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Introduzione
Pompei, .
Risale a circa vent’anni fa la mia prima frequentazione di quest’incredibile sito archeologico. Da allora ho sempre cercato di tornarci,
anche se purtroppo le occasioni per visitarlo sono state piuttosto rare.
Nel giro continuo delle stagioni le vestigia non sono peggiorate, anzi. Il
sito sembra meglio curato e conservato oggi di allora . Mi allontano dal
gruppo di amici con cui sono giunto sino qui, e proseguo da solo. È
bello, in questa fredda giornata invernale, camminare sulle lastre di pietra mangiate dalle ruote dei carri di duemila anni fa. Continuo l’esplorazione lungo quella che doveva essere la via principale che conduceva
all’antico porto e a un certo punto, sulla destra, vedo affrescate alcune
grandi teste di uomini e di donne.
Di che cosa si tratta? Che cosa sto guardando? Qualche secondo per
comprendere che sono davanti alla bottega di un artigiano, e precisamente di un barbiere, il quale, accanto all’insegna ormai scomparsa, aveva
deciso con spirito protoimprenditoriale di esibire i propri prodotti, ovvero le raffigurazioni delle acconciature che poteva proporre ai suoi clienti.
Sono davanti alla pubblicità di prodotto di una piccola impresa artigiana di duemila anni fa.
Ci sono esempi senz’altro più antichi, ma piace iniziare questo
manuale sulla pubblicità e sulla comunicazione senza cercare radici
. È probabile che, nonostante tutte le polemiche, i ritardi e certe colpe politicoamministrative, anche per il sito archeologico di Pompei si stia andando nella direzione
di un nuovo modello di museificazione, seguendo in ciò il processo di contaminazione
tra il museale e la cultura del consumo. I musei e i siti archeologici si stanno trasformando in luoghi dove “si perde la cornice”, cioè la fruizione imbalsamata tipica dei
musei classici, a vantaggio di una fruizione viva e interattiva, capace di condurre il visitatore a sperimentare un’esperienza, e trasformando il sito in «una vera e propria “marca
globale”, una delle manifestazioni più evidenti di quel processo di “disseminazione”
delle marche che si sta sempre più presentando nel sociale» (Codeluppi, b, p. ).

PUBBLICITÀ E COMUNICAZIONE
troppo lontane. Meglio rimanere all’interno della cultura occidentale,
prendendo esempio da quel lontano imprenditore per taluni versi già
pubblicitario; fermato nel  d.C. da un destino terribile sotto forma di
una catastrofica eruzione vulcanica. Da allora a oggi la pubblicità nelle
società occidentali è diventata certamente il luogo più frequentato e più
seguito, anche se non certo il più alto, della comunicazione umana. Non
è facile ritrovarsi in spazi non pubblicitari, in luoghi dai quali la pubblicità è assente. Si fa pubblicità alla radio e alla televisione, su internet,
sui giornali e sulle riviste, per strada tramite le affissioni, sui tram e sulle
auto pubbliche, nei locali e nei mezzi pubblici, sui banchi dei negozi e,
per mezzo del packaging e grazie alle marche dei prodotti, nei punti vendita, nei supermercati e in qualsiasi luogo sia trasportato, visto, annusato, toccato e usato un prodotto di consumo . Onnipresente e per certi
versi onnicomprensiva di ogni altra forma di comunicazione, la pubblicità per taluni sociologi e semiologi è diventata il vero moloch della contemporaneità, tanto pervasiva da mangiarsi ogni altra forma di collegamento tra le persone, e da assorbire ogni voglia di utopia, appiattendo
l’originalità, la diversità, la tradizione delle avanguardie e il desiderio di
non accontentarsi dell’esistente .
Insomma, la pubblicità sarebbe comunicativamente responsabile
della progressiva perdita di interesse nella ricerca dell’altro, del diverso,
e di tutto ciò che resiste a iscriversi nel percorso ufficiale della modernità. La pubblicità per costoro è onnivora e, come la paura, mangia l’anima, ovvero il significato delle nostre vite .
. «In una economia basata sulla produzione artigianale la pubblicità serve solo negli
immediati dintorni di una bottega: un’insegna, un cartellone, possono essere utili entro
un raggio massimo di pochi chilometri. Questo perché è importante comunicare che una
merce esiste e che c’è qualcuno che può fornirla. Dirlo a chi non passa vicino alla bottega non serve. Nell’economia industriale, con la produzione di massa, la pubblicità può
comunicare qualche cosa di più della semplice presenza della merce o del distributore»
(Dorfles, , p. ).
. Gianfranco Marrone (, p. ) annota che l’interesse della semiotica verso il
discorso pubblicitario è sempre stato elevato perché i suoi scopi sono sempre espliciti, poi
perché mette in moto procedure retoriche complesse, infine perché parla della società
nella quale opera.
. Certo le affermazioni apocalittiche sulla pubblicità spesso colpiscono e danno da
pensare. Giulio Stocchi ha scritto nel suo bel libro di racconti e di poesie, L’altezza del
gioco, che i muri della sua città anni prima erano pieni di scritte che raccontavano la
voglia di cambiare le cose, mentre oggi raccontano solamente la voglia di mettere le mani
sull’ultimo modello di auto o sul gelato più buono dal triplo gusto. Altri affermano che
la pubblicità sembra far sparire ogni altrove dell’immaginario assorbendo tutto l’esistente e dando vita e forma a una sorta di utopia stravolta (Filippo La Porta, Nello scaffale
sfinito delle merci, in “il Manifesto”, giovedì  agosto ). Ecco perché un titolo cor-
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INTRODUZIONE
Quanto c’è di vero in queste paure? Molto, e molto poco. Al solito
dipende da chi e da come si analizza il fenomeno. Si tratta di vedere se
colui che ragiona intorno al fenomeno pubblicitario rientra, per usare
una vecchissima distinzione, tra gli apocalittici oppure tra gli integrati
(Eco, ). O anche, per usare distinzioni più recenti, se lo si può annoverare nel miscuglio formato da Arcaici, Cipputi, Puritani, Ecologisti,
Autodiretti, da una parte, oppure nel pot pourri di Conservatori, Integrati, Affluenti e Achievers dall’altra, con i progressisti a fare l’ago della
bilancia: un po’ di qua, un po’ di là .
Non serve a nulla avere o non avere tali paure, serve molto di più
comprendere il meccanismo di questo specialissimo tipo di comunicazione e di discorso; serve analizzare come funziona e perché esso sembra
essere diventato un modello talmente potente da guadagnare vertiginosamente su tutti gli altri generi comunicativi, come ad esempio l’informazione e l’intrattenimento. Oggi la pubblicità è intrattenimento, e nessuno
potrebbe negare come certi spot o certi annunci siano in grado di raccontare in modo divertente tic, manie, aspetti della società e delle persone che consumano. E oggi la pubblicità è anche informazione, non solo
sul e attorno al prodotto, ma anche sugli usi e costumi sociali, sul comune senso del pudore, sulla capacità di guardarsi e raccontarsi, sulle tendenze, sulle mode.
Serve molto di più comprendere come mai la pubblicità riesce, per
taluni aspetti, a ergersi come unico modello comunicativo verso cui tendere e dal quale attingere idee, suggerimenti, tecniche e sofisticati congegni narrativi. Certamente la pubblicità risulta essere il modello comunicativo che maggiormente riesce a produrre conseguenze pratico-emozionali-sociali quali, nella fattispecie, il cosiddetto goodwill verso il contenuto della comunicazione e il suo riuscire a trasformare se stessa, che
in modo neutro potremmo semplicemente definire come una serie di
atti di comunicazione, in una spinta a produrre una serie di atti di consumo. La pubblicità è la quintessenza di quell’agire comunicativo che
Habermas aveva già individuato e studiato. Ma il sociologo tedesco non
retto per questo volume poteva essere: l’utopia riflessa, per rifare il verso alla Società
riflessa di Landowski (). Se uno desidera lavorare sulle mille resistenze che le persone oppongono alla omologazione, e che costituiscono il sale della vita di noi umani, allora certo analizzare lo specchio pubblicitario significa prendere in considerazione la mola
della macchina omologatrice e non la resistenza delle molteplicità agli adeguamenti e alla
forza omogeneizzante del Grande Fratello pubblicitario. Ma, a nostro avviso, è solo
attraverso la comprensione del funzionamento di quella mola, che tutto tritura, che si
può far avanzare l’istanza delle molteplicità.
. Cfr. Fabris (, pp.  ss.).

PUBBLICITÀ E COMUNICAZIONE
aveva certo pensato di inserire nella sua teoria la pubblicità quale elemento e vero motore dell’agire comunicativo. Oggi l’agire comunicativo è un’effettiva realtà sociale, ma è pure un fenomeno ben lontano e
differente da quelle teorizzazioni habermasiane .
Marrone afferma che il discorso pubblicitario, come tutti i discorsi,
possiede temi e configurazioni proprie; esibisce modi specifici di usare lo
spazio, il tempo, gli attori (Marrone, , p. XXIV) e costruisce, aggiungiamo noi, specifiche competenze e modalità di interazione con il messaggio. Il discorso pubblicitario è talmente cresciuto in potere e importanza da sovrastare, nella società contemporanea, gli altri discorsi. Esso
ha cioè imposto, o comunque sta imponendo, tutte queste specificità al
discorso informativo/giornalistico, al discorso politico, al discorso scientifico, al discorso giuridico.
La pubblicità è comunicazione che produce azione. È la concreta
possibilità di trasformare l’atto comunicativo in atto di consumo. La pubblicità figurativizza il ruolo di moderno Mercurio alato, dio a un tempo,
non scordiamolo, della comunicazione e dei ladri.
Lo scopo di questo libro è quello di raccontare dall’interno il complesso mondo pubblicitario, scoperchiandone i meccanismi e sezionandone il funzionamento. Ci sembra questa un’azione molto più utile
anche per tutti quegli apocalittici che paventano la pubblicità come la
vera e unica incarnazione del Grande Fratello, nel senso del libro di
Orwell e non della disgraziata trasmissione televisiva.
I libri sulla pubblicità sono oggi rubricabili sotto diverse tipologie.
Ci sono i libri che leggono economicamente il fenomeno pubblicitario. Ne rilevano le cifre e il giro d’affari. Analizzano le nuove forme e i
mercati che nascono studiandone l’impatto economico.
Ci sono i libri che concepiscono la pubblicità come una estetica e
come una forma d’arte.
Ci sono i libri che studiano la pubblicità come una delle classiche
quattro leve del marketing.
Ci sono i libri che affrontano l’aspetto creativo della pubblicità, e
cercano di spiegarne l’eventuale mistero.
Ci sono i libri che, all’interno della cultura d’azienda, leggono la
pubblicità come una importante componente della comunicazione
d’impresa.
Ci sono i libri che affrontano la pubblicità da un punto di vista sociologico e storico, esponendo le teorie e le varie analisi sociologiche che si
sono succedute e che hanno cercato di spiegare il fenomeno.
. Cfr. Habermas ().

INTRODUZIONE
Ci sono i libri di sociosemiotica, con analisi dei mass media, che
affrontano la struttura del messaggio pubblicitario e ne analizzano i processi di produzione e decodifica.
Ci sono, infine, i manuali di pubblicità, pochi per la verità, scritti
attraverso gli occhi e la competenza di chi la pubblicità la fa, che prendono in oggetto l’effettivo funzionamento della macchina pubblicitaria .
In mezzo a tanta proliferazione editoriale, questo volume vuole essere
un manuale e una sorta di corso sociosemiotico di lettura dei messaggi.
Uno strumento utile per comprendere i modi di creazione di un messaggio pubblicitario, anche grazie all’analisi di casi, di cui il più importante
resta la campagna pubblicitaria studiata per Cortina D’Ampezzo, che
occuperà il CAP.  del volume. Inoltre, ci sarà modo di gettare uno sguardo sulle conseguenze estetiche e sociologiche della pubblicità. Infine, la
seconda e la terza parte del libro allargano il discorso pubblicitario fino a
comprendere altri aspetti della cosiddetta comunicazione di impresa,
come il packaging, e la comunicazione nel punto vendita, nuovi elementi
che devono essere coerenti e in armonia.
Le origini di questo libro nascono da una collaborazione. In questi anni
è stato prezioso il lavoro svolto presso la cattedra di Tecniche della
Comunicazione Pubblicitaria allo IULM, in seguito sviluppato nei miei
corsi di Sociologa dei Consumi. Sono stati anni stimolanti di ricerca,
utili per padroneggiare un tema che avevo osservato solamente da lontano e che invece si trattava di affrontare con maggiore precisione
semiotica e pubblicitaria.
Ringrazio Giampaolo Fabris per essere stato il primo a incoraggiarmi, Marco Lombardi per avermi dato la possibilità di studiare dall’interno il funzionamento del congegno pubblicitario, e Vanni Codeluppi
per avere avuto la pazienza di discutere con me ogni implicazione sociologica e semiotica. Sono stati preziosi per il confronto continuo e nello
sviluppo delle discussioni intorno ai temi poi diventati argomento di
questo libro.
Ringrazio Altavia, agenzia relativamente giovane e felicemente creativa, e in specifico ringrazio Paolo Mamo per il materiale fornito, i suggerimenti e gli incoraggiamenti.
Infine, mi sia concesso un esergo.
Questo libro ha visto il suo sviluppo durante un breve soggiorno in
Sicilia, terra assolata e generosa nella quale la luce si riverbera abbon. L’elenco riprende e amplia la classificazione di Ferraro (, pp. -).
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PUBBLICITÀ E COMUNICAZIONE
dante sui monumenti millenari, sulla natura colma di colori, odori e
sapori, sui volti, sui corpi e, naturalmente, sul mare vasto e inquieto.
Piace allora concludere con una frase tratta da un bellissimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in grado di descrivere l’incanto di quest’isola, paragonabile certo alla visione di una sirena. Ma
allo stesso tempo la frase pare adatta anche per descrivere il fascino del
discorso pubblicitario, che parla e certo incanta e che non dispone,
come si riteneva un tempo, di occulti e arcani meccanismi se non quelli della propria suadente voce:
Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo,
maggiore sortilegio, quello della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli, come sfondo alle parole in essa si avvertivano
le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge,
il passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene, Corbera, non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce.
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