SOLUZIONI
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SOLUZIONI CASO 1: PRRSV, Porcine Reproductive Respiratory Sindrome virus. Autori: Prof. Franco Guarda,Università degli studi di Torino, Dipartimento di patologia animale Dott. Giovanni Loris Alborali Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna Responsabile Sezione diagnostica Dott. Giacomini Enrico Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna Sezione diagnostica Soluzioni al questionario: 4#1#4#1#4 Il virus della Porcine Reproductive Respiratory Sindrome (PRRS) appartenente alla famglia Arteriviridae è stato isolato per la prima volta nel nord America nel 1987 (1), mentre solo tre anni dopo in Europa. Oggi è endemico nel nostro Paese ed è un importante causa di patologia respiratoria nei soggetti in svezzamento e magronaggio e riproduttiva nelle scrofe. Inoltre questo virus gioca un ruolo di “door opener” rispetto a molti altri patogeni respiratori d'irruzione secondaria come: Streptococcus Suis (2), Haemophilus Parasuis (3), Salmonella choleraesuis (4) e Mycoplasma hyopneumoniae (5). L'infezione da PRRSV avviene per via respiratoria, l'organo bersaglio è il polmone e per la maggior parte dei ceppi dopo solo 12 ore si ha la fase viremica. Sette - quattordici giorni dopo l'infezione si ha il picco viremico con localizzazione virale nel sangue, linfonodi e polmoni (6), mentre al 28° giorno post-infezione i soggetti presentano un titolo virale nel siero insignificante. La sintomatologia riscontrata in episodi di PRRS è strettamente correlata alla virulenza del ceppo, alla sensibilità degli animali, alla loro immunità correlata a precedenti contatti con virus di campo o vaccinali e all'ambiente stesso. In situazioni di stress vi è un aumento della mortalità da PRRS suggerendo il fatto che il management aziendale quale temperatura ambientale, ventilazione e umidità contribuiscano a favorire la circolazione virale e la diminuzione della risposta immunitaria (7) Nelle scrofe l' infezione è caratterizzata da febbre 39-41°C, agalassia e cianosi cutanea più marcata nella regione auricolare (fig.3) aborto tardivo (dopo i 90 giorni di gestazione) con presenza di feti mummificati e di dimensione eterogenea. In soggetti nella fase di svezzamento e magronaggio la forma respiratoria e spesso associata a minor conversione giornaliera e incremento ponderale e spesso il virus è stato isolato anche da soggetti asintomatici (8). La diffusione del virus avviene per contatto diretto con i soggetti infetti o con le loro secrezioni. E’ stata dimostrata anche la trasmissione attraverso i secreti mammari di scrofe gravide e lo sperma di verri infetti . La trasmissione per via indiretta tramite acqua, personale, vettori e oggetti e altresì descritta in letteratura (6). Un’accurata anamnesi che comprenda il rilievo di una percentuale di mortalità in svezzamento compresa tra il 5 e il 40 % , una percentuale di aborti che varia dal 5 al 30 % ed un accurata visita aziendale che metta in evidenza una sintomatologia respiratoria con ipertermia, anoressia, dispnea e tosse rappresentano i primi stadi per la diagnosi di PRRS. Un corretto approccio diagnostico prevede inoltre l’esame anatomo patologico, indagini di laboratorio per confermare la presenza di PRRSV nei tessuti e nel sangue e per mettere in evidenza gli anticorpi specifici. Le lesioni macroscopiche comprendono una congestione poliorganica e la polmonite interstiziale spesso associata ad epatizzazione rossa polilobulare. La presenza di PRRSV può essere dimostrata tramite la ricerca dell’RNA virale in polmoni, linfonodi e sangue, mediante immunoistochimica e immunofluorescenza in campioni di polmone, milza, linfonodo e tonsille L’indagine sierologica tramite ELISA consente di evidenziare il titolo anticorpale ma non di distingue gli anticorpi da infezione o vaccinale. Considerata la variabilità dei ceppi di PRRSV circolanti può risultare utile ai fini epidemiologici procedere al sequenziamento del genoma virale in ORF 5 e/o ORF 7. La diagnosi differenziale in episodi di forme respiratorie e riproduttive deve essere effettuata nei confronti di: Influenza suina, PCV2, Enterovirus, Parvovirus, Leptospira, Mal rosso, Peste suina classica (6). Per il controllo di questa patologia sono disponibili sia vaccini spenti che vivi, ed è fondamentale mantenere un’ omogeneità di protezione della popolazione di scrofe in grado a loro volta di conferire protezione del suinetto attraverso l’immunità materna. Figura 3 Suinetto in svezzamento con evidente dimagrimento e sintomatologia respiratoria CASO 2: Uno “strano caso” di pigmentazione anomala nei prodotti della pesca Autori: Prof. Valerio Giaccone , dipartimento di medicina animale, produzioni e salute, università degli studi di Padova Soluzioni al questionario: 4#3#3#2#3#4#4#3 Nel caso specifico, è probabile che siamo di fronte a un processo di natura microbica. Le analisi di laboratorio rivelano che gli anelli di totano alterati avevano una carica microbica molto elevata (circa 300 milioni di ufc/g di prodotto) e che buona parte di questa flora microbica era formata da batteri Gram negativi nettamente aerobi attribuiti in prima istanza al genere Pseudomonas, ma poi classificati come Vibrionacee. L’identificazione del batterio ha portato a individuare una specie particolare, Photobacterium phosphoreum, che in effetti già altre volte è stato chiamato in causa come potenziale agente di difetti di colore specifici, come la “fosforescenza”. Tali difetti sono stati finora segnalati non solo in prodotti della pesca, ma anche in altri alimenti quali budini, prodotti a base di cioccolato, carni e pesci cotti, tramezzini. Il difetto di fosforescenza è di per sé insolito soprattutto per il fatto che sovente è tenue e l’uomo ne avverte la presenza solo quando gli alimenti che lo manifestano sono mantenuti in condizioni di penombra o al buio, come capita all’interno di frigoriferi a luce spenta, o nelle feste di compleanno, quando viene fatto momentaneamente buio per ovvi motivi. P. phosphoreum è un batterio che finora si è dimostrato del tutto innocuo per l’uomo e non è mai stato descritto come agente di malattia alimentare. Le conclusioni sono quindi che si è trattato di un caso di fosforescenza insorto in una partita di anelli di totano nella quale si era verificata un’eccessiva proliferazione di questi batteri pigmentanti che hanno dato origine al difetto. L’intera partita di prodotti è stata sottratta al consumo umano e distrutta come alimento “inadatto al consumo umano” ai sensi di quanto previsto dall’art. 14 del Regolamento CE n.178/2002 che vieta ai produttori di alimenti di mettere in commercio derrate che possano presentarsi, appunto, non idonee al consumo umano perché non presentano più le loro tipiche caratteristiche sensoriali di colore, odore, sapore e/o consistenza. CASO 3: Terapia anticonvulsiva presso un canile Autori: Prof. Franco Guarda,Università degli studi di Torino, Dipartimento di patologia animale Dott. Giovanni Loris Alborali Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna Responsabile Sezione diagnostica Dott. Giacomini Enrico Istituto zoo profilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna Sezione diagnostica Soluzioni al questionario: 3#1#2#3#4#2#2#4 La corretta gestione dell’iter terapeutico investe diversi aspetti della legislazione sul farmaco veterinario non solo relativi dall’uso in deroga e alle sue possibilità applicative piuttosto che alla tipologia di diagnosi per accedervi. Infatti il medico veterinario dovrà altresì valutare la figura demandata alla somministrazione del farmaco, le registrazioni eventualmente necessarie al fine della tracciabilità del farmaco, la tipologia di ricetta e la sua corretta compilazione nonché la responsabilità della gestione fisica del farmaco stesso. CASO 4: Storia di un gatto dispnoico “difficile” Autori: Prof. Buracco Paolo, ordinario di Clinica Chirurgica Veterinaria presso la Facolta di Med. Vet. di Grugliasco (Torino) Soluzioni al questionario: 3#1#2#2#1#3#4#1 La linfa, fisiologicamente, dopo essere transitata nella cisterna del chilo (caudale ai pilastri del diaframma, al di sotto della colonna vertebrale), percorre il torace dorsalmente all’aorta per terminare in vena cava craniale o in un suo ramo tributario. Il chilotorace è una patologia debilitante relativamente rara, sia nel cane sia nel gatto. Le cause conosciute sono riportate in tabella (5,7,8,10,12,15,17,21-26,32,38,46,49). Quando tutte le potenziali cause note sono escluse, il chilotorace è definito idiopatico (CI). Mentre nei casi a eziologia nota il trattamento è indirizzato alla patologia sottostante (ad es. escissione di una massa mediastinica), in caso di CI il trattamento è rivolto a risolvere esclusivamente l’effusione chilosa. Il trattamento medico (da protrarsi per almeno 3-4 settimane) si basa su diete a basso tenore di grassi, toracentesi ripetute e sulla somministrazione di rutina e/o di octreotide (33,50). L’efficacia della terapia medica è solo occasionale (8,27,50) e la chirurgia rappresenta l’opzione terapeutica più importante. Trattamenti quali shunt pleuroperitoneale (41,44), pleurodesi (1,8,29,35), embolizzazione del dotto toracico con cianoacrilato (40), fenestratura diaframmatica e scleroterapia (pleurodesi) sono solo occasionalmente utilizzati in medicina veterinaria (16). Gli interventi chirurgici in grado di indurre un drenaggio linfatico alternativo nel sistema venoso sono: 1) 2) legatura pre-diaframmatica del dotto toracico con filo di seta. La sua visualizzazione può essere agevolata mediante linfangiografia con mezzo di contrasto iodato o blu di metilene [più spesso a partire da un vaso linfatico mesenterico (3,4,6,8,20,22,25,32) oppure da un linfonodo popliteo (17,39), anche con utilizzo della TC (19,30)]. Dopo linfangiografia la legatura è selettiva, cioè limitata ai rami evidenziati (il dotto toracico può essere doppio e rami anomali possono eccezionalmente essere presenti anche ventralmente all’aorta). Al fine di abbreviare i tempi di anestesia, l’alternativa può essere legatura en bloc di tutto ciò che è dorsale all’aorta, comprendendo anche la vena azigos e le eventuali branche aberranti del dotto toracico, evitando così la linfangiografia preoperatoria (11,37,51); pericardiectomia subfrenica, da sola o in associazione alla chiusura del dotto toracico, al fine di favorire il flusso linfatico in vena cava craniale (25). La pericardiectomia trova anche giustificazione razionale nei casi con ispessimento/costrizione pericardica (12); 3) 4) 5) 6) 7) 8) ablazione della cisterna del chilo (associata o meno a linfangiografia mesenterica). Sino ad ora è stata considerata come procedura “di salvataggio” dopo fallimento delle tecniche precedenti (28,43,45); la legatura del dotto e la pericardiectomia possono essere eseguite, per lo meno nel cane, anche per via toracoscopica (2,42) omentalizzazione dello spazio pleurico (per via trans-diaframmatica o trans-costale). Allo stato attuale non è di norma consigliabile come opzione di prima scelta (11,14,34,52); se opportuno, singoli lobi polmonari possono essere rimossi se consolidati: l’approccio chirurgico può essere mediante doppia toracotomia laterale (5° per pericardio e 9°-10 per dotto toracico, a destra nel cane e a sinistra nel gatto), paracostale [per dotto e cisterna del chilo (47)], o sternotomico (14); prima di concludere la chirurgia, è bene posizionare un tubo toracostomico. Risultati della chirurgia 1) La risoluzione del versamento chiloso, se avviene, può essere rapida (entro pochi giorni), può protrarsi per un tempo variabile o continuare in forma di raccolta non chilosa ma siero-emorragica, anche in questo caso per un tempo variabile; 2) la risoluzione del versamento chiloso dopo legatura selettiva (post-linfangiografia) del dotto toracico (eventualmente associata ad ablazione della cisterna del chilo) varia tra il 20% e l’80% (2,6,8,21,25,26,31,45,49); 3) associazione legatura selettiva del dotto toracico e pericardiectomia: risoluzione del versamento nell’80 -100% dei cani e 75-80% dei gatti (2,13,25); 4) sola legatura en bloc (non selettiva, cioè non preceduta da linfangiografia al fine di abbreviare i tempi operatori): risoluzione nel 50% dei casi (6,37,51). Se associata a pericardiectomia subfrenica, la risoluzione a lungo termine è dell’80% (cane) e 75% (gatto) (11); 5) contemporanea omentalizzazione pleurica: al momento non sembra migliorare le percentuali di successo (11,48); 6) in caso di fallimento: proponibile l’ablazione della cisterna del chilo (11) e/o l’omentalizzazione; 7) lavori più recenti propongono come prima scelta la legatura del dotto e la contemporanea ablazione della cisterna (36,47). POSSIBILI CAUSE DI CHILOTORACE Cardiomiopatia Esclusa nel nostro paziente Insufficienza cardiaca destra Esclusa nel nostro paziente Ostruzione della vena cava craniale Esclusa nel nostro paziente Malattie del pericardio Ispessito ma ritenuto secondario Malattie cardiache congenite Escluse nel nostro paziente Alterazioni congenite del dotto toracico Non probabili nel nostro paziente vista l’età; linfangiografia non eseguita Masse occupanti spazio nel mediastino Escluse nel nostro paziente anteriore (soprattutto linfoma e timoma) Torsione di lobi polmonari Esclusa nel nostro paziente Ernia diaframmatica o peritoneopericardica Escluse nel nostro paziente Granulomi fungini Esclusi nel nostro paziente Corpi estranei Escluso nel nostro paziente – no infezione Rottura traumatica o iatrogenica del dotto Difficile da dimostrare toracico Linfangiectasia sistemica Difficile da dimostrare Chilopericardio primario, poi chilotorace Segnalato un solo caso in letteratura (9), difficile da dimostrare nel nostro caso considerato che il gatto è stato condotto a visita già con chilotorace conclamato Filariosi nel gatto (5,17) Rara, esclusa nel nostro paziente Idiopatico (se nessuna causa è identificata) DIAGNOSI PIU’ PROBABILE CASO 5: Visita in allevamento di bovini da carne Autori: Prof. Franco Guarda,Università degli studi di Torino, Dipartimento di patologia animale Dott. Giovanni Loris Alborali Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna Responsabile Sezione diagnostica Dott. Giacomini Enrico Istituto zooprofilattico sperimentale Lombardia Emilia Romagna Sezione diagnostica Soluzioni al questionario: 4#1#4#2#2#3#1#4 La rinotracheite infettiva dei bovini è una malattia virale causata da un herpesvirus (BHV1) appartenente alla Famiglia Herpesviride , Sottofamiglia Alphaherpesvirineae , Genere Varicellovirus. Può manifestarsi in due forme principali, la prima colpisce l’apparato respiratorio dando appunto un quadro di rinotracheite (IBR) e in misura minore cheratocongiuntivite, la seconda forma invece è a carico dell’apparato genitale e si manifesta con vulvovaginite pustolosa (IPV), balanopostite pustolosa.Il virus può dare anche aborto e encefaliti nei soggetti più giovani. La trasmissione può avvenire sia per via respiratoria, tramite contatto diretto tramite secrezioni respiratorie, oculari degli animali,che per via genitale in corso di monta naturale. L’IBR non è una zoonosi. Tramite le mucose il virus entra nell’organismo, si replica abbondantemente e passando nelle diverse cellule provoca necrosi. Durante la fase viremica è associato ai leucociti e può raggiungere bersagli secondari quali utero, placenta, feto, ovaia e testicolo. Tramite i nervi periferici che innervano i bersagli primari il virus può raggiungere il sistema nervoso centrale. La diffusione neurogena svolge un ruolo importante nell’istaurarsi dell’infezione latente nei gangli nervosi. La secrezione del virus BHV1 avviene per circa 8-16 giorni dall’inizio dell’infezione. Il virus dell’IBR come tutti gli herpesvirus rimane allo stato latente e si hanno recrudescenze in corso di particolari stress subiti dagli animali, per esempio il traporto, il cambio repentino d’alimentazione, il parto, il sovraffollamento o la competizione fra i soggetti. Il virus si conserva per alcuni mesi in ambienti freddi, è invece labile in quelli caldi; sopravvive 15 minuti a 60°C. In condizioni di pH compreso fra 6 e 9 cioè lo stesso dell’apparato respiratorio e genitale il virus è stabile. Per la prevenzione dell’IBR è importante attuare misure sia di profilassi diretta che indiretta. La profilassi diretta prevede l’utilizzo di materiale seminale indenne, l’introduzione di animali solamente dopo un periodo di quarantena in cui si condurranno due prelievi di controllo. La profilassi indiretta prevede la messa in opera di un piano vaccinale, utilizzando vaccini vivi attenuati o inattivati, ripetuti ogni sei mesi dopo aver attuato due vaccinazioni di base. CASO 6: Il caso dei prodotti congelati “scaduti” Autori: Prof. Valerio Giaccone , dipartimento di medicina animale, produzioni e salute, università degli studi di Padova Soluzioni al questionario: 3#1#1#4#3#2#3#4 I rapporti di prova forniti dal laboratorio documentano che tutti i campioni analizzati hanno fatto segnare valori inferiori a quelli di riferimento come valori massimi tollerabili, che riporto qui di seguito: per l’ABTV non si devono superare i 250-300 mg/kg di prodotto per la TMA non si devono superare i 100 mg/kg di prodotto per la FA non si devono superare i 10 mg/kg di prodotto. Le analisi sensoriali condotte sui prodotti ittici scongelati, sia a crudo che cotti, non fanno rilevare alcuna sensibile modificazione delle caratteristiche organolettiche del pescato e nemmeno l’esame microbiologico evidenzia particolari condizioni sfavorevoli nelle singole partite esaminate. I controlli analitici hanno, quindi, dato esito del tutto favorevole. Per contro, la norma dell’etichettatura impone che vadano tolti dal commercio i soli alimenti con data di scadenza scaduta. Nel nostro caso, invece, i prodotti della pesca congelati riportavano in etichetta un TMC superato, il che non ne fa automaticamente oggetto di sequestro e distruzione. Si tratta di valutare se il prodotto che ha superato la vita commerciale datagli dal produttore, si presenti ancora in buone condizioni di conservazione e se sia, quindi, ancora idoneo al consumo umano. Nel nostro caso, non essendovi dati che avvalorano un giudizio negativo, le partite di prodotto possono essere nuovamente confezionate, con un altro TMC, senza che ciò comporti alcun rischio evidente per la salute del consumatore. Qualora, invece, una o più partite avessero presentato qualche anomalia di caratteristiche sensoriali e/o valori analitici superiori ai criteri sopra indicati, sarebbe stato logico sottrarle al consumo umano e destinarle alla distruzione come “rifiuti speciali” di categoria 3. CASO 7: Caso di zoppia acuta in seguito ad investimento Autori: Piras Lisa Adele, Peirone Bruno Dipartimento di Patologia Animale, Università di Torino Soluzioni al questionario: 1#3#4#4#3#1#3#4 La diagnosi di lussazione traumatica d’anca viene formulata sulla base dell’anamnesi, dell’esame obiettivo particolare e dello studio radiografico. Nell’anamnesi i proprietari riportano un episodio traumatico con insorgenza acuta di zoppia caratterizzata da mancato appoggio dell’arto. Alla visita si evidenzia tumefazione a livello della groppa e asimmetria del grande trocantere. La flesso-estensione dell’articolazione dell’anca evoca una risposta algica. Spesso la lussazione è secondaria a traumi ad alto livello di energia e pertanto nel 55% dei pazienti non è l’unica alterazione presente. In questi pazienti è fondamentale, prima di eseguire la riduzione della lussazione, effettuare le seguenti procedure: a) procedere alla stabilizzazione del paziente b) eseguire l’’esame radiografico del torace e dell’addome valutare la presenza di altre alterazioni muscolo scheletriche. Lo studio radiografico deve essere eseguito nelle proiezioni standard ventro-dorsale ad arti estesi e medio-laterale, al fine di identificare la direzione della lussazione ed escludere la presenza di fratture articolari. Per ridurre l’incidenza di recidiva è fondamentale escludere i pazienti che presentano fratture articolari, segni di artrosi secondaria a pregressa displasia d’anca e in cui sia intercorso un periodo superiore alle 72 ore. Il tentativo di riduzione della lussazione deve essere praticato in anestesia generale. Nel caso in cui il paziente sia considerato a rischio è possibile tentare la riduzione con sedazione e anestesia epidurale. Dopo aver ridotto l’articolazione è necessario effettuare movimenti di flesso-estensione per rimuovere porzioni di capsula, di legamento rotondo e l’ematoma dalla cavità acetabolare. Si esegue quindi un bendaggio. Nei pazienti affetti da fratture acetabolari o fratture della testa del femore la riduzione è impossibile. In caso di lussazioni cranio-dorsali è consigliabile praticare il bendaggio di Ehmer per 10-14 giorni. In caso di lussazioni ventrali è preferibile la pastoia. Nel 62% dei casi in cui si ottenga la riduzione dell’articolazione coxo-femorale non è manifesta zoppia. Si rileva crepitio articolare nel 32% dei pazienti e dolore nel 48% dei casi. Il 92% dei pazienti presenta Range of Motion nella norma. Il 55%-62% dei pazienti presenta sviluppo di osteoartrosi. La riduzione a cielo chiuso, nel caso in cui si esegua una corretta selezione del paziente, può recidivare comunque nel 50% dei pazienti. In questi casi si opterà pertanto per la riduzione e stabilizzazione a cielo aperto. TIPO DI LUSSAZIONE RIDUZIONE TRATTAMENTO BENDAGGIO RECIDIVA Cranio-dorsale a cielo chiuso Bendaggio Ehmer 50% Ventrale a cielo chiuso Bendaggio Pastoia rara Cranio-dorsale a cielo aperto Capsulorrafia Ehmer 10-17% Cranio-dorsale a cielo aperto Capsula sintetica Ehmer 0-34% Cranio-dorsale a cielo aperto Chiodo transarticolare - 40% Cranio-dorsale a cielo aperto Toggle rod - 11% Cranio-dorsale a cielo aperto Sutura di Slocum Ehmer 0% Cranio-dorsale a cielo aperto Ostectomia della testa e del collo femorale - - Tabella 2: : Trattamento della lussazione traumatica d’anca CASO 8: Controlli sanitari in un allevamento di bufale Autori: Valerio Giaccone(1), Giuseppe Di Loria(2), Giovanni Cassella(2) (1) Dipartimento di Medicina animale, Produzioni e Salute, Università di Padova (2) Dipartimento di Prevenzione ASL di Caserta, Servizio Veterinario, Servizio di Igiene degli Alimenti di O.A. Soluzioni al questionario: 3#4#3#4#3#2#4#3 I reperti ispettivi confermano macroscopicamente la diagnosi di tubercolosi, nella tipica forma di generalizzazione precoce protratta. In base al Reg. CE n.854/04, All. I, sezione IV, capo IX (gestione dei rischi specifici), la carcassa della bufala è sequestrata in toto e destinata a distruzione, come rifiuto speciale di categoria I, in quanto riconosciuta affetta da una patologia a carattere zoonosico. Il citato Reg. n.854/04, al punto 2 della voce Tubercolosi, recita infatti: “Tutte le carni di animali nelle quali l’ispezione post mortem ha rivelato lesioni tubercolari localizzate in una serie di organi o in una serie di zone della carcassa, sono dichiarate non idonee al consumo umano”. La diagnosi macroscopica in macello è stata poi confermata con esame istopatologico e isolamento dalle lesioni di un ceppo di Mycobacterium che con tecniche di biologia molecolare è stato identificato come Mycobacterium bovis. Si è trattato di un caso classico di TB sostenuto da Myc. bovis, che è il principale agente di tubercolosi negli animali, là dove nell’uomo la principale fonte di TB resta ancor’oggi Mycobacterium tuberculosis (Hunter, 2011). I reperti ispettivi emersi alla visita post mortem hanno confermato che si trattava di una generalizzazione precoce protratta, diffusa in più organi ed apparati. Questo fatto ha motivato il sequestro e la distruzione dell’intera carcassa, così come previsto dal Reg. CE n.854/04. La carcassa e le frattaglie sono state avviate a distruzione come materiali specifici a rischio di Categoria I, come previsto dalle normative comunitarie vigenti in materia di smaltimento dei sottoprodotti delle industrie alimentari. L’allevamento di bufale da cui proveniva il capo infetto ha perso temporaneamente la qualifica di “ufficialmente indenne”, ma il latte degli animali sani può essere destinato a uso alimentare umano, previa autorizzazione dei Veterinari di AUSL, e a patto che il latte stesso sia sottoposto a un processo di lavorazione che assicuri con buona sicurezza la devitalizzazione dei mycobatteri (trattamenti termici o trasformazione in formaggi con almeno 2 mesi di stagionatura). A margine, possiamo annotare come bovini e bufalini siano animali molto resistenti alle patologie: lesioni cospicue come quelle osservate post mortem, infatti, non hanno provocato alcun segno clinico specifico nell’animale visitato in vita, che appariva clinicamente sano. Si conferma, quindi, il ruolo del macello come osservatorio epidemiologico di patologie a carattere zoonosico che devono essere debellate fra gli animali da reddito. CASO 9: La storia di Miky, un cane con la testa storta Autori: Prof. Buracco Paolo,Ordinario di Clinica Chirurgica Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Grugliasco (Torino) Soluzioni al questionario: 4#1#2#2#2#2#4#2 Otite terminale, unico intervento possibile l’ablazione totale del condotto auricolare (TECA) Visti i rilievi anamnestici (malattia protratta con miglioramento solo parziale ma soprattutto non duraturo) e quelli clinici, citologici e di diagnostica per immagini, si conclude che Miky è affetto da c.d. otite terminale, cioè di una patologia infettiva cronica dell’orecchio esterno ormai refrattaria a ogni tipo di trattamento medico e che la patologia è soprattutto grave a destra. Per quanto riguarda la diagnostica differenziale, le possibilità sono poche e le uniche potenziali “sorprese” possono derivare dal rilievo di una neoplasia a livello del condotto auricolare esterno (con infezione secondaria, o secondaria al processo infettivo cronico) e/o di un corpo estraneo (tipo arista di graminacea). Si conclude con il proprietario di considerare comunque in prima istanza la malattia come tumorale-esente e di affidare all’istopatologia post-chirurgica il compito di emettere la diagnosi definitiva. E’ quindi proposta e accettata, in due sedute operatorie successive a distanza di 1 mese una dall’altra, l’ablazione totale del condotto auricolare (TECA) seguita da bullotomia laterale (LBO) per la pulizia di entrambe le bolle timpaniche (c.d. TECA-LBO). Le due TECA-LBO sono eseguite con successo (a destra ritrovata anche un’arista di graminacea) e senza complicanze (Figg. 5 e 6). Entrambi i padiglioni auricolari, vista la loro deformazione, sono stati anch’essi asportati (Figg. 7 e 8). L’esame istologico, eseguito su entrambi i condotti, e quello citologico sul materiale rilevato a livello delle bolle, non ha rilevato presenza di neoplasia ma solo di infiammazione cronica con metaplasia del condotto cartilagineo e, a distanza di oltre 2 anni Miky, è in buona salute. La diagnosi definitiva, post-chirurgica e dopo le opportune valutazioni istologiche, è quindi di otite esterna terminale bilaterale, più grave a destra. La resezione del condotto verticale e orizzontale e bullotomia ventrale (TECA + LBO) è l’intervento di elezione per le otiti esterne “ultimo stadio” associate o meno a otite media (Mason et al 1988, Beckman et al 1990). L’isolamento del condotto è operato mantenendosi rigorosamente aderenti alla cartilagine. Le strutture alle quali è importante prestare attenzione sono: ghiandola parotide, nervo facciale e vena retroglenoidea. Tamponi per colture batteriche sono eseguiti a livello dell’orecchio esterno prima di accedere alla bolla e a livello di quest’ultima prima di procedere al suo drenaggio e pulizia. Il lavaggio della bolla è eseguito con 1-2 litri di soluzione fisiologica sterile (esclusivamente!) tiepida non immessa a pressione e immediatamente aspirata. L’applicazione di drenaggi non è opportuna e il successo dell’intervento (da considerarsi “di salvataggio”) è legato alla completa rimozione della cute del condotto auricolare esterno e di tutta la mucosa e di tutti i detriti presenti in bolla (Devitt et al 1997). Antibiotici e gestione del dolore associato a TECALBO. La terapia antibiotica, da iniziarsi sin da subito con antibiotici ad ampio spettro e poi eventualmente modificata sulla base dei risultati delle colture microbiologiche e dei test di sensibilità, va protratta per almeno 2-3 settimane. Il dolore post-operatorio è intenso ma se la gestione del dolore è corretta l’intervento può anche essere eseguito bilateralmente nella stessa seduta. L’analgesia deve già iniziare pre-operatoriamente e protrarsi intra- e post-operatoriamente (FANS, oppiacei). Sono stati proposti anche lo “splash block” (con bupivacaina 0,5% direttamente in bolla), blocchi tronculari e l’infusione locale continua di lidocaina (Wolfe et al 2006, Abelson et al 2009). Fig. 5: aspetto intraoperatorio della bolla timpanica dopo pulizia. Si evidenziano la sua corticale mediale e il nervo facciale a ridosso della sua apertura. Fig. 6: aspetto del condotto calcificato (aperto) di Micky Fig. 7: aspetto del padiglione auricolare destro deformato di Micky Fig. 8: aspetto clinico di Miky dopo le due TECA-LBO COMPLICANZE TECALBO Emorragia intraoperatoria CAUSE PROVVEDIMENTO DA ADOTTARE A) V. retrogleonoidea (o retroarticolare). Emostasi difficile per retrazione vena nel forame. A) LBO: estendere apertura bolla in senso craniale al massimo fino a processo zigomatico osso temporale, senza però giungere al forame retroglenoideo. Utilizzare cera d’ossa per interrompere sanguinamento. B) Arteria carotide esterna e vena mascellare (ventrali alla bolla) per errori durante scollamento C) Arteria carotide interna: emorragia dall’interno della cavit{ per osteomielite o rottura, durante il courettage della bolla, dell’osso che divide la bolla stessa dal canale carotideo). B) Legatura C) Legatura carotide comune e/o lo stipamento con garza fino al giorno successivo (Smeak 2011) Difficoltà operative Alterazioni dell’anatomia della regione (soprattutto cani brachicefali) +/- ossificazione del condotto e tumori) Attenzione particolare Edema faringeo A)specie in caso di TECALBO bilaterale e/o soluzione fisiologica di lavaggio addizionata con sostanze potenzialmente allergeniche (ad es. Betadine). Ne consegue ostruzione respiratoria alta A)Tracheotomia d’urgenza B) Rimuovere bendaggio trattamento sintomatico e B)bendaggio protettivo applicato dopo TECALBO in un brachicefalo (Smeak 2011) Danni nervo facciale (da stiramento, resezione) Neuropraxia – risoluzione nel 90% dei casi dopo diverse settimane. In caso di sezionamento accidentale si può tentare neuroraffia Se Nell’immediato post-operatorio è opportuno utilizzare lacrime artificiali stiramento è più grave (axonotmesi) o il nervo facciale è sezionato, la perdita di funzione è permanente. Di norma non si assiste cheracongiuntivite secca. a Essudazione dalla ferita chirurgica fino a deiscenza (entro i primi 15 gg) In genere per infezione e cellulite Problemi vestibolari (otite interna) Evitare durante pulizia della bolla la sua parte dorso-mediale (testa ruotata costantemente, nistagmo orizzontale, debolezza posturale e perdita dell’udito per disfunzione del n. vestibolococleare) Horner ma successivamente tale necessità viene meno. In caso di esoftalmia (alcune razze), è possibile il rischio di cheratite e ulcera corneale, fino alla perdita dell’occhio Terapia antibiotica e gestione della ferita Se segni vestibolari presenti già preop., possibile peggioramento post-op. . Possono perdurare per settimanemesi. Se assenti pre-op. e compaiono nel post-op. la durata è variabile ma in genere non oltre 1 mese Rara nel cane. Tende a protrarsi nel gatto ma spesso diminuisce d’intensit{ con il passare del tempo Necrosi del auricolare padiglione Perdita udito Rara. Danno alla vascolarizzazione (parte caudale del padiglione) durante dissezione mediale della parte verticale del condotto (Smeak 2011) Spesso già preop. per patologia. TECALBO: ossicini non più presenti (osteomielite) o rimossi durante osteotomia bolla Avvertire proprietario. Ricorrere ai BAER (“brainstem auditory evoked response”) pre-op. e post-op. POST-TECALBO: variabile; possibilità di udito legata a potenziale trasmissione ossea (Krahwinket et al 1993) Prognosi dubbia (Smeak 2011) Dermatite del padiglione (cane) Malattia dermatologica progressiva e/o incompleta rimozione di tessuto proliferato alla base del padiglione Trattare la malattia dermatologica Collezione di essudato (o recidiva di tumori o colesteatoma) il solo trattamento antibiotico è in genere inefficace (Smeak et al 1996, Scuotimento frequente dell’orecchio e autotraumatismo (Smeak 2011). Infezione profonda / ascessualizzazione e fistolizzazione (anche a Revisione chirurgica all’asportazione del padiglione fino distanza di mesi) (grattamento, scuotimento prudente testa, dolore, testa ruotata) Smeak 2011). Drenaggio chirurgico (approccio laterale alla bolla, se possibile, o ventrale (bullotomia ventrale) e terapia antibiotica CASO 10: Un Provolone un po’ troppo “piccante” Autori: Valerio Giaccone(1), Marcello Ferioli(2), Andrea Gazzetta(2) (1)Dipartimento di Medicina animale, Produzioni e Salute animale, Università degli Studi di Padova. (2)Laboratorio EptaNord, Conselve, Padova. Soluzioni al questionario: 3#4#1#4#3#4#4#3 Siamo, quindi, di fronte a un caratteristico episodio di intossicazione da ammine biogene, verosimilmente provocato in compartecipazione da istamina e tiramina, tenute presenti le quantità delle due ammine biogene determinate. Sappiamo che una dose superiore a 40 mg/kg di ammine biogene è considerata potenzialmente pericolosa per un essere umano (Valsamaki et al., 2000). Il produttore del formaggio, prontamente avvisato, ha provveduto a rintracciare il resto della partita e a ritirarla dal consumo, a titolo precauzionale. Le ammine biogene sono composti azotati di basso peso molecolare che derivano dalla decarbossilazione degli aminoacidi: da ognuno di essi, per eliminazione di un radicale –COOH si ottiene un’ammina (dall’istidina l’istamina, dalla tirosina la tiramina e così via …). Dal punto di vista chimico, le ammine biogene si possono distinguere in aromatiche (tiramina e feniletilamina), alifatiche (putrescina, cadaverina, spermina) ed eterocicliche (istamina, triptamina). Come effetti sull’organismo umano esse si possono, invece, suddividere in neuroattive e vasoattive (istamina, tiramina, triptamina, feniletilamina) che sono poi quelle che ci interessano di più dal punto di vista dell’igiene degli alimenti (Silla-Santos, 1996) La decarbossilazione degli aminoacidi può essere fatta dagli stessi enzimi presenti nelle carni (ma si tratta di una reazione piuttosto limitata che incide poco sulla quantità di ammine prodotte) e soprattutto da enzimi prodotti da batteri. La frazione di ammine biogene prodotte dagli enzimi della frollatura, insomma, è marginale (10%) rispetto a quella prodotta dai microrganismi (90% delle ammine prodotte). La capacità dei batteri di ricavare ammine dagli aminoacidi è molto variabile secondo il gruppo di germi, la specie e addirittura il ceppo all’interno di una stessa specie. Per sintetizzare, possiamo dire che sono forti produttori di ammine biogene alcune specie di enterobatteri (quali Morganella, Hafnia, Citrobacter, Proteus, Enterobacter), molte specie di Bacillus e molte specie anche di batteri lattici, gli agenti delle fermentazioni virtuose degli alimenti, formaggi compresi. Si è stimato che il 48% dei ceppi di Lactobacillus che costituiscono la normale flora lattica degli alimenti fermentati sia di per sé in grado di produrre ammine biogene. Anche gli Enterococcus e i Lactococcus sono sovente in grado di produrre notevoli quantità di ammine biogene (Ladero et al., 2008; Lanciotti et al., 2007; Martuscelli et al., 2005; Novella-Rodríguez et al., 2002; DelbèsPaus et al., 2012; Schirone et al., 2011). Va anche sottolineato che gli stessi batteri che producono ammine biogene sono poi, spesso, in grado anche di scindere ulteriormente queste ammine e renderle, quindi, meno pericolose (EnesDapkevicius et al., 2000; García-Ruiz et al., 2011; Herrero-Fresno et al., 2012). Tiramina e feniletilamina sono dei vasocostrittori mentre le altre ammine, fra cui l’istamina, sono dei vasodilatatori, ma gli effetti clinici sull’uomo sono analoghi, se nell’alimento se ne accumulano quantità pericolose. La sintomatologia dell’intossicazione da ammine biogene è caratterizzata da cefalea e nausea, crisi di ipertensione o di collasso della pressione sanguigna e, soprattutto, sintomi di reazione allergica, quali arrossamenti cutanei, bruciore del cavo orale e sensazioni di parestesia alla lingua (punture di spillo). È raro, invece, che si segnalino problemi enterici quali la diarrea. La sintomatologia sopra descritta tenderà ad essere tanto più grave e marcata, quanto maggiore è la dose tossica di ammine che si è accumulata nell’alimento e che l’uomo ingerisce con il cibo. In generale, i dati della letteratura scientifica ci dicono che i primi sintomi di intossicazione possono esordire quando si superano i 500 mg/kg di prodotto, ma non è raro che negli alimenti si possano accumulare anche oltre 1.000 mg/kg di ammine, con sintomi che sono a volte particolarmente accentuati (fino allo shock anafilattico e al collasso ipotensivo). Per questo motivo si suggeriscono anche dei limiti indicativi che i produttori di alimenti dovrebbero cercare di rispettare per i loro prodotti. Questi limiti indicativi sono 50-100 mg/kg per l’istamina, 100-800 mg/kg per la tiramina e meno di 30 mg/kg per la feniletilamina. Eerola e collaboratori (1998) hanno proposto un limite indicativo di <200 mg/kg per le ammine biogene in generale. Va anche rilevato che ciascun gruppo di alimenti ha le “sue” ammine biogene caratteristiche che dipendono, ovviamente, anche dalla quantità di amminoacido specifico da cui ciascuna di esse deriva. Nei prodotti della pesca l’ammina più presente e più pericolosa è sempre l’istamina, per cui si parla di istaminosi, mentre nei formaggi e nei prodotti di salumeria le ammine maggiormente rappresentate sono la tiramina e la feniletilammina.