SOLUZIONI

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SOLUZIONI
SOLUZIONI
CASO 1: PRRSV, Porcine Reproductive Respiratory Sindrome virus.
Autori: Prof. Franco Guarda,Università degli studi di Torino, Dipartimento di patologia animale
Dott. Giovanni Loris Alborali Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia
Romagna Responsabile Sezione diagnostica
Dott. Giacomini Enrico Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna
Sezione diagnostica
Soluzioni al questionario: 4#1#4#1#4
Il virus della Porcine Reproductive Respiratory Sindrome (PRRS) appartenente alla famglia
Arteriviridae è stato isolato per la prima volta nel nord America nel 1987 (1), mentre solo tre anni
dopo in Europa.
Oggi è endemico nel nostro Paese ed è un importante causa di patologia respiratoria nei soggetti
in svezzamento e magronaggio e riproduttiva nelle scrofe. Inoltre questo virus gioca un ruolo di
“door opener” rispetto a molti altri patogeni respiratori d'irruzione secondaria come:
Streptococcus Suis (2), Haemophilus Parasuis (3), Salmonella choleraesuis (4) e Mycoplasma
hyopneumoniae (5).
L'infezione da PRRSV avviene per via respiratoria, l'organo bersaglio è il polmone e per la
maggior parte dei ceppi dopo solo 12 ore si ha la fase viremica. Sette - quattordici giorni dopo
l'infezione si ha il picco viremico con localizzazione virale nel sangue, linfonodi e polmoni (6),
mentre al 28° giorno post-infezione i soggetti presentano un titolo virale nel siero insignificante.
La sintomatologia riscontrata in episodi di PRRS è strettamente correlata alla virulenza del
ceppo, alla sensibilità degli animali, alla loro immunità correlata a precedenti contatti con virus di
campo o vaccinali e all'ambiente stesso. In situazioni di stress vi è un aumento della mortalità da
PRRS suggerendo il fatto che il management aziendale quale temperatura ambientale,
ventilazione e umidità contribuiscano a favorire la circolazione virale e la diminuzione della
risposta immunitaria (7) Nelle scrofe l' infezione è caratterizzata da febbre 39-41°C, agalassia e
cianosi cutanea più marcata nella regione auricolare (fig.3) aborto tardivo (dopo i 90 giorni di
gestazione) con presenza di feti mummificati e di dimensione eterogenea. In soggetti nella fase di
svezzamento e magronaggio la forma respiratoria e spesso associata a minor conversione
giornaliera e incremento ponderale e spesso il virus è stato isolato anche da soggetti asintomatici
(8).
La diffusione del virus avviene per contatto diretto con i soggetti infetti o con le loro secrezioni. E’
stata dimostrata anche la trasmissione attraverso i secreti mammari di scrofe gravide e lo sperma
di verri infetti . La trasmissione per via indiretta tramite acqua, personale, vettori e oggetti e altresì
descritta in letteratura (6).
Un’accurata anamnesi che comprenda il rilievo di una percentuale di mortalità in svezzamento
compresa tra il 5 e il 40 % , una percentuale di aborti che varia dal 5 al 30 % ed un accurata
visita aziendale che metta in evidenza una sintomatologia respiratoria con ipertermia, anoressia,
dispnea e tosse rappresentano i primi stadi per la diagnosi di PRRS. Un corretto approccio
diagnostico prevede inoltre l’esame anatomo patologico, indagini di laboratorio per confermare la
presenza di PRRSV nei tessuti e nel sangue e per mettere in evidenza gli anticorpi specifici. Le
lesioni macroscopiche comprendono una congestione poliorganica e la polmonite interstiziale
spesso associata ad epatizzazione rossa polilobulare. La presenza di PRRSV
può essere
dimostrata tramite la ricerca dell’RNA virale in polmoni, linfonodi e sangue, mediante
immunoistochimica e immunofluorescenza in campioni di polmone, milza, linfonodo e tonsille
L’indagine sierologica tramite ELISA consente di evidenziare il titolo anticorpale
ma non di
distingue gli anticorpi da infezione o vaccinale.
Considerata la variabilità dei ceppi di PRRSV circolanti può risultare utile ai fini epidemiologici
procedere al sequenziamento del genoma virale in ORF 5 e/o ORF 7.
La diagnosi differenziale in episodi di forme respiratorie e riproduttive deve essere effettuata nei
confronti di: Influenza suina, PCV2, Enterovirus, Parvovirus, Leptospira, Mal rosso, Peste suina
classica (6).
Per il controllo di questa patologia sono disponibili sia vaccini spenti che vivi, ed è fondamentale
mantenere un’ omogeneità di protezione della popolazione di scrofe in grado a loro volta di
conferire protezione del suinetto attraverso l’immunità materna.
Figura 3 Suinetto in svezzamento con evidente dimagrimento e sintomatologia respiratoria
CASO 2:
Uno “strano caso” di pigmentazione anomala nei prodotti della
pesca
Autori: Prof. Valerio Giaccone , dipartimento di medicina animale, produzioni e salute, università
degli studi di Padova
Soluzioni al questionario: 4#3#3#2#3#4#4#3
Nel caso specifico, è probabile che siamo di fronte a un processo di natura microbica.
Le analisi di laboratorio rivelano che gli anelli di totano alterati avevano una carica microbica
molto elevata (circa 300 milioni di ufc/g di prodotto) e che buona parte di questa flora
microbica era formata da batteri Gram negativi nettamente aerobi attribuiti in prima istanza al
genere Pseudomonas, ma poi classificati come Vibrionacee. L’identificazione del batterio ha
portato a individuare una specie particolare, Photobacterium phosphoreum, che in effetti già
altre volte è stato chiamato in causa come potenziale agente di difetti di colore specifici,
come la “fosforescenza”.
Tali difetti sono stati finora segnalati non solo in prodotti della pesca, ma anche in altri
alimenti quali budini, prodotti a base di cioccolato, carni e pesci cotti, tramezzini.
Il difetto di fosforescenza è di per sé insolito soprattutto per il fatto che sovente è tenue e
l’uomo ne avverte la presenza solo quando gli alimenti che lo manifestano sono mantenuti in
condizioni di penombra o al buio, come capita all’interno di frigoriferi a luce spenta, o nelle
feste di compleanno, quando viene fatto momentaneamente buio per ovvi motivi.
P. phosphoreum è un batterio che finora si è dimostrato del tutto innocuo per l’uomo e non è
mai stato descritto come agente di malattia alimentare.
Le conclusioni sono quindi che si è trattato di un caso di fosforescenza insorto in una partita
di anelli di totano nella quale si era verificata un’eccessiva proliferazione di questi batteri
pigmentanti che hanno dato origine al difetto.
L’intera partita di prodotti è stata sottratta al consumo umano e distrutta come alimento
“inadatto al consumo umano” ai sensi di quanto previsto dall’art. 14 del Regolamento CE
n.178/2002 che vieta ai produttori di alimenti di mettere in commercio derrate che possano
presentarsi, appunto, non idonee al consumo umano perché non presentano più le loro
tipiche caratteristiche sensoriali di colore, odore, sapore e/o consistenza.
CASO 3: Terapia anticonvulsiva presso un canile
Autori: Prof. Franco Guarda,Università degli studi di Torino, Dipartimento di patologia animale
Dott. Giovanni Loris Alborali Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia
Romagna Responsabile Sezione diagnostica
Dott. Giacomini Enrico Istituto zoo profilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna
Sezione diagnostica
Soluzioni al questionario: 3#1#2#3#4#2#2#4
La corretta gestione dell’iter terapeutico investe diversi aspetti della legislazione sul farmaco
veterinario non solo relativi dall’uso in deroga e alle sue possibilità applicative piuttosto che alla
tipologia di diagnosi per accedervi. Infatti il medico veterinario dovrà altresì valutare la figura
demandata alla somministrazione del farmaco, le registrazioni eventualmente necessarie al fine
della tracciabilità del farmaco, la tipologia di ricetta e la sua corretta compilazione nonché la
responsabilità della gestione fisica del farmaco stesso.
CASO 4: Storia di un gatto dispnoico “difficile”
Autori: Prof. Buracco Paolo, ordinario di Clinica Chirurgica Veterinaria presso la Facolta di Med.
Vet. di Grugliasco (Torino)
Soluzioni al questionario: 3#1#2#2#1#3#4#1
La linfa, fisiologicamente, dopo essere transitata nella cisterna del chilo (caudale ai pilastri del
diaframma, al di sotto della colonna vertebrale), percorre il torace dorsalmente all’aorta per
terminare in vena cava craniale o in un suo ramo tributario. Il chilotorace è una patologia
debilitante relativamente rara, sia nel cane sia nel gatto. Le cause conosciute sono riportate in
tabella (5,7,8,10,12,15,17,21-26,32,38,46,49). Quando tutte le potenziali cause note sono
escluse, il chilotorace è definito idiopatico (CI). Mentre nei casi a eziologia nota il trattamento è
indirizzato alla patologia sottostante (ad es. escissione di una massa mediastinica), in caso di CI
il trattamento è rivolto a risolvere esclusivamente l’effusione chilosa. Il trattamento medico (da
protrarsi per almeno 3-4 settimane) si basa su diete a basso tenore di grassi, toracentesi ripetute
e sulla somministrazione di rutina e/o di octreotide (33,50). L’efficacia della terapia medica è solo
occasionale (8,27,50) e la chirurgia rappresenta l’opzione terapeutica più importante. Trattamenti
quali shunt pleuroperitoneale (41,44), pleurodesi (1,8,29,35), embolizzazione del dotto toracico
con cianoacrilato (40), fenestratura diaframmatica e scleroterapia (pleurodesi) sono solo
occasionalmente utilizzati in medicina veterinaria (16).
Gli interventi chirurgici in grado di indurre un drenaggio linfatico alternativo nel sistema venoso
sono:
1)
2)
legatura pre-diaframmatica del dotto toracico con filo di seta. La sua visualizzazione
può essere agevolata mediante linfangiografia con mezzo di contrasto iodato o
blu di metilene [più spesso a partire da un vaso linfatico mesenterico
(3,4,6,8,20,22,25,32) oppure da un linfonodo popliteo (17,39), anche con utilizzo
della TC (19,30)]. Dopo linfangiografia la legatura è selettiva, cioè limitata ai rami
evidenziati (il dotto toracico può essere doppio e rami anomali possono
eccezionalmente essere presenti anche ventralmente all’aorta). Al fine di
abbreviare i tempi di anestesia, l’alternativa può essere legatura en bloc di tutto
ciò che è dorsale all’aorta, comprendendo anche la vena azigos e le eventuali
branche aberranti del dotto toracico, evitando così la linfangiografia preoperatoria
(11,37,51);
pericardiectomia subfrenica, da sola o in associazione alla chiusura del dotto
toracico, al fine di favorire il flusso linfatico in vena cava craniale (25). La
pericardiectomia trova anche giustificazione razionale nei casi con
ispessimento/costrizione pericardica (12);
3)
4)
5)
6)
7)
8)
ablazione della cisterna del chilo (associata o meno a linfangiografia mesenterica).
Sino ad ora è stata considerata come procedura “di salvataggio” dopo fallimento
delle tecniche precedenti (28,43,45);
la legatura del dotto e la pericardiectomia possono essere eseguite, per lo meno nel
cane, anche per via toracoscopica (2,42)
omentalizzazione dello spazio pleurico (per via trans-diaframmatica o trans-costale).
Allo stato attuale non è di norma consigliabile come opzione di prima scelta
(11,14,34,52);
se opportuno, singoli lobi polmonari possono essere rimossi se consolidati:
l’approccio chirurgico può essere mediante doppia toracotomia laterale (5° per
pericardio e 9°-10 per dotto toracico, a destra nel cane e a sinistra nel gatto),
paracostale [per dotto e cisterna del chilo (47)], o sternotomico (14);
prima di concludere la chirurgia, è bene posizionare un tubo toracostomico.
Risultati della chirurgia
1) La risoluzione del versamento chiloso, se avviene, può essere rapida (entro pochi
giorni), può protrarsi per un tempo variabile o continuare in forma di raccolta non
chilosa ma siero-emorragica, anche in questo caso per un tempo variabile;
2) la risoluzione del versamento chiloso dopo legatura selettiva (post-linfangiografia) del
dotto toracico (eventualmente associata ad ablazione della cisterna del chilo) varia tra il
20% e l’80% (2,6,8,21,25,26,31,45,49);
3) associazione legatura selettiva del dotto toracico e pericardiectomia: risoluzione del
versamento nell’80 -100% dei cani e 75-80% dei gatti (2,13,25);
4) sola legatura en bloc (non selettiva, cioè non preceduta da linfangiografia al fine di
abbreviare i tempi operatori): risoluzione nel 50% dei casi (6,37,51). Se associata a
pericardiectomia subfrenica, la risoluzione a lungo termine è dell’80% (cane) e 75%
(gatto) (11);
5) contemporanea omentalizzazione pleurica: al momento non sembra migliorare le
percentuali di successo (11,48);
6) in caso di fallimento: proponibile l’ablazione della cisterna del chilo (11) e/o
l’omentalizzazione;
7) lavori più recenti propongono come prima scelta la legatura del dotto e la
contemporanea ablazione della cisterna (36,47).
POSSIBILI CAUSE DI CHILOTORACE
Cardiomiopatia
Esclusa nel nostro paziente
Insufficienza cardiaca destra
Esclusa nel nostro paziente
Ostruzione della vena cava craniale
Esclusa nel nostro paziente
Malattie del pericardio
Ispessito ma ritenuto secondario
Malattie cardiache congenite
Escluse nel nostro paziente
Alterazioni congenite del dotto toracico
Non probabili nel nostro paziente vista l’età;
linfangiografia non eseguita
Masse occupanti spazio nel mediastino
Escluse nel nostro paziente
anteriore (soprattutto linfoma e timoma)
Torsione di lobi polmonari
Esclusa nel nostro paziente
Ernia diaframmatica o peritoneopericardica
Escluse nel nostro paziente
Granulomi fungini
Esclusi nel nostro paziente
Corpi estranei
Escluso nel nostro paziente – no infezione
Rottura traumatica o iatrogenica del dotto
Difficile da dimostrare
toracico
Linfangiectasia sistemica
Difficile da dimostrare
Chilopericardio primario, poi chilotorace
Segnalato un solo caso in letteratura (9),
difficile da dimostrare nel nostro caso
considerato che il gatto è stato condotto a
visita già con chilotorace conclamato
Filariosi nel gatto (5,17)
Rara, esclusa nel nostro paziente
Idiopatico (se nessuna causa è identificata)
DIAGNOSI PIU’ PROBABILE
CASO 5: Visita in allevamento di bovini da carne
Autori:
Prof. Franco Guarda,Università degli studi di Torino, Dipartimento di patologia animale
Dott. Giovanni Loris Alborali Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia
Romagna Responsabile Sezione diagnostica
Dott. Giacomini Enrico Istituto zooprofilattico
sperimentale Lombardia
Emilia
Romagna Sezione diagnostica
Soluzioni al questionario: 4#1#4#2#2#3#1#4
La rinotracheite infettiva dei bovini è una malattia virale causata da un herpesvirus (BHV1)
appartenente
alla Famiglia Herpesviride , Sottofamiglia Alphaherpesvirineae , Genere
Varicellovirus. Può manifestarsi in due forme principali, la prima colpisce l’apparato respiratorio
dando appunto un quadro di rinotracheite (IBR) e in misura minore cheratocongiuntivite, la
seconda forma invece è a carico dell’apparato genitale e si manifesta con vulvovaginite pustolosa
(IPV), balanopostite pustolosa.Il virus può dare anche aborto e encefaliti nei soggetti più giovani.
La trasmissione può avvenire sia per via respiratoria, tramite contatto diretto tramite secrezioni
respiratorie, oculari degli animali,che per via genitale in corso di monta naturale. L’IBR non è una
zoonosi.
Tramite le mucose il virus entra nell’organismo, si replica abbondantemente e passando nelle
diverse cellule provoca necrosi. Durante la fase viremica è associato ai leucociti e può
raggiungere bersagli secondari quali utero, placenta, feto, ovaia e testicolo.
Tramite i nervi periferici che innervano i bersagli primari il virus può raggiungere il sistema
nervoso centrale. La diffusione neurogena svolge un ruolo importante nell’istaurarsi dell’infezione
latente nei gangli nervosi.
La secrezione del virus BHV1 avviene per circa 8-16 giorni dall’inizio dell’infezione.
Il virus dell’IBR come tutti gli herpesvirus rimane allo stato latente e si hanno recrudescenze in
corso di particolari stress subiti dagli animali, per esempio il traporto, il cambio repentino
d’alimentazione, il parto, il sovraffollamento o la competizione fra i soggetti.
Il virus si conserva per alcuni mesi in ambienti freddi, è invece labile in quelli caldi; sopravvive 15
minuti a 60°C. In condizioni di pH compreso fra 6 e 9 cioè lo stesso dell’apparato respiratorio e
genitale il virus è stabile.
Per la prevenzione dell’IBR è importante attuare misure sia di profilassi diretta che indiretta.
La profilassi diretta prevede l’utilizzo di materiale seminale indenne, l’introduzione di animali
solamente dopo un periodo di quarantena in cui si condurranno due prelievi di controllo.
La profilassi indiretta prevede la messa in opera di un piano vaccinale, utilizzando vaccini vivi
attenuati o inattivati, ripetuti ogni sei mesi dopo aver attuato due vaccinazioni di base.
CASO 6: Il caso dei prodotti congelati “scaduti”
Autori:
Prof. Valerio Giaccone , dipartimento di medicina animale, produzioni e salute,
università degli studi di Padova
Soluzioni al questionario: 3#1#1#4#3#2#3#4
I rapporti di prova forniti dal laboratorio documentano che tutti i campioni analizzati hanno fatto
segnare valori inferiori a quelli di riferimento come valori massimi tollerabili, che riporto qui di
seguito:
per l’ABTV non si devono superare i 250-300 mg/kg di prodotto
per la TMA non si devono superare i 100 mg/kg di prodotto
per la FA non si devono superare i 10 mg/kg di prodotto.
Le analisi sensoriali condotte sui prodotti ittici scongelati, sia a crudo che cotti, non fanno rilevare
alcuna sensibile modificazione delle caratteristiche organolettiche del pescato e nemmeno
l’esame microbiologico evidenzia particolari condizioni sfavorevoli nelle singole partite esaminate.
I controlli analitici hanno, quindi, dato esito del tutto favorevole. Per contro, la norma
dell’etichettatura impone che vadano tolti dal commercio i soli alimenti con data di scadenza
scaduta. Nel nostro caso, invece, i prodotti della pesca congelati riportavano in etichetta un TMC
superato, il che non ne fa automaticamente oggetto di sequestro e distruzione.
Si tratta di valutare se il prodotto che ha superato la vita commerciale datagli dal produttore, si
presenti ancora in buone condizioni di conservazione e se sia, quindi, ancora idoneo al consumo
umano.
Nel nostro caso, non essendovi dati che avvalorano un giudizio negativo, le partite di prodotto
possono essere nuovamente confezionate, con un altro TMC, senza che ciò comporti alcun
rischio evidente per la salute del consumatore.
Qualora, invece, una o più partite avessero presentato qualche anomalia di caratteristiche
sensoriali e/o valori analitici superiori ai criteri sopra indicati, sarebbe stato logico sottrarle al
consumo umano e destinarle alla distruzione come “rifiuti speciali” di categoria 3.
CASO 7: Caso di zoppia acuta in seguito ad investimento
Autori: Piras Lisa Adele, Peirone Bruno Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino
Soluzioni al questionario: 1#3#4#4#3#1#3#4
La diagnosi di lussazione traumatica d’anca viene formulata sulla base dell’anamnesi, dell’esame
obiettivo particolare e dello studio radiografico. Nell’anamnesi i proprietari riportano un episodio
traumatico con insorgenza acuta di zoppia caratterizzata da mancato appoggio dell’arto. Alla
visita si evidenzia tumefazione a livello della groppa e asimmetria del grande trocantere. La
flesso-estensione dell’articolazione dell’anca evoca una risposta algica.
Spesso la lussazione è secondaria a traumi ad alto livello di energia e pertanto nel 55% dei
pazienti non è l’unica alterazione presente. In questi pazienti è fondamentale, prima di eseguire
la riduzione della lussazione, effettuare le seguenti procedure:
a) procedere alla stabilizzazione del paziente
b) eseguire l’’esame radiografico del torace e dell’addome
valutare la presenza di altre alterazioni muscolo scheletriche.
Lo studio radiografico deve essere eseguito nelle proiezioni standard ventro-dorsale ad arti estesi
e medio-laterale, al fine di identificare la direzione della lussazione ed escludere la presenza di
fratture articolari.
Per ridurre l’incidenza di recidiva è fondamentale escludere i pazienti che presentano fratture
articolari, segni di artrosi secondaria a pregressa displasia d’anca e in cui sia intercorso un
periodo superiore alle 72 ore. Il tentativo di riduzione della lussazione deve essere praticato in
anestesia generale. Nel caso in cui il paziente sia considerato a rischio è possibile tentare la
riduzione con sedazione e anestesia epidurale. Dopo aver ridotto l’articolazione è necessario
effettuare movimenti di flesso-estensione per rimuovere porzioni di capsula, di legamento rotondo
e l’ematoma dalla cavità acetabolare. Si esegue quindi un bendaggio. Nei pazienti affetti da
fratture acetabolari o fratture della testa del femore la riduzione è impossibile.
In caso di lussazioni cranio-dorsali è consigliabile praticare il bendaggio di Ehmer per 10-14
giorni. In caso di lussazioni ventrali è preferibile la pastoia.
Nel 62% dei casi in cui si ottenga la riduzione dell’articolazione coxo-femorale non è manifesta
zoppia. Si rileva crepitio articolare nel 32% dei pazienti e dolore nel 48% dei casi. Il 92% dei
pazienti presenta Range of Motion nella norma. Il 55%-62% dei pazienti presenta sviluppo di
osteoartrosi.
La riduzione a cielo chiuso, nel caso in cui si esegua una corretta selezione del paziente, può
recidivare comunque nel 50% dei pazienti. In questi casi si opterà pertanto per la riduzione e
stabilizzazione a cielo aperto.
TIPO DI
LUSSAZIONE
RIDUZIONE
TRATTAMENTO
BENDAGGIO
RECIDIVA
Cranio-dorsale
a cielo chiuso
Bendaggio
Ehmer
50%
Ventrale
a cielo chiuso
Bendaggio
Pastoia
rara
Cranio-dorsale
a cielo aperto
Capsulorrafia
Ehmer
10-17%
Cranio-dorsale
a cielo aperto
Capsula
sintetica
Ehmer
0-34%
Cranio-dorsale
a cielo aperto
Chiodo
transarticolare
-
40%
Cranio-dorsale
a cielo aperto
Toggle rod
-
11%
Cranio-dorsale
a cielo aperto
Sutura di
Slocum
Ehmer
0%
Cranio-dorsale
a cielo aperto
Ostectomia
della testa e del
collo femorale
-
-
Tabella 2: : Trattamento della lussazione traumatica d’anca
CASO 8: Controlli sanitari in un allevamento di bufale
Autori: Valerio Giaccone(1), Giuseppe Di Loria(2), Giovanni Cassella(2)
(1) Dipartimento di Medicina animale, Produzioni e Salute, Università di Padova
(2) Dipartimento di Prevenzione ASL di Caserta, Servizio Veterinario, Servizio di
Igiene degli Alimenti di O.A.
Soluzioni al questionario: 3#4#3#4#3#2#4#3
I reperti ispettivi confermano macroscopicamente la diagnosi di tubercolosi, nella tipica forma di
generalizzazione precoce protratta. In base al Reg. CE n.854/04, All. I, sezione IV, capo IX
(gestione dei rischi specifici), la carcassa della bufala è sequestrata in toto e destinata a
distruzione, come rifiuto speciale di categoria I, in quanto riconosciuta affetta da una patologia a
carattere zoonosico. Il citato Reg. n.854/04, al punto 2 della voce Tubercolosi, recita infatti:
“Tutte le carni di animali nelle quali l’ispezione post mortem ha rivelato lesioni tubercolari
localizzate in una serie di organi o in una serie di zone della carcassa, sono dichiarate non
idonee al consumo umano”.
La diagnosi macroscopica in macello è stata poi confermata con esame istopatologico e
isolamento dalle lesioni di un ceppo di Mycobacterium che con tecniche di biologia molecolare è
stato identificato come Mycobacterium bovis.
Si è trattato di un caso classico di TB sostenuto da Myc. bovis, che è il principale agente di
tubercolosi negli animali, là dove nell’uomo la principale fonte di TB resta ancor’oggi
Mycobacterium tuberculosis (Hunter, 2011).
I reperti ispettivi emersi alla visita post mortem hanno confermato che si trattava di una
generalizzazione precoce protratta, diffusa in più organi ed apparati. Questo fatto ha motivato il
sequestro e la distruzione dell’intera carcassa, così come previsto dal Reg. CE n.854/04. La
carcassa e le frattaglie sono state avviate a distruzione come materiali specifici a rischio di
Categoria I, come previsto dalle normative comunitarie vigenti in materia di smaltimento dei
sottoprodotti delle industrie alimentari.
L’allevamento di bufale da cui proveniva il capo infetto ha perso temporaneamente la qualifica di
“ufficialmente indenne”, ma il latte degli animali sani può essere destinato a uso alimentare
umano, previa autorizzazione dei Veterinari di AUSL, e a patto che il latte stesso sia sottoposto a
un processo di lavorazione che assicuri con buona sicurezza la devitalizzazione dei mycobatteri
(trattamenti termici o trasformazione in formaggi con almeno 2 mesi di stagionatura).
A margine, possiamo annotare come bovini e bufalini siano animali molto resistenti alle patologie:
lesioni cospicue come quelle osservate post mortem, infatti, non hanno provocato alcun segno
clinico specifico nell’animale visitato in vita, che appariva clinicamente sano. Si conferma, quindi,
il ruolo del macello come osservatorio epidemiologico di patologie a carattere zoonosico che
devono essere debellate fra gli animali da reddito.
CASO 9: La storia di Miky, un cane con la testa storta
Autori:
Prof. Buracco Paolo,Ordinario di Clinica Chirurgica Veterinaria presso la Facoltà di
Medicina Veterinaria di Grugliasco (Torino)
Soluzioni al questionario: 4#1#2#2#2#2#4#2
Otite terminale, unico intervento possibile l’ablazione totale del condotto auricolare (TECA)
Visti i rilievi anamnestici (malattia protratta con miglioramento solo parziale ma soprattutto non
duraturo) e quelli clinici, citologici e di diagnostica per immagini, si conclude che Miky è affetto da
c.d. otite terminale, cioè di una patologia infettiva cronica dell’orecchio esterno ormai refrattaria a
ogni tipo di trattamento medico e che la patologia è soprattutto grave a destra.
Per quanto riguarda la diagnostica differenziale, le possibilità sono poche e le uniche potenziali
“sorprese” possono derivare dal rilievo di una neoplasia a livello del condotto auricolare esterno
(con infezione secondaria, o secondaria al processo infettivo cronico) e/o di un corpo estraneo
(tipo arista di graminacea). Si conclude con il proprietario di considerare comunque in prima
istanza la malattia come tumorale-esente e di affidare all’istopatologia post-chirurgica il compito
di emettere la diagnosi definitiva.
E’ quindi proposta e accettata, in due sedute operatorie successive a distanza di 1 mese una
dall’altra, l’ablazione totale del condotto auricolare (TECA) seguita da bullotomia laterale (LBO)
per la pulizia di entrambe le bolle timpaniche (c.d. TECA-LBO).
Le due TECA-LBO sono eseguite con successo (a destra ritrovata anche un’arista di
graminacea) e senza complicanze (Figg. 5 e 6). Entrambi i padiglioni auricolari, vista la loro
deformazione, sono stati anch’essi asportati (Figg. 7 e 8). L’esame istologico, eseguito su
entrambi i condotti, e quello citologico sul materiale rilevato a livello delle bolle, non ha rilevato
presenza di neoplasia ma solo di infiammazione cronica con metaplasia del condotto cartilagineo
e, a distanza di oltre 2 anni Miky, è in buona salute. La diagnosi definitiva, post-chirurgica e dopo
le opportune valutazioni istologiche, è quindi di otite esterna terminale bilaterale, più grave a
destra.
La resezione del condotto verticale e orizzontale e bullotomia ventrale (TECA + LBO) è
l’intervento di elezione per le otiti esterne “ultimo stadio” associate o meno a otite media (Mason
et al 1988, Beckman et al 1990). L’isolamento del condotto è operato mantenendosi
rigorosamente aderenti alla cartilagine. Le strutture alle quali è importante prestare attenzione
sono: ghiandola parotide, nervo facciale e vena retroglenoidea. Tamponi per colture batteriche
sono eseguiti a livello dell’orecchio esterno prima di accedere alla bolla e a livello di quest’ultima
prima di procedere al suo drenaggio e pulizia. Il lavaggio della bolla è eseguito con 1-2 litri di
soluzione
fisiologica
sterile
(esclusivamente!)
tiepida
non
immessa
a
pressione
e
immediatamente aspirata. L’applicazione di drenaggi non è opportuna e il successo
dell’intervento (da considerarsi “di salvataggio”) è legato alla completa rimozione della cute del
condotto auricolare esterno e di tutta la mucosa e di tutti i detriti presenti in bolla (Devitt et al
1997).
Antibiotici e gestione del dolore associato a TECALBO. La terapia antibiotica, da iniziarsi sin da
subito con antibiotici ad ampio spettro e poi eventualmente modificata sulla base dei risultati delle
colture microbiologiche e dei test di sensibilità, va protratta per almeno 2-3 settimane. Il dolore
post-operatorio è intenso ma se la gestione del dolore è corretta l’intervento può anche essere
eseguito bilateralmente nella stessa seduta. L’analgesia deve già iniziare pre-operatoriamente e
protrarsi intra- e post-operatoriamente (FANS, oppiacei). Sono stati proposti anche lo “splash
block” (con bupivacaina 0,5% direttamente in bolla), blocchi tronculari e l’infusione locale
continua di lidocaina (Wolfe et al 2006, Abelson et al 2009).
Fig. 5: aspetto intraoperatorio della bolla timpanica dopo pulizia. Si evidenziano la sua corticale
mediale e il nervo facciale a ridosso della sua apertura.
Fig. 6: aspetto del condotto calcificato (aperto) di Micky
Fig. 7: aspetto del padiglione auricolare destro deformato di Micky
Fig. 8: aspetto clinico di Miky dopo le due TECA-LBO
COMPLICANZE
TECALBO
Emorragia
intraoperatoria
CAUSE
PROVVEDIMENTO DA ADOTTARE
A) V. retrogleonoidea (o
retroarticolare). Emostasi difficile per
retrazione vena nel forame.
A) LBO: estendere apertura bolla in
senso craniale al massimo fino a
processo zigomatico osso temporale,
senza però giungere al forame
retroglenoideo. Utilizzare cera d’ossa
per interrompere sanguinamento.
B) Arteria carotide esterna e vena
mascellare (ventrali alla bolla) per
errori durante scollamento
C) Arteria carotide interna: emorragia
dall’interno della cavit{ per
osteomielite o rottura, durante il
courettage della bolla, dell’osso che
divide la bolla stessa dal canale
carotideo).
B) Legatura
C) Legatura carotide comune e/o lo
stipamento con garza fino al giorno
successivo (Smeak 2011)
Difficoltà operative
Alterazioni
dell’anatomia
della
regione (soprattutto cani brachicefali)
+/- ossificazione del condotto e
tumori)
Attenzione particolare
Edema faringeo
A)specie in caso di TECALBO
bilaterale e/o soluzione fisiologica di
lavaggio addizionata con sostanze
potenzialmente allergeniche (ad es.
Betadine). Ne consegue ostruzione
respiratoria alta
A)Tracheotomia d’urgenza
B)
Rimuovere
bendaggio
trattamento sintomatico
e
B)bendaggio protettivo applicato
dopo TECALBO in un brachicefalo
(Smeak 2011)
Danni nervo facciale (da
stiramento, resezione)
Neuropraxia – risoluzione nel 90% dei
casi dopo diverse settimane.
In caso di sezionamento accidentale si
può tentare neuroraffia
Se
Nell’immediato post-operatorio è
opportuno utilizzare lacrime artificiali
stiramento
è
più
grave
(axonotmesi) o il nervo facciale è
sezionato, la perdita di funzione è
permanente.
Di norma non si assiste
cheracongiuntivite secca.
a
Essudazione dalla ferita
chirurgica
fino
a
deiscenza (entro i primi
15 gg)
In genere per infezione e cellulite
Problemi
vestibolari
(otite interna)
Evitare durante pulizia della bolla la
sua parte dorso-mediale
(testa ruotata
costantemente, nistagmo
orizzontale, debolezza
posturale e perdita
dell’udito per disfunzione
del n. vestibolococleare)
Horner
ma successivamente tale necessità
viene meno. In caso di esoftalmia
(alcune razze), è possibile il rischio di
cheratite e ulcera corneale, fino alla
perdita dell’occhio
Terapia antibiotica e gestione della
ferita
Se segni vestibolari presenti già preop., possibile peggioramento post-op. .
Possono perdurare per settimanemesi.
Se assenti pre-op. e compaiono nel
post-op. la durata è variabile ma in
genere non oltre 1 mese
Rara nel cane.
Tende a protrarsi nel gatto ma spesso
diminuisce d’intensit{ con il passare
del tempo
Necrosi del
auricolare
padiglione
Perdita udito
Rara.
Danno alla vascolarizzazione (parte
caudale del padiglione) durante
dissezione mediale della parte
verticale del condotto (Smeak 2011)
Spesso già preop. per patologia.
TECALBO: ossicini non più presenti
(osteomielite) o rimossi durante
osteotomia bolla
Avvertire proprietario.
Ricorrere ai BAER (“brainstem
auditory evoked response”) pre-op. e
post-op.
POST-TECALBO: variabile; possibilità
di udito legata a potenziale
trasmissione ossea (Krahwinket et al
1993)
Prognosi dubbia (Smeak 2011)
Dermatite del padiglione
(cane)
Malattia dermatologica progressiva
e/o incompleta rimozione di tessuto
proliferato alla base del padiglione
Trattare la malattia dermatologica
Collezione di essudato (o recidiva di
tumori o colesteatoma)
il solo trattamento antibiotico è in
genere inefficace (Smeak et al 1996,
Scuotimento
frequente
dell’orecchio
e
autotraumatismo (Smeak
2011).
Infezione profonda /
ascessualizzazione
e
fistolizzazione (anche a
Revisione
chirurgica
all’asportazione del padiglione
fino
distanza di mesi)
(grattamento,
scuotimento
prudente
testa,
dolore,
testa
ruotata)
Smeak 2011).
Drenaggio chirurgico (approccio
laterale alla bolla, se possibile, o
ventrale (bullotomia ventrale) e
terapia antibiotica
CASO 10: Un Provolone un po’ troppo “piccante”
Autori: Valerio Giaccone(1), Marcello Ferioli(2), Andrea Gazzetta(2)
(1)Dipartimento di Medicina animale, Produzioni e Salute animale, Università degli
Studi di Padova.
(2)Laboratorio EptaNord, Conselve, Padova.
Soluzioni al questionario: 3#4#1#4#3#4#4#3
Siamo, quindi, di fronte a un caratteristico episodio di intossicazione da ammine biogene,
verosimilmente provocato in compartecipazione da istamina e tiramina, tenute presenti le
quantità delle due ammine biogene determinate. Sappiamo che una dose superiore a 40 mg/kg
di ammine biogene è considerata potenzialmente pericolosa per un essere umano (Valsamaki et
al., 2000).
Il produttore del formaggio, prontamente avvisato, ha provveduto a rintracciare il resto della
partita e a ritirarla dal consumo, a titolo precauzionale.
Le ammine biogene sono composti azotati di basso peso molecolare che derivano dalla
decarbossilazione degli aminoacidi: da ognuno di essi, per eliminazione di un radicale –COOH si
ottiene un’ammina (dall’istidina l’istamina, dalla tirosina la tiramina e così via …).
Dal punto di vista chimico, le ammine biogene si possono distinguere in aromatiche (tiramina e
feniletilamina), alifatiche (putrescina, cadaverina, spermina) ed eterocicliche (istamina,
triptamina). Come effetti sull’organismo umano esse si possono, invece, suddividere in
neuroattive e vasoattive (istamina, tiramina, triptamina, feniletilamina) che sono poi quelle che ci
interessano di più dal punto di vista dell’igiene degli alimenti (Silla-Santos, 1996)
La decarbossilazione degli aminoacidi può essere fatta dagli stessi enzimi presenti nelle carni
(ma si tratta di una reazione piuttosto limitata che incide poco sulla quantità di ammine prodotte)
e soprattutto da enzimi prodotti da batteri. La frazione di ammine biogene prodotte dagli enzimi
della frollatura, insomma, è marginale (10%) rispetto a quella prodotta dai microrganismi (90%
delle ammine prodotte).
La capacità dei batteri di ricavare ammine dagli aminoacidi è molto variabile secondo il gruppo di
germi, la specie e addirittura il ceppo all’interno di una stessa specie. Per sintetizzare, possiamo
dire che sono forti produttori di ammine biogene alcune specie di enterobatteri (quali Morganella,
Hafnia, Citrobacter, Proteus, Enterobacter), molte specie di Bacillus e molte specie anche di
batteri lattici, gli agenti delle fermentazioni virtuose degli alimenti, formaggi compresi. Si è stimato
che il 48% dei ceppi di Lactobacillus che costituiscono la normale flora lattica degli alimenti
fermentati sia di per sé in grado di produrre ammine biogene. Anche gli Enterococcus e i
Lactococcus sono sovente in grado di produrre notevoli quantità di ammine biogene (Ladero et
al., 2008; Lanciotti et al., 2007; Martuscelli et al., 2005; Novella-Rodríguez et al., 2002; DelbèsPaus et al., 2012; Schirone et al., 2011).
Va anche sottolineato che gli stessi batteri che producono ammine biogene sono poi, spesso, in
grado anche di scindere ulteriormente queste ammine e renderle, quindi, meno pericolose (EnesDapkevicius et al., 2000; García-Ruiz et al., 2011; Herrero-Fresno et al., 2012).
Tiramina e feniletilamina sono dei vasocostrittori mentre le altre ammine, fra cui l’istamina, sono
dei vasodilatatori, ma gli effetti clinici sull’uomo sono analoghi, se nell’alimento se ne accumulano
quantità pericolose.
La sintomatologia dell’intossicazione da ammine biogene è caratterizzata da cefalea e nausea,
crisi di ipertensione o di collasso della pressione sanguigna e, soprattutto, sintomi di reazione
allergica, quali arrossamenti cutanei, bruciore del cavo orale e sensazioni di parestesia alla
lingua (punture di spillo). È raro, invece, che si segnalino problemi enterici quali la diarrea.
La sintomatologia sopra descritta tenderà ad essere tanto più grave e marcata, quanto maggiore
è la dose tossica di ammine che si è accumulata nell’alimento e che l’uomo ingerisce con il cibo.
In generale, i dati della letteratura scientifica ci dicono che i primi sintomi di intossicazione
possono esordire quando si superano i 500 mg/kg di prodotto, ma non è raro che negli alimenti si
possano accumulare anche oltre 1.000 mg/kg di ammine, con sintomi che sono a volte
particolarmente accentuati (fino allo shock anafilattico e al collasso ipotensivo).
Per questo motivo si suggeriscono anche dei limiti indicativi che i produttori di alimenti
dovrebbero cercare di rispettare per i loro prodotti. Questi limiti indicativi sono 50-100 mg/kg per
l’istamina, 100-800 mg/kg per la tiramina e meno di 30 mg/kg per la feniletilamina. Eerola e
collaboratori (1998) hanno proposto un limite indicativo di <200 mg/kg per le ammine biogene in
generale.
Va anche rilevato che ciascun gruppo di alimenti ha le “sue” ammine biogene caratteristiche che
dipendono, ovviamente, anche dalla quantità di amminoacido specifico da cui ciascuna di esse
deriva. Nei prodotti della pesca l’ammina più presente e più pericolosa è sempre l’istamina, per
cui si parla di istaminosi, mentre nei formaggi e nei prodotti di salumeria le ammine
maggiormente rappresentate sono la tiramina e la feniletilammina.