abbastanza comune e si ritrova nella litografia di Cordey di Torino subito sotto.
— 51 —
A U G U S T A
Una immagine molto particolare, di cui non abbiamo
altri riscontri, è quella seguente che vede il Battista e il
salvatore del mondo accompagnati dall’agnello, in piedi,
all’interno di una vigna, carica di grappoli d’uva, che il
Battista porge all’animale con la mano destra; si tratta di
una litografia di Verdoni datata 1850.
L’avvento della cromolitografia segnerà la fine della litografia acquarellata; nel giro di alcuni anni il mercato
richiederà sempre più le cromolitografie, più realistiche,
più colorate e soprattutto più economiche. Intorno al
1880 si affermano le manifatture di Bassano veneto e soprattutto quelle tedesche di Francoforte, di cui le stampe
qui sotto sono un esempio.
Fonti:
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Massimo Bergamini, Les Saints en Vallée d’Aoste, Biographica, 2000, Le Château, Aoste;
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(2)Abbé Henry, Histoire de la Vallée d’Aoste, Imprimerie
Marguerettaz, 1967 – p.140;
(3) Abbé Henry, Histoire de la Vallée d’Aoste, Imprimerie Marguerettaz, 1967 – p.243;
(4) Mgr J.A. Duc, Histoire de l’Eglise d’Aoste, ChâtelSaint-Denis, Imprimerie Moderne, 1900 – Tome VI, p.357
(5) O. Zanolli, Les chapelles, oeuvre inédite - Guida alle
Processioni in Valle d’Aosta, Musumeci, Editore, 1999.
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A U G U S T A
La cultura walser va a scuola:
esperimenti di insegnamento nella
scuola dell’infanzia e primaria
Anna Maria Pioletti1
Premessa
La diffusione dell’istruzione nelle Alpi occidentali è da sempre più marcata che in altre realtà geografiche. Alcuni studiosi tra cui Paolo Sibilla sostengono che l’alfabetizzazione alpina e della popolazione delle campagne ha
avuto nelle parrocchie per almeno tre secoli un laboratorio pedagogico importante dove i bambini d’ambo i sessi
entravano in possesso del loro primo libro di lettura rappresentato dal catechismo (Bassi Guindani, Beck-Peccoz,
2009). L’elevato tasso di alfabetizzazione riscontrabile in quasi tutte le comunità alpine era accompagnato da
condizioni di vita precarie basate sull’agricoltura di sussistenza, integrata dall’allevamento bovino o caprino,
dalla presenza di condizioni climatiche sfavorevoli, dalla scarsa accessibilità dei luoghi a causa di vie di comunicazione insufficienti e di risorse pubbliche molto carenti che spesso costringevano a migrazioni temporanee.
Il quadro storico della formazione
N
ei primi decenni del secolo XVIII si vedono
fiorire e diffondersi in Valle d’Aosta numerose istituzioni scolastiche mentre in province
vicine e con condizioni geografiche simili e
economicamente più ricche l’istruzione resta
a beneficio di pochi (Sapegno, 2001). Il tutto dipende dall’iniziativa privata e dall’opera del clero. Gli studi condotti da
Joseph Auguste Duc a fine ottocento e quelli degli inizi del XX
secolo dell’Abbé Joseph Marie Trèves forniscono un quadro
delle scuole valdostane e dei loro fondatori. Trèves individua
tre periodi di fondazione al primo dei quali è riconducibile
la creazione della prima scuola rurale nel comune di Fontainemore ad opera di un privato Pierre Aguetta che indica nel
proprio testamento (1678) un lascito di 1000 scudi d’Aosta a
favore della sua costruzione. Tuttavia dieci anni più tardi la
scuola non risultava ancora realizzata.
Nel periodo dell’ancien régime vengono fondate varie scuole
in tutta la valle del Lys. Nell’archivio della parrocchia di Issime Saint Jacques si trovano notizie sulla creazione della prima scuola femminile attivata nella Valle di Gressoney grazie al
lascito testamentario della Signora Linty di rendite di terreni
con un prodotto annuo di livres 100.2
Dalle relazioni dei parroci emerge un consistente numero di
privati appartenenti a varie categorie professionali che contribuisce alla fondazione delle scuole e dona parte dei propri
averi per il loro mantenimento. Lasciti che si vanno a affiancare ai beni appartenuti alle confraternite del Santo Spirito che a
seguito della loro soppressione vengono destinati alle scuole
rurali. Marcata era la contrapposizione tra l’area germanofona e quella francofona. Nel corso dell’Ottocento aumentano i
finanziamenti nell’area walser a scapito di quella francofona
oltre ad assistere alla nascita di nuove scuole come documentato negli Etats des paroisses.
Il tasso di alfabetizzazione era piuttosto elevato raggiungendo
il 100% tra i mercanti ma anche tra le locandiere, presso gli
impiegati e i professionisti. Superiori erano anche gli stipendi
dei maestri germanofoni rispetto a quelli dell’area francofona
già a partire dall’ancien régime.
La ragione di un alto tasso di alfabetismo nella Valle del Lys
come nella Valle d’Aosta è da ricondurre al contesto storico,
economico e sociale della montagna in quanto la presenza della piccola proprietà, delle professioni artigianali, e la diffusione dell’emigrazione stagionale hanno favorito la domanda di
alfabetizzazione.
Il personale docente dopo l’obbligo della patente di idoneità
all’insegnamento richiesta in età napoleonica, secondo i dati
raccolti, dimostra nella valle di Gressoney buone e ottime capacità didattiche presenti in tutte le scuole.
Dall’analisi di documenti testamentari emerge il valore dell’istruzione per le popolazioni walser favorendo così la nascita
delle prime scuole di villaggio della Valle d’Aosta. Nel 1682 fu
infatti fondata a Gressoney-Saint-Jean la prima scuola con sede
nel capoluogo mentre qualche anno più tardi nel 1691 fu creata
fuori dal centro la prima scuola di Gressoney-La-Trinité.
Nel XVIII secolo una scuola di villaggio fu fondata a Issime
(1737) grazie a un lascito testamentario che concedeva alla
Professore associato di Geografia economico-politica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università della
Valle d’Aosta-Université de la Vallée d’Aoste.
2
Bosonin V., Leggere e scrivere nella Valle di Gressoney tra ‘700 e ‘800, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Scienze
della Formazione a.a. 2009/2010 relatore prof. Maurizio Piseri e di cui la scrivente è stata correlatore.
1
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A U G U S T A
comunità una somma annua ed un podere per l’istituzione di una scuola. Nel 1757 la stessa scuola ricevette una seconda donazione in denaro con clausole ben
precise tra cui l’istituzione di una scuola per ragazze.
Il testamento stabiliva inoltre a chi attribuire l’incarico
di insegnamento: mentre quello per la scuola maschile era affidato ad un religioso, la scuola femminile era
affidata ad una donna residente sul territorio, ma senza una adeguata preparazione culturale.
Ritorniamo a Gressoney-Saint-Jean. Qui vennero istituite due importanti scuole: la scuola di Tschòssil (attiva dal 1742 al 1971) di cui si trovano alcune indicazioni nel volume Tschòssil, 1742-1971. L’area geografica dotata di una buona densità abitativa ripartita fra
gli insediamenti sparsi sulle sponde del torrente Lys,
dovette affrontare molte difficoltà dovute alla sua posizione geografica poco favorevole e a condizioni climatiche che nella stagione invernale impedivano gli
spostamenti. Nel 1745, con atto notarile nove capofamiglia versarono una quota di denaro, impegnandosi
secondo le loro possibilità, per il sostentamento di un
rettore il cui compito era quello di celebrare le messe e occuparsi dell’istruzione portando all’istituzione
ufficiale di una rettoria che venne concessa nel 1749.
Dal punto di vista organizzativo gli studenti erano suddivisi in
sezioni separate, fruivano non solo dell’istruzione elementare,
ma anche dell’insegnamento della lingua tedesca nel rispetto
delle tradizioni culturali e delle esigenze delle famiglie locali.
La scuola rimase aperta come scuola sussidiata fino al 1971,
anno in cui per l’accorpamento scolastico al capoluogo venne
chiusa definitivamente.
Prendendo in esame la situazione dell’istruzione nell’alta valle
del Lys, si può fissare un rapporto diretto con il fenomeno
migratorio locale che ebbe un certo rilievo sotto il profilo
economico e culturale. La scuola di Méttélteil (1821-1947),
conosciuta anche come Scuola Mercantile Rial per oltre 130
anni ha fornito un prezioso servizio alle famiglie residenti. La
denominazione “méttélteil” indica la “zona di mezzo” ubicata a nord del capoluogo di Gressoney-Saint-Jean e a sud del
comune di Gressoney-La-Trinité. La scuola mercantile creata
da Caterina Rial3 era nata con il preciso compito istruire i giovani che seguendo l’antica tradizione locale si recavano nei
paesi di lingua tedesca praticando soprattutto l’attività commerciale. Il commercio a quell’epoca rappresentava l’attività
più consona alle attitudini e agli interessi locali. Il progetto di
Caterina Rial prevedeva per le ragazze materie quali la lettura
e la scrittura della lingua tedesca e francese, l’aritmetica ed il
diritto a seguire tutte le altre materie, compresi il catechismo
e la religione. Erano previste sei ore di lezione giornaliere nel
periodo invernale e tre ore in fascia antimeridiana nel periodo
primaverile.
L’unificazione italiana e il dopo
L’insegnamento della lingua italiana nelle scuole dei comuni
walser fu inserito nel 1861 con l’Unità d’Italia, prima le lezioni
si svolgevano nelle scuole prevalentemente in lingua tedesca
e parzialmente in lingua francese. Con l’avvento del fascismo
vennero soppresse entrambe e fu inserita unicamente la lingua italiana.
Immagine relativa alla scuola di Tschòsisil;
gli allievi con le insegnanti. (Fonte: Tschòssil, 1742-1971,
immagine di copertina)
Dal 1946, con l’istituzione della Regione Autonoma della Valle
d’Aosta, nelle scuole elementari dell’alta valla del Lys fu introdotta la lingua francese e la lingua tedesca in maniera facoltativa e fuori dall’orario scolastico nella classi terze. Il riconoscimento della lingua tedesca aveva un valore simbolico, poiché
era prevista solo per il secondo ciclo scolastico.
Nel 1965-1966 l’insegnamento della lingua tedesca era parte del normale orario di lezione all’interno delle scuole con
un’ora di insegnamento. Ogni alunno poteva disporre di un
libro di testo gratuito. Vi era un unico docente che si occupava
dell’insegnamento del tedesco nei tre paesi walser della Valle
del Lys, cercando nel corso delle lezioni di utilizzare anche i
dialetti titsch e töitschu.
Negli anni ‘80 si assiste a un’ importante tappa. Viene realizzata una grande conquista di natura pedagogica, politica ed
amministrativa che apre nuovi orizzonti; l’IRRSAE (Istituto
Regionale di Ricerca, Sperimentazione, Aggiornamento Educativi) della Valle d’Aosta formula un progetto pedagogico per
qualificare e valorizzare l’insegnamento della lingua tedesca e
della cultura walser nelle scuole dell’obbligo, progetto finanziato dalla Commission des Communautés Européennes.
Ma non è l’unica novità a interessare la scuola. Negli anni ‘8090, all’interno delle scuole walser, le insegnanti che si occupavano dell’insegnamento della lingua tedesca sono due con
diversi compiti di insegnamento.
Con le legge costituzionale n.2 del 23 settembre 1993 “Modifiche ed integrazioni agli statuti speciali per la Valle d’Aosta, per
la Sardegna, per il Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-Alto
Adige” viene modificato l’art. 2 dello statuto speciale della Valle d’Aosta che conferisce alla regione nuovi poteri legislativi
in varie materie.
La grande svolta si ha tuttavia a partire dalla fine degli anni
novanta con la creazione di un’apposita normativa a scala
regionale e nazionale. La legge regionale del 19 agosto 1998
“Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche
Grazie all’eredità ricevuta dal padre mercante di tessuti Caterina Rial decise di aprire una scuola che incise positivamente
sulla vita della comunità gressonara.
3
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A U G U S T A
e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys”. individua, in applicazione dell’art. 40 bis dello Statuto speciale, i
Comuni della valle del Lys (Gressoney-La-Trinité, GressoneySaint-Jean, Gaby e Issime) sul cui territorio risiedono popolazioni di lingua tedesca appartenenti alla comunità walser e
detta i principi fondamentali ai quali intende ispirare la propria azione a sostegno della salvaguardia delle caratteristiche
e delle tradizioni linguistiche e culturali di dette popolazioni.
La normativa prevede vari obiettivi tra cui quello dell’insegnamento della lingua tedesca nelle scuole presenti nei singoli
Comuni, del collegamento dell’azione educativa alle esigenze
economico-sociali e di sviluppo della comunità, della valorizzazione della cultura walser. La suddetta legge istituisce inoltre
la Consulta permanente per la salvaguardia della lingua e della cultura walser.
La Legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” prevede che a partire dalle scuole dell’infanzia e per tutto il ciclo dell’obbligo nei
comuni in cui sono presenti minoranze linguistiche lo svolgimento delle attività educative sia svolto nella loro lingua. Le
istituzioni scolastiche primarie e secondarie di primo grado
deliberano, anche sulla base delle richieste dei genitori degli
alunni, le modalità di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle tradizioni culturali delle comunità locali, stabilendone i tempi e le metodologie, nonché stabilendo i
criteri di valutazione degli alunni e le modalità di impiego di
docenti qualificati.
L’insegnamento della cultura walser
La seconda parte di questo contributo prende in considerazione l’attività di ricerca legata alla tesi discussa nell’anno accademico 2010/20114.
Passiamo a considerare lo stato attuale dell’insegnamento della lingua walser a partire dalla scuola dell’infanzia in forma
ludica per arrivare alla scuola primaria in forma organizzata
ma sempre con proposte volte a stimolare l’interesse e la creatività degli alunni.
Nell’anno scolastico 2006/2007 l’insegnamento della lingua
tedesca nella scuola dell’infanzia era di un’ora settimanale
mentre nella scuola di Gressoney-La-Trinité l’insegnamento
vedeva coinvolti i bambini della scuola dell’infanzia e del primo ciclo della scuola primaria. Più articolata la situazione nella scuola primaria in cui l’insegnamento era sempre di un’ora
settimanale con proseguimento nella scuola secondaria di
primo grado al termine della quale era previsto un esame di
certificazione Fit in Deutsch 2 che corrisponde al livello A2
del Quadro di Riferimento Europeo (Paoloni, 2007).
Le attività riguardanti le varie declinazioni della cultura sono
affrontate dall’intero gruppo docente che nel corso degli anni
ha seguito numerosi progetti come il Meine Detschmappe, il
progetto nazionale articolato in più anni “Le piccole stelle del
carro minore” volto alla creazione di una rete di scuole tra
Valle d’Aosta, Friuli, Calabria e Puglia in cui vivono minoranze linguistiche e la sua prosecuzione nell’iniziativa “Lullabies”
(L.482/99).
Attualmente l’insegnamento della lingua tedesca nei comuni
walser è affidato a due insegnanti una delle quali di madre
lingua tedesca che è incaricata dell’insegnamento nella scuola
dell’infanzia: Barbara Ratto ed Elisabeth Piok. Durante l’attivi-
tà di ricerca sono scaturite interessanti informazioni sull’insegnamento attuale della lingua tedesca nella scuola dell’obbligo
infanzia e primaria. Elisabeth Piok originaria di Bressanone,
ha svolto i suoi studi in lingua tedesca, trasferitasi a Gressoney ha intrapreso lo studio del dialetto locale per meglio avvicinarsi al contesto socio-culturale. Insegna la lingua tedesca
nelle scuole dell’infanzia in cui è previsto l’insegnamento della
lingua tedesca con tempistiche differenti; queste variano in
base al tempo che le insegnanti delle varie istituzioni possono
concedere alla trattazione di tematiche in lingua non italiana.
Ciò rende le istituzioni totalmente autonome in quanto nelle
singole scuole sono le insegnanti a definire il tempo da dedicare alle attività nella lingua minoritaria. Nella scuola di Gaby
(le scuole di Issime e Gaby sono state unificate e la sede della
scuola dell’infanzia è a Gaby) e di Gressoney-La-Trinité sono
previsti 90 minuti di lezione la settimana mentre nella scuola
dell’infanzia di Gressoney-Saint-Jean sono previsti 75 minuti la
settimana per ognuna delle due sezioni.
Diversa la condizione per le scuole primarie, in cui l’insegnamento è affidato a entrambe le insegnanti. Le disposizioni della Sovrintendenza Scolastica Regionale prevedono un’ ora di
insegnamento della lingua tedesca, ma poiché ritenuta insufficiente dalle insegnanti si è optato per dedicarvi una seconda
ora di insegnamento curriculare.
L’insegnamento punta sulla continuità didattica tra i due ordini di scuola. Nella scuola dell’infanzia la maestra utilizza
esclusivamente la lingua tedesca mentre nella scuola primaria
vengono messi in relazione i termini tedeschi con quelli dialettali. A Gressoney-La Trinité e Gressoney-Saint-Jean viene
utilizzato il dialetto titsch mentre a Gaby e Issime si predilige
l’uso del töitschu.
L’atteggiamento delle famiglie è positivo poiché dopo un periodo di abbandono parziale dell’uso del dialetto si approva la
riscoperta di un vettore di comunicazione tradizionale dimostrando un atteggiamento propositivo nei confronti dell’iniziative operate dalle scuole.
Le attività presentano alcune affinità tra i vari ordini tuttavia
nelle scuole dell’infanzia le attività proposte riguardano il gioco, le filastrocche, le canzoni e le attività di manipolazione in
cui è previsto l’uso dei termini in lingua tedesca. Nell’anno scolastico 2010-2011 i
principali argomenti affrontati
dall’insegnante
hanno riguardato:
i saluti, gli auguri,
i colori, i numeri,
San Kloas, gli animali. Qui di seguito vi è riportata un
esempio di attività
che l’insegnante
propone ai bambini.
Attività prevista
nella scuola
dell’infanzia
Tesi di laurea di Martina Girod Le aree culturali minoritarie: il caso della Valle del Lys discussa nell’a.a. 2010/2011 relatore
prof.ssa Anna Maria Pioletti.
4
— 55 —
A U G U S T A
In questa attività manipolatoria l’insegnante lavora sul lessico degli animali: su un grembiule da cucina ha chiesto ai
bambini di dipingere, con la tecnica dello stencil, le figure
degli animali, riportandone poi il nome sia in tedesco sia in
dialetto.
Sulla base dell’esperienza derivante da anni di attività, le
insegnanti possono sostenere che esiste una grande differenza tra i bambini dei comuni di Gressoney dove il dialetto
è poco diffuso a livello familiare, e i bambini di Issime, comune in cui si assiste a un ritorno dell’uso del dialetto nella
comunicazione familiare rivolta ai bambini.
La metodologia prevalente adottata mira a mettere in relazione il tedesco con il dialetto locale. Ogni parola viene proposta nella prima e nella seconda lingua in modo da stabilire
una lettura comparativa tra i termini. Ecco qui di seguito
alcune attività che l’insegnante propone ai bambini utilizzando entrambe le lingue:
anche per le scuola dell’infanzia, un personaggio rappresentativo della cultura walser è quello di San Kloas e anche
qui l’insegnante riesce a lavorare di pari passo con le due
lingue:
Attività didattica prevista per la seconda classe
della scuola primaria.
Attività didattica sui numeri
proposta nelle scuole primarie.
L’attività è destinata ai bambini della seconda classe della
scuola primaria di Gressoney e prevede che il bambino unisca con una linea i numeri in lingua tedesca e i corrispondenti in dialetto.
Nelle attività didattiche previste per la scuola primaria, ma
La figura ritrae San Kloas con i termini rappresentativi del
suo abbigliamento: il bastone, il cappello, la barba, il sacco,
il mantello e l’asino.
Dato l’esiguo tempo a disposizione, l’insegnante ritiene che
per avvicinare i giovani alla lingua sia necessario organizzare lavori ed incontri in orari extrascolastici che tuttavia
difficilmente potrebbero svolgersi nel periodo invernale in
cui i bambini sono impegnati negli sport.
Come affermato nella tesi, la comunità walser sia in epoche
remote sia oggi fa proprio il desiderio e la volontà, di conquistare, difendere e trasmettere alle nuove generazioni la
lingua e il proprio patrimonio culturale.
La comunità e gli amministratori hanno sempre difeso con
tenacia e profonda convinzione la scuola come presidio dei
valori dell’identità walser e luogo della loro trasmissione alle
future generazioni.
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A U G U S T A
Conclusioni
Attraverso la conoscenza del luogo si affinano le capacità di
orientamento nello spazio. Un bambino abituato a agire nello spazio e a interagire con esso riuscirà a potenziare la propria capacità di autonomia e movimento oltre a saper riconoscere gli elementi costituenti il luogo in cui vive. Vari studi
hanno dimostrato la diversa percezione della montagna da
parte dei bambini che vivono in una città o in un piccolo
comune. La grande opportunità non solo a livello spaziale
ma anche linguistica di entrare in contatto con il luogo in cui
vive permette al bambino di acquisire un alfabeto spaziale
che sarà parte del proprio bagaglio di conoscenza e di apertura al mondo.
La scuola rappresenta un contesto sociale importante nella
formazione dell’individuo a partire dalle prime fasce di età.
Tra gli obiettivi della scuola dell’infanzia vi sono l’identità
personale e l’autonomia che possono essere conseguiti attraverso la conoscenza dei caratteri e delle dinamiche del
proprio territorio quando i bambini vengono messi nella
condizione di esercitare prime forme di esplorazione e scoperta intenzionale e organizzata della realtà di vita declinata
in senso sociale, geografico e naturalistico (Guaran, 2011).
Il conseguimento delle abilità spaziali sia nella scuola dell’infanzia sia nella scuola primaria può essere facilitato dalla realizzazione di percorsi educativi che mettano il bambino in
condizione di conoscere la propria realtà territoriale fatta di
luoghi, storie e tradizioni e confrontarla con quella di bambini provenienti da altre realtà geografiche. Del resto per
comprendere la complessità di un territorio è fondamentale
partire dalla osservazione geografica di un luogo o meglio
del paesaggio che abbiamo davanti a noi.
Il geografo in erba si forma a partire dalla percezione del
luogo vicino, dello spazio vissuto senza il quale nessuna forma di conoscenza diventa possibile. Infatti, lo spazio per un
bambino esiste solo quando viene sperimentato, manipolato, percorso, assume valore mediante le azioni che vengono
compiute. È il soggetto che da allo spazio significato, che lo
fa esistere.
Bassi Guindani L., Beck-Peccoz M. C., (2005), Méttélteil
1821-1947. Gressoney, storia di una scuola di montagna,
Saint-Christophe, Arti Grafiche Duc
Bassi Guindani L., Beck-Peccoz M. C., (2009), Tschòssil
1742-1971. Gressoney, storia di un’ antica scuola di montagna, Saint-Christophe, Arti Grafiche Duc
Bosonin V., Leggere e scrivere nella Valle di Gressoney tra
‘700 e ‘800, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di
Scienze della Formazione nell’a.a. 2009/2010 relatore
prof. Maurizio Piseri
Cuaz M., (1988), Alle frontiere dello stato- La scuola elementare in Valle d’Aosta dalla restaurazione al fascismo, Milano, Franco Angeli
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Lys, tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Scienze
della Formazione a.a. 2010/2011 relatore prof.ssa Anna
Maria Pioletti
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Prezzi C. (a cura di) (2004), Isole di cultura. Saggi sulle minoranze storiche germaniche in Italia, Comitato Unitario
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modello di civilizzazione e i suoi problemi metodologici,
Milano, Editoriale Jaca Book.
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A U G U S T A
ClimAlpTour : une
opportunité incontournable
Le Mont Rose au centre d’une nouvelle stratégie de développement durable où culture et environnement constituent la bonne voie vers l’adaptation aux changements climatiques
Laura Agostino1
L
e changement climatique et son impact sur
le tourisme alpin constituent désormais un
problème international notoire. De nombreuses études y affèrent, toutefois on est
encore loin d’une véritable connaissance
des dynamiques et de l’élaboration de solution concrètes.
Le changement climatique conditionnera l’évolution de
l’environnement toujours plus dans les années à venir et
cela risque d’engendrer une crise environnementale majeure et durable. Une nouvelle conception du tourisme
alpin s’avère alors nécessaire : une conception (appliquée
surtout au tourisme d’hiver) qui ne peut qu’être le fruit
d’études attentives et partagées avec les acteurs économiques des territoires impliquées.
Dans ce contexte s’est inséré le projet ClimAlpTour,
conçu dans le programme de coopération territoriale
Espace Alpin 2007-2013 : seize partenaires de six Pays
différents (France, Italie, Suisse, Autriche, Allemagne et
Slovénie) se sont préalablement accordés sur les indicateurs et les modalités de travail à adopter, pour que les
résultats des enquêtes sur 26 cas d’étude pussent être
effectivement comparables.
En ce qui concerne la Vallée d’Aoste, ce sont le Département des Transports de l’Assessorat régional du
Tourisme, des Sport, du Commerce et des Transports
et la Direction Environnement de l’Assessorat régional
du Territoire et de l’Environnement qui y ont participé
en tant que partenaires, en s’appuyant sur la Fondation
Montagne Sûre de Courmayeur pour le côté technique.
Une enquête a été menée sur deux sites pilotes : Valgrisenche et le domaine du Mont Rose (communes de Gressoney-Saint-Jean, Gressoney-La-Trinité et Ayas).
La Fondation Montagne Sûre a coordonné le travail sur
les données environnementales : en partant du choix des
indicateurs, qui a porté à l’identification de 24 paramètres,
l’analyse approfondie des données neige, avalanches et
glaciers (essentielle pour comprendre les changements
climatiques) a été mise en place sur les deux sites pilotes.
Le Département des Transport a effectué le recueil des
données à caractère économique et touristique. Pour la
partie de recherche sociale à proprement parler - sur l’in-
dication du Ministère italien de l’environnement -, c’est
le groupe de recherche de l’Université Ca’ Foscari de Venise, qui travaille sur les effets des changements climatiques sur le système socio-économique, et l’EURAC de
Bolzano, important centre de recherche et de formation,
qui ont coordonné le travail.
L’étude a démarré, en automne 2009, par le recueil des
informations nécessaires à définir la situation actuelle,
conséquence de son évolution à partir de 1975. Deux
typologies de données ont été prises en considération :
les données objectives venant de sources documentaires
et les données subjectives venant des entretiens conduits
avec les porteurs d’intérêts, la population locale et les
touristes. Les données documentaires concernaient trois
macrogroupes : les paramètres environnementaux, les
informations liées au tourisme et aux transports et les
données économiques. Le résultat donne lieu à l’élaboration de graphiques qui indiquent ce qui s’était produit
dans les 35 dernières années et une vue d’ensemble de
l’offre touristique territoriale. Les données subjectives
– se référant strictement à la contemporanéité - ont été
recueillies selon deux modalités différentes : d’un côté la
réalisation d’interviews à un échantillon significatif d’administrateurs, d’opérateurs socio-économiques, de touristes et de résidents ; de l’autre la réalisation d’une analyse conjointe, coordonnée par l’EURAC, pour identifier
les attentes des touristes potentiels face à leurs vacances
dans les sites alpins.
Le croisement de ces informations objectives et subjectives, historiques et contemporaines a permis de constituer une base d’indicateurs, portrait de la situation, à disposition des phases successives de l’enquête. C’est à ce
moment que les chercheurs de l’Université vénitienne ont
été impliqués et ont mis à disposition du projet leur système DSS (decision support system), capable d’effectuer
une analyse basée sur plusieurs critères pour déterminer
les stratégies d’adaptation les plus efficaces et durables à
la demande. Cela signifie comparer les données recueillies en y apportant des correctifs permettant une analyse
capable de donner des indications sur les stratégies à
appliquer pour le développement souhaitable. L’identifi-
Journaliste professionnelle, directeur de l’AVI PRESSE, Aoste.
1
— 58 —
A U G U S T A
La Valle di Gressoney
vista da Punta Jolanda.
cation des correctifs à apporter a été faite selon
une modalité participative : porteurs d’intérêt,
population et touristes (toujours par échantillon) ont été invités à participer à des ateliers au
cours desquels un modérateur questionnait les
participants au sujet du développement potentiel
des territoires sous analyse dans les vingt prochaines années, sans perdre pour autant de vue
la réalité face à laquelle il fallait se confronter.
C’est encore une fois la technologie qui entre
en jeu, parce que les suggestions venant des
ateliers ont été informatisées et ce processus a
permis de conceptualiser la perspective d’évolution la plus appropriée tant du point de vue
des coûts que des bénéfices. Un instrument qui
peut aider les administrateurs et tous ceux qui
– à différents niveaux – sont appelés à prendre
des décisions stratégiques pour le développement des territoires.
En ce qui concerne le domaine du Mont Rose,
les résultats du projet ont indiqué trois stratégies possibles : la première vise à intensifier
l’exploitation des sports et des loisirs de la
haute montagne (le ski sous toutes ses formes,
l’alpinisme et la randonnée) ; la deuxième est
focalisée sur la mise en valeur du patrimoine
culturel, de l’accueil à la production kilomètre
zéro ; la troisième « trois vallées, un seul nom »
vise à l’amélioration des transports et du commerce en faveur d’un tourisme annuel dessaisonné. L’application du logiciel à ces trois stratégies a indiqué la deuxième comme étant la
plus convenable, qui permet de rendre la sauvegarde du
patrimoine territorial (au sens large du mot) contextuelle
à l’accueil touristique, dans le plein respect du milieu.
En ce qui concerne Valgrisenche, trois stratégies sont
sorties de l’atelier. La première envisageait le développement de l’offre liée aux traditions et aux produits locaux.
Valgrisenche a, en effet, un riche patrimoine dans le secteur textile (avec la production des célèbres draps) et de
la fromagerie. La deuxième prévoyait l’augmentation de
l’offre liée à la pratique des sports d’hiver (le ski, notamment), tandis que la troisième suggérait de valoriser la
nature et le relax, en améliorant l’offre destinée aux familles. C’est la première stratégie qui a été préférée.
Dans les deux sites pilotes une quatrième stratégie avait
toujours été envisagée : la conservation de la situation
actuelle, mais elle n’a jamais été considérée gagnante.
À la fin du travail des chercheurs et des techniciens, a
démarré la phase de restitution des résultats aux populations. Deux rendez-vous ont été organisés : à Valgrisenche et à Bard (ce dernier destiné au site pilote du
Mont Rose). Au cours de ces rencontres, les résultats ont
été illustrés et commentés.
Les résultats sont intéressants et ils ont trait à la mise
en valeur des aspects plus culturels et doux du tourisme,
en contraste avec l’essor intensif du ski. L’aire du Mont
Rose, en particulier, est appelé à améliorer la mobilité
et la connectivité entre les trois vallées qui composent
le domaine et à envisager des actions qui augmentent
la qualité de vie des populations. Cela avec la finalité de
maintenir les personnes en montagne et de proposer une
utilisation et un soin du territoire capable d’apporter de
bénéfices au tourisme. La plus value de la culture Walser,
en outre, évoquée à plusieurs niveaux du travail collectif,
a costitué un point de départ favorable à la mise en œuvre
de la stratégie.
Les résultats de ce projet ClimAlpTour sont importants
surtout du point de vue de la méthode participative appliquée (qui a permis – pour la première fois - une confrontation collaborative entre les positions non nécessairement homogènes des administrateurs, de opérateurs
socio-économiques et des citoyens/touristes) et ils sont
à la disposition de toute communauté intéressée à répéter l’expérience vécue par les sites-pilotes, tout en n’ayant
pas besoin d’un investissement important.
— 59 —
A U G U S T A
Al muntagni Runda e Rundeta
La Montagna Ronda e la Rondetta
Rolando Balestroni
L
a Runda l’era la montagna più bela da tuc
culi che feivu da curùgia (curùna) Campel. L’era nuta comud rivàa an ciuma, ma
na bota là, da la suva culma tunda, la vista
at tuieiva al fià. Se la giurnàa l’era bela as
peiva vorag la pianura Padana e tuc i muntagni Pennine.
As cunta che na seira, l’aiva la gneva strasurdin e un
gran tempuralon, cum tron e saieti, al feiva trimé tuta
la tera ‘nturn, poi na saieta la fac un gran ciair e un tron
mai santù, usì fort
on disvugià al genti a al besti lung
tuta la val e su par
i alp pusè luntagn.
L’era capità sicur
‘na roba fora dal
nurmal per fè un
fracas cumpagn,
mai santù pruma, numa tanci
canùgn feivi tant
rumùr.
Pareiva
ch’lera
drè a rivè la fin
dal mund. ‘Intun
culp ‘l fracas l’è
furnì e as sentiva
più niun rumùr,
as muveiva nuta
‘na foia. Al dì adré,
ad matin, al sul l’è
rivà più bel da iàit
dì, ma la Runda ag
l’era più. La gran
saieta l’eiva spacà
en dou muntagni:
la Runda e la Rundeta.
Campello Monti,
1910.
L
a Montagna Ronda si ergeva maestosa su
tutte le altre che sovrastano Campello Monti. Era arduo arrivare in vetta ma dalla cima,
arrotondata da millenni di intemperie, il panorama spaziava a perdita d’occhio, sia verso
la pianura padana che verso la corona della Alpi Pennine.
Come periodicamente capitava, una notte si scatenò un
uragano di acqua, di fulmini, saette, tuoni e lampi accecanti facevano tremare tutta la terra circostante. Un terribile
fulmine squarciò le
tenebre seguito da
un tuono così fragoroso che svegliò
uomini e animali
fin nei più remoti
anfratti delle valli
circostanti. Qualcosa di tremendo
doveva essere successo perché mai si
era udito un simile
boato, nemmeno
mille cannoni o il
furore di un vulcano avrebbero causato un simile apocalittico suono.
Dopo tale immane
ruggito, seguito da
un sussulto della
terra, tutto chetò
d’un tratto. Un silenzio irreale prese
posto alla furia di
elementi che aveva squassato terra
e aria. Il mattino
successivo il sole
sorse più radioso
del solito ma la
maestosa
Ronda
non esisteva più.
L’apocalittico fulmine l’aveva squarciata in due, la Ronda e la Rondetta.
— 60 —
A U G U S T A
Gressoney-La-Trinité: Osservatorio
Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.)
Willy Monterin
N
elle tabelle
comparative
vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni
degli anni 2011-2012, l’altezza
massima raggiunta dal manto
nevoso alle varie quote e la
variazione frontale del ghiacciaio del Lys.
1)Temperature medie
in °C all’Osser vatorio
Meteorologico
di D’Ejola (m 1850
s.l.m.)
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
MEDIE ANNUALI
22 settembre
2011.
Ghiacciaio
del Lys
(fronte).
(foto Willy
Monterin)
— 61 —
2010
2011
-6,2
-5,4
-2,3
2,8
6,3
11,1
15,0
12,5
9,1
4,2
-0,7
-5,2
3,4
-4,2
-1,5
0,3
6,5
9,4
11,4
11,6
14,4
12,4
6,1
2,8
-1,9
5,6
A U G U S T A
2)Precipitazioni
in mm. di neve
fusa e pioggia
all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola
(m1850 s.l.m.)
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
TOTALI ANNUALI
2010
2011
25,6
61,6
79,5
43,7
224,1
149,8
40,7
94,7
36,2
88,0
123,0
93,9
1060,8
14,3
26,1
103,4
44,3
45,5
207,5
131,9
26,3
59,6
40,4
159,2
116,6
975,1
2009
3)Precipitazioni
nevose in cm.
all’Osser vatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850
s.l.m.)
4)Precipitazioni
nevose in cm.
alla
Stazione
Pluviometrica DEVAL del
Lago Gabiet (m
2340 s.l.m.)
5)Altezza massima del manto
nevoso:
D’Ejola (m 1850
s.l.m.) cm 125 il
16 marzo 2011
Gabiet (m 2340
s.l.m.) cm 142 il
14 maggio 2010
Ottobre
Novembre
Dicembre
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
TOTALI
8
91
96
Ottobre
Novembre
Dicembre
Gennaio
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
TOTALI
14
102
116
2010
2010
2011
48
45
94
41
96
71
44
/
28
53
80
9
/
447
2009
357
2010 2010
2011
18
158
138
75,50
102
94
53
157
/
713,50
6) Variazioni annuali della fronte glaciale del Ghiacciaio del Lys (valori in metri).
2010
2011
Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355)
-19
-20
— 62 —
32
46
219
11
/
/
622
A U G U S T A
IN MEMORIAM
Mét dem tod vòn Eugenio Squindo, òder “Schkineigen“
(wétte dschin landslitté heine gschruet), éscht e wéchtége
mensch fer éndsché ganzò gmeinschaft verscheidet.
Jeder vòn éndsch bsénndsché eppes bsondrégsch vòn
déschem ma, woa éscht z’Noversch bòret òn hät geng
z’Greschòney gläbt òn gwéerchòt. Hie allz ufzschribe,
was Eigen én dschim 90-jerége läbtag hät toat, weré schier
ònmégléch òn mò tetté sécher mengs déng vergesse.
Daròm unterstricheber hie nòmma d’houptsachen, woa
Eigen hät én all désche joaré gleischtet.
Éer hät lang als gmeinsekretär ém Oberteil òn ém
Ònderteil gwéerchòt òn déewé mét allé Greschòneyera
z’tue khät. Én dschir frizit hätter ém jònge tag géere
theater gspélt òn spetòr éschter eine vòn den aktivschte
én der folklorgruppe gsid. Éer hät géere de tracht angleit
òn mò gsét noch oft fotone vòn éhm, woa tueter eister
sénge òder tanzò.
Dschin liebé fer dschis land, z’Greschòneytitsch òn d’oaltò
brucha hät ém joar 1982 en usnahm wéchtége usdròck
gfònnet, wenn éer – zéeme mét andre 16 Greschòneyera
òn Ischemera – hät z’Walser Kulturzentrum gròndet.
Dass éer hir de fiertag fer de 30 joar vòm Zentrum
némme erläbe chann, éscht wérkléch schad.
Én désche letschte joare hätsché Eigen vor allem mét
dem schribe vòn biecher abkät. Òs den erénnerònge
an dschin stell als gmeinsekretär sinn zwei interessanté
biecher òber de zwei gmeine vòm Oberteil òn vòm
Ònderteil entstannet. Bsondersch wéchtég sinn ou
dschin chronik vòn der familiò Squindo én Italien òn én
der Schwiz òn z’bieché „De térfallò“, en zéemefassòng
vòm Greschòneyer wòrterbuech.
Eigen éscht nid nòmma z’Greschòney òn z’Ischeme
bhannte gsid. Gschätzt heindschne äbe ou én der fremdé
wie zòm bischpél z’Ougschtal, z’Ròm òn ém usland.
Bsondersch ém Wallis hätter véll freinda khät, woa
tiendschne noch hit als e liebe òn geng lòschtége ma
beschribe, wo hät kein ougonbléck versumt, en gschpass
òder èn wétz z’machò.
Wenn hit Greschòney òn Eischeme sinn d’aktivschtò
Walsergmeinschaft én Italien, woa de titschò sproach
hätsché ém beschte ufbewahrt, éscht das houptsächléch
de verdienscht vòn litte wie Eigen.
Z’Walser Kulturzentrum mechté déewé désché sittò vòn
der zitschréft Augusta nétze, fer ém noame vòn all déene,
woa hein désche ma bchennt, noch es moal z’séege: „Véll
moal dank, liebe Eigen!“
z’Walser Kulturzentrum vòn Greschòney òn
Eischeme
Con la morte di Eugenio Squindo, o “Schkineigen“ (così
lo chiamavano i suoi compaesani) è scomparsa una persona importante per tutta la nostra comunità. Ognuno di
noi porta un ricordo particolare di quest’uomo, nato a Noversch e vissuto e lavorato sempre a Gressoney. Scrivere
tutto quello che ha fatto Eigen nei suoi novant’anni sarebbe
quasi impossibile e sicuramente si dimenticherebbe qualcosa. Infatti sottileneamo ora solo le attività più importanti.
Ha lavorato a lungo come segretario comunale a Gressoney-La-Trinité e a Gressoney-Saint-Jean e così ha avuto a
che fare con tutti i gressonari. Nel tempo libero, quando era
giovane gli piaceva molto fare teatro ed in seguito è stato
uno dei componenti più attivi del Gruppo Folkloristico. Gli
piaceva indossare il costume tipico di Gressoney e spesso si
vedono delle foto che lo ritraggono mentre canta o balla.
La sua passione per il paese, per il titsch e per le tradizioni hanno trovato l’espressione più importante nel 1982,
quando lui – con altri 16 gressonari ed issimesi – hanno
fondato il Walser Kulturzentrum. Il fatto che lui quest’anno non possa festeggiare i trent’anni del Centro è un vero
peccato.
Negli ultimi anni si è dedicato soprattutto alla scrittura
di diversi libri. Dai ricordi della sua professione di segretario comunale sono stati pubblicati due libri interessanti
sui Comuni di Gressoney-La-Trinitè e di Gressoney-SaintJean. Di particolare interesse sono anche la cronaca della
famiglia Squindo in Italia ed in Svizzera e il libretto „De
térfallò“, un riassunto del vocabolario di Gressoney.
Eigen non era conosciuto solo a Gressoney e a Issime. Era
stimato anche ad Aosta, a Roma e all’estero. Aveva molti amici soprattutto nel Vallese, dove lo descrivono ancora
oggi come un uomo buono e sempre allegro, che non si faceva sfuggire l’occasione per scherzare o raccontare una
barzelletta. Se oggi Gressoney ed Issime sono le Comunità
Walser più attive d’Italia, dove il dialetto si è coservato al
meglio, è merito delle persone come Eigen. Il Walser Kulturzentrum vorrebbe così utilizzare questo spazio della rivista „Augusta“, in nome di tutti coloro che hanno conosciuto
questa persona, per dire ancora una volta „Grazie, caro
Eigen!“
Il Walser Kulturzentrum Gressoney e Issime
— 63 —
A U G U S T A
Oratorio di Tontinel
Michele Musso
Q
uesto oratorio fu voluto da don Grato
Vesan (parroco di Issime dal 1908 al 1946
anno della sua morte)
come voto fatto alla “Madonna del
perpetuo soccorso” affinché il paese
fosse risparmiato dalle atrocità della
guerra. Lo si realizzò nel 1953, lungo quella che un tempo era l’antica
mulattiera che risaliva la Valle del
Lys, nel luogo in cui il giorno del
Corpus Domini si allestiva un altarino. Su quest’ultimo era esposto alla
pubblica adorazione il Santissimo
Sacramento, portato in processione
racchiuso in un ostensorio sottostante un baldacchino.
Per l’occasione, e per abbellire l’altarino, si usava preparare un telo
bianco fiorato con appeso un quadro
“dell’Ultima Cena” ornato da fiori. La
processione partiva dalla chiesa parrocchiale, snodandosi lungo il sentiero che costeggia il cimitero fino
al prato chiamato Schaffu Mattu. Un
tempo, prima di ritornare in chiesa,
si sostava ad un secondo altare preparato dove si trovava la Croce che
segnava il confine della piazza del
Capoluogo con Schaffu Mattu. L’inno eucaristico principale del Corpus
Domini, cantato in processione, era
il Pange Lingua. La processione del
Corpus Domini si tenne fino ai primi
anni di questo secolo, poi per la presenza di numerosi turisti intenti ad
abbronzarsi al primo sole estivo, nel
prato detto Schaffu Mattu oggi divenuto ‘Area verde’, si decise di interrompere quest’usanza.
L’inaugurazione dell’oratorio avvenne il 7 novembre 1954: « (…) con solenne processione fu portata una statua della Madonna con Bambino offerta
dagli abitanti del villaggio di Tontinel all’oratorio omonimo. La Madonna e il Bambin Gesù hanno sul capo una
corona, opera del falegname Carlo Busso. L’arco di luci in bronzo fuso che incornicia la statua è dono delle signorine Giumannini e Bizzozero di Milano. Frido Consol ha offerto l’impianto di illuminazione. La statua fu portata
in processione da Eligio Alby, Fiorenzo Alby, Dario Dandres, Riccardo Stevenin».[“Bulletin Paroissial de Issime”
(Novembre 1954) parroco Don Marcello Lavoyer].
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