Testo Maddalo - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`

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Testo Maddalo - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`
SILVIA MADDALO
VIVIT ET NON VIVIT; MEMORIA E DAMNATIO MEMORIAE DI FEDERICO II
TRA ARTE E SCRITTURA DI STORIA
[…] Letentur celi et exultet terra, quod fulminis horrendi tempestas, qua
mirabilis et metuendus Dominus per prolixa temporum spatia universitatem vestram
sustinuit, vehementer affligi…, iam esse conversa videtur…
Si allietino i celi, esulti la terra…, è passato l’impeto del terribile fulmine: è
Innocenzo IV che, a pochi mesi di distanza dalla morte, improvvisa e inattesa, di
Federico II, pubblica una littera solemnis ‘indirizzata’ al clero e al popolo di Sicilia.
L’invettiva papale, venata di imprestiti dalla letteratura antica, suggella la vicenda
umana e politica dell’imperatore e avvia, per lui, il crepuscolo della memoria.
La metafora letteraria addensava di suggestioni antiche anche i versi, di segno
opposto, con i quali Pietro da Eboli aveva salutato, oltre mezzo secolo avanti, la
nascita del puer ‘provvidenziale’, sol sine nube, puer numquam passurus eclipsim,
come recita la particula XLIII del Liber ad honorem Augusti. E, nell’unico testimone
dell’opera, ai versi fa controcanto l’immagine del fanciullo imperiale consegnato alla
duchessa di Spoleto, pronta a riceverlo con le mani velate: imperatrix, Siciliam
repetens, benedictum filium suum ducisse dimisit, precisa il titulus. Nel registro
superiore la rappresentazione compendiaria delle tre palme richiama invece la
‘metafora botanica’ proposta dal poeta per Costanza e Federico ed evoca le forze
della natura che, tutte, all’unisono (per silvas, per humum, per mare), esultano per la
nascita del divino fanciullo.
Egualmente, all’inizio del terzo libro, Pietro da Eboli, prelevando a piene mani
da Virgilio e da Ovidio, ma anche da Lucano, celebrava, a ricalco della IV egloga
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virgiliana, l’avvento della mitica età dell’oro, inaugurata da Enrico VI e che Federico
avrebbe portato a compimento; e la celebrava con i versi, – «Fortunata dies, felix post
tempora tempus» - e con una doppia metafora paradisiaca, con l’immagine, ancora
una volta espressa con un linguaggio figurativo asciutto ed essenziale, del biblico
recinto dell’Eden e, in basso, della fons Aretusa, dei fiumi del Paradiso dai quali,
poiché tanta pax est tempore Augusti, tanto grande è la pace al tempo di Augusto (e
dell’Augusto), bibunt omnia animalia. Ed è ancora il titulus rubricato a fare da
tramite tra il testo della particola e l’immagine affrontata.
La peculiarità della vicenda federiciana, vicenda che si dipana lungo tutta la
prima metà del secolo XIII, sta proprio nel fatto che la costruzione della poderosa
impalcatura propagandistica, a connotazione fortemente celebrativa, di parte
imperiale e da parte imperiale, si fonda a un tempo sulla parola e sull’immagine e si
sostanzia di letteratura encomiastica, componimenti poetici, epistolografia, dottrina e
ius, da un lato, dall’altro di scultura, di glittica e di oreficeria, di coni di pregevole
fattura,di libri miniati, di architettura trionfale e di rappresentanza (poca la pittura
monumentale), in una parola di documenti figurativi. Parimenti, ma lo vedremo tra
breve, anche il declino della fortuna di Federico e poi il tramonto, talora lo
stravolgimento della sua memoria, trovano testimonianza nelle fonti scritte ma si
caricano forse di maggiore evidenza nell’obliterazione e nell’annullamento, in una
parola nella damnatio, talora anche nella dispersione e nella perdita del contesto di
riferimento, delle opere d’arte a lui legate, quelle realizzate sotto la sua committenza
o volute per celebrarlo, tutte caratterizzate dall’eccellenza qualitativa, molte
connotate da forti tensioni ideologiche.
Questo intreccio tra fonte scritta e fonte figurativa si verifica, non soltanto,
come nel caso del Carmen, composto, e in parte vergato personalmente da Pietro da
Eboli, comunque illustrato sotto la sua direzione, dove la compenetrazione tra testo e
immagine ha immediata e piena realizzazione, ma anche nei casi in cui, secondo
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quanto cercherò di proporre sulla base di pochi esempi, la trama dei rimandi si
individua e prende valore solo nella fitta tessitura delle interconnessioni storiche.
Tra i motivi ricorrenti della propaganda imperiale e filoimperiale, quello della
celebrazione dinastica è certo uno dei più antichi. Lo inaugura lo stesso Pietro da
Eboli che, muovendo da Goffredo da Viterbo (che era stato il primo cantore della
imperialis prosapia), esalta la nobile stirpe imperiale. Non solo nel Carmen de rebus
Siculis, dove i primi due libri hanno per tema l’epopea della dinastia normanna e il
terzo (il Liber ad honorem Augusti) l’esaltazione di Enrico VI, con il quale si
inaugura l’età dell’oro, nel segno della continuità con il felice e prospero regno di
Guglielmo II; ma anche nella postfazione dedicatoria del De balneis Puteolanis. Nel
De balneis l’ebolitano, che con il ruolo di poeta di corte attraversa quattro
generazioni (da Federico I ad Arrigo VII, primo nato di Federico II, passando
attraverso Enrico VI e Federico), declina nei toni dell’autobiografia una
peculiarissima genealogia sveva. Ed è significativo che il tema, uno dei più cari alla
produzione encomiastica, si trovi trattato anche in opere estranee alla propaganda
imperiale, per esempio nella ‘predica’ di quel Nicola da Bari che è forse da
identificare con l’abbas Barensis ecclesie diaconus, autore anche di un testo dal forte
sapore encomiastico in onore di Pier della Vigna.
Per ciò che concerne la produzione artistica, la celebrazione dinastica trova
compiuta espressione, anzitutto nella riorganizzazione, con il trasferimento intorno al
1215 dei due sarcofagi di porfido di Ruggero II (destinati uno a contenerne le spoglie,
l’altro a celebrare «insignem memoriam sui nominis») da Cefalù in quello
straordinario sepolcreto, all’interno della cattedrale di Palermo, che sarebbe stato poi
nominato “Cimitero reale”, ma anche in due opere che si ascrivono entrambe alla fase
ascendente della parabola federiciana. Nella prima, consistente in una serie di
pannelli (purtroppo perduti, ma noti da una fonte di poco più tarda) fatti dipingere da
Federico II sulla facciata della cattedrale di Cefalù, in un giro d’anni, tra il 1215 e il
1224, che rappresenta il periodo di maggior tensione all’autolegittimazione dinastica,
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viene celebrata l’intera genealogia normanna, da Ruggero I a Federico, passando
attraverso i due Guglielmi e Costanza. Né meno intrigante è la galleria, questa volta
eminentemente sveva, di ‘ritratti’ imperiali: Federico I, Enrico VI, Federico II e per
finire Corrado, ognuno raffigurato con attributi e atteggiamenti diversi, scolpita sulla
scala di accesso al pulpito di Bitonto, anno millesimo ducentesimo, vicesimo nono,
per volontà Nicola(i) sacerdo(tis) et magist(ri). Di Nicola, sacerdote e magister, che
nella realizzazione del pulpito dovette avere il ruolo di committente e forse anche
quello di artefice, si può proporre l’identificazione con l’autore della ‘predica’, cui
sopra si faceva riferimento, che si suppone tenuta nella cattedrale di Bitonto al ritorno
di Federico dalla crociata in Terra Santa, e in cui l’imperatore si era autoproclamato
re di Gerusalemme; i contenuti della predica, infatti, appaiono sottesi al peculiare
programma iconografico dell’ambone, in cui, tra l’altro, la decorazione a tralci
vegetali desinenti in fiori e grossi frutti scolpita sul fondo del rilievo, alle spalle della
genealogia sveva, alluderebbe, in una fitta trama simbolica che giustifica
l’assimilazione di Federico con il Figlio di Dio, al biblico albero di Jesse, allegoria
della genealogia di Davide.
Ancora dal barese Nicola, Federico è celebrato come sol in firmamento mundi;
e la tematica solare è un’altra costante della mitizzazione del sovrano svevo. Un
lunghissimo e assai saldo filo rosso unisce, nell’adesione a questa tematica, scrittori
anche geograficamente e cronologicamente distanti: per Pietro da Eboli Federico è
sol mundi (Suscipe sol mundi, recita il componimento di dedica del De balneis) e
come Sol Augustorum lo stesso poeta lucano aveva celebrato Enrico VI; come stupor
mundi… sol novus… lux, splendor / Sol de sole Federico II è cantato, in una climax di
straordinaria efficacia da Orofino da Lodi; nel rhythmus di Terrisio di Atina, poeta di
corte, Federico è Cesar, Augustus, multus mirabilis e «[…] Nullus in mundo Cesare
grandior / Nullus sub sole Cesare fortior…». La metafora solare si riverbera e si
articola, in chiave di ideologia teocratica, nella particola, ancora nel De balneis
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in essa lo Svevo è proposto, nei versi di Pietro da Eboli e nella trasposizione
allegorica che ne offre l’immagine affrontata con la raffigurazione dei due astri,
simboli della signoria sul mondo, come «ultimo imperatore dell’impero romano
antico», e, nel contempo, è assimilato, come fonte di salvezza, a Cristo salvatore. Alla
ideologia teocratica, che Federico andava maturando proprio negli anni nei quali
veniva concepito il De balneis (intorno alla fine del secondo decennio del Duecento),
e che avrebbe marchiato gli ultimi anni del regno, sembra fare riferimento, peraltro,
con un significativo capovolgimento delle teorie gregoriane sul Sole e la Luna quali
simboli rispettivamente di Chiesa e Impero, la posizione del sole che, nella miniatura
tratta dal codice Angelicano, sovrasta il crescente lunare, tracciato in basso e per di
più rovesciato, secondo uno schema iconografico assolutamente peculiare e, credo,
privo di precedenti. E in tale prospettiva, non è certo casuale che un’emissione, se
pure rarissima, degli augustali (che è stata definita a ragione la più bella moneta d’oro
del medioevo europeo e che riprendeva, con il ritratto imperiale sul dritto e l’aquila
impressa sul rovescio, modelli augustei) enfatizzasse, con la testa raggiata che si
ispirava ai nummi del tipo sol invictus, coniati dall’imperatore Costantino a partire
dal 311, la discendenza apollinea dello Svevo. Allo Svevo Giorgio Cartofilace,
archivista della chiesa greca di Gallipoli, aveva offerto due brevi componimenti, di
non comune reminiscenza classica e densi di imprestiti dalla cultura orientale, dove lo
rappresentava come Apollo-Helios; nella lettera, infine, che Manfredi inviò a
Corrado, all’indomani della morte di Federico, questi veniva rimpianto, con toni
ancora di sorgente virgiliana: «[…] Cecidit… sol mundi…, cecidit sol iustitie, auctor
pacis…». Sol iustitiae e sol salutis sono gli attributi con i quali viene annunciato
l’avvento di Cristo nella profezia di Malachia (4, 2): «Et orietur vobis timentibus
nomen meum sol iustitiae, et sanitas in pennis eius», e attengono dunque alla
cristomimesi dell’imperatore, la cui definizione – e ne è specchio un documento del
1239 (la lettera, ben nota, in cui la città di Iesi è detta Bethleem nostra) - aveva
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Rex iustus, dunque, pater et filius Iustitiae: nel proemio delle Constitutiones
melfitane (il così detto Liber Augustalis), che identificano la linea ufficiale della
politica federiciana, ma anche, all’interno della stessa magna curia, in un
componimento, accattivante e fazioso a un tempo, assegnato per tradizione a Pier
della Vigna, Federico è a un tempo pater et filius Iustitiae. Ancora nel preconium del
logoteta imperiale, lo svevo è esaltato come iuris conditor, iusticie conservator.
La metafora letteraria e politica di Federico II, divinità solare e amministratore
della giustizia, ma anche rex iustus, si traduce in forma monumentale nella porta di
Capua, con il suo multiforme corredo plastico: sull’arco di ingresso, in posizione
eminente, Federico si fece ritrarre in trono la testa raggiata, i simboli del potere
sovrano, ai lati i clipei con i busti dei giudici, Pier della Vigna e Taddeo da Sessa, al
di sotto il simulacro monumentale della Iustitia, che per i capuani poteva anche
identificare la Capua fidelis. La struttura stessa della porta, eretta, tra il 1234 e il
1239, a baluardo difensivo, aperto tra due possenti torrioni a pianta poligonale, e
maestoso arco di trionfo, si sostanziava di un richiamo a Roma, alla Roma imperiale,
alla Roma dei papi e dei Romani, che rappresentò sempre per Federico un mito
evocato e irraggiungibile.
Da questa data, con una coincidenza cronologica veramente singolare, sembra
prendere avvio la parabola discendente delle fortune imperiali. È l’anno, il 1239, in
cui – a breve distanza dalla vittoria di Cortenuova e dalla marcia verso Roma delle
spoglie trionfali del carroccio - l’imperatore viene colpito dalla seconda scomunica
papale. La bolla, che Gregorio IX indirizza all’arcivescovo di Reims e al re di
Francia, «[…] universis regibus… universis archiepiscopis set episcopis…», e che
condanna l’imperatore per l’‘eresia della disobbedienza’, è una pagina dalle intense
movenze figurative: Federico vi è descritto come bestia «[…] blasphemie plena
nominibus, que pedibus ursi et leonis ore deseviens, ac membris formata ceteris sicut
pardus….» – una bestia con le zampe di orso, il muso da leone e il corpo da leopardo
(e la metafora letteraria riverbera l’immagine di una dr lerie medievale), e ancora
come «[…] figulus falsitatis, modestie nescius et pudoris ignarus…», che gode
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nell’essere definito precursore dell’Anticristo - «[…] et gaudet se nominari
preambulum Antichristi». Sono gli anni, quelli che seguono, degli scontri sempre più
duri con la Lega lombarda, della perdita di Gerusalemme (1244), della nuova
scomunica, e della deposizione da parte di Innocenzo IV (1245), della congiura del
1246 che coinvolge alcuni dei suoi alleati più fedeli, della sconfitta di Vittoria (1248),
della cattura di re Enzo e della morte di Pier della Vigna (1249), gli anni nei quali i
cronisti, anche quelli di parte ghibellina (e penso a Francesco Pipino, che scrive
all’indomani della morte dell’imperatore), registrano la solitudine dello Svevo e il
declino della potere imperiale; gli anni che si concludono con la fine improvvisa, in
Puglia, a Castel Fiorentino. Nel contempo si va sgretolando, con l’amplificarsi dei
toni della propaganda mediatica di parte guelfa, il mito positivo di Federico: scrittori
come Salimbene de Adam e Niccolò da Calvi – nella sua Vita di Innocenzo IV,
Federico è descritto come corrotto, empio, fautore degli eretici, sodomita - si
collegano a una linea che origina nella storiografia laica e cittadina, ben rappresentata
ad esempio da Giovanni Codagnello (che scrive tra il 1299 e il 1230) o dal Chronicon
Faventinum. Mentre la propaganda, a carattere partitamente escatologico e
millenaristico, di sorgente gioachimita – che abbiamo visto si riverberava nella bolla
gregoriana del 1239 -, identifica Federico con l’Anticristo, con la bestia immonda
dell’Apocalisse giovannea. Tuttavia, poiché, come è stato giustamente sottolineato,
«[…] le variabili non si esauriscono affatto… nell’alternativa fra esaltazione e
condanna», ma si articolano su una pluralità di registri – e l’ambiguità connoterà la
rievocazione letteraria di Federico anche nei secoli a venire -, Salimbene propone,
all’indomani della morte dell’imperatore, un ritratto bifido di Federico: solatiosus,
iocundus, delitiosus, perfino pulcher homo et bene formatus, eppure luxuriosus,
malitiosus, callidus, iracundus; e insieme ne registra, ancora in vita, l’ingresso nel
mito: Federico è immortale, come profetizzava l’oracolo sibillino: «[…] quod in
Sibilla legitur: Sonabit et in populis: Vivit et non vivit ….», e il cronista riconosce
che egli stesso «[…] usque ad multos dies, vix potui[t] credere quod mortuus esset».
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Resta, dunque, alla morte dell’imperatore, la persistenza del mito, che si fonda
e si sostanzia anche delle opere d’arte, che egli commissionò personalmente, copiose
e intriganti, in qualche caso capolavori indiscussi, o di quelle a lui dedicate.
Comunque pertinenti ai suoi anni. Ma è proprio su questo versante che si registra, se
pure modulata su una molteplicità di registri, la più eclatante forma di damnatio
memoriae della lunga vicenda artistica medievale.
Proporrò solo pochi esempi, raggruppati in rapporto alle tipologie figurative.
Tra le sculture d’ambito federiciano, la statuaria, in particolare quella onoraria,
sostiene un ruolo primario: statue e busti, alcune teste, in bilico tra riuso, ripresa e
riproposta di modelli classici, sono dei veri e propri marcatori dell’adesione all’antico
degli artefici, ma soprattutto del committente. Un breve inventario di questi ritratti o
pseudo ritratti imperiali appare particolarmente significativo nel contesto di questa
riflessione. Lo straordinario busto di Barletta, in cui la connotazione antichista si
palesa filtrata attraverso suggestioni del gotico d’Oltralpe, delle quali appare
partecipe la leggera ed elegante torsione del busto (ma a ben vedere il gotico è solo
una citazione che non modifica la sostanza classica dell’opera), fu ritrovato agli inizi
del Novecento, murato sull’ingresso di una masseria tra Canosa e Barletta; allo stesso
torno d’anni risale il ritrovamento, ancora più fortuito, tra le rovine di un edificio
trecentesco, a Bitonto, nei pressi di San Leucio Vecchio, del frammento di testa
laureata, che si è supposto provenire da un edificio pubblico della città pugliese che si
era dimostrata particolarmente fedele allo Svevo; ancora un
frammento, di
straordinaria qualità, fu rinvenuto nel 1928 da Bruno Molajoli ai piedi di uno dei
torrioni poligonali di Castel del Monte e si è ipotizzato appartenesse a un gruppo
scultoreo che doveva celebrare, ben visibile sul monumentale portale principale,
l’imperatore, tra i figli Corrado e Manfredi e i logoteti Pier della Vigna e Taddeo da
Sessa.
Castel del Monte rappresenta, credo, la più singolare e straordinaria delle
committenze architettoniche collegate direttamente alla volontà di Federico II; certo
la più famosa e più citata. A proposito dell’edificio, ultimo delle fondazioni
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castellane volute dallo svevo in quella parte dell’Impero che si identificava con il
meridione d’Italia, e da lui fatto erigere, nei primi anni Quaranta, apud Sanctam
Mariam de Monte, nel territorio di Andria, vorrei ricordare, oggi, solo il carattere di
alta rappresentatività, che ha un corrispettivo soltanto in Castel Maniace in Sicilia,
ma anche il fascino straordinario e, non ultimo, le rilevanti valenze simboliche.
Ebbene, Castel del Monte, dopo un breve periodo di fortuna tra Federico e Manfredi,
visse vicende alterne, mai tuttavia commisurabili al ruolo che l’imperatore gli aveva
assegnato: alla caduta degli Svevi, nel 1266, il castello venne adibito a carcere (Carlo
I d’Angiò vi avrebbe imprigionato i figli di Manfredi, Federico, Enrico ed Enzo); con
tali funzioni passò agli Aragona di Napoli nella prima metà del Quattrocento; nel
1495 Ferdinando d’Aragona vi soggiornò prima di essere incoronato a Barletta, quasi
a richiamo al mito dello Svevo che Castel del Monte continuava a rispecchiare; fu
proprietà, nei secoli successivi, di nobili famiglie pugliesi che lo usarono come
rifugio, in occasione di pestilenze e turbolenze politiche; infine, abbandonato già nel
secolo XVIII, divenne oggetto di spogli e devastazione. Il resto è storia dei nostri
giorni.
Destino peggiore ebbero due fondazioni federiciane di pari rilievo: il palazzo di
Foggia; la porta-arco di trionfo di Capua.
Della residenza imperiale, fondata, intorno al 1223, all’indomani del
trasferimento in Capitanata della capitale del Regno e di cui le cronache (Riccardo di
San Germano, per esempio, o Niccolò Jamsilla) narrano l’imponenza della
costruzione e la preziosità dell’arredo, non rimangono oggi che i resti del portale [fig.
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sorretto ai lati da aquile stanti (ma la struttura a pieno sesto contrasta con la geometria
archiacuta e lunata dei portali federiciani: penso a Castel Del Monte, al castello di
Bari o a quello di Gioia del Colle); con certezza soltanto la lastra marmorea incisa
con un’epigrafe in versi che celebra Federico, Caesar et imperator - e insieme la città
di Foggia, regalis sedes, inclita, imperialis -, che ricorda la data di fondazione (anno
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ab incarnatione MCCXXIII…) e riporta il nome del protomagister Bartholomeus al
quale si deve la direzione dei lavori.
Della porta capuana, vero e proprio testamento ‘in pietra e in marmo’
dell’ideologia federiciana, si è già detto: vorrei solo aggiungere che, ormai fatiscente
per l’abbandono seguito alla caduta della dinastia sveva, fu vittima della furia
iconoclasta delle truppe del vicerè spagnolo di Napoli nel 1557. Della struttura
architettonica, demolita quasi a fundamentis, restano in piedi solo i basamenti dei due
torrioni laterali; mentre sono sopravvissuti, salvati dalla rovina e conservati oggi nel
Museo Nazionale campano di Capua, alcuni dei pezzi più significativi di quella
mirabile popolazione di statue che ne animava, insieme alla scrittura esposta e in una
totale identificazione con l’antico, la facciata settentrionale, rivolta verso i territori
del Patrimonium Sancti Petri, quasi a ostentare la sfida nei confronti del potere
papale. Sopravvivono il già citato ritratto acefalo di Federico in trono, i busti dei due
logoteti imperiali, la testa monumentale della Iustitia, alcune delle antefisse che
animavano le basi ottagonali marmoree dei torrioni laterali; e ancora numerosi e
notevoli frammenti erratici che richiamano esplicitamente la scultura architettonica di
altri monumenti federiciani, come il castello di Lagopesole o Castel del Monte.
Meno significative e certo più rarefatte le testimonianze pittoriche di età
federiciana. Solo una - i pannelli dipinti sulla facciata del duomo di Cefalù -, come si
è detto perduta, è ricollegabile alla volontà dello Svevo; altre due, opere con tutta
probabilità coincidenti cronologicamente, gli furono offerte, come prezioso atto
d’omaggio, da committenti di parte ghibellina. La prima è un frammento, ambiguo e
intrigante, sopravvissuto sotto vari strati di intonaco su una delle pareti di palazzo
Finco a Bassano del Grappa, e parte di un ampio programma figurativo voluto molto
probabilmente da Ezzelino da Romano, in previsione del passaggio in città di
Federico II accompagnato dalla terza moglie, Isabella d’Inghilterra; dell’altra, il
tempo, ma anche una forma estrema di damnatio memoriae, avevano innescato il
rinvio a nuovi significati, obliterando quello originario, che solo di recente è stato
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recuperato e riproposto. La parete meridionale di un grande loggiato addossato oggi
sul lato nord del palazzo abbaziale di San Zeno, a Verona – dove Federico fu accolto
con tutti gli onori in numerose occasioni tra il 1236 e il 1239 - propone un corteo
multietnico, e ,in questo senso, straordinario; solenne e al tempo animato, esso è
composto da ventotto personaggi, tutti sufficientemente caratterizzati per
l’abbigliamento e la fisionomia, che convergono verso l’immagine imperiale in trono.
La composizione è dominata da una straordinaria decorazione a intrecci di girali
all’antica abitati, come nei fregi dei manoscritti miniati dalla fantasia degli artisti
gotici, da presenze antropozoomorfe; in basso una fascia con scene di caccia richiama
la passione venatoria dello Svevo e insieme identifica, forse, il significato riposto
dell’intero affresco nella eterna lotta tra il Bene e il Male, di cui l’imperatore
rappresenta il supremo giudice. Occultato nel corso dei rifacimenti dei quali è stata
fatta oggetto la torre abbaziale, riemerso in seguito a restauri novecenteschi, fu
variamente interpretato: come il generico omaggio dei popoli della terra a un
imperatore, oppure, più di recente come l’omaggio a Salomone della regina di Saba
(ma la figura inginocchiata, che dovrebbe raffigurare la regina di Saba indossa ad
evidenza un abbigliamento maschile). Una tesi, infine, ampiamente documentata,
collega oggi l’affresco a Federico, imperatore del Sacro Romano Impero e re di
Gerusalemme, al quale rendono onore le popolazioni del vicino Oriente, antico e
medievale.
La damnatio, dunque, in molti casi, determina per le opere lo status di rovina;
frutto talora di un’abile regia, ne determina anche la perdita di significato o lo
straniamento dal senso originario. Nel caso di manufatti, come quelli, di mirabile
fattura e preziosi per i materiali (dall’oreficeria alle stoffe agli smalti, agli oggetti di
arte suntuaria in generale), riconducibili alle nobiles officinae imperiali oppure
importati da contesti diversi, in Italia e in Europa, in qualche caso recuperati dal
passato antico e medievale, la damnatio significò la dispersione, a non molta distanza
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dalla morte dell’imperatore; spesso la riutilizzazione, da parte di collezionisti di
prestigio, anche in rapporto al loro alto valore simbolico, in contesti nuovi e originali.
Due esempi potranno bastare.
Il primo è un cammeo, in sardonica a due strati, raffigurante Federico IIin
trono, fregiato degli attribuiti regali secondo l’iconografia che connota i sigilli
imperiali: disperso in seguito alla alienazione del tesoro degli Svevi, fu inserito nel
braccio inferiore di una croce reliquiario, fatta realizzare e offerta da Carlo IV al
duomo di Praga, a una data appena posteriore al 1354.
Il secondo è una sardonica, raffigurante una singolare scena di incoronazione,
di sorgente classica. Anch’essa dispersa, dopo la caduta degli Svevi, venne
riutilizzata, secondo la testimonianza di un inventario del 1564, come gemma centrale
della Croix aux camées , donata da Jean de Berry alla Sainte-Chapelle di Bourges,
anteriormente al 1416.
Ma facciamo un passo indietro e avviamoci alla conclusione.
A Vittoria, ancora vivo Federico, era iniziata la prima ‘dispersione’ del tesoro
imperiale. Tra gli spolia dei vincitori, era la corona imperiale, ma anche il
manoscritto in due volumi del De arte venandi cum avibus, il libro di caccia che
l’imperatore aveva composto personalmente e fatto scrivere e miniare per il figlio
Manfredi, in cui si realizza ai massimi livelli l’identificazione intrinsecamente
umanistica tra bellezza e utilità che l’imperatore aveva esplicitamente teorizzato. Una
testimonianza dell’epoca offre
notazioni preziose su quello che doveva essere
l’aspetto dello straordinario libro di caccia dello svevo. Si tratta della lettera con cui il
mercante milanese Guglielmo Bottazio (o Bottiato), accompagna un codice inviato in
dono a Carlo d’Angiò: un prezioso libro in due volumi che era stato di proprietà di
Federico imperatore, scrive il Bottazio al sovrano angioino, tanto splendido che egli
non riesce a trovare parole adeguate a descriverne la bellezza. Impreziosito, com’era,
da immagini miniate in argento e in oro e da fregi che scandivano la divisione in
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capitoli, nobilitato dal ritratto dell’imperatore in maestà, era destinato ad ammaestrare
il lettore alla conoscenza del mondo degli uccelli e dell’arte venatoria, attraverso un
ricco corredo figurativo, che correva sui margini delle pagine raffigurando volatili e
cani da caccia. Lo splendido esemplare, rimasto dunque in circolazione nei decenni
immediatamente successivi alla morte dell’imperatore e forse ancora, in area
francese, fino alla prima metà del Trecento, scompare poi definitivamente, lasciando
dietro di sé la scia luminosa, come mitica cometa di Halley, di una tradizione
preziosa ma limitata, in cui il testimone conservato in Vaticano, nel fondo Palatino,
rappresenta l’apografo.
A Federico fu riconosciuta nei secoli una reputazione di grande falconiere e di
conoscitore profondo delle scienze naturali, e il suo nome, citato talvolta come
referente autorevole, si incontra nei trattati di falconeria; il De arte venandi cum
avibus, invece, restò inspiegabilmente senza eco nella trattatistica cigenetica, che
pure risentì della modernità della sua lezione, in cui, con un forte richiamo alla
tradizione aristotelica, veniva esaltato il valore dell’esperienza e dell’osservazione.
Ed è anche questo, credo, un paradigma, estremo, dell’oblio.
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