Cino Casson

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Cino Casson
IDENTITÀ: VALORE E RISCHIO
Cino Casson
Il tema dell'identità è venuto in evidenza, oggetto di attenzione talvolta ossessiva da parte
di studiosi e politici, "opinion leaders" e gente comune, negli ultimi 10/15 anni.
In passato la questione non era mai stata posta con tanta insistenza e pregnanza; e, più
che "identità", si usavano definizioni come comunità, ceti, classi, evidenziando soprattutto
le articolazioni sociali fondate sulla condizione economica.
Il fenomeno noto come "globalizzazione" ha fatto cadere - o, almeno, reso meno netti - i
limes, i confini geografici, culturali, economici; si sarebbe potuto pensare - e, in parte, è
avvenuto - che la "contaminazione" aprisse la via ad una sempre maggiore comprensione/condivisione tra popoli e singoli, che fosse più agevole perseguire quel "cosmopolitismo", quella tensione verso la "pace perpetua" preconizzata da Immanuel Kant.
La facilità di spostamento, la "rete", che permette in tempo reale di venire a contatto con
luoghi, culture, costumi prima pressoché sconosciuti, avrebbe dovuto - in una visione ottimistica del progresso lineare della storia - far trascendere le consolidate identità di un
mondo "rigido", in una nuova identità planetaria, rendendo universale le risposta di Einstein alla stupida domanda di un questionario doganale. Razza: umana.
E, invece, abbiamo dovuto assistere - senza una strategia di intervento - all'emergere di
scontri anche sanguinosi, su basi etniche e religiose, o, nei casi meno cruenti, all'affermazione di identità locali e localistiche, politicamente e culturalmente ostili verso ogni "straniero", ogni "altro da sé".
Forse l'individuo, sconcertato, talora addirittura atterrito, di fronte all'oceano planetario, ha
cercato rassicurazione nel piccolo mare chiuso di una appartenenza etnica, religiosa, tradizionale o nella caletta riparata dai venti, abitata solo dalla "sua gente".
L'affermazione di una identità non discutibile, data fin dalla nascita, regolatrice; un antidoto
alle onde rischiose del dubbio, una rifugio "solido" nella "modernità liquida", secondo la
fortunata definizione di Zygmunt Bauman.
È, invece, il processo che conduce dall'identità alla "identificazione", per citare sempre
Bauman, che ci porta, ci consente, in qualche modo ci "costringe" ad interrogarci, continuamente, sulla criticità dell'identità, sulla sua mutevolezza, sulla nostra razionale accettazione/rifiuto dell'identità come appartenenza.
Bauman ricorda un episodio della sua vita: dovendo ricevere una laurea honoris causa
dall'Università di Praga, gli fu chiesto quale inno nazionale voleva fosse eseguito.
Il sociologo, nato in Polonia, ma privato della cittadinanza e della cattedra per motivi politici, vive da decenni in Inghilterra ed ha acquisito la cittadinanza inglese; il suo dubbio fu risolto dalla moglie, Janine, che suggerì di far suonare l'inno europeo.
Tra due identità nazionali, Bauman scelse una identità "culturale", che le comprendeva entrambe, ma, al tempo stesso, le superava, affievolendole; più che una "identità", Bauman
ricercò una "identificazione", una affermazione individuale.
Perché le identità assumono valore se sono scelte, non se sono subite come una "condizione naturale", legate a "dati fattuali", indipendenti dalla volontà del soggetto, se sono,
cioè, "identificazioni", libera accettazione - che può essere permanente, temporanea o revocabile - di elementi, per lo più, casuali (nascita, caratteristiche fisiche, etnia, ecc.).
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L'identità/Le identità
Bauman , oltre che polacco, è ebreo, professore universitario, scrittore; ed è maschio, eterosessuale, vecchio: appartiene, cioè, a molteplici gruppi e categorie sociali, ciascuno dei
quali può corrispondere a diversi caratteri identitari.
E l'elenco potrebbe proseguire a lungo.
Se si volesse "imporre" a un essere umano di definire "una" (e una sola) sua identità non
si potrebbe andare tanto più in là di "nome, cognome, numero di matricola", come recita il
manuale militare (e anche questi elementi, in fondo, sono identità "assegnate" da altri).
Forse l'unica risposta plausibile sarebbe "sono un essere umano".
In realtà ciascuno di noi è portatore di molte identità, più o meno "forti", più o meno "definitive", più o meno "invariabili".
E molte di queste "identità" hanno, in sè, valore meramente denotativo, mentre solo dal
contesto nel quale vengono affermate possono assumere valore connotativo.
Esse possono riferirsi all'appartenenza a diverse condizioni e articolazioni sociali, alcune
date per motivi oggettivi (nazionalità, lingua, etnia, sesso, in parte anche religione), altre
acquisite (attività lavorativa, associazione, titoli, condizione familiare, età, ecc.).
Ciascuno può - in maniera più o meno libera - decidere a quali identità attribuire valore di
identificazione.
Identità "forti"/identità "deboli"; identità "fisse"/identità "variabili"
Non si vuole, qui, fornire un elenco; mi limiterò a qualche esemplificazione.
Per "identità forti" intendo quelle identità dalle quali può derivare una "identificazione",
qualcosa che il soggetto riconosce e rivendica come suo carattere costitutivo, in mancanza del quale egli sarebbe "altro da quel che è": è evidente che la "forza" di queste identità
è del tutto soggettiva e dipende da "come" il soggetto le vive.
È il risultato, come insegna Amartya Sen, di una scelta razionale, che individua, in ciascun
contesto, quale delle molteplici identità privilegiare, quali attenuare, quali mettere da parte.
Esemplifico parlando del soggetto che, forse, conosco meglio: me stesso (non per presunzione, ma perché, così, non rischio di offendere sensibilità altrui).
Sono nato a Venezia e, quindi, sono veneziano, veneto, italiano, europeo.
Sento come "forte" la mia identità veneziana, abbastanza forte quella europea, piuttosto
"debole" quella italiana, del tutto irrilevante quella veneta.
E sono abbastanza sicuro che, in qualsiasi contesto, manterrei queste priorità.
Sono uno che ha studiato filosofia, ha insegnato, ha diretto scuole, ha fatto attività politica.
Sento come forti le identità di (quasi) filosofo e politico, deboli quelle di insegnante e dirigente; se avessi fatto altri mestieri mi sentirei sempre la stessa persona; se non avessi
studiato filosofia e non avessi fatto politica, credo che sarei diverso da quel che sono.
Naturalmente questo dipende anche dal fatto che, da tempo, sono in pensione e, quindi, le
mie identità lavorative sono uscite dal mio orizzonte vitale.
In ogni contesto, non potrei ignorare le mie "identità forti": esse sono "poco flessibili"; anche in un simposio micologico non potrei accantonare le mie opinioni filosofiche e politiche, mentre, in qualsiasi contesto diverso da una società micologica, la mia identità di micologo passerebbe in secondo piano.
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È ovvio che le identità forti sono meno "negoziabili" delle identità deboli; tuttavia anch'esse
possono restare "non affermate", laddove il contesto non lo richieda o, addirittura, lo sconsigli.
In un libero dibattito tra cittadini posso esprimere, anche con veemenza, la mia identità di
"non credente" e portare in campo tutte le mie più articolate argomentazioni; assistendo a
una cerimonia religiosa, un matrimonio al quale invitato, un funerale di una persona conosciuta, mi limiterò a non compiere gesti di culto, senza, però, manifestare apertamente
dissenso.
Anche l'opportunità, il rispetto per le identità altrui, sono atti di razionalità.
Identità come "affermazione di sè" o come "contrapposizione all'altro".
Esiste una "identità individuale", nella quale il soggetto "afferma il sè", per rendersi inviduabile dagli altri; il valore di tale identità consiste nel rifiuto del conformismo, nell'evidenziare ciò che fa di ogni essere umano un "diverso fra diversi"; ma contiene anche un rischio, quello di affermare il sè senza distacco critico, di trasformare l'individualismo democratico del pensiero liberale nell'individualismo ideologico dei totalitarismi di destra, o, almeno, in un individualismo egoistico, tipico dei localismi.
Specularmente esiste una "identità sociale", nella quale il soggetto si riconosce parte di
una comunità e ne accetta regole, ne rivendica diritti e se ne assume doveri.
Può essere una identità "confermativa ", "rassicurante"; può indurre atteggiamenti altruistici, comprensione, solidarietà; e, in tal senso, acquista un valore.
Tuttavia espone anche al rischio di un "comunitarismo" spinto, all'idea che si esiste soltanto come soggetto sociale; e si rischia di considerare la propria comunità come chiusa all'altro, alle altre comunità.
Nadia Urbinati cita ad esempio dei rischi delle interpretazioni più asfittiche e chiuse di
identità, una posizione esposta nel sito dei "Giovani Padani", un mix di cultura imprenditoriale ultraliberista e di identificazione comunitaria, che porta a una visione "possessiva"
dello spazio politico; una "identità gregaria", ostile a chi non sia, per nascita, "fratello su libero suol".
Identità che erigono limes, che respingono qualsiasi "contaminazione", che pretendono di
trovare nella tradizione l'unica fonte etica e nell'interesse della comunità delimitata l'unica
legittima dottrina economica. Identità, individuali e sociali, fortemente "affermative" ed
"escludenti", che non ammettono negoziazioni.
I rischi delle "identità affermative"
Sul piano individuale una identità "affermativa" può avere conseguenze negative solo per il
soggetto, precludendogli una vita sociale più ricca, più condivisa; non per questo più "felice", perché la felicità è faccenda squisitamente individuale e, quindi, è ben possibile che
un soggetto viva "felicemente" il suo egoismo, la sua povertà di relazioni, la sua aridità di
sentimenti.
E di ciò, pertanto, non avendo vocazione di psicoanalista, né di sacerdote, mi disinteresso.
Mi interessa, invece, valutare le conseguenze di una versione affermativa ed escludente
delle identità sociali; tali conseguenze hanno effetto sulla politica, ma, come troppo spesso
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abbiamo visto negli ultimi vent'anni, sulla vita - anche in senso fisico, di esistenza - per milioni di persone e sulla cultura.
Sul piano politico una identità sociale che assomma i "vizi" dell'individualismo più gretto e
del comunitarismo più chiuso conduce a rifiutare ogni prospettiva cosmopolita, anche solo
su scala continentale (e, in qualche caso, anche della stessa identità nazionale), insomma,
la paura - e l'esclusione - non solo dell' "idraulico polacco" (figuriamoci del magrebino!),
ma anche del "tubista meridionale"; e, naturalmente, questa conseguenza politica ha effetti disastrosi anche sulla situazione economica, perché porta ad una autarchia improponibile in un mondo globalizzato.
Ancora più disastrosa mi appare la conseguenza sul piano culturale.
La chiusura nei "recinti" - territoriali, etnici, religiosi - respinge ogni possibile ricerca dell'overlapping consensus di Rawls, prospettando una società dove ogni identità punta al riconoscimento "contro" le altre identità.
Vi è, nei sostenitori delle identità escludenti, anche un atteggiamento "missionario", nel
senso di "missione" dei "conquistadores", dei "battezzatori di ebrei", della jihad contro gli
"infedeli"; l'aberrante idea di dover "convertire", con qualsiasi mezzo, in nome di una presunta "verità" delle proprie concezioni etico-religiose.
E la pretesa superiorità etnico-culturale ha condotto - come purtroppo ancora conduce - a
conquiste coloniali, a stragi etniche, all'annientamento di identità "nemiche".
E non è estranea a questo approccio identitario anche l'idea, sostenuta da governanti pure
democratici, di poter "esportare la democrazia" anche con le armi: questo, sì, può portare
allo "scontro di civiltà" prefigurato dal noto saggio di Samuel Huntington.
Il motivo principale di tali degenerazioni identitarie sta, a mio parere, nell'idea che ogni
identità debba, necessariamente, comprendere tutti i caratteri "interni"; cioè, che l'identità
"islamica" debba, necessariamente, comprendere la soggezione della donna, oltre a questioni evidentemente bagatellari, come il "velo" o il rifiuto delle bevande alcooliche (a nessun dio degno di divinità può importare se un suo devoto credente si fa una birra con gli
amici!). O che nell'identità cattolica non si possa riconoscere uno che non ha niente in
contrario a una legge che consenta l'aborto. O che l'identità "padana" debba inevitabilmente considerare il prelievo fiscale come una rapina.
Queste pretese "esclusive" sono il più fertile terreno di semina per ogni intolleranza e,
spesso, per atti di vera e propria violenza.
Rileggendo "Identità e violenza" di Amartya Sen
Qualche anno fa Amartya Sen ha raccolto in un libro, "Identità e violenza", i temi di sei lezioni universitarie, con i necessari aggiornamenti. La tesi sostenuta da Sen, Nobel per l'Economia, è che la tendenza a ridurre ogni individuo a un "piccolo contenitore" di una sola
identità è la causa prima dell'esplodere di fenomeni di violenza collettiva.
Rileggo un paio di brani di Sen.
" La suddivisione della popolazione mondiale secondo le civiltà o secondo le religioni produce un approccio che definirei ‹solitarista› all'identità umana, approccio che considera gli
esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso (definito in questo caso dalla civiltà
o dalla religione, in contrapposizione con la rilevanza un tempo attribuita alla nazionalità o
alla classe sociale".
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Questa, mi sembra, è la condizione nella quale - come dicevo all'inizio - si può trovare
l'uomo della modernità globalizzata.
"Una delle questioni centrali è il modo di vedere gli esseri umani. Devono essere classificati in base alle tradizioni ereditate (...) dalla comunità in cui sono nati, dando per scontato
che quella identità non scelta abbia automaticamente la priorità su altre affiliazioni legate
alla politica, alla professione, alla classe, al genere, alla lingua, alla letteratura, ai coinvolgimenti sociali e a molte altre cose? Oppure devono essere considerati individui dalle tante affiliazioni e associazioni, sulla cui importanza e priorità sono loro stessi a dover prendere una decisione ( e ad assumersi le responsabilità che derivano da una scelta ragionata?"
La seconda che hai detto. Vale, anche qui, la distinzione weberiana tra "etica dell'appartenenza" e "etica della responsabilità": della nostra identità, se crediamo alla libertà e all'autonomia, dobbiamo essere, noi, responsabili, anche a costo di recidere qualche "radice".
Mi piace citare, avviandomi alla conclusione, Gustavo Zagrebelsky.
"Alla base, c'è la persona come tale e la sua dignità, in quanto appartenente al genere
umano e indipendentemente dall'adesione a questa o quella fede, religione, stirpe, comunità politica." Ecco, forse identità si coniuga bene con dignità.
Concludo - e, come sempre, si tratta di conclusioni dubitative - con la considerazione che il
termine "identità" è un'altra delle parole - come democrazia - da "maneggiare con cura",
perché può trasformarsi, da razionale constatazione che siamo tutti "diversamente differenti", in arma per colpire i "differenti da noi", che, proprio perché differenti da noi, consideriamo "sbagliati", da ricondurre, con le buone o con le cattive, sulla "retta via".
Se vogliamo vivere in un mondo di "liberi e uguali" - e mi pare preferibile - senza rinunciare
ad "identificarci", dobbiamo riconoscere la coesistenza di diverse "identificazioni"; a patto
che si tratti, secondo la definizione di Rawls, di "dottrine comprensive ragionevoli".
Affermare, magari con orgoglio, le proprie identità, è "ragionevole"; usare discriminazione
e violenza verso chi tali identità non condivide, non lo è.
È l'unico modo - o, almeno, io non ne conosco altri - per costruire quella politica della "civiltà robusta" di cui parla Robert Dahl.
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