note sull`infinito - web
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$OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 1 /¶LQILQLWRQHOSHQVLHURVFLHQWLILFRHILORVRILFR 1HVVXQ FRQFHWWR FRPH TXHOOR GL LQILQLWR KD HVHUFLWDWR XQ IDVFLQR H VROOHYDWR TXHVWLRQL QHOOD VWRULD GHO SHQVLHUR VFLHQWLILFR H ILORVRILFR Ê XQ¶LGHD SRWHQWH FRQ OD TXDOH WXWWH OH FXOWXUH VL VRQR LQ TXDOFKH PLVXUD FRQIURQWDWH(WXWWDYLDqXQ¶LGHDSHUFHUWLYHUVLVIXJJHQWHFKHVLODVFLDLQWUDYHGHUHPDPDLFRPSOHWDPHQWH SRVVHGHUH 1LHQWH QHOO¶HVSHULHQ]D GHOOD UHDOWj XPDQD SXz SURSULDPHQWH GLUVL LQILQLWR HSSXUH O¶LQILQLWR VHPEUDQHFHVVDULRSHUIRQGDUHTXHVWDVWHVVDUHDOWjRTXDQWRPHQRSHUVSLHJDUQHDVSHWWLLPSRUWDQWL1HVVXQ DOWURFRQFHWWRSRLWRFFDFDPSLWDQWRGLVWDQWLGHOOHDWWLYLWjGHOO¶LQJHJQRXPDQR/¶LQILQLWRFDQWDWRGDOSRHWD QHOOHVXHYLVLRQLRTXHOORQHOTXDOHVLGLVVROYHODFRVFLHQ]DGHOPLVWLFRqLQIDWWLORVWHVVRDFXLLOILORVRIRFHUFD GL GDUH XQD FRQQRWD]LRQH ULJRURVD QHOOH VXH VSHFXOD]LRQL PHWDILVLFKH H FKH LO PDWHPDWLFR DGGLULWWXUD XVD FRPH VWUXPHQWR RSHUDWLYR QHL SURFHGLPHQWL GHO FDOFROR LQILQLWHVLPDOH ,Q TXHVWH EUHYL QRWH GLVFXWHUHPR DOFXQH GHOOH SULQFLSDOL YDOHQ]H FKH OD PDWHPDWLFD HODILORVRILDKDQQRDWWULEXLWRDOFRQFHWWRGLLQILQLWR QHO FRUVRGHOORVYLOXSSRGHOSHQVLHURRFFLGHQWDOH ,1',&( ,QWURGX]LRQH /¶LQILQLWRQHOSHQVLHURJUHFR$ULVWRWHOHH$UFKLPHGH ,OGLYLHWRGHOO¶LQILQLWRLQDWWR $UFKLPHGHHLOPHWRGRGLHVDXVWLRQH /¶LQILQLWRQHOODPHQWDOLWjFRPXQH 6FDOHGLJUDQGH]]DQHOO¶XQLYHUVRILVLFR /¶LQILQLWRGHOODSRHVLD 7RPPDVRG¶$TXLQRLQILQLWjDWWXDOHVHFXQGXPTXLGH DVVROXWD ,OSUREOHPDGHOO¶LQILQLWRQHOODPDWHPDWLFDPRGHUQD 3URVSHWWLYDHSXQWLGLIXJD *DOLOHRHODJHRPHWULDGHJOLLQGLYLVLELOL 1DVFLWDHVYLOXSSRGHOO¶DQDOLVLLQILQLWHVLPDOH *HRUJ&DQWRU ,WUDQVILQLWL ,QILQLWRDVVROXWR ,OFRQFHWWRGLLQVLHPH /LPLWD]LRQHGHOODGLPHQVLRQHGHJOLLQVLHPL ,QILQLWjHGHWHUPLQD]LRQHLQUDSSRUWRDOODUHDOWjILVLFD ,VLQJROLHQWLPDWHULDOL /¶LQWHURXQLYHUVR 8QLYHUVRLQIOD]LRQDULR 8QLYHUVRFLFOLFR ,PSOLFD]LRQLILORVRILFKHGHLPRGHOOLFRVPRORJLFL ÊSRVVLELOHXQDYLWDSHUSHWXD" &RQFOXVLRQL XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 2 ,QWURGX]LRQH Fin dai suoi inizi, il pensiero scientifico e filosofico occidentale ha sentito l’esigenza di confrontarsi con il concetto di infinito. I termini fondamentali delle problematiche connesse con questa importante idea risultano chiari già nelle dottrine di Aristotele, se non addirittura nei presocratici. Vi è infatti una doppia direttrice sulla quale analizzare la questione: in primo luogo se assegnare all’infinito la valenza negativa di assenza di determinazioni o quella positiva di superlativa abbondanza delle qualità di cui si può avere esperienza; in secondo luogo se un infinito attualizzato possa realmente (cioè incontraddittoriamente) esistere oppure solo l’infinito potenziale sia un concetto esente da patologie. Nel corso del presente lavoro prenderemo le mosse proprio dal pensiero greco, evidenziando come già un filosofo presocratico – Anassimandro – introduca il concetto di infinito, e lo faccia con una valenza negativa, che lo accosta ad una sorta di nulla dal quale gli enti sorgono per aggiunta di successive determinazioni. È però con Aristotele che l’idea di infinito viene estesamente sviluppata, e ciò avviene nella direzione di una rigida proibizione dell’infinito in atto, proibizione che verrà accettata da tutta la matematica greca (in particolare gli (OHPHQWL di Euclide), con l’unica vistosa eccezione di Archimede che introduce espliciti riferimenti all’infinito in atto per implementare ingegnose tecniche di calcolo. Di queste originarie valenze concettuali troviamo traccia anche nell’odierna mentalità comune, che tende però generalmente ad assumere una visione attualista (o meglio, finitista) dell’infinito come quantità inconcepibilmente grande, ma pur sempre determinata. Nel pensiero medievale la riflessione sull’infinito raggiunge vette altissime; in particolare sul versante della metafisica con Tommaso d’Aquino e Duns Scoto e su quello mistico con Meister Eckhart. Si tratta di una riflessione principalmente filosofica, che a differenza di quella greca esclude i temi più specificamente matematici; tuttavia proprio quegli spunti teoretici rivestiranno una grande importanza come fondamenti nella matematica dei secoli successivi, in particolare nell’opera di Georg Cantor. L’età moderna è caratterizzata da un proliferare di tecniche matematiche basate sull’infinito, e si tratta spesso di infinito in atto. Un utilizzo un po’ spregiudicato di un concetto così delicato, in conseguenza del quale non mancheranno aporie e contraddizioni che costringeranno – nel periodo a cavallo tra i secoli XIX e XX – a ripensare profondamente la questione dei fondamenti della matematica. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 3 In quanto detto finora la discussione sull’infinito è limitata unicamente agli aspetti matematici e filosofici, escludendo qualsiasi riferimento alla fisica. Sembra infatti che la realtà materiale debba escludere qualsiasi aspetto di infinità per sua stessa definizione. Ciò è sicuramente vero finché consideriamo fenomeni limitati e circoscritti, ma è una prescrizione che continua a valere anche nell’ambito della cosmologia? In particolare i recenti modelli di universo inflazionario a bolle e di universo ciclico sembrano compatibili con una matrice spazio-temporale infinita, e anche volendo rimanere ad un ambito più ristretto – ma pur sempre rilevante sul piano cosmologico – la situazione attuale di generazione di informazione e aumento della complessità organizzata (in pratica la vita) è potenzialmente prolungabile all’infinito o si tratta comunque di un processo destinato ad avere un termine temporale? /¶LQILQLWRQHOSHQVLHURJUHFR$ULVWRWHOHH$UFKLPHGH All’idea di infinito si possono assegnare due valenze complementari: l’una negativa di mancanza di determinazioni e quindi di imperfezione, l’altra positiva di superamento di ogni limitazione. In effetti l’essere dell’ente è sempre un essere determinato e con ciò finito, limitato (RPQLVGHWHUPLQDWLRHVWQHJDWLR, secondo la celebre massima scolastica). Si tratta allora di intendere questa mancanza di determinazione come superamento o come imperfezione. Tra i filosofi presocratici Anassimandro è il primo ad introdurre il concetto di απειρον come mancanza di limite (appunto, περα XQDPDWHULDLQIRUPHFKHFRQWLHQH in sé tutte le determinazioni e proprio per questo è totalmente indeterminata; gli enti si formano da essa per separazione degli opposti: $QDVVLPDQGURSULQFLSLRKDGHWWRGHOOHFRVHFKHVRQRO¶LQGHILQLWRHGLIDWWRULGDFXLqOD QDVFLWDSHUOHFRVHFKHVRQRVRQRDQFKHTXHOOLLQFXLVLULVROYHODORURHVWLQ]LRQHVHFRQGRLO GRYXWR SHUFKp SDJDQR O¶XQD DOO¶DOWUD HVVH JLXVWD SHQD HG DPPHQGD GHOOD ORUR LQJLXVWL]LD VHFRQGRODGLVSRVL]LRQHGHOWHPSR1 Ma già in questa fase arcaica del pensiero scientifico troviamo spunti di interpretazione che poi sotto varie vesti caratterizzeranno tutto lo sviluppo successivo fino ai nostri giorni. È questo il caso della critica portata dai filosofi eleatici al concetto di divenire, critica che si appoggia proprio su una concezione dell’infinito totalmente diversa da quella di Anassimandro, una concezione che potremmo chiamare “attiva”, ma che più propriamente SIMPLICIO, 3K\V., 4, )UDPPHQWR 1 in: Alessandro LAMI (curatore), , SUHVRFUDWLFL7HVWLPRQLDQ]HHIUDPPHQWLGD7DOHWH D (PSHGRFOH. BUR, Milano, 1997, 139. 1 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 4 consiste nel pensare l’infinito come una attualità di parti esistenti. Il paradosso di Achille e la tartaruga, attribuito a Zenone di Elea, ci viene riportato da Aristotele nel VI libro della )LVLFD, ed è uno dei più celebri della storia del pensiero matematico e filosofico: ,OVHFRQGRqLOFRVLGGHWWR³$FKLOOH´TXHVWRLQWHQGHSURYDUHFKHLOSLOHQWRFRUUHQGRQRQVDUj PDLVRUSDVVDWRGDOSLYHORFHLQIDWWLQHFHVVDULDPHQWHO¶LQVHJXLWRUHGRYUHEEHJLXQJHUHSULPD OjGRQGHLOIXJJLWLYRqEDO]DWRLQDYDQWLVLFFKpQHFHVVDULDPHQWHLOSLOHQWRFRQVHUYDXQDFHUWD SUHFHGHQ]D2 ,OGLYLHWRGHOO¶LQILQLWRLQDWWR Di fatto, il ragionamento di Zenone funzionerebbe solo se nel percorrere un segmento un mobile dovesse occupare concretamente ognuno degli infiniti punti che compongono il segmento, cioè se l’infinità dei punti che compongono il segmento fosse una infinità attuale. Che la considerazione degli infiniti in atto comporti ogni sorta di paralogismi fu chiaro sin dai tempi antichi; in particolare Aristotele nel primo libro del 'H &DHOR formula una serie di argomenti contro l’ipotesi che lo spazio fisico (l’universo) sia infinito, in pratica contro l’esistenza dell’infinito in atto3. Questi argomenti sono strettamente dipendenti dalla cosmologia accettata dallo stagirita. Ad esempio il primo di essi si basa sul concetto di LQWHUYDOOR tra due linee come il massimo segmento che unisce le due linee; ora, se l’universo (che – lo ricordiamo – nella visione aristotelica è una sfera centrata nella Terra) avesse dimensione infinita, sarebbe infinito anche l’intervallo tra due qualsiasi raggi della sfera e per percorrere tale intervallo occorrerebbe un tempo infinito, contro l’evidenza che la rivoluzione del cielo delle stelle fisse si completa in un anno. Tuttavia in altri luoghi l’impossibilità dell’infinito in atto viene affermata sulla base di argomentazioni più fondamentali, come ad esempio nel terzo libro della )LVLFD: Ê FKLDUR SRL FKH QRQ VL SXz DPPHWWHUH FKH O¶LQILQLWR HVLVWD FRPH XQ HVVHUH LQ DWWR R FRPH VRVWDQ]D H SULQFLSLR GLIDWWL TXDOVLDVL SDUWH GHVXQWD GD HVVR VDUHEEH LQILQLWD VH HVVR IRVVH GLYLVLELOHLQSDUWLLQYHURFLzFKHqDOO¶LQILQLWRqLQILQLWRHVVRVWHVVRVHSXUO¶LQILQLWRqVRVWDQ]D H QRQqLQUHOD]LRQHDXQVRVWUDWRVLFFKpHVVRRqLQGLYLVLELOHRqGLYLVLELOHDOO¶LQILQLWR0DFKH ODPHGHVLPDFRVDVLDPROWLLQILQLWLqLPSRVVLELOHFKpDQ]LFRPHXQDSDUWHGLDULDqDULDFRVu XQDSDUWHGLLQILQLWRqLQILQLWRVHO¶LQILQLWRqVRVWDQ]DHSULQFLSLR'XQTXHHVVRqLPSDUWLELOHH 2 3 ARISTOTELE, 3K\VLFD, VI, 9, 239b ARISTOTELE, 'H&DHOR, I, 271b – 273a. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 5 LQGLYLVLELOH0DqLPSRVVLELOHFKHFLzFKHqLQHQWHOHFKLDVLDLQILQLWRGLIDWWLqQHFHVVDULRFKH HVVRVLDXQDTXDQWLWj(DOORUDVLGLUjO¶LQILQLWRHVLVWHFRPHDWWULEXWR0DVLqSXUGHWWRFKHVH q FRVu QRQ OR VL SXz FRQVLGHUDUH FRPH SULQFLSLR EHQVu SULQFLSLR q SURSULR TXHOOR FXL HVVR FDSLWDFRPHDWWULEXWRO¶DULDDGHVHPSLRHLOSDUL6LFFKpFDGUHEEHURLQGLPRVWUD]LRQLDVVXUGH TXHOOL FKH DQGDVVHUR ULSHWHQGR OH DVVHU]LRQL GHL SLWDJRULFL FRVWRUR LQIDWWL FRQVLGHUDQR O¶LQILQLWRFRPHVRVWDQ]DHQHOORVWHVVRWHPSRORGLYLGRQRLQSDUWL4 Aristotele dunque rifiuta in maniera chiara e netta l’infinito attuale, quello degli eleatici; la concezione che egli ha è quella di un infinito potenziale, cioè di un processo per il quale non è prevista alcuna procedura di terminazione in linea di principio, anche se poi la grandezza in esame assumerà sempre valori (ovviamente) finiti: 'LIDWWL VH QRL GD XQD JUDQGH]]D ILQLWD GHVXPLDPR XQD GHWHUPLQDWD JUDQGH]]D H SRL QH GHVXPLDPR DQFRUD XQ¶DOWUD QHOOD PHGHVLPD SURSRU]LRQH VHQ]D SHUzSRUWDUYLDODJUDQGH]]D VWHVVDGHOO¶LQWHURQRQULXVFLUHPRDSHUFRUUHUHLOILQLWR5 E poco più avanti: $QFKHSHUDJJLXQ]LRQHO¶LQILQLWRqFRVuSXUVHPSUHLQSRWHQ]DHQRLGLFLDPRFKHLQXQFHUWR VHQVRORqDOORVWHVVRPRGRFKHSHUGLYLVLRQHVHPSUHLQIDWWLVLSRWUjDVVXPHUHTXDOFRVDDOGL IXRUL GL HVVR PD QRQ GL PHQR HVVR QRQ VXSHUHUj RJQL JUDQGH]]D ILQLWD FRPH LQYHFH SHU GLYLVLRQHVXSHUDRJQLJUDQGH]]DILQLWDHULPDQHVHPSUHPLQRUH6 In altri termini, noi diciamo – ad esempio – che i numeri interi sono infiniti perché data una collezione di Q oggetti non vi è alcuna ragione di principio che ci impedisce di pensare ad una collezione di Q + 1 oggetti, indipendentemente dal valore di Q; questo però non significa che esistano collezioni composte da un numero infinito di oggetti. Di fatto, quando metto insieme degli oggetti per costruire una collezione ne avrò sempre un numero determinato. $UFKLPHGHHLOPHWRGRGLHVDXVWLRQH Malgrado la posizione di Aristotele, già nei tempi antichi ci si era però accorti che l’infinito in atto poteva avere interessanti risvolti, e non ci stiamo qui riferendo ai paralogismi della scuola eleatica, ma ad aspetti molto più concreti legati alla geometria. All’interno della eclettica produzione di Archimede troviamo alcuni risultati di cui per molto tempo è stato difficile comprendere come sia stato possibile ottenerli con gli strumenti del tempo (in particolare senza l’analisi matematica). Il mistero venne risolto in ARISTOTELE, 3K\VLFD, III, 5, 204a. ARISTOTELE, 3K\VLFD, III, 206b, 5-12. 6 ,YL, III, 206b, 16-20. 4 5 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 6 tempi relativamente recenti, all’inizio del XX secolo, quando venne ritrovato il manoscritto di un’opera del grande matematico siracusano – ,O 0HWRGR – di cui si erano perdute le tracce fin dai primi secoli dell’era cristiana7. Questo trattato contiene quindici proposizioni, delle quali Archimede fornisce non proprio una dimostrazione, ma una giustificazione, cioè il procedimento euristico per giungere a formularle. La prima di queste proposizioni riguarda il calcolo dell’area sottesa da un arco di parabola. Il procedimento utilizzato è quello che Archimede stesso definisce meccanico, cioè la regione compresa tra l’arco di parabola e una sua corda viene “affettata” in segmenti ad ognuno dei quali si assegna un peso proporzionale alla sua lunghezza. Considerando poi una opportuna leva, ogni segmento viene equilibrato dal corrispondente segmento di un particolare triangolo. Si giunge così a stabilire l’equivalenza tra la regione compresa tra l’arco di parabola e la sua corda, e il triangolo. A parte l’idea originale di applicare le leggi della meccanica a problemi di geometria, quello che è rilevante ai fini della presente discussione è il fatto che una regione piana venga considerata come l’unione di infiniti segmenti. Una regione piana infatti può sempre essere suddivisa in un certo numero (finito) di strisce; quanto più sono sottili le strisce tanto più aumenta il loro numero. Se riduciamo la larghezza delle strisce fino a farle diventare segmenti, il loro numero diviene infinito (in atto); abbiamo cioè una regione finita di piano composta da una infinità attuale di segmenti, esattamente come il segmento che separa Achille dalla tartaruga è composto da una infinità attuale di punti. Nel caso dell’argomento di Archimede tuttavia, il ragionamento non porta ad un paralogismo, ma ad un risultato corretto che può anche essere dimostrato (e di fatto lo è, in un’ altra opera dello stesso Archimede) senza chiamare in causa l’infinito – attuale o potenziale che sia – ma facendo ricorso unicamente ai metodi della geometria sintetica. Di fatto, proprio su argomenti di questo tipo si fonderà, molti secoli più tardi, il calcolo infinitesimale, la moderna analisi matematica. Archimede, quindi, non reclama al suo ragionamento la dignità di una valida procedura dimostrativa, però è indubbio che esso abbia una notevole forza persuasiva. L’idea è fertile, e con gli opportuni accorgimenti – cioè con la sostituzione dell’infinito attuale in potenziale – può assumere la valenza di un procedimento rigoroso. Ciò è quanto viene 7 Carl B. BOYER, 6WRULDGHOODPDWHPDWLFD. ISEDI, Milano, 1976, 161. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 7 realizzato nella seconda proposizione del dodicesimo libro degli (OHPHQWL di Euclide, la cui dimostrazione sfrutta il cosiddetto metodo di HVDXVWLRQH, sviluppato e formalizzato da Eudosso di Cnido8. Dunque, il dodicesimo libro degli (OHPHQWL si apre con una proposizione riguardante i poligoni: «3ROLJRQLVLPLOLLVFULWWLLQFHUFKLVWDQQRIUDORURFRPH L TXDGUDWL GHL GLDPHWUL9» (nel presente contesto quando si parla di proporzionalità tra poligoni si intende proporzionalità tra le rispettive aree). La seconda proposizione invece recita: «, FHUFKL VWDQQR WUD ORUR FRPHLTXDGUDWLGHLGLDPHWUL10». Potendo considerare l’infinito in atto, questa seconda proposizione sarebbe semplicemente un corollario della prima; infatti basterebbe considerare il cerchio come un poligono regolare con un numero infinito di lati. Abbiamo detto che un certo richiamo all’infinito in atto è alla base del calcolo infinitesimale; non stupirà quindi che uno studioso che vive a cavallo tra XVII e XVIII secolo, cioè negli anni in cui l’analisi matematica veniva sviluppata, faccia un commento proprio in tal senso. Si tratta di quel Gerolamo Saccheri che nella sua celebre opera: (XFOLGHVDERPQLQDHYRYLQGLFDWXV, fornisce l’ultimo dei grandi tentativi di dimostrazione del postulato delle parallele, e col suo fallimento apre di fatto la strada alle geometrie non euclidee e al passaggio da una concezione apodittica della matematica ad una ipoteticodeduttiva. Scrive dunque il gesuita milanese: (XFOLGHKDJLjGLPRVWUDWRSURSFKHGXHSROLJRQLVLPLOLLQVFULWWLLQGXHFHUFKLVWDQQRWUD ORUR FRPH L TXDGUDWL GHL GLDPHWUL SURSRVL]LRQH GD FXL FRPH FRUROODULR DYUHEEH SRWXWR ULFDYDUHODFRQVLGHUDQGRLFHUFKLFRPHSROLJRQLLQILQLWLODWHUL11 «FRQVLGHUDQGRLFHUFKLFRPHSROLJRQLLQILQLWLODWHUL»; in queste poche parole è contenuta l’essenza di una questione centrale sui fondamenti della matematica, dibattuta fin dall’antichità, e che non ha perso la sua rilevanza fino ai tempi moderni. Tuttavia, è proprio per evitare il ricorso all’infinito in atto che Eudosso escogitò il metodo di esaustione. Per capire in cosa consista tale metodo, andiamo a vedere la definizione di HVDXVWLRQH in un moderno dizionario di termini matematici12: EUCLIDE, (OHPHQWL, a cura di Attilio FRAJESE e Lamberto MACCIONI, UTET, Torino, 1970, 929-938, in particolare nota 2 p. 931. 9 ,YL, 929. 10 ,YL, 931. 11 Gerolamo SACCHERI, (XFOLGHVDERPQLQDHYRYLQGLFDWXV, trad. BOCCARDINI, Hoepli, Milano, 1904, 104. 12 Sebastiano NICOSIA, /H YRFL GHOOD PDWHPDWLFD 3HUFRUVL DOIDEHWLFL IUD WHRUHPL H IRUPXOH, Ghisetti e Corvi, Milano, 2006. 8 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 8 (VDXVWLRQHVPGDOODWLQRHVDXULUH0HWRGRGLHVDXVWLRQH0HWRGRXWLOL]]DWRGD$UFKLPHGH H IRUVH VFRSHUWR GD (XGRVVR SHU FDOFRODUH OH DUHH GL ILJXUH D FRQWRUQR FXUYLOLQHR FRPH HOHPHQWRGLVHSDUD]LRQHGLFODVVLGLSROLJRQLLQVFULWWLHFLUFRVFULWWLHFRQXQQXPHURGLODWLFKH DXPHQWDQRLQGHILQLWDPHQWH7DOHPHWRGRVLIRQGDVXOODVHJXHQWHSURSULHWjGLHVDXVWLRQHVHOq XQD JUDQGH]]D GDWD H U XQD IUD]LRQH FRPSUHVD IUD ò H DOORUD SHU RJQL JUDQGH]]D H RPRJHQHDFRQOHGDUELWUDULDPHQWHSLFFRODqSRVVLELOHWURYDUHXQQXPHURQDWXUDOHQDSDUWLUH Q GDO TXDOH VL DEELD O (1 − U ) < H /D SURSULHWj GL HVDXVWLRQH VL GLPRVWUD SHU DVVXUGR DVVXPHQGRO¶DVVLRPDGLFRQWLQXLWjGL$UFKLPHGH Questa definizione coincide esattamente con un’altra proposizione degli (OHPHQWL di Euclide, e precisamente la prima del decimo libro: 'DWHGXHJUDQGH]]HGLVXJXDOLVHVLVRWWUDHGDOODPDJJLRUHXQDJUDQGH]]DPDJJLRUHGHOODPHWj GDOODSDUWHUHVWDQWHXQ¶DOWUDJUDQGH]]DPDJJLRUHGHOODPHWjHFRVuVLSURFHGHVXFFHVVLYDPHQWH ULPDUUjXQDJUDQGH]]DFKHVDUjPLQRUHGHOODJUDQGH]]DPLQRUHLQL]LDOPHQWHDVVXQWD13 In altri termini non esiste una grandezza minima, ma si può sempre procedere a successive divisioni ottenendo grandezze sempre più piccole. Nella dimostrazione di questa proposizione è essenziale il riferimento ad un postulato che negli (OHPHQWL viene presentato come definizione, e precisamente la quarta definizione del quinto libro: 6LGLFHFKHKDQQRIUDORURUDSSRUWRRUDJLRQHOHJUDQGH]]HOHTXDOLSRVVRQRVHPROWLSOLFDWH VXSHUDUVLUHFLSURFDPHQWH14 L’importanza di questo postulato in rapporto alla nostra trattazione è fondamentale. Malgrado la forma un po’ criptica, esso esprime un carattere della continuità tutto sommato intuitivo, cioè – detto in altri termini – che date due grandezze omogenee tra loro (per esempio due segmenti), la prima delle quali una è minore dell’altra, si può sempre trovare un multiplo della più piccola che supera la più grande. Questa definizione a partire dal XIX secolo è meglio nota come SRVWXODWRGL$UFKLPHGH, ed esprime un carattere basilare della geometria euclidea, tanto da poter essere considerato un ulteriore postulato da aggiungersi ai cinque ben noti15. È altresì interessante notare come l’enunciato di Euclide consista proprio nell’esclusione dal novero delle grandezze per le quali si possano costruire rapporti di quelle per le quali non vale la proprietà archimedea. Sorge dunque spontanea la domanda se esistano tali grandezze, manchevoli di una proprietà così ovvia. La risposta è affermativa. EUCLIDE, FLW, 596. ,YL, 298. 15 Attilio FRAJESE, “Il sesto postulato di Euclide”, in 3HULRGLFRGLPDWHPDWLFKH 1-2 (1968) 150-159. 13 14 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 9 Già nella geometria antica abbiamo un importante esempio negli angoli curvilinei, cioè nei quali almeno un lato è una linea curva16; la proposizione 16 del terzo libro degli (OHPHQWL17 mostra infatti come non esista alcun sottomultiplo di un angolo rettilineo che sia minore dell’angolo di contingenza (cioè dell’angolo curvilineo compreso tra il cerchio e la tangente). Quindi, gli angoli – sia rettilinei che curvilinei – sono una classe di grandezze per la quale non vale la proprietà archimedea, e pertanto non si possono costruire rapporti tra di esse. Non così per la classe dei soli angoli rettilinei. Un altro importante esempio è dato dalla geometria piana costruita sulla sfera. È questa senza dubbio il più popolare modello di geometria non euclidea; se infatti chiamiamo “retta” un cerchio massimo sulla sfera il quinto postulato viene violato, nel senso che non esistono parallele poiché due qualsiasi rette si incontrano sempre nei poli; una delle conseguenze più notevoli di questo fatto è che la somma degli angoli interni di un triangolo eccede l’angolo piatto, e possono aversi anche triangoli con tutti e tre gli angoli retti. Quello che è forse meno noto è che si tratta anche di una geometria non archimedea (i segmenti, definiti come archi di cerchio massimo, non possono essere moltiplicati per un intero arbitrariamente grande, ché oltre un certo valore il giro si completa e si ricomincia da capo). /¶LQILQLWRQHOODPHQWDOLWjFRPXQH La dottrina di Aristotele, ripresa dalla tradizione scientifica del mondo antico, esclude, come abbiamo visto, la possibilità di un infinito in atto tanto nell’universo fisico che sul piano logico, cioè nel pensiero. Sul secondo punto torneremo tra breve, adesso però domandiamoci quanto è plausibile il primo e che senso può avere una discussione sull’infinito in rapporto alla realtà materiale. Nella mentalità comune il piano concettuale (l’infinito come ente matematico) viene spesso riportato a quello materiale, e ciò che ne risulta è una specie di LQILQLWR SUDWLFR, vale a dire una grandezza – ancorché finita – vertiginosamente maggiore di ogni scala accessibile all’esperienza umana. Non vi è dubbio 16 17 cfr. ARISTOTELE, $QDO3U, I, 24, 13-22. EUCLIDE, (OHPHQWL, cit., 228. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 10 che questa sorta di infinito attuale mutilato è profondamente scorretto dal punto di vista teoretico, tuttavia per capire quanto tale concezione sia profondamente radicata nella mentalità corrente, basta andare a vedere la definizione di “infinito” in uno dei più autorevoli dizionari della lingua inglese18: LQILQLW\QRXQ WLPHRUVSDFHWKDWKDVQRHQG DSRLQWZKLFKLVVRIDUDZD\WKDWLWFDQQRWEHUHDFKHG DQXPEHUWKDWLVODUJHUWKDQDOORWKHUQXPEHUV DQH[WUHPHO\ODUJHQXPEHURIVRPHWKLQJ Particolarmente interessanti ai fini della nostra discussione sono la seconda e la terza definizione; ritroveremo concetti vagamente simili nella teoria dei transfiniti di Cantor. 6FDOHGLJUDQGH]]DQHOO¶XQLYHUVRILVLFR D’altra parte, un’occhiata agli ordini di grandezza che separano la scala delle esperienze umane da quella subatomica da un lato, e cosmologica dall’altro ci fa capire come un tale senso di infinità pratica sia ben giustificato dal punto di vista psicologico. Se infatti le dimensioni delle cellule del nostro corpo sono dell’ordine delle frazioni di millimetro, poco al di sotto della soglia di visibilità ad occhio nudo, e i più piccoli batteri sono grandi appena qualche millesimo di millimetro, bisogna scendere a lunghezze cento volte più piccole per trovare le macromolecole biologiche, come il DNA. Più ridotte, solo qualche milionesimo di millimetro, sono le dimensioni delle piccole molecole inorganiche, e ovviamente ancora minori quelle degli atomi. Se a questo punto vogliamo scendere al livello del nucleo, dobbiamo fare un salto di più di un fattore diecimila; praticamente se il nucleo atomico fosse una biglia al centro di un campo da calcio, l’orbita degli elettroni più interni toccherebbe le ultime gradinate. Da questo punto in poi il concetto di distanza mutuato dall’esperienza comune inizia a non essere più tanto adeguato, ed è più opportuno ragionare in termini di energia. È un principio generale della ricerca fisica infatti che per esplorare dettagli più interni e strutture più fini occorrono sonde corrispondentemente più energetiche. Se questo precipitare nel mondo microscopico può provocare una certa vertigine, è però quando l’uomo rivolge il suo pensiero alle enormi distanze nell’universo che si sente sopraffatto. Considerando che la luce viaggia a velocità costante, possiamo farci un’idea voce LQILQLW\ su Elizabeth WALTER - Kate WOODFORD editors, &DPEULGJHDGYDQFHGOHDUQHU¶VGLFWLRQDU\, Cambridge University Press, Cambridge, 2005. 18 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 11 delle dimensioni degli spazi cosmici esprimendole in termini del tempo necessario alla luce per percorrerle. La velocità della luce non è certo bassa: in un secondo percorre 300.000 chilometri, cioè sette volte e mezzo il giro del mondo all’equatore o, se preferiamo, poco meno della distanza tra la Terra e la Luna. In altri termini, per attraversare una stanza essa impiega qualche miliardesimo di secondo, un tempo al limite delle attuali capacità tecniche di misura. Con questa enorme velocità, occorrono circa otto minuti perché la luce del Sole giunga fino a noi, e più di cinque ore per attraversare tutto il sistema solare, fino a Plutone. Oltre, vi è solo un’enorme distesa di vuoto fino alla stella più vicina, situata a quattro anni luce e mezzo da noi. L’intera galassia, poi, di cui il nostro Sole occupa una regione periferica, è un disco schiacciato del diametro di circa 70.000 anni luce, e la galassia più vicina si trova a due milioni di anni luce. La distribuzione delle galassie nell’universo ha una struttura gerarchica, cioè più galassie sono riunite in ammassi, e gli ammassi a loro volta in superammassi, separati ad ogni livello da distanze sempre maggiori. Più sono lontani gli oggetti che osserviamo e più sono antichi. Per questo motivo vi è una ovvia limitazione alla nostra capacità di accedere a regioni remote dell’universo tramite l’osservazione, cioè l’età finita del cosmo. A causa del fenomeno dell’espansione comunque, la distanza che la luce riesce a percorrere in un certo intervallo di tempo è maggiore di un ugual valore espresso in anni luce. Gli oggetti più lontani attualmente accessibili ai nostri strumenti di rilevazione sono a qualche decina di miliardi di anni luce; ciò ovviamente non significa che non esistano regioni di universo anche oltre quel limite, ma solo che non vi è modo di osservarle. /¶LQILQLWRGHOODSRHVLD La consapevolezza delle reali estensioni del mondo macroscopico e microscopico è una acquisizione relativamente recente (ancora agli inizi del XX secolo si discuteva se la nostra galassia fosse unica o se esistessero altre strutture simili), tuttavia è chiaro che fin da tempi remoti l’uomo ha intuito l’immensità delle distanze cosmiche. A questo riguardo uno dei riferimenti più scontati è a /¶LQILQLWR di Giacomo Leopardi, tuttavia il tema è trattato in vari luoghi dallo stesso autore; ad esempio incomparabile è la riflessione nella *LQHVWUD19: ( SRLFKHJOLRFFKLDTXHOOHOXFLDSSXQWR &K¶DORUVHPEUDQRXQSXQWR ( VRQRLPPHQVHLQJXLVD &KHXQSXQWRDSHWWRDORUVRQWHUUDHPDUH 19 Giacomo LEOPARDI, /D*LQHVWUDRLOILRUHGHOGHVHUWR, in &DQWL, miniBUR Rizzoli, Milano 1993, 92. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 12 9HUDFHPHQWHDFXL /¶XRPRQRQSXUPDTXHVWR *ORERRYHO¶XRPRqQXOOD 6FRQRVFLXWRqGHOWXWWRHTXDQGRPLUR 4XHJOLDQFRUSLVHQ]¶DOFXQILQUHPRWL 1RGLTXDVLGLVWHOOH &K¶DQRLSDLRQTXDOQHEELDDFXLQRQO¶XRPR ( QRQODWHUUDVROPDWXWWHLQXQR 'HOQXPHURLQILQLWHHGHOODPROH &RQO¶DXUHRVROHLQVLHPOHQRVWUHVWHOOH 2 VRQRLJQRWHRFRVuSDLRQFRPH (VVLDOODWHUUDXQSXQWR 'LOXFHQHEXORVDDOSHQVLHUPLR &KHVHPEULDOORURSUROH 'HOO¶XRPR" Questa nozione più poetica e romantica dell’infinito ha comunque un carattere simile a quello tipico del linguaggio comune che abbiamo evidenziato nelle pagine precedenti; dato che si parla degli oggetti lontanissimi, ma non di quello che può esservi oltre, ci troviamo di fronte ad una nozione di infinito attuale, cioè positivo, ma di una positività così schiacciante per l’uomo da assumere addirittura una connotazione negativa. 7RPPDVRG¶$TXLQRLQILQLWjDWWXDOHVHFXQGXPTXLGH DVVROXWD Tornando alle argomentazioni più rigorose dei filosofi, bisogna comunque dire che già nei tempi antichi il divieto aristotelico di pensare l’infinito in atto ammette una vistosa eccezione, e cioè Dio. Agostino afferma chiaramente nel capitolo 19 del XII libro del 'H &LYLWDWH 'HL che solo un pazzo potrebbe ritenere che la scienza di Dio arrivi a conoscere perfettamente l’essenza di alcuni numeri ma non di tutti. Questa possibilità dell’infinito in atto LQ PHQWH 'HL avrà – come vedremo nelle prossime pagine – un’importanza fondamentale nella costruzione concettuale di Georg Cantor. Si deve però al genio metafisico di Tommaso d’Aquino l’ampliamento e la chiarificazione della visione aristotelica dei due infiniti. Oltre all’infinito potenziale, si deve introdurre una ulteriore sottile distinzione tra la nozione di ente (insieme) infinito in atto e quella di ente (insieme) attualmente infinito20. Per comprendere la differenza tra le due nozioni appoggiamoci ad un esempio. Una linea retta è determinata (cioè finita) rispetto ad alcuni suoi caratteri (il fatto di essere una linea e non magari una figura piana o solida...) ma resta indeterminata (infinita) rispetto ad altri (la sua estensione). Quello che abbiamo indicato è quindi un infinito attuale relativo, o LQILQLWXP DFWX VHFXQGXP TXLG. La nozione è perfettamente Gianfranco BASTI, )LORVRILDGHOODQDWXUDHGHOODVFLHQ]D,IRQGDPHQWL (Dialoghi di filosofia – Sezione Manuali, 1), Lateran University Press, Città del Vaticano 2002, 376-381. 20 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 13 legittima e non contraddittoria, in quanto viene solamente posta la negazione dell’esistenza di limitazioni per un certo carattere di un certo ente (nel nostro esempio per l’estensione della linea retta); non viene però indicata una procedura costruttiva per ottenere tutti gli elementi dell’insieme (cioè per disegnare una linea retta realmente infinita). In altri termini, non è contraddittorio che un ente venga pensato infinito attualmente e non solo potenzialmente (contenuto cioè in un altro oggetto infinito di ordine superiore), ma lo è il fatto che tale ente venga posto in atto, cioè costruito attraverso una serie di passi. Questa distinzione è della massima importanza per capire l’origine profonda dal punto di vista logico dei problemi che hanno afflitto la ricerca sui fondamenti della matematica negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo e che sono sostanzialmente legati ad un uso non corretto dell’infinito, come ad esempio nell’LQVLHPH GL WXWWL JOL LQVLHPL, una nozione che evidentemente presuppone la costruibilità della classe universale a partire da tutti i singoli insiemi21. Infine, notiamo che dall’infinità attuale relativa, cioè rispetto ad alcune determinazioni, possiamo passare all’infinità attuale assoluta, vale a dire infinita rispetto a tutti i modi dell’essere; un tale concetto esprime qualcosa che – non avendo aspetti determinati come invece avviene per l’infinito VHFXQGXPTXLG o relativo – non è neppure in alcun modo incrementabile, non ha quindi in sé alcun aspetto potenziale ma è pura attualità: siamo così arrivati ad una caratterizzazione razionale di Dio. Questa caratterizzazione dell’assoluta infinità (intesa come assenza di determinazioni, anche di quelle positive) di Dio come espressione della sua trascendenza è il tratto principale della teologia negativa, presente nel pensiero cristiano fin dai primi secoli: FLzFKHQRQKDIRUPDGjWXWWHOHIRUPHHLQOXLVRORO¶HVVHUHSULYRGLVRVWDQ]DqLOVXSHUDPHQWRGL RJQL VRVWDQ]D OD QRQ YLWD q VRYUDEERQGDQ]D GL YLWD OD QRQ LQWHOOLJHQ]D q VRYUDEERQGDQ]D GL VDSLHQ]D22 In tempi più maturi questi concetti vengono ripresi, tra gli altri, sul piano più specificatamente filosofico da Giovanni Duns Scoto, che fonda la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio sull’incontraddittorietà del concetto di HQV LQILQLWXP23, e su quello Gianfranco BASTI - Antonio L. PERRONE, /H UDGLFL IRUWL GHO SHQVLHUR GHEROH 'DOOD PHWDILVLFD DOOD PDWHPDWLFD DO FDOFROR, Il Poligrafo, Padova 1996 cap. 5. 22 PSEUDO DIONIGI, 'HGLYLQLVQRPLQLEXV, IV, 3 111, 697A. 23 cfr. Mario PANGALLO, /DOLEHUWjGL'LRLQ67RPPDVRHLQ'XQV6FRWR, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, 60-81. 21 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 14 mistico da Meister Eckhart, il quale arriva fino a negare l’essere a Dio ponendolo al di sopra di ogni determinazione24. ,OSUREOHPDGHOO¶LQILQLWRQHOODPDWHPDWLFDPRGHUQD Nel passaggio alla matematica moderna si assiste ad un proliferare di tecniche e problemi che coinvolgono l’infinito. Un primo notevole esempio riguarda l’applicazione della matematica all’arte. I pittori rinascimentali, rispetto ai predecessori, riescono a dare alle loro opere un senso di profondità, una specie di illusione di una ulteriore dimensione. Tutto ciò non avviene unicamente per effetto di geniali quanto inconsapevoli intuizioni, ma presenta aspetti di rigorosa formalizzazione geometrica. 3URVSHWWLYDHSXQWLGLIXJD Sebbene già il Brunelleschi pare che avesse dedicato molta attenzione al problema di rappresentare scene tridimensionali su una scena bidimensionale, il primo trattato sulla prospettiva è di Leon Batista Alberti e porta il titolo 'HOOD3LFWXUD25. Tra XV e XVI secolo alcuni tra i massimi artisti dell’epoca, tra cui Piero della Francesca, Leonardo e Dürer, si occuparono del problema dal punto più specificatamente teorico ottenendo notevoli risultati. Senza volerci occupare dettagliatamente in questa sede della teoria della prospettiva, vogliamo peraltro evidenziare una caratteristica di tale teoria che ha una certa attinenza con la presente discussione, e cioè il concetto di SXQWR GL IXJD. Secondo la definizione della geometria elementare due rette del piano sono parallele quando non si incontrano. Capita a volte di sentir dire che due rette parallele “si incontrano all’infinito”; questa locuzione tradisce una certa presenza dell’infinito in atto nel linguaggio comune, che abbiamo evidenziato precedentemente. Se tuttavia guardiamo due rette parallele – ad esempio i binari di una ferrovia in un tratto rettilineo – ci accorgiamo di avere effettivamente l’illusione che le due linee si avvicinino fino a toccarsi. Nella teoria della prospettiva questo effetto percettivo viene formalizzato mediante l’introduzione di uno o più punti di fuga, veri e propri punti all’infinito in cui convergono le rette parallele di piani aventi varie inclinazioni rispetto al piano del disegno, che però occupano posizioni ben determinate nel disegno stesso. Nella geometria proiettiva si ha la formalizzazione del punto di fuga mediante l’introduzione di coordinate omogenee; ogni punto del piano, cioè, viene identificato non solo dall’ascissa [ e dall’ordinata \ ma anche da una terza coordinata 24 25 cfr. Aniceto MOLINARO, 7UDILORVRILDHPLVWLFD, Città Nuova editrice, Roma 2003. cfr. Carl B. BOYER, cit., 340-344. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 15 W che può assumere i valori 0 e 1. Le ordinarie coordinate del punto sono ridefinite mediante le relazioni: [ → [ \ e \ → . Per i punti con W = 1 nulla è cambiato, ma se W W W = 0 i rapporti non si possono formare e il punto viene definito come punto all’infinito. Abbiamo quindi il risultato estremamente importante dal punto di vista concettuale che mediante una terna di valori in un opportuno sistema di coordinate – ad esempio (1;1;0) – si può attualmente identificare un punto all’infinito, il quale è diverso da altri punti all’infinito – ad esempio da (− 1;1;0). *DOLOHRHODJHRPHWULDGHJOLLQGLYLVLELOL Il richiamo all’infinito della teoria della prospettiva non è né l’unico né il più importante nella matematica dell’età moderna. Una concezione dovuta originariamente a Galileo e successivamente sviluppata dai suoi allievi, Evangelista Torricelli e Bonaventura Cavalieri, sostiene la possibilità della divisione di un continuo – ad esempio un segmento – in un insieme infinito in atto di parti indivisibili e prive di estensione; SDUWLQRQTXDQWH, per usare la terminologia di Galileo26. Assumere questa posizione non è privo di risultati, in particolare comporta risultati molto interessanti riguardo al calcolo dei volumi delle figure solide, cioè il cosiddetto principio di Cavalieri27: VH GXHVROLGLVLSRVVRQRGLVSRUUHULVSHWWRDXQSLDQRLQPRGRFKH RJQLSLDQRSDUDOOHORDTXHVWROLWDJOLVHFRQGRVH]LRQLHTXLYDOHQWLVRQRHTXLYDOHQWL. Per spiegare meglio il concetto con un esempio, consideriamo due insiemi di otto dischetti di cartone tutti uguali tra loro. Con il primo gruppo costruiamo una torre facendo combaciare esattamente ogni dischetto con il sottostante, otterremo così un cilindro retto. Anche con il secondo gruppo costruiamo una torre, ma facendo in modo che ogni dischetto sia leggermente spostato rispetto al sottostante. Avremo così un cilindro non retto, ma inclinato rispetto al piano della base (qualcosa di simile alla torre di Pisa). I due solidi così costruiti hanno forme diverse, ma poiché ogni dischetto del primo corrisponde ad un uguale dischetto del secondo è immediato riconoscere che essi avranno cfr. Lucio LOMBARDO RADICE, /¶LQILQLWR,WLQHUDULILORVRILFLHPDWHPDWLFLGLXQFRQFHWWRGLEDVH, Editori Riuniti, Roma 1981. 27 Giovanni MELZI - Livia TONOLINI, /H]LRQLGL*HRPHWULD, Minerva Italica, Bergamo 1993, 286. 26 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 16 lo stesso volume. Il principio di Cavalieri estende queste osservazioni, ma adesso invece che un dischetto sottile abbiamo una sezione piana, cioè una figura di spessore nullo. Non dovremo più quindi confrontare gli otto dischetti di un cilindro con gli otto dell’altro, ma le infinite sezioni di un solido con le infinite dell’altro. È immediato osservare che nell’ultima frase abbiamo dato all’aggettivo “infinite” la stessa valenza di qualsiasi numerale finito, ad esempio otto. 1DVFLWDHVYLOXSSRGHOO¶DQDOLVLLQILQLWHVLPDOH Di fatto la moderna analisi matematica non è basata sulla galileiana geometria degli indivisibili (la cui unica traccia nei testi moderni è il principio di Cavalieri) ma sul calcolo infinitesimale sviluppato da Newton e Leibniz. In esso non ci si confronta più con l’infinito, ma con un concetto a questo strettamente correlato, quello di infinitesimo. Una quantità infinitesima può diventare più piccola di qualsiasi valore fissato, senza peraltro mai annullarsi completamente. Il concetto di limite – su cui si basa tutta l’analisi matematica – consiste proprio in questo: si dice ad esempio che il limite di una funzione in un dato punto è un certo valore se la funzione si può arbitrariamente avvicinare al limite quando la variabile indipendente si avvicina opportunamente al punto; tuttavia la variabile indipendente non coinciderà mai esattamente con il punto, né la funzione con il limite. Anche in questo contesto vi è un chiaro richiamo all’infinito (avvicinamento indefinito, quantità più piccola di qualsiasi piccolo valore arbitrariamente scelto e tuttavia diversa da zero...) però riconosciamo facilmente che si tratta di un infinito potenziale e non attuale; di fatto, “l’infinitesimo attuale” è semplicemente lo zero, che non presenta alcuno dei problemi concettuali dell’infinito attuale, sebbene sostituire gli infinitesimi con lo zero non porterebbe ad alcun risultato. La proprietà della continuità – tanto importante per l’analisi matematica – esprime la possibilità per la retta dei numeri reali (o un suo sottoinsieme, semiretta o segmento) di essere suddivisa in intervalli localizzati e piccoli quanto si vuole; se interpretiamo ciò dicendo che la retta o il segmento è composta da una infinità attuale di punti ricadiamo nei paradossi del tipo di quello di Achille e la tartaruga, l’applicazione del concetto di limite ci permette invece di affermare la possibilità di un avvicinamento non limitato dal alcun vincolo al punto desiderato. La differenza è sostanziale; da un punto di vista operativo XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 17 qualsiasi tentativo di determinare completamente un numero irrazionale28 si risolve con procedure che richiedono un numero infinito (in atto) di operazioni elementari. Nondimeno, il numero irrazionale è perfettamente definito (ancora un’eco della distinzione tomista tra ente infinito in atto ed ente attualmente infinito), tanto che processi di costruzione geometrica possono permetterci di determinare esattamente il segmento corrispondente sulla retta dei numeri reali. *HRUJ&DQWRU All’interno di questo genere di problematiche si situa l’opera geniale di Georg Cantor. Bisogna innanzitutto ricordare che i problemi affrontati da Cantor non sono quelli usuali dell’analisi matematica, legati alla continuità della retta reale e all’operazione di limite, ma piuttosto di un ordine più fondamentale, riguardanti un concetto che per la sua elementarità poteva rappresentare un ottimo punto di partenza per l’intera matematica: il concetto di insieme. C’è da dire che l’aspirazione a fondare apoditticamente la matematica partendo dagli insiemi (come da altri principi-base) si rivelò fallimentare, e ciò proprio a causa di una serie di patologie che sorgono quando si prendono in considerazione gli insiemi infiniti, evidenziate da Cantor stesso e da alcuni tra i maggiori matematici vissuti a cavallo tra otto e novecento. A noi tuttavia non interessa in questa sede l’analisi della crisi dei fondamenti della matematica29, quanto piuttosto prendere in esame le idee di Cantor sull’infinito. Non sarà forse inutile ricordare in estrema sintesi l’essenza dei risultati ottenuti da Cantor. ,WUDQVILQLWL Partendo dall’ovvia osservazione che due insiemi (finiti) hanno lo stesso numero di elementi (o – come si dice – la stessa cardinalità) quando ogni elemento del primo può essere messo in corrispondenza con uno del secondo, e che nel caso degli insiemi infiniti, e solo in quel caso, un insieme può essere messo in corrispondenza con una sua parte propria (per esempio l’insieme dei numeri interi con quello dei numeri pari), egli dimostra una serie di risultati che apparentemente stridono con il comune senso matematico. Per esempio le frazioni, che ci immaginiamo densamente distribuite sulla retta dei numeri reali, 28 I numeri irrazionali – a differenza dei numeri razionali – non si possono esprimere come un rapporto tra due numeri interi e quindi nel loro sviluppo decimale esibiscono una sequenza non terminata di cifre che non presenta alcuna periodicità. 29 cfr. Bruno D’AMORE - Maurizio L. M. MATTEUZZI, 'DOQXPHURDOODVWUXWWXUD%UHYHVWRULDGHOODPDWHPDWLFDPRGHUQD, Zanichelli, Bologna 1975, capp. 4 e 5. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 18 e quindi molto più numerose dei numeri interi (dei quali se ne incontra solo “uno ogni tanto”) hanno in realtà la stessa cardinalità. Corrispondentemente si dimostra che questa stessa cardinalità è minore di quella dei numeri reali, nel senso che se per assurdo supponessimo di numerare tutti i valori reali, ne resterebbe sempre fuori almeno uno. In altri termini, ogni numero intero o frazione può essere messo in corrispondenza con un numero reale, ma non ogni numero reale può essere messo in corrispondenza con un numero intero o frazione; questo basta per affermare che la cardinalità dei numeri reali è maggiore di quella dei numeri interi e delle frazioni. Le conseguenze di queste osservazioni sono enormi. Non sarà più sufficiente infatti distinguere tra insiemi finiti e insiemi infiniti, ma nell’ambito degli insiemi infiniti ve ne saranno alcuni “più grandi” di altri. Si introduce cioè una sorta di confronto o ordinamento tra infiniti; ma per poter confrontare due quantità, ho bisogno di averle entrambe presenti e in atto. Sembra dunque che l’infinito in atto faccia il suo ritorno trionfale; in realtà quello di Cantor non è lo stesso infinito attuale che aveva in mente Aristotele, tanto è vero che gli si dà un nome differente: non infinito, ma transfinito. I transfiniti sono infiniti in atto incrementabili che obbediscono ad operazioni di confronto, composizione, ecc., ben diversi dall’unico infinito in atto non incrementabile (l’Assoluto) che sfugge per sua stessa natura a qualsiasi formalizzazione di tipo logico-matematico. In altri termini, l’opera di Cantor non è una confutazione del principio aristotelico di impossibilità di un infinito in atto che non sia l’Assoluto (come talvolta capita di sentir dire), ma piuttosto l’inserzione di una classe – a sua volta infinita – di livelli intermedi tra i due infiniti aristotelici: quello potenziale e l’Assoluto. ,QILQLWRDVVROXWR Questo punto è della massima importanza, e risulta chiaramente dagli scritti di Cantor30. In effetti Cantor ha una concezione essenzialmente platonica: gli enti matematici esistono da sempre nella mente di Dio, e affinché un ente matematico esista basta che sia possibile, cioè non contraddittorio. Non si tratta però di formalismo alla Hilbert (sebbene possa per certi versi assomigliargli). Infatti l’esistenza implicata dall’incontraddittorietà è qualcosa di più forte della semplice coerenza logica dei formalisti. In particolare distinguiamo tra: 30 - possibilità - esistenza astratta - creabilità (da parte di Dio) cfr. Michael HALLETT, &DQWRULDQVHWWKHRU\DQGOLPLWDWLRQRIVL]H, Oxford University Press, New York 1984. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL - 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 19 concreta esistenza Questa posizione non era condivisa da Frege, per il quale la coerenza logica da sola non basta a garantire l’esistenza di un ente matematico o logico. Per Cantor invece Dio non crea ogni cosa che vuole, ma tutto ciò che può. Il richiamo a Dio è essenziale per giustificare l’ontologia cantoriana; in particolare gli enti matematici, che sono possibili in quanto incontraddittori, esistono da sempre nella mente di Dio. Questa è come la mente umana, ma incommensurabilmente più potente, per cui può contenere concetti e idee inaccessibili all’uomo31. Se questo principio vale per ogni sorta di ente matematico, esso assume la massima rilevanza per quanto concerne i transfiniti. Come abbiamo visto, secondo la scolastica l’unico possibile infinito in atto è Dio, altrimenti possiamo avere solo infiniti potenziali. Cantor si pone in continuità con questa posizione, sostenendo che essa era perfettamente giusta e coerente in quanto al tempo non era ancora stata scoperta la teoria dei transfiniti. Avendo egli dimostrato la possibilità di infiniti in atto incrementabili, appunto i transfiniti, viene automaticamente rilevato come essi esistano nella mente di Dio, e abbiano pure la loro esistenza in qualche modo nella creazione, secondo il principio della massima possibilità. I transfiniti non sono dunque uno sminuire la grandezza di Dio togliendogli l’unicità della prerogativa dell’infinito in atto, ma anzi un modo in più per glorificarlo, in quanto aggiunta di un ulteriore strumento alla Sua potenza creativa, che Egli utilizza alla stessa stregua dei numeri finiti. I principi fondamentali sulla base dei quali Cantor giustifica il suo utilizzo dell’infinito attuale sono tre32: 1. 3ULQFLSLR GHOO¶LQILQLWR DWWXDOH R SULQFLSLR GHO GRPLQLR: ogni infinito potenziale presuppone sempre l’esistenza di un corrispondente infinito attuale; ciò significa che le totalità infinite esistono in atto, e quando riconosciamo una successione potenzialmente infinita, abbiamo in realtà “sollevato il velo” su una parte di una totalità infinita già completamente data. 2. 3ULQFLSLR GL ILQLWLVPR: i transfiniti sono sullo stesso piano degli ordinari numeri (finiti), e il trattamento matematico di tali entità è il più possibile simile a quello dei numeri; ciò significa che si costruisce una vera e propria aritmetica dei transfiniti, una scala in base alla quale essi sono ordinati, e in generale tutte quelle cose che si 31 32 ,YL, 21. ,YL, 7. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 20 possono fare con oggetti matematici che sono appunto definiti e quindi concretamente esistenti. 3. 3ULQFLSLR GHOO¶LQILQLWR $VVROXWR: l’infinito Assoluto non può essere determinato matematicamente; rispetto alla tradizionale suddivisione di origine aristotelica dell’infinito in potenziale ed attuale, Cantor introduce l’ulteriore divisione dell’infinito attuale in transfinito (incrementabile) e assoluto. Quest’ultimo coincide con l’unico infinito attuale a non incrementabile che la tradizione aristotelicotomista identifica con Dio; Cantor non cancella questa suprema concezione di infinito, ma la arricchisce di un ulteriore strumento della sua potenza creativa, che sono appunto i transfiniti. ,OFRQFHWWRGLLQVLHPH Quello a proposito del rapporto tra infinito potenziale e Assoluto da una parte e transfiniti dall’altra non è l’unico equivoco che viene sovente incontrato riguardo al pensiero di Cantor. Alla base della teoria degli insiemi vi è infatti il concetto stesso di insieme che – a dispetto del suo carattere fondamentale e basilare – non è affatto un concetto banale. Cantor non considera “insieme” un qualsiasi raggruppamento di oggetti, enti, ecc. messi insieme, bensì una molteplicità che possa – sulla base di qualche legge – essere pensata come una unità33. In termini platonici, potremmo dire che un insieme è una molteplicità la cui corrispondente unità possiede un’idea come modello esemplare nell’iperuranio. Cosa si intende con “poter pensare come una unità” non è molto chiaro. Potrebbe essere correlato ad una impostazione intensionale, cioè l’unificazione avviene per mezzo di un concetto. Tuttavia Cantor sembra optare per una visione estensionale quando dice che gli elementi dell’insieme devono essere chiaramente identificati. Naturalmente in questo modo sorge immediatamente un problema con gli insiemi infiniti, per i quali non è possibile il passaggio dall’intensionale all’estensionale, in quanto non si potrà mai realizzare una enumerazione completa. C’è poi un’altra questione: cos’è che rende una molteplicità di oggetti una unità, cioè un insieme. Forse il fatto che vengano pensati come unità? Ma allora si avrebbe una sorta di ruolo costruttivo del pensiero umano, in grado di trasformare, per esempio, due mele sul tavolo in un insieme di due mele. In realtà l’azione costruttiva che Cantor sottintende non è quella dell’uomo ma della mente di Dio, che si trova così ad avere il ruolo di iperuranio nel quale sono conservate le idee. Inoltre questo 33 ,YL, 33. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 21 risolve anche il problema del passaggio all’estensionalità per gli insiemi infiniti. Cantor infatti, citando esplicitamente quello stesso passo del 'H &LYLWDWH 'HL che abbiamo già incontrato nelle pagine precedenti, nel quale viene detto che Dio conosce tutti i numeri in atto, vi vede una chiara anticipazione del concetto di transfinito, inteso come una modalità dell’infinito in atto posta al di sotto dell’infinito assoluto. Ma come si può caratterizzare l’infinito assoluto? Esso è posto oltre tutte le scale di numeri. È il dominio di tutto ciò che è matematizzabile, e come tale non è esso stesso matematizzabile, deve cioè trascendere la matematica. È un infinito che non appartiene ad alcun livello nella scala dei transfiniti. Infatti sia togliendo che aggiungendo alcunché – sia finito che transfinito – all’assoluto la sua grandezza non cambia. questo ci dice che esso non ricade nel dominio dei transfiniti, neppure come un infinito al di là di tutti gli infiniti (esattamente come il transfinito è al di là di tutti i numeri finiti). Piuttosto, in quanto non soggetto ad operazioni di accrescimento/diminuzione esso è non matematizzabile. La totalità degli enti che possono essere trattati con i metodi della matematica è un ente che è al di fuori della matematica. Lo potremmo forse pensare come l’insieme di tutti gli insiemi? Ma sappiamo che tale nozione è contraddittoria. In realtà Cantor identifica chiaramente l’assoluto con Dio (o almeno con alcune sue caratteristiche). Sorge però a questo punto un problema di ordine logico. Se infatti tutti gli infiniti potenziali hanno un corrispondente attuale nella mente di Dio, cosa impedirebbe a Dio di pensare in maniera finitistica la classe universale degli oggetti matematici (cioè l’insieme di tutti gli insiemi), allo stesso modo in cui pensa attualmente la totalità dei numeri naturali? È forse preferibile ridurre la portata della concezione di Cantor, svincolando l’assoluto dalla teologia e intendere la non matematizzabilità semplicemente come una separazione di tipi tra l’Assoluto e i transfiniti, al modo della teoria di Russell34. Comunque, nell’accostare l’Assoluto a Dio, non si può non rilevare una stringente analogia tra l’impossibilità di una trattazione matematica del primo e l’inadeguatezza dell’intelligenza umana a comprendere il secondo. In entrambi i casi infatti la ragione ci porta solo sulla soglia della comprensione (qualsiasi cosa significhi il verbo “comprendere” applicato a concetti di tale portata...) e lì ci abbandona. In entrambi i casi è possibile giungere fino alla dimostrazione del DQ VLW, ma nulla si può dire sul TXLGVLW (eccetto alcune intuizioni che seguono la via negativa e quella superlativa). 34 ,YL, 45. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 22 /LPLWD]LRQHGHOODGLPHQVLRQHGHJOLLQVLHPL Dopo queste precisazioni sul carattere dell’Assoluto torniamo al problema della definizione di insieme. Come abbiamo visto, per Cantor “insieme” non è un qualunque raggruppamento di oggetti o concetti, ma è una collezione di elementi appartenenti alla stessa “sfera concettuale”. Vi è cioè un riferimento alla nozione unificante di sfera concettuale, cioè di idea o concetto. Questa nozione è di per sé molto vasta, ma viene ristretta negli scritti di Cantor agli enti matematici. Così i numeri interi, i punti del piano, ecc. saranno altrettante sfere concettuali. Tuttavia, come abbiamo visto, all’interno di questa prospettiva non c’è motivo per escludere che l’intero universo degli enti matematici sia a sua volta una sfera concettuale, ammettendo così la nozione distruttiva di insieme di tutti gli insiemi. Questa è proprio la direzione in cui si muove Dedekind quando afferma che un insieme è completamente determinato quando è possibile dire per ogni ente se appartenga a tale insieme oppure no (in termini più precisi si tratta di definire la cosiddetta IXQ]LRQHFDUDWWHULVWLFD di un insieme, cioè una funzione che abbia come dominio una certa classe di enti e i cui possibili valori siano zero se l’ente-argomento non appartiene all’insieme e uno altrimenti). Chiaramente, con questa definizione la proprietà che definisce estensivamente l’insieme di tutti gli insiemi è semplicemente il principio di identità. Nella visione di Cantor invece l’insieme universale viene escluso in quanto immagine dell’Assoluto, e come tale non riducibile ad operazioni razionali (in particolare ad operazioni matematiche). Questa soluzione del problema presenta però un forte carattere DG KRF, e non è quindi molto soddisfacente. Inoltre lascia aperta la questione su cosa si possa operativamente definire insieme e cosa no. Due saranno le strade per arrivare a risolvere questo problema ampiamente battute nei successivi sviluppi della teoria degli insiemi, ma entrambe già presenti negli scritti di Cantor: 1. una procedura di costruzione “dal basso” che partendo da un particolare insieme di riferimento – per esempio i numeri naturali – permette di generare tutti gli altri insiemi, vale a dire tutte le possibili cardinalità, finite e transfinite. Tale procedura è quella dell’insieme potenza, per cui partendo da un certo insieme possiamo costruire l’insieme di tutti i suoi possibili sottoinsiemi – appunto l’insieme potenza – oppure, che è lo stesso, la classe di tutte le possibili funzioni aventi l’insieme dato come dominio e valori in {0, 1}. Il vantaggio di questo approccio è che l’Assoluto – rappresentato da classi omnicomprensive, come l’insieme di tutti gli insiemi – risulta automaticamente escluso dal novero degli insiemi in quanto di qualsiasi insieme generato con il metodo esposto sopra potremo a sua volta costruire XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 23 l’insieme potenza, e quindi non arriveremo mai ad una cardinalità non ulteriormente incrementabile (che è appunto ciò che caratterizza l’Assoluto). In questo modo vediamo che la classe universale non è un insieme poiché non è raggiungibile con procedimenti costruttivi, e quindi non è trattabile secondo i metodi matematici che si applicano agli insiemi: in tal modo è salva la trascendenza e con essa il significato teologico dell’Assoluto. Il problema di questa impostazione è quello di trovare delle regole chiare ben definite per la costruzione degli insiemi, problema al quale sarà principalmente rivolta la teoria di Zermelo; 2. il secondo approccio procede invece dall’alto: assumiamo la classe universale come assioma e definiamo gli insiemi a partire da essa, che tuttavia non è a sua volta un insieme. La limitazione della dimensione è data quindi dalla stessa classe universale. In questo modo alcune limitate operazioni matematiche (l’individuazione di sottoinsiemi) diventano possibili sulla classe universale, che perde quindi il carattere di assoluta trascendenza e con esso il significato teologico datole da Cantor. ,QILQLWjHGHWHUPLQD]LRQHLQUDSSRUWRDOODUHDOWjILVLFD Tutte le considerazioni precedentemente svolte a proposito dell’infinito riguardano aspetti esclusivamente pertinenti all’ambito matematico, ma possono essere concepibili forme di infinità in relazione all’ordine della realtà fisica? Abbiamo già visto come l’idea di infinito propria della mentalità comune sorga dalla constatazione di enormi quantità, tempi e distanze nell’universo, ma si tratta pur sempre grandezze finite. Torneremo in seguito sulla possibilità di un universo illimitato, ma prima vogliamo accennare ad un altra questione legata ad aspetti di infinità nell’ordine fisico: quanti fattori occorrono per la determinazione di un ente fisico? ,VLQJROLHQWLPDWHULDOL A questa domanda paradigmi ontologici diversi forniscono risposte differenti. In una visione puramente riduzionista qualsiasi ente o fenomeno è sempre completamente scomponibile in un ben determinato numero di livelli inferiori, fino a quello più basso che – a seconda della teoria accettata – potrà essere quello dei quark e leptoni, dei campi quantistici, o delle stringhe. In ogni caso però sono questi oggetti elementari e le leggi con cui interagiscono che determinano interamente ogni struttura di livello più alto. Questa forma di finitismo si estende facilmente dal singolo ente all’intero universo e – nella forma XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 24 più radicale di riduzionismo, il meccanicismo (l’intera realtà ridotta a particelle materiali interagenti) – comporta un determinismo pressoché completo. Secondo le celebri parole di Laplace: 8QLQWHOOHWWRFKHDXQGDWRPRPHQWRFRQRVFHVVHWXWWHOHIRU]HFKHDQLPDQROD1DWXUDHOHPXWXH SRVL]LRQLGLWXWWLJOLHQWLFKHTXHVWDFRPSUHQGHVHTXHVWRVWHVVRLQWHOOHWWRIRVVHVXIILFLHQWHPHQWH YDVWRSHUVRWWRSRUUHDGDQDOLVLTXHVWLGDWLSRWUHEEHFRQGHQVDUHLQXQDVLQJRODIRUPXODWDQWRLO PRYLPHQWRGHLSLJUDQGLFRUSLGHOO¶XQLYHUVRTXDQWRTXHOORGHJOLDWRPLSLOHJJHULSHUWDOH LQWHOOHWWRQXOODSRWUHEEHHVVHUHLQFHUWRHLOIXWXURFRVuFRPHLOSDVVDWRVDUHEEHURSUHVHQWLDL VXRLRFFKL35 I moderni riduzionisti hanno abbassato le loro pretese, ma la convinzione di fondo che qualsiasi fenomeno possa in linea di principio essere completamente determinato a partire da un numero finito di componenti elementari perfettamente individuabili e dalle leggi che esprimono le loro relazioni è rimasta ben salda: &RQRVFHUH LO FRPSRUWDPHQWR GL XQ HOHWWURQH R GL XQ TXDUN q XQ FRQWR DSSOLFDUH TXHVWD FRQRVFHQ]D SHU SUHYHGHUH LO WUDJLWWR GL XQ WRUQDGR q XQ DOWUR 6X TXHVWR SXQWR PROWL FRQFRUGDQR0DOHRSLQLRQLGLYHUJRQRTXDQGRVLWUDWWDGLVWDELOLUHVHLIHQRPHQLLQDWWHVLFKH DYYHQJRQR DO FUHVFHUH GHOOD FRPSOHVVLWj VLDQR PDQLIHVWD]LRQL GL YHUH H SURSULH QXRYH OHJJL ILVLFKHRVHVLWUDWWLGLFRQVHJXHQ]H±DQFKHVHWHUULELOPHQWHFRPSOLFDWHGDGLPRVWUDUH±GHOOH OHJJL FKH JRYHUQDQR OH VLQJROH PROWLVVLPH SDUWLFHOOH HOHPHQWDUL +R O¶LPSUHVVLRQH FKH TXHVW¶XOWLPDLSRWHVLVLDJLXVWD,OIDWWRFKHVLDLPSRVVLELOHVSLHJDUHOHSURSULHWjGLXQWRUQDGRLQ WHUPLQLGLHOHWWURQLHTXDUNPLVHPEUDSLXQSUREOHPDFRPSXWD]LRQDOHFKHXQVHJQDOHGHOOD SUHVHQ]DGLQXRYHOHJJLILVLFKH36 Su quali definitivi argomenti si basi tale convinzione non è chiaro; in realtà sembra più che altro un’opinione fondata su vecchi pregiudizi positivisti, principio di autorità e inerzia intellettuale, se anche un premio Nobel come Steven Weimberg sostiene, con una buona dose di arroganza, che: $OO¶DOWURFDSRFLVRQRJOLDYYHUVDULGHOULGX]LRQLVPRFKHVRQRLQGLJQDWLGDTXHOODFKHDORUR VHPEUDODWULVWH]]DGHOODVFLHQ]DPRGHUQD6LVHQWRQRVPLQXLWLGDOIDWWRFKHLOORURPRQGRSXz HVVHUHULGRWWRDTXHVWLRQLGLSDUWLFHOOHHGLLQWHUD]LRQL>@1RQPLVHPEUDLOFDVRGLULVSRQGHUH D TXHVWH FULWLFKH FRQ XQ GLVFRUVHWWR HGLILFDQWH VXOOH PHUDYLJOLH GHOOD VFLHQ]D PRGHUQD /D YLVLRQHGHOPRQGRGLXQULGX]LRQLVWDqGDYYHURIUHGGDHLPSHUVRQDOHGHYHHVVHUHDFFHWWDWDFRVu FRP¶qQRQSHUFKpFLSLDFHPDSHUFKpFRVuIXQ]LRQDQROHFRVH37 Pierre-Simon DE LAPLACE, (VVDLSKLORVRSKLTXHVXUOHVSUREDELOLWpV, 1825, trad. it. 6DJJLRVXOOHSUREDELOLWj, Laterza, Bari, 1951. 36 Brian GREENE, /¶XQLYHUVR HOHJDQWH 6XSHUVWULQJKH GLPHQVLRQL QDVFRVWH H OD ULFHUFD GHOOD WHRULD XOWLPD, Einaudi, Torino, 2000, 16. 37 Steven WEIMBERG, ,OVRJQRGHOO¶XQLWjGHOO¶XQLYHUVR, Mondadori, Milano, 1993, 57. 35 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 25 Ma è poi vero che non vi è alternativa alla visione riduzionista sulla base di una ragionevole analisi dei risultati della fisica moderna? Senza volerci troppo addentrare in questioni epistemologiche, ci sembra che scienziati come Weimberg siano prigionieri del loro paradigma, nel senso che a questo termine dà Kuhn nella sua celebre opera sulle rivoluzioni scientifiche38, cioè un sistema di pensiero che definisce i fenomeni, i problemi, il linguaggio, i procedimenti, e che di fronte a fatti spiegabili difficilmente e solo con il ricorso a ipotesi DGKRF può anche vacillare, ma che comunque i suoi sostenitori tenteranno di difendere con ogni mezzo contro l’affermarsi di nuovi paradigmi alternativi. È un fatto noto che dall’ultimo quarto del XX secolo sia in atto una tale competizione di paradigmi, nella quale la vecchia visione riduzionista cara ai fisici delle particelle elementari, che tanti successi aveva raccolto nella prima fase dell’era quantistica, si oppone a quella che a tutti gli effetti si configura come una nuova scienza, trasversale a molti ambiti tradizionali (fisica, chimica, biologia, ma anche sociologia ed economia), e alla quale si fa variamente riferimento come teoria del caos, dei sistemi non lineari, della complessità39. Tornando al tema del rapporto tra infinità e determinismo nell’ontologia dell’ente fisico, appare plausibile che posizioni alternative al riduzionismo escludano anche il finitismo da esso implicato. In altre parole, se una data struttura non è nient’altro che la somma dei suoi costituenti elementari e delle loro interazioni, nessuna forma di infinità può aversi all’interno dell’ordine materiale: un gatto è “solo” l’insieme dei quark e dei leptoni degli atomi delle biomolecole delle cellule dei suoi tessuti e le loro interazioni; indubbiamente un numero grande, ma finito e determinato. Se però un gatto è anche “qualcos’altro” oltre a quell’affollato insieme di quark e leptoni, ecco che può essere arduo stabilire quanti fattori concorrono a determinarlo. Se l’epistemologia riduzionista prevede che un ente possa essere completamente dedotto dalle condizioni iniziali (cioè dalle parti costituenti) sulla base delle leggi che descrivono le interazioni, nella dottrina aristotelico-tomista40 si ha l’eduzione della forma dalla materia, e l’ultima determinazione è dovuta all’ente/processo stesso. Si tratta cioè di individuare l’insieme dei fattori che concorrono alla determinazione dell’essenza di un dato ente, cioè delle sue cause (cause seconde, non sufficienti da sole a garantire l’esistenza in atto, per la quale dovremo riferirci ad un altro ordine di causalità). È questa la Thomas S. KUHN, /DVWUXWWXUDGHOOHULYROX]LRQLVFLHQWLILFKH, Einaudi, Torino, 1969. La letteratura in merito è pressoché sterminata, cfr. ad esempio due opere che sono ormai diventati classici: Hermann HAKEN, 6LQHUJHWLFD,OVHJUHWRGHOVXFFHVVRGHOODQDWXUD. Boringhieri, Torino, 1983 e Ilya PRIGOGINE - I. STENGERS, /D QXRYDDOOHDQ]D0HWDPRUIRVLGHOODVFLHQ]D. Einaudi, Torino, 1981. 40 Gianfranco BASTI - Antonio PERRONE, cit., 77-96. 38 39 XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 26 concezione aristotelica di “causa”, contrapposta a quella più riduttiva del razionalismo moderno che riporta tale nozione a quella della sola causa efficiente. Ora, l’essenza di un ente è proprio ciò che lo rende quello che è e lo distingue da tutti gli altri enti dell’universo. Chiaramente la quantità di informazione necessaria per specificare una tale essenza individuale è potenzialmente infinita. Tuttavia essa non è integralmente richiesta per avere un qualche grado di conoscenza dell’ente; piuttosto, man mano che aumentano le determinazioni acquisite, cresce corrispondentemente la profondità della conoscenza, basata quindi non sulla completezza dell’essenza ma su una sua connotazione parziale che chiameremo TXLGGLWDV. Infine, un’altra accezione equivalente dell’essenza è quella denotata dal termine “natura”, che indica le azioni peculiari di un certo ente, dall’osservazione delle quali potremo poi risalire alle determinazioni che costituiscono l’essenza41. Tornando quindi al rapporto di questa epistemologia con quella riduzionista, non si tratta di negare che un ente strutturato sia composto di parti, ma piuttosto di riconoscere che questa composizione non è da sola sufficiente alla piena e completa determinazione dell’ente stesso. E quindi, in che senso viene a cadere il finitismo riduzionista? È chiaro che l’enumerazione delle cause seconde non porterà ad un infinità attuale (che sarebbe contraddittoria); tuttavia non siamo più neanche nella condizione in cui la completa determinazione di un ente richiede esattamente tutti i suoi quark e leptoni, non uno di più né uno di meno. Invece, scendendo a livelli sempre più approfonditi nell’indagine, si troveranno sempre nuovi elementi nella scala delle cause seconde; abbiamo cioè una quantità di enti e processi concorrenti finita sì, ma sempre incrementabile. /¶LQWHURXQLYHUVR Vi è un altro aspetto in base al quale l’infinito può presentarsi come categoria concettuale applicabile alla realtà materiale. Si tratta dell’estensione spazio-temporale dell’intero universo. La questione ci porta quindi a dirigere la nostra attenzione sui vari modelli cosmologici, ampiamente discussi nella precedente sezione; non sarà fuori luogo tuttavia riassumerne qui, a titolo di chiarezza, le principali caratteristiche e implicazioni. Ricordiamo brevemente che il modello cosmologico standard – supportato da un gran numero di prove osservative, di cui la principale è l’allontanamento delle galassie con una velocità proporzionale alla loro distanza reciproca (legge di Hubble) – prevede che 41 Gianfranco BASTI, )LORVRILDGHOOD1DWXUD«, cit., 416-422. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 27 l’universo abbia avuto origine da una singolarità iniziale di dimensioni così piccole e temperatura e densità così elevate che le leggi della fisica come le conosciamo perdono completamente significato: il Big Bang. A dispetto delle molte conferme, vi sono però alcuni punti non spiegabili all’interno del modello cosmologico standard. Inoltre, nel modello cosmologico standard non è prevista alcuna causa per la spinta propulsiva iniziale né per la enorme quantità di materia-energia presente, che devono pertanto essere assunte come ipotesi DG KRF. Tutti questi problemi vengono risolti nell’ambito della teoria dell’universo inflazionario42. 8QLYHUVRLQIOD]LRQDULR Secondo questa teoria lo stato iniziale dell’universo consisteva in una forma di vuoto diversa da quella ordinaria; come un atomo può avere solo particolari energie di cui la più bassa è lo stato fondamentale e le altre i livelli eccitati, così anche il vuoto può presentarsi in varie configurazioni quantistiche di differenti energie. Quella che compete alla materia e allo spazio-tempo nello stato attuale che conosciamo è appunto lo stato fondamentale, di energia minima e dinamicamente stabile. All’inizio della storia dell’universo, però, vi era un seme di vuoto in un livello eccitato, quello cioè che tecnicamente si chiama IDOVRYXRWR. Vi è una profonda differenza tra il vuoto ordinario – dinamicamente stabile – e il falso vuoto: quest’ultimo infatti si comporta come un fluido a pressione negativa. Il concetto non è per niente intuitivo; infatti nessun liquido, o gas, o plasma, o altro stato esotico della materia, ha questa singolare proprietà. La sostituzione di un valore negativo della pressione nelle equazioni di campo di Einstein comporta una repulsione antigravitazionale che causa una rapidissima espansione dello spazio-tempo in progressione geometrica. Inoltre, contrariamente a quello che fanno gli ordinari fluidi a pressione positiva che espandendosi si raffreddano, il falso vuoto aumentando il proprio volume accumula energia. Ora, come un atomo non permane che per un breve intervallo di tempo nello stato eccitato prima di decadere al livello fondamentale emettendo energia sotto forma di radiazione elettromagnetica, così anche il falso vuoto non è stabile e ben presto (in 10-35 secondi) decade nel livello fondamentale producendo una enorme quantità di particelle di ogni tipo che popolano un spazio che si espande a causa della spinta antigravitazionale subita nel precedente stato di falso vuoto, in quella cioè che viene comunemente detta IDVH LQIOD]LRQDULD. 42 Alan GUTH, 7KH,QIODWLRQDU\8QLYHUVH7KH4XHVWIRUD1HZ7KHRU\RI&RVPLF2ULJLQV, Basic Books, New York 1997. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 28 Malgrado l’ipotesi dell’espansione inflazionaria permetta di giustificare i fatti osservativi che nel modello cosmologico standard non trovano spiegazione, nonché di evitare il ricorso ad assunzioni DG KRF su punti della massima importanza come l’origine stessa della materia ed energia che costituisce l’intero universo, essa comporta tuttavia alcuni punti poco chiari. Il principale di essi riguarda le modalità del passaggio allo stato di vuoto ordinario, cioè la fine della fase inflazionaria. Infatti il decadimento allo stato fondamentale non avviene in ogni luogo contemporaneamente, ma si creano delle bolle di vuoto ordinario in rapida espansione all’interno del mare di falso vuoto, che tuttavia si espande più velocemente, in modo che non si ottenga mai la completa estinzione del falso vuoto. Questo fa sì che le bolle di vuoto ordinario nella loro espansione non riescano a raggiungersi, unificando le rispettive trame spaziotemporali; in altri termini la struttura che emerge da questo modello – detto del nuovo universo inflazionario43 - è quella di un universo “a bolle”, cioè un PXOWLYHUVR, con ogni bolla che porta con sé il proprio spaziotempo, incommensurabile e causalmente separato da quello di ogni altra bolla. Anche se sul piano operativo e sperimentale la rilevanza di questi altri universi “fratelli” del nostro è assolutamente nulla, in quanto non vi può essere per definizione alcuna interazione con essi, su quello della filosofia della natura le cose stanno in maniera diversa. All’interno del modello, infatti, il Big Bang non può più essere considerato come un inizio assoluto del tempo, e dato che la continua produzione di bolle di vuoto ordinario all’interno di una matrice di falso vuoto in espansione inflazionaria ha tutti i caratteri di un processo stazionario, si affaccia la concreta possibilità della mancanza di un punto di inizio per la totalità della realtà materiale44. Si ha cioè l’eventualità di un infinito potenziale nel tempo. 8QLYHUVRFLFOLFR Una concezione decisamente alternativa alle teorie inflazionarie è quella che emerge dal recente modello dell’universo ciclico45. Gli ingredienti fondamentali di questa teoria sono la teoria delle stringhe nella sua formulazione più generale e la multidimensionalità della realtà materiale. Si ipotizza quindi che il nostro universo “viva” in una membrana tridimensionale all’interno di uno spazio ad un maggior numero di dimensioni, insieme ad 43 Andrei D. LINDE, “A New Inflationary Universe Scenario: a Possible Solution of the Horizon, Flatness, Homogeneity, Isotropy, and Primordial Monopole Problems”, in 3K\VLFV/HWWHUV 108B (1982) 389-392. 44 Andrei D. LINDE, “The Eternally Existing, Self-Reproducing Inflationary Universe”, in 3URFHHGLQJV RI WKH 1REHO 6\PSRVLXPRQ8QLILFDWLRQRI)XQGDPHQWDO,QWHUDFWLRQV (June 2-7, Marstrand, Sweden), edited by L. BRINK et al., World Scientific, Singapore, 1987. 45 Paul J. STEINHARDT - Neil TUROK, (QGOHVV8QLYHUVH%H\RQGWKH%LJ%DQJ, Doubleday, New York 2007. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 29 altre simili membrane. Ora, accade che tra due di queste membrane si stabilisce una forza di tipo attrattivo, come quella di una molla, che fa sì che esse si avvicinino l’una all’altra lungo una direzione ortogonale a quelle dello spazio tridimensionale, e infine collidano. Nel momento in cui ciò accade viene liberata una quantità enorme di energia, si ha cioè il Big Bang. Le due membrane vengono respinte l’una dall’altra e lo spazio si dilata, dando luogo al ben noto fenomeno dell’allontanamento reciproco delle galassie descritto dalla legge di Hubble. In una prima fase l’espansione dell’universo tridimensionale e l’allontanamento delle membrane lungo la quarta procedono nello stesso verso, poi il moto delle membrane si inverte mentre lo spazio tridimensionale continua ad espandersi. La distanza che separa le due membrane nel momento del loro massimo allontanamento è minore del diametro di un protone, tuttavia noi non potremo mai riuscire a toccare il nostro universo fratello nell’altra membrana allungando una mano, semplicemente perché qualsiasi movimento avviene in una delle tre direzioni dello spazio, mentre le membrane sono separate lungo una ulteriore quarta dimensione. Proprio come per un peso attaccato ad una molla, man mano che le membrane si avvicinano, acquistano velocità e quindi energia che andrà in parte a costituire il prossimo Big Bang, mentre la materia attualmente presente viene diluita sempre di più, trasportata da uno spazio irreversibilmente in espansione. Poco prima della collisione le membrane sono soggette ad una specie di “accartocciamento”, cosicché alcuni punti vengono in contatto prima di altri: quelli sono i semi del nuovo Big Bang. Si ha così una successione di cicli di evoluzione dell’universo, ognuno dei quali ha una durata stimata in circa mille miliardi di anni. Affinché un comportamento realmente ciclico sia possibile è necessario però che siano superati i due ostacoli di carattere fondamentale espressi dal primo e dal secondo principio della termodinamica. L’universo ciclico presenta infatti tutte le caratteristiche di un moto perpetuo. Ora, il primo principio della termodinamica, vieta la possibilità di un moto perpetuo di prima specie, cioè in violazione del principio di conservazione dell’energia. Nel nostro caso ciò significa domandarsi da dove venga l’energia liberata nel Big Bang all’inizio di ciascun ciclo. Avendo chiarito che non si tratta della materia prodotta nel ciclo precedente – che si trova ormai diluita su un volume enorme – la soluzione più ovvia è che tale energia venga fornita dalla molla cosmica che attira le due membrane. In tal modo però dovremmo avere un effetto di smorzamento che riduce progressivamente l’ampiezza delle oscillazioni (come un’altalena lasciata a se stessa che dopo un po’ si ferma) fina ad uno stato finale di equilibrio. La soluzione al problema fornita dalla teoria si basa sul contributo della gravità, che essendo una forza attrattiva corrisponde ad una energia XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 30 potenziale negativa. In tal modo è proprio la gravità a restituire alla molla che lega le due membrane l’energia che ha perso nel Big Bang. L’altro ostacolo, legato al secondo principio della termodinamica, riguarda la produzione di sempre nuova informazione ad ogni ciclo. È ben noto infatti che un sistema fisico chiuso, lasciato a se stesso, evolve nella direzione di costante aumento del disordine, distruggendo irreversibilmente tutta l’informazione in esso inizialmente contenuta. È questo un risultato della massima generalità, espresso dal secondo principio della termodinamica in una delle sue diverse forme. Se ad esempio lasciamo cadere alcune gocce di inchiostro blu in un bicchiere pieno d’acqua, dopo un po’ avremo un uniforme miscuglio celeste, e anche attendendo un tempo arbitrariamente lungo non vi sarà modo di ottenere di nuovo l’acqua limpida separata dalle gocce concentrate. Essendo l’universo un sistema chiuso, sembrerebbe che in esso la funzione matematica che misura il disordine, chiamata HQWURSLD, sia destinata ad aumentare costantemente, cosicché ad ogni ciclo il disordine totale aumenta fino a rendere impossibile qualsiasi tipo di evoluzione. Di fatto questa è proprio l’obiezione più stringente contro i primi modelli ciclici, basati sulla semplice soluzione delle equazioni di Einstein in condizioni tali che la densità sia tale da permettere alla gravità di vincere la spinta propulsiva iniziale del Big Bang. Nel modello di Steinhardt e Turok invece la materia che costituisce l’universo ad ogni ciclo non è la stessa del ciclo precedente; in tal modo è vero che l’entropia globalmente aumenta in maniera costante, ma ad ogni Big Bang vi è una nuova iniezione di informazione sotto forma di materia altamente ordinata, e così ciascuna evoluzione può seguire lo stesso percorso delle precedenti. Il modello ciclico richiede un inizio assoluto dei tempi nel passato? No, ma nemmeno lo nega. Ci troviamo quindi nella stessa situazione che abbiamo incontrato con i modelli inflazionari: la produzione/successione di universi è un processo stazionario, e come tale potrebbe benissimo essere illimitata nel tempo nelle due direzioni; tuttavia non vi sarebbe alcun aspetto contraddittorio nell’assumere una fluttuazione iniziale all’origine del primo seme di falso vuoto (nel modello inflazionario) o una prima oscillazione delle membrane (nel modello ciclico). Anche nella teoria cosmologica precedente agli sviluppi degli ultimi decenni, il fatto che le equazioni di Einstein ammettano sia soluzioni aperte in cui lo spazio si espande indefinitamente, sia soluzioni oscillanti in cui ad una fase di massima espansione – predominando la gravità sulla spinta iniziale – ne segue una di contrazione destinata a concludersi nella singolarità finale del Big Crunch seguita da un altro Big Bang, il problema dell’inizio assoluto dell’universo risulta indecidibile. Tale questione non può XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 31 essere risolta nell’ambito delle attuali teorie. Tuttavia ciò non ha la minima importanza riguardo al problema della Creazione, che non è l’attimo in cui il cosmo è apparso dal nulla, ma una relazione metafisica (e come tale esterna all’ordine temporale e simultanea ad ogni istante dell’evoluzione dell’universo) tra l’intera realtà materiale e la Causa Prima della sua esistenza. ,PSOLFD]LRQLILORVRILFKHGHLPRGHOOLFRVPRORJLFL Riportando la nostra discussione sul piano più specificamente filosofico, c’è da notare che i due modelli (inflazionario e ciclico) nell’ipotesi di un inizio assoluto del tempo comportano concezioni differenti. Infatti nel caso del modello inflazionario prima dell’inizio dell’universo vi è realmente il nulla (ancorché un nulla ricco di potenzialità, pronto ad accogliere spontaneamente le leggi quantistiche e a precipitare nell’essere), dal quale il falso vuoto appare in seguito ad una fluttuazione; il modello ciclico invece, essendo basato sulla teoria delle stringhe, prevede una struttura geometrica preesistente di stringhe e membrane assolutamente immobili, una sorta di caos freddo dinamicamente instabile nel quale un iniziale atto di moto elementare è in grado di innescare l’oscillazione delle membrane, la produzione di universi e tutti i fenomeni che ne seguono a cascata. In questo senso potremmo dire che l’inizio nel modello ciclico ricorda la cosmologia greca, nella quale un demiurgo mette ordine in un caos primordiale, mentre il modello inflazionario ci riporta piuttosto al racconto biblico della creazione secondo il quale prima dell’apparire del cosmo non vi era nulla se non Dio stesso. Notiamo infine che per quanto riguarda una eventuale domanda sul “prima” della creazione i due modelli sono assolutamente equivalenti; il tempo infatti (secondo la concezione aristotelica ed einsteniana, ma non secondo quella newtoniana) è misura del mutamento, quindi una situazione in cui non esista nulla e una in cui ciò che esiste è assolutamente immobile sono perfettamente equivalenti: sono entrambe situazioni senza tempo, nelle quali cioè il tempo non è definito. Anche altri modelli cosmologici concordano nell’escludere la possibilità di un “prima” della creazione; per esempio, nella teoria di Hartle-Hawking46 il tempo è parametrizzato come una grandezza a due componenti (in matematica numeri di questo genere si chiamano FRPSOHVVL) e quindi non viene rappresentato su una semiretta, che ha un ben definito punto di inizio, ma su una superficie; ad esempio una sfera che, pur essendo una superficie finita, non è limitata. 46 J. B. HARTLE - Steven W. HAWKING, “The wave function of the Universe”, in 3K\VLFDO5HYLHZ '(1983) 2960. XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 32 In base a quanto visto finora, il problema della possibilità di un infinito attuale nel passato rimane completamente aperto. E per quanto riguarda il futuro? È possibile un futuro infinito compatibilmente con le teorie cosmologiche oggi accettate? Le considerazioni fin qui svolte sono abbastanza simmetriche rispetto alle due direzioni del tempo, vi è però una importante differenza. Nel caso del futuro non si presenta il problema dell’infinito attuale, che invece si ha rispetto al passato, in quanto l’infinito nel futuro non può che essere potenziale per sua stessa definizione (futuro è infatti ciò che non è ancora accaduto...). Può accadere, però, che anche la possibilità di un futuro potenzialmente infinito sia preclusa alla realtà fisica nel suo complesso. È chiaro che ciò non accade nell’ambito del nuovo modello inflazionario come pure in quello dell’universo ciclico; infatti essendo la produzione di universi-bolla o la ripetizione di cicli di espansionecontrazione processi stazionari, come non vi è la necessità di un inizio nel passato, così non si dà neanche la possibilità di una interruzione del processo nel futuro. Se però rivolgiamo l’attenzione al modello cosmologico standard – basato unicamente sulle equazioni di Einstein della relatività generale – allora è necessario sviluppare alcune ulteriori considerazioni. Il fattore discriminante è la velocità di espansione in rapporto alla quantità di materia/energia contenuta globalmente nell’universo. Supponiamo infatti che la densità dell’universo sia maggiore della cosiddetta densità critica; l’espansione attuale è destinata in tal caso a rallentare e successivamente invertirsi in una contrazione sempre più veloce che si conclude con una singolarità finale analoga al Big Bang (il cosiddetto %LJ &UXQFK). Poiché lo spazio e il tempo sono logicamente posteriori alla materia/energia, come non ha senso parlare di un “prima” del Big Bang così non potrà darsi neanche un “dopo” il Big Crunch e l’ordine materiale non possiede alcun tipo di infinità, nemmeno potenziale (abbiamo visto sopra come le soluzioni cicliche debbano essere escluse nell’ambito del modello cosmologico standard per incompatibilità con il secondo principio della termodinamica). Diverso è il caso di una densità minore della densità critica, in cui la gravità non riesce ad opporsi definitivamente all’espansione, che quindi procede indefinitamente. In tale scenario il futuro è effettivamente infinito (in senso potenziale), e così anche lo spazio. ÊSRVVLELOHXQDYLWDSHUSHWXD" Vi è – nel caso di uno spazio-tempo aperto – una questione importante legata al carattere dell’intero universo nel suo procedere verso questo futuro interminabile. Le evidenze della storia naturale ci parlano infatti di una continua tendenza verso la XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 33 formazione di strutture sempre più complesse e organizzate, dalle origini al tempo presente. Nei primissimi istanti successivi al Big Bang infatti l’universo era un brodo caldo ad alta simmetria. Ma, con l’espansione, la temperatura si abbassa e si formano strutture sempre più articolate (quark, particelle composte, nuclei...). Parallelamente, la gravità trasforma fluttuazioni di densità in regioni localizzate di elevata energia, cioè le stelle. Si vengono così a creare notevoli gradienti di temperatura tra punti vicini nello spazio, una situazione inedita nell’universo primordiale altamente omogeneo. Ora, è ben noto47 che sono proprio le differenze di temperatura a permettere la trasformazione di energia termica in lavoro meccanico, e più in generale la produzione di ordine e informazione. Si arriva così, dopo la prima generazione di stelle, alla sintesi dei nuclei pesanti, la formazione di sistemi planetari, la comparsa della vita sulla Terra e – verosimilmente – di analoghe manifestazioni di complessità autoorganizzata in altre parti del cosmo. Ci domandiamo allora se, nell’ipotesi di una espansione illimitata dell’universo, sia teoricamente possibile una parallela evoluzione nel senso di una sempre maggiore complessità. La questione può essere affrontata nel contesto delle attuali teorie cosmologiche, della termodinamica classica e della teoria dell’informazione48. Il punto è che la vita (intendendo il termine nell’accezione più ampia possibile) ha bisogno per sussistere di un continuo approvvigionamento di energia e informazione, e in un universo che si espande a velocità sempre maggiore l’accumulo di risorse risulta essere un processo corrispondentemente sempre più difficile. Sotto tale ipotesi, poiché la velocità di allontanamento reciproco delle galassie dovuta all’espansione dell’universo aumenta – secondo la legge di Hubble – proporzionalmente alla mutua separazione, si può calcolare che, ad esempio, tra meno di 2000 miliardi di anni (che è un tempo enorme, considerando che l’attuale età dell’universo è “solo” di 14 miliardi di anni) cadranno fuori dal nostro orizzonte – cioè avranno una velocità di allontanamento superiore a quella della luce, e quindi saranno invisibili e irraggiungibili – tutte le galassie esterne all’ammasso locale a cui appartiene la Via Lattea. In termini più quantitativi, la densità di materia decresce come l’inverso della terza potenza del raggio dell’universo, e la densità di energia elettromagnetica come l’inverso della quarta potenza. In questa prospettiva, una ipotetica civiltà di quel lontanissimo futuro si troverebbe nella frustrante condizione di dover 47 48 cfr. Massimo GOVONI - Alessandro CORDELLI, )LVLFD, vol. 2, ATLAS, Bergamo, 2006, 91-93. Lawrence M. KRAUSS - Glenn D. STARKMAN, “Qual è il destino della vita nell’universo?” in /H6FLHQ]H 378 (2000). XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 34 spendere tutte le particelle, radiazione elettromagnetica e bit di informazione che riuscisse a rastrellare nell’operazione stessa di reperimento delle risorse. Di fronte alla prospettiva di un processo di reperimento che dura indefinitamente ma che permette di raccogliere solo una quantità finita di risorse, la soluzione potrebbe essere quella di abbassare la velocità del metabolismo, cioè rallentare i processi vitali abbassando opportunamente la temperatura di questi ipotetici esseri viventi futuribili. In questo modo però anche la quantità di informazione elaborata si ridurrebbe sempre più, in un sonno che scivolerebbe con continuità nella morte. In altri termini, il destino di un universo in espansione illimitata è quello dell’estinzione di ogni forma organizzata e struttura complessa. &RQFOXVLRQL La discussione sull’infinito si sviluppa su molteplici piani, da quello metafisico a quello mistico, da quello matematico a quello teologico. Importante è la distinzione tra una considerazione negativa dell’infinito, come assenza di determinazioni, e una positiva di illimitata incrementabilità quantitativa; ancora più rilevante per gli sviluppi nella storia della matematica è però un’altra distinzione: quella tra infinito potenziale e attuale. In particolare fino all’alba dell’età moderna viene quasi universalmente accettato – con l’unica importante eccezione del trattato ,O 0HWRGR di Archimede – il divieto aristotelico dell’infinito in atto. Fondamentale fu durante il medioevo l’approfondimento filosofico dell’idea di infinito, in particolare la distinzione tra infinito VHFXQGXP TXLG introdotta da Tommaso d’Aquino e l’affermazione della priorità ontologica dell’infinito sul finito di Duns Scoto. Anche sul fronte della mistica l’epoca medievale vede importanti approfondimenti del concetto di infinito, fondamentale in questo senso è l’opera di Meister Eckhart. Con la nascita della matematica moderna l’infinito in atto irrompe sulla scena della matematica, consentendo di ottenere notevoli risultati nell’ambito del calcolo (dai punti di fuga della geometria proiettiva all’analisi infinitesimale), ma anche introducendo i presupposti per pericolose contraddizioni che mineranno i fondamenti stessi della matematica. Con l’opera di Georg Cantor (in particolare l’introduzione della cardinalità transfinita come una sorta di concetto intermedio tra l’infinito potenziale e quello assoluto in atto) si raggiunge il più alto livello di comprensione di queste problematiche, e vengono messi a nudo i paradossi derivanti dal considerare totalità infinte in atto. Strettamente collegato al XOWLPRVDOYDWDJJLR $OHVVDQGUR&RUGHOOL 1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR 35 problema della definizione di una classe universale (l’insieme di tutti gli insiemi) è poi quello della definizione del concetto stesso di insieme. Dopo aver analizzato l’infinito in matematica e filosofia, è lecito porsi la domanda se siano possibili aspetti infiniti in riferimento alla fisica. Una concezione risalente al pensiero greco e mai più messa in discussione nei successivi sviluppi tende comunque ad escludere categoricamente ogni possibilità di aspetti quantitativamente infiniti nella realtà materiale. Tuttavia, in base alle più recenti teorie cosmologiche risulta che aspetti di infinità potenziale non sono necessariamente improponibili all’interno della realtà fisica, la quale, non per questo, perde il proprio carattere fondamentale di finitezza e determinazione. Vi è infatti un vincolo profondo che lega tra loro tutti gli enti concretamente esistenti e che non permette alcun tipo di deriva verso totalità infinite in atto: la causalità. È implicito nella natura dell’ente concreto infatti il dover dipendere causalmente da altri enti a loro volta concretamente esistenti. Poiché tale regola non ammette eccezioni, si capisce come un principio metafisico “esterno” sia necessario per evitare la contraddittorietà della realtà. XOWLPRVDOYDWDJJLR