note sull`infinito - web

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note sull`infinito - web
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Fin dai suoi inizi, il pensiero scientifico e filosofico occidentale ha sentito l’esigenza di
confrontarsi con il concetto di infinito. I termini fondamentali delle problematiche
connesse con questa importante idea risultano chiari già nelle dottrine di Aristotele, se non
addirittura nei presocratici. Vi è infatti una doppia direttrice sulla quale analizzare la
questione: in primo luogo se assegnare all’infinito la valenza negativa di assenza di
determinazioni o quella positiva di superlativa abbondanza delle qualità di cui si può avere
esperienza; in secondo luogo se un infinito attualizzato possa realmente (cioè
incontraddittoriamente) esistere oppure solo l’infinito potenziale sia un concetto esente da
patologie.
Nel corso del presente lavoro prenderemo le mosse proprio dal pensiero greco,
evidenziando come già un filosofo presocratico – Anassimandro – introduca il concetto di
infinito, e lo faccia con una valenza negativa, che lo accosta ad una sorta di nulla dal quale
gli enti sorgono per aggiunta di successive determinazioni. È però con Aristotele che l’idea
di infinito viene estesamente sviluppata, e ciò avviene nella direzione di una rigida
proibizione dell’infinito in atto, proibizione che verrà accettata da tutta la matematica greca
(in particolare gli (OHPHQWL di Euclide), con l’unica vistosa eccezione di Archimede che
introduce espliciti riferimenti all’infinito in atto per implementare ingegnose tecniche di
calcolo. Di queste originarie valenze concettuali troviamo traccia anche nell’odierna
mentalità comune, che tende però generalmente ad assumere una visione attualista (o
meglio, finitista) dell’infinito come quantità inconcepibilmente grande, ma pur sempre
determinata.
Nel pensiero medievale la riflessione sull’infinito raggiunge vette altissime; in
particolare sul versante della metafisica con Tommaso d’Aquino e Duns Scoto e su quello
mistico con Meister Eckhart. Si tratta di una riflessione principalmente filosofica, che a
differenza di quella greca esclude i temi più specificamente matematici; tuttavia proprio
quegli spunti teoretici rivestiranno una grande importanza come fondamenti nella
matematica dei secoli successivi, in particolare nell’opera di Georg Cantor.
L’età moderna è caratterizzata da un proliferare di tecniche matematiche basate
sull’infinito, e si tratta spesso di infinito in atto. Un utilizzo un po’ spregiudicato di un
concetto così delicato, in conseguenza del quale non mancheranno aporie e contraddizioni
che costringeranno – nel periodo a cavallo tra i secoli XIX e XX – a ripensare
profondamente la questione dei fondamenti della matematica.
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In quanto detto finora la discussione sull’infinito è limitata unicamente agli aspetti
matematici e filosofici, escludendo qualsiasi riferimento alla fisica. Sembra infatti che la
realtà materiale debba escludere qualsiasi aspetto di infinità per sua stessa definizione. Ciò
è sicuramente vero finché consideriamo fenomeni limitati e circoscritti, ma è una
prescrizione che continua a valere anche nell’ambito della cosmologia? In particolare i
recenti modelli di universo inflazionario a bolle e di universo ciclico sembrano compatibili
con una matrice spazio-temporale infinita, e anche volendo rimanere ad un ambito più
ristretto – ma pur sempre rilevante sul piano cosmologico – la situazione attuale di
generazione di informazione e aumento della complessità organizzata (in pratica la vita) è
potenzialmente prolungabile all’infinito o si tratta comunque di un processo destinato ad
avere un termine temporale?
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All’idea di infinito si possono assegnare due valenze complementari: l’una negativa di
mancanza di determinazioni e quindi di imperfezione, l’altra positiva di superamento di
ogni limitazione. In effetti l’essere dell’ente è sempre un essere determinato e con ciò
finito, limitato (RPQLVGHWHUPLQDWLRHVWQHJDWLR, secondo la celebre massima scolastica). Si
tratta allora di intendere questa mancanza di determinazione come superamento o come
imperfezione. Tra i filosofi presocratici Anassimandro è il primo ad introdurre il concetto
di απειρον come mancanza di limite (appunto, περα XQDPDWHULDLQIRUPHFKHFRQWLHQH
in sé tutte le determinazioni e proprio per questo è totalmente indeterminata; gli enti si
formano da essa per separazione degli opposti:
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Ma già in questa fase arcaica del pensiero scientifico troviamo spunti di interpretazione
che poi sotto varie vesti caratterizzeranno tutto lo sviluppo successivo fino ai nostri giorni.
È questo il caso della critica portata dai filosofi eleatici al concetto di divenire, critica che
si appoggia proprio su una concezione dell’infinito totalmente diversa da quella di
Anassimandro, una concezione che potremmo chiamare “attiva”, ma che più propriamente
SIMPLICIO, 3K\V., 4, )UDPPHQWR 1 in: Alessandro LAMI (curatore), , SUHVRFUDWLFL7HVWLPRQLDQ]HHIUDPPHQWLGD7DOHWH
D (PSHGRFOH. BUR, Milano, 1997, 139.
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consiste nel pensare l’infinito come una
attualità di parti esistenti. Il paradosso di
Achille e la tartaruga, attribuito a Zenone di
Elea, ci viene riportato da Aristotele nel VI
libro della )LVLFD, ed è uno dei più celebri
della storia del pensiero matematico e
filosofico:
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SUHFHGHQ]D2
,OGLYLHWRGHOO¶LQILQLWRLQDWWR
Di fatto, il ragionamento di Zenone funzionerebbe solo se nel percorrere un segmento
un mobile dovesse occupare concretamente ognuno degli infiniti punti che compongono il
segmento, cioè se l’infinità dei punti che compongono il segmento fosse una infinità
attuale. Che la considerazione degli infiniti in atto comporti ogni sorta di paralogismi fu
chiaro sin dai tempi antichi; in particolare Aristotele nel primo libro del 'H &DHOR formula
una serie di argomenti contro l’ipotesi che lo spazio fisico (l’universo) sia infinito, in
pratica contro l’esistenza dell’infinito in atto3. Questi argomenti sono strettamente
dipendenti dalla cosmologia accettata dallo stagirita. Ad esempio il primo di essi si basa
sul concetto di LQWHUYDOOR tra due linee come il massimo segmento che unisce le due linee;
ora, se l’universo (che – lo ricordiamo – nella visione aristotelica è una sfera centrata nella
Terra) avesse dimensione infinita, sarebbe infinito anche l’intervallo tra due qualsiasi raggi
della sfera e per percorrere tale intervallo occorrerebbe un tempo infinito, contro
l’evidenza che la rivoluzione del cielo delle stelle fisse si completa in un anno. Tuttavia in
altri luoghi l’impossibilità dell’infinito in atto viene affermata sulla base di argomentazioni
più fondamentali, come ad esempio nel terzo libro della )LVLFD:
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XQDSDUWHGLLQILQLWRqLQILQLWRVHO¶LQILQLWRqVRVWDQ]DHSULQFLSLR'XQTXHHVVRqLPSDUWLELOHH
2
3
ARISTOTELE, 3K\VLFD, VI, 9, 239b
ARISTOTELE, 'H&DHOR, I, 271b – 273a.
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Aristotele dunque rifiuta in maniera chiara e netta l’infinito attuale, quello degli eleatici; la
concezione che egli ha è quella di un infinito potenziale, cioè di un processo per il quale
non è prevista alcuna procedura di terminazione in linea di principio, anche se poi la
grandezza in esame assumerà sempre valori (ovviamente) finiti:
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GHVXPLDPR DQFRUD XQ¶DOWUD QHOOD PHGHVLPD SURSRU]LRQH VHQ]D SHUzSRUWDUYLDODJUDQGH]]D
VWHVVDGHOO¶LQWHURQRQULXVFLUHPRDSHUFRUUHUHLOILQLWR5
E poco più avanti:
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VHQVRORqDOORVWHVVRPRGRFKHSHUGLYLVLRQHVHPSUHLQIDWWLVLSRWUjDVVXPHUHTXDOFRVDDOGL
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GLYLVLRQHVXSHUDRJQLJUDQGH]]DILQLWDHULPDQHVHPSUHPLQRUH6
In altri termini, noi diciamo – ad esempio – che i numeri interi sono infiniti perché data
una collezione di Q oggetti non vi è alcuna ragione di principio che ci impedisce di pensare
ad una collezione di Q + 1 oggetti, indipendentemente dal valore di Q; questo però non
significa che esistano collezioni composte da un numero infinito di oggetti. Di fatto,
quando metto insieme degli oggetti per costruire una collezione ne avrò sempre un numero
determinato.
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Malgrado la posizione di Aristotele, già nei tempi antichi ci si era però accorti che
l’infinito in atto poteva avere interessanti risvolti, e non ci stiamo qui riferendo ai
paralogismi della scuola eleatica, ma ad aspetti molto più concreti legati alla geometria.
All’interno della eclettica produzione di Archimede troviamo alcuni risultati di cui per
molto tempo è stato difficile comprendere come sia stato possibile ottenerli con gli
strumenti del tempo (in particolare senza l’analisi matematica). Il mistero venne risolto in
ARISTOTELE, 3K\VLFD, III, 5, 204a.
ARISTOTELE, 3K\VLFD, III, 206b, 5-12.
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,YL, III, 206b, 16-20.
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5
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tempi relativamente recenti, all’inizio del XX secolo, quando venne ritrovato il manoscritto
di un’opera del grande matematico siracusano – ,O 0HWRGR – di cui si erano perdute le
tracce fin dai primi secoli dell’era cristiana7. Questo trattato contiene quindici proposizioni,
delle quali Archimede fornisce non proprio una dimostrazione, ma una giustificazione,
cioè il procedimento euristico per giungere a formularle. La prima di queste proposizioni
riguarda il calcolo dell’area sottesa da un arco di parabola. Il procedimento utilizzato è
quello che Archimede stesso definisce meccanico, cioè la regione compresa tra l’arco di
parabola e una sua corda viene “affettata” in segmenti ad
ognuno dei quali si assegna un peso proporzionale alla sua
lunghezza. Considerando poi una opportuna leva, ogni
segmento viene equilibrato dal corrispondente segmento di
un particolare triangolo. Si giunge così a stabilire
l’equivalenza tra la regione compresa tra l’arco di parabola
e la sua corda, e il triangolo.
A parte l’idea originale di applicare le leggi della meccanica a problemi di geometria,
quello che è rilevante ai fini della presente discussione è il fatto che una regione piana
venga considerata come l’unione di infiniti segmenti. Una regione piana infatti può sempre
essere suddivisa in un certo numero (finito) di strisce; quanto più sono sottili le strisce
tanto più aumenta il loro numero. Se riduciamo la larghezza delle strisce fino a farle
diventare segmenti, il loro numero diviene infinito (in atto); abbiamo cioè una regione
finita di piano composta da una infinità attuale di segmenti, esattamente come il segmento
che separa Achille dalla tartaruga è composto da una infinità attuale di punti. Nel caso
dell’argomento di Archimede tuttavia, il ragionamento non porta ad un paralogismo, ma ad
un risultato corretto che può anche essere dimostrato (e di fatto lo è, in un’ altra opera dello
stesso Archimede) senza chiamare in causa l’infinito – attuale o potenziale che sia – ma
facendo ricorso unicamente ai metodi della geometria sintetica.
Di fatto, proprio su
argomenti di questo tipo si fonderà, molti secoli più tardi, il calcolo infinitesimale, la
moderna analisi matematica.
Archimede, quindi, non reclama al suo ragionamento la dignità di una valida procedura
dimostrativa, però è indubbio che esso abbia una notevole forza persuasiva. L’idea è
fertile, e con gli opportuni accorgimenti – cioè con la sostituzione dell’infinito attuale in
potenziale – può assumere la valenza di un procedimento rigoroso. Ciò è quanto viene
7
Carl B. BOYER, 6WRULDGHOODPDWHPDWLFD. ISEDI, Milano, 1976, 161.
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realizzato nella seconda proposizione del dodicesimo libro degli (OHPHQWL di Euclide, la cui
dimostrazione sfrutta il cosiddetto metodo di HVDXVWLRQH, sviluppato e formalizzato da
Eudosso di Cnido8. Dunque, il dodicesimo libro degli (OHPHQWL si apre con una
proposizione riguardante i poligoni: «3ROLJRQLVLPLOLLVFULWWLLQFHUFKLVWDQQRIUDORURFRPH
L TXDGUDWL GHL GLDPHWUL9» (nel presente contesto quando si parla di proporzionalità tra
poligoni si intende proporzionalità tra le rispettive aree). La
seconda proposizione invece recita: «, FHUFKL VWDQQR WUD ORUR
FRPHLTXDGUDWLGHLGLDPHWUL10». Potendo considerare l’infinito in
atto, questa seconda proposizione sarebbe semplicemente un
corollario della prima; infatti basterebbe considerare il cerchio
come un poligono regolare con un numero infinito di lati.
Abbiamo detto che un certo richiamo all’infinito in atto è alla base del calcolo
infinitesimale; non stupirà quindi che uno studioso che vive a cavallo tra XVII e XVIII
secolo, cioè negli anni in cui l’analisi matematica veniva sviluppata, faccia un commento
proprio in tal senso. Si tratta di quel Gerolamo Saccheri che nella sua celebre opera:
(XFOLGHVDERPQLQDHYRYLQGLFDWXV, fornisce l’ultimo dei grandi tentativi di dimostrazione
del postulato delle parallele, e col suo fallimento apre di fatto la strada alle geometrie non
euclidee e al passaggio da una concezione apodittica della matematica ad una ipoteticodeduttiva. Scrive dunque il gesuita milanese:
(XFOLGHKDJLjGLPRVWUDWRSURSFKHGXHSROLJRQLVLPLOLLQVFULWWLLQGXHFHUFKLVWDQQRWUD
ORUR FRPH L TXDGUDWL GHL GLDPHWUL SURSRVL]LRQH GD FXL FRPH FRUROODULR DYUHEEH SRWXWR
ULFDYDUHODFRQVLGHUDQGRLFHUFKLFRPHSROLJRQLLQILQLWLODWHUL11
«FRQVLGHUDQGRLFHUFKLFRPHSROLJRQLLQILQLWLODWHUL»; in queste poche parole è contenuta
l’essenza di una questione centrale sui fondamenti della matematica, dibattuta fin
dall’antichità, e che non ha perso la sua rilevanza fino ai tempi moderni.
Tuttavia, è proprio per evitare il ricorso all’infinito in atto che Eudosso escogitò il
metodo di esaustione. Per capire in cosa consista tale metodo, andiamo a vedere la
definizione di HVDXVWLRQH in un moderno dizionario di termini matematici12:
EUCLIDE, (OHPHQWL, a cura di Attilio FRAJESE e Lamberto MACCIONI, UTET, Torino, 1970, 929-938, in particolare nota
2 p. 931.
9
,YL, 929.
10
,YL, 931.
11
Gerolamo SACCHERI, (XFOLGHVDERPQLQDHYRYLQGLFDWXV, trad. BOCCARDINI, Hoepli, Milano, 1904, 104.
12
Sebastiano NICOSIA, /H YRFL GHOOD PDWHPDWLFD 3HUFRUVL DOIDEHWLFL IUD WHRUHPL H IRUPXOH, Ghisetti e Corvi, Milano,
2006.
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(VDXVWLRQHVPGDOODWLQRHVDXULUH0HWRGRGLHVDXVWLRQH0HWRGRXWLOL]]DWRGD$UFKLPHGH
H IRUVH VFRSHUWR GD (XGRVVR SHU FDOFRODUH OH DUHH GL ILJXUH D FRQWRUQR FXUYLOLQHR FRPH
HOHPHQWRGLVHSDUD]LRQHGLFODVVLGLSROLJRQLLQVFULWWLHFLUFRVFULWWLHFRQXQQXPHURGLODWLFKH
DXPHQWDQRLQGHILQLWDPHQWH7DOHPHWRGRVLIRQGDVXOODVHJXHQWHSURSULHWjGLHVDXVWLRQHVHOq
XQD JUDQGH]]D GDWD H U XQD IUD]LRQH FRPSUHVD IUD ò H DOORUD SHU RJQL JUDQGH]]D H
RPRJHQHDFRQOHGDUELWUDULDPHQWHSLFFRODqSRVVLELOHWURYDUHXQQXPHURQDWXUDOHQDSDUWLUH
Q
GDO TXDOH VL DEELD O (1 − U ) < H /D SURSULHWj GL HVDXVWLRQH VL GLPRVWUD SHU DVVXUGR
DVVXPHQGRO¶DVVLRPDGLFRQWLQXLWjGL$UFKLPHGH
Questa definizione coincide esattamente con un’altra proposizione degli (OHPHQWL di
Euclide, e precisamente la prima del decimo libro:
'DWHGXHJUDQGH]]HGLVXJXDOLVHVLVRWWUDHGDOODPDJJLRUHXQDJUDQGH]]DPDJJLRUHGHOODPHWj
GDOODSDUWHUHVWDQWHXQ¶DOWUDJUDQGH]]DPDJJLRUHGHOODPHWjHFRVuVLSURFHGHVXFFHVVLYDPHQWH
ULPDUUjXQDJUDQGH]]DFKHVDUjPLQRUHGHOODJUDQGH]]DPLQRUHLQL]LDOPHQWHDVVXQWD13
In altri termini non esiste una grandezza minima, ma si può sempre procedere a successive
divisioni ottenendo grandezze sempre più piccole. Nella dimostrazione di questa
proposizione è essenziale il riferimento ad un postulato che negli (OHPHQWL viene presentato
come definizione, e precisamente la quarta definizione del quinto libro:
6LGLFHFKHKDQQRIUDORURUDSSRUWRRUDJLRQHOHJUDQGH]]HOHTXDOLSRVVRQRVHPROWLSOLFDWH
VXSHUDUVLUHFLSURFDPHQWH14
L’importanza di questo postulato in rapporto alla nostra trattazione è fondamentale.
Malgrado la forma un po’ criptica, esso esprime un carattere della continuità tutto sommato
intuitivo, cioè – detto in altri termini – che date due grandezze omogenee tra loro (per
esempio due segmenti), la prima delle quali una è minore dell’altra, si può sempre trovare
un multiplo della più piccola che supera la più grande. Questa definizione a partire dal XIX
secolo è meglio nota come SRVWXODWRGL$UFKLPHGH, ed esprime un carattere basilare della
geometria euclidea, tanto da poter essere considerato un ulteriore postulato da aggiungersi
ai cinque ben noti15. È altresì interessante notare come l’enunciato di Euclide consista
proprio nell’esclusione dal novero delle grandezze per le quali si possano costruire rapporti
di quelle per le quali non vale la proprietà archimedea. Sorge dunque spontanea la
domanda se esistano tali grandezze, manchevoli di una proprietà così ovvia. La risposta è
affermativa.
EUCLIDE, FLW, 596.
,YL, 298.
15
Attilio FRAJESE, “Il sesto postulato di Euclide”, in 3HULRGLFRGLPDWHPDWLFKH 1-2 (1968) 150-159.
13
14
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Già nella geometria antica abbiamo un importante
esempio negli angoli curvilinei, cioè nei quali almeno un
lato è una linea curva16; la proposizione 16 del terzo libro
degli (OHPHQWL17 mostra infatti come non esista alcun
sottomultiplo di un angolo rettilineo che sia minore
dell’angolo di contingenza (cioè dell’angolo curvilineo
compreso tra il cerchio e la tangente).
Quindi, gli angoli – sia rettilinei che curvilinei – sono una classe di grandezze per la
quale non vale la proprietà archimedea, e pertanto non si possono costruire rapporti tra di
esse. Non così per la classe dei soli angoli rettilinei. Un altro importante esempio è dato
dalla geometria piana costruita sulla sfera. È questa senza dubbio il più popolare modello
di geometria non euclidea; se infatti chiamiamo “retta” un cerchio massimo sulla sfera il
quinto postulato viene violato, nel senso che non esistono
parallele poiché due qualsiasi rette si incontrano sempre nei
poli; una delle conseguenze più notevoli di questo fatto è che
la somma degli angoli interni di un triangolo eccede l’angolo
piatto, e possono aversi anche triangoli con tutti e tre gli
angoli retti.
Quello che è forse meno noto è che si tratta anche di una geometria non archimedea (i
segmenti, definiti come archi di cerchio massimo, non possono essere moltiplicati per un
intero arbitrariamente grande, ché oltre un certo valore il giro si completa e si ricomincia
da capo).
/¶LQILQLWRQHOODPHQWDOLWjFRPXQH
La dottrina di Aristotele, ripresa dalla tradizione scientifica del mondo antico, esclude,
come abbiamo visto, la possibilità di un infinito in atto tanto nell’universo fisico che sul
piano logico, cioè nel pensiero. Sul secondo punto torneremo tra breve, adesso però
domandiamoci quanto è plausibile il primo e che senso può avere una discussione
sull’infinito in rapporto alla realtà materiale. Nella mentalità comune il piano concettuale
(l’infinito come ente matematico) viene spesso riportato a quello materiale, e ciò che ne
risulta è una specie di LQILQLWR SUDWLFR, vale a dire una grandezza – ancorché finita –
vertiginosamente maggiore di ogni scala accessibile all’esperienza umana. Non vi è dubbio
16
17
cfr. ARISTOTELE, $QDO3U, I, 24, 13-22.
EUCLIDE, (OHPHQWL, cit., 228.
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che questa sorta di infinito attuale mutilato è profondamente scorretto dal punto di vista
teoretico, tuttavia per capire quanto tale concezione sia profondamente radicata nella
mentalità corrente, basta andare a vedere la definizione di “infinito” in uno dei più
autorevoli dizionari della lingua inglese18:
LQILQLW\QRXQ
WLPHRUVSDFHWKDWKDVQRHQG
DSRLQWZKLFKLVVRIDUDZD\WKDWLWFDQQRWEHUHDFKHG
DQXPEHUWKDWLVODUJHUWKDQDOORWKHUQXPEHUV
DQH[WUHPHO\ODUJHQXPEHURIVRPHWKLQJ
Particolarmente interessanti ai fini della nostra discussione sono la seconda e la terza
definizione; ritroveremo concetti vagamente simili nella teoria dei transfiniti di Cantor.
6FDOHGLJUDQGH]]DQHOO¶XQLYHUVRILVLFR
D’altra parte, un’occhiata agli ordini di grandezza che separano la scala delle esperienze
umane da quella subatomica da un lato, e cosmologica dall’altro ci fa capire come un tale
senso di infinità pratica sia ben giustificato dal punto di vista psicologico. Se infatti le
dimensioni delle cellule del nostro corpo sono dell’ordine delle frazioni di millimetro, poco
al di sotto della soglia di visibilità ad occhio nudo, e i più piccoli batteri sono grandi
appena qualche millesimo di millimetro, bisogna scendere a lunghezze cento volte più
piccole per trovare le macromolecole biologiche, come il DNA. Più ridotte, solo qualche
milionesimo di millimetro, sono le dimensioni delle piccole molecole inorganiche, e
ovviamente ancora minori quelle degli atomi. Se a questo punto vogliamo scendere al
livello del nucleo, dobbiamo fare un salto di più di un fattore diecimila; praticamente se il
nucleo atomico fosse una biglia al centro di un campo da calcio, l’orbita degli elettroni più
interni toccherebbe le ultime gradinate. Da questo punto in poi il concetto di distanza
mutuato dall’esperienza comune inizia a non essere più tanto adeguato, ed è più opportuno
ragionare in termini di energia. È un principio generale della ricerca fisica infatti che per
esplorare dettagli più interni e strutture più fini occorrono sonde corrispondentemente più
energetiche.
Se questo precipitare nel mondo microscopico può provocare una certa vertigine, è però
quando l’uomo rivolge il suo pensiero alle enormi distanze nell’universo che si sente
sopraffatto. Considerando che la luce viaggia a velocità costante, possiamo farci un’idea
voce LQILQLW\ su Elizabeth WALTER - Kate WOODFORD editors, &DPEULGJHDGYDQFHGOHDUQHU¶VGLFWLRQDU\, Cambridge
University Press, Cambridge, 2005.
18
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delle dimensioni degli spazi cosmici esprimendole in termini del tempo necessario alla luce
per percorrerle. La velocità della luce non è certo bassa: in un secondo percorre 300.000
chilometri, cioè sette volte e mezzo il giro del mondo all’equatore o, se preferiamo, poco
meno della distanza tra la Terra e la Luna. In altri termini, per attraversare una stanza essa
impiega qualche miliardesimo di secondo, un tempo al limite delle attuali capacità tecniche
di misura. Con questa enorme velocità, occorrono circa otto minuti perché la luce del Sole
giunga fino a noi, e più di cinque ore per attraversare tutto il sistema solare, fino a Plutone.
Oltre, vi è solo un’enorme distesa di vuoto fino alla stella più vicina, situata a quattro anni
luce e mezzo da noi. L’intera galassia, poi, di cui il nostro Sole occupa una regione
periferica, è un disco schiacciato del diametro di circa 70.000 anni luce, e la galassia più
vicina si trova a due milioni di anni luce. La distribuzione delle galassie nell’universo ha
una struttura gerarchica, cioè più galassie sono riunite in ammassi, e gli ammassi a loro
volta in superammassi, separati ad ogni livello da distanze sempre maggiori. Più sono
lontani gli oggetti che osserviamo e più sono antichi. Per questo motivo vi è una ovvia
limitazione alla nostra capacità di accedere a regioni remote dell’universo tramite
l’osservazione, cioè l’età finita del cosmo. A causa del fenomeno dell’espansione
comunque, la distanza che la luce riesce a percorrere in un certo intervallo di tempo è
maggiore di un ugual valore espresso in anni luce. Gli oggetti più lontani attualmente
accessibili ai nostri strumenti di rilevazione sono a qualche decina di miliardi di anni luce;
ciò ovviamente non significa che non esistano regioni di universo anche oltre quel limite,
ma solo che non vi è modo di osservarle.
/¶LQILQLWRGHOODSRHVLD
La consapevolezza delle reali estensioni del mondo macroscopico e microscopico è una
acquisizione relativamente recente (ancora agli inizi del XX secolo si discuteva se la nostra
galassia fosse unica o se esistessero altre strutture simili), tuttavia è chiaro che fin da tempi
remoti l’uomo ha intuito l’immensità delle distanze cosmiche. A questo riguardo uno dei
riferimenti più scontati è a /¶LQILQLWR di Giacomo Leopardi, tuttavia il tema è trattato in vari
luoghi dallo stesso autore; ad esempio incomparabile è la riflessione nella *LQHVWUD19:
( SRLFKHJOLRFFKLDTXHOOHOXFLDSSXQWR
&K¶DORUVHPEUDQRXQSXQWR
( VRQRLPPHQVHLQJXLVD
&KHXQSXQWRDSHWWRDORUVRQWHUUDHPDUH
19
Giacomo LEOPARDI, /D*LQHVWUDRLOILRUHGHOGHVHUWR, in &DQWL, miniBUR Rizzoli, Milano 1993, 92.
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9HUDFHPHQWHDFXL
/¶XRPRQRQSXUPDTXHVWR
*ORERRYHO¶XRPRqQXOOD
6FRQRVFLXWRqGHOWXWWRHTXDQGRPLUR
4XHJOLDQFRUSLVHQ]¶DOFXQILQUHPRWL
1RGLTXDVLGLVWHOOH
&K¶DQRLSDLRQTXDOQHEELDDFXLQRQO¶XRPR
( QRQODWHUUDVROPDWXWWHLQXQR
'HOQXPHURLQILQLWHHGHOODPROH
&RQO¶DXUHRVROHLQVLHPOHQRVWUHVWHOOH
2 VRQRLJQRWHRFRVuSDLRQFRPH
(VVLDOODWHUUDXQSXQWR
'LOXFHQHEXORVDDOSHQVLHUPLR
&KHVHPEULDOORURSUROH
'HOO¶XRPR"
Questa nozione più poetica e romantica dell’infinito ha comunque un carattere simile a
quello tipico del linguaggio comune che abbiamo evidenziato nelle pagine precedenti; dato
che si parla degli oggetti lontanissimi, ma non di quello che può esservi oltre, ci troviamo
di fronte ad una nozione di infinito attuale, cioè positivo, ma di una positività così
schiacciante per l’uomo da assumere addirittura una connotazione negativa.
7RPPDVRG¶$TXLQRLQILQLWjDWWXDOHVHFXQGXPTXLGH DVVROXWD
Tornando alle argomentazioni più rigorose dei filosofi, bisogna comunque dire che già
nei tempi antichi il divieto aristotelico di pensare l’infinito in atto ammette una vistosa
eccezione, e cioè Dio. Agostino afferma chiaramente nel capitolo 19 del XII libro del 'H
&LYLWDWH 'HL che solo un pazzo potrebbe ritenere che la scienza di Dio arrivi a conoscere
perfettamente l’essenza di alcuni numeri ma non di tutti. Questa possibilità dell’infinito in
atto LQ PHQWH 'HL avrà – come vedremo nelle prossime pagine – un’importanza
fondamentale nella costruzione concettuale di Georg Cantor. Si deve però al genio
metafisico di Tommaso d’Aquino l’ampliamento e la chiarificazione della visione
aristotelica dei due infiniti. Oltre all’infinito potenziale, si deve introdurre una ulteriore
sottile distinzione tra la nozione di ente (insieme) infinito in atto e quella di ente (insieme)
attualmente infinito20. Per comprendere la differenza tra le due nozioni appoggiamoci ad
un esempio. Una linea retta è determinata (cioè finita) rispetto ad alcuni suoi caratteri (il
fatto di essere una linea e non magari una figura piana o solida...) ma resta indeterminata
(infinita) rispetto ad altri (la sua estensione). Quello che abbiamo indicato è quindi un
infinito attuale relativo, o LQILQLWXP DFWX VHFXQGXP TXLG. La nozione è perfettamente
Gianfranco BASTI, )LORVRILDGHOODQDWXUDHGHOODVFLHQ]D,IRQGDPHQWL (Dialoghi di filosofia – Sezione Manuali, 1),
Lateran University Press, Città del Vaticano 2002, 376-381.
20
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legittima e non contraddittoria, in quanto viene solamente posta la negazione dell’esistenza
di limitazioni per un certo carattere di un certo ente (nel nostro esempio per l’estensione
della linea retta); non viene però indicata una procedura costruttiva per ottenere tutti gli
elementi dell’insieme (cioè per disegnare una linea retta realmente infinita). In altri
termini, non è contraddittorio che un ente venga pensato infinito attualmente e non solo
potenzialmente (contenuto cioè in un altro oggetto infinito di ordine superiore), ma lo è il
fatto che tale ente venga posto in atto, cioè costruito attraverso una serie di passi. Questa
distinzione è della massima importanza per capire l’origine profonda dal punto di vista
logico dei problemi che hanno afflitto la ricerca sui fondamenti della matematica negli anni
a cavallo tra XIX e XX secolo e che sono sostanzialmente legati ad un uso non corretto
dell’infinito, come ad esempio nell’LQVLHPH GL WXWWL JOL LQVLHPL, una nozione che
evidentemente presuppone la costruibilità della classe universale a partire da tutti i singoli
insiemi21. Infine, notiamo che dall’infinità attuale relativa, cioè rispetto ad alcune
determinazioni, possiamo passare all’infinità attuale assoluta, vale a dire infinita rispetto a
tutti i modi dell’essere; un tale concetto esprime qualcosa che – non avendo aspetti
determinati come invece avviene per l’infinito VHFXQGXPTXLG o relativo – non è neppure in
alcun modo incrementabile, non ha quindi in sé alcun aspetto potenziale ma è pura
attualità: siamo così arrivati ad una caratterizzazione razionale di Dio. Questa
caratterizzazione dell’assoluta infinità (intesa come assenza di determinazioni, anche di
quelle positive) di Dio come espressione della sua trascendenza è il tratto principale della
teologia negativa, presente nel pensiero cristiano fin dai primi secoli:
FLzFKHQRQKDIRUPDGjWXWWHOHIRUPHHLQOXLVRORO¶HVVHUHSULYRGLVRVWDQ]DqLOVXSHUDPHQWRGL
RJQL VRVWDQ]D OD QRQ YLWD q VRYUDEERQGDQ]D GL YLWD OD QRQ LQWHOOLJHQ]D q VRYUDEERQGDQ]D GL
VDSLHQ]D22
In tempi più maturi questi concetti vengono ripresi, tra gli altri, sul piano più
specificatamente filosofico da Giovanni Duns Scoto, che fonda la sua dimostrazione
dell’esistenza di Dio sull’incontraddittorietà del concetto di HQV LQILQLWXP23, e su quello
Gianfranco BASTI - Antonio L. PERRONE, /H UDGLFL IRUWL GHO SHQVLHUR GHEROH 'DOOD PHWDILVLFD DOOD PDWHPDWLFD DO
FDOFROR, Il Poligrafo, Padova 1996 cap. 5.
22
PSEUDO DIONIGI, 'HGLYLQLVQRPLQLEXV, IV, 3 111, 697A.
23
cfr. Mario PANGALLO, /DOLEHUWjGL'LRLQ67RPPDVRHLQ'XQV6FRWR, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1992, 60-81.
21
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mistico da Meister Eckhart, il quale arriva fino a negare l’essere a Dio ponendolo al di
sopra di ogni determinazione24.
,OSUREOHPDGHOO¶LQILQLWRQHOODPDWHPDWLFDPRGHUQD
Nel passaggio alla matematica moderna si assiste ad un proliferare di tecniche e
problemi che coinvolgono l’infinito. Un primo notevole esempio riguarda l’applicazione
della matematica all’arte. I pittori rinascimentali, rispetto ai predecessori, riescono a dare
alle loro opere un senso di profondità, una specie di illusione di una ulteriore dimensione.
Tutto ciò non avviene unicamente per effetto di geniali quanto inconsapevoli intuizioni, ma
presenta aspetti di rigorosa formalizzazione geometrica.
3URVSHWWLYDHSXQWLGLIXJD
Sebbene già il Brunelleschi pare che avesse dedicato molta attenzione al problema di
rappresentare scene tridimensionali su una scena bidimensionale, il primo trattato sulla
prospettiva è di Leon Batista Alberti e porta il titolo 'HOOD3LFWXUD25. Tra XV e XVI secolo
alcuni tra i massimi artisti dell’epoca, tra cui Piero della Francesca, Leonardo e Dürer, si
occuparono del problema dal punto più specificatamente teorico ottenendo notevoli
risultati. Senza volerci occupare dettagliatamente in questa sede della teoria della
prospettiva, vogliamo peraltro evidenziare una caratteristica di tale teoria che ha una certa
attinenza con la presente discussione, e cioè il concetto di SXQWR GL IXJD. Secondo la
definizione della geometria elementare due rette del piano sono parallele quando non si
incontrano. Capita a volte di sentir dire che due rette parallele “si incontrano all’infinito”;
questa locuzione tradisce una certa presenza dell’infinito in atto nel linguaggio comune,
che abbiamo evidenziato precedentemente. Se tuttavia guardiamo due rette parallele – ad
esempio i binari di una ferrovia in un tratto rettilineo – ci accorgiamo di avere
effettivamente l’illusione che le due linee si avvicinino fino a toccarsi. Nella teoria della
prospettiva questo effetto percettivo viene formalizzato mediante l’introduzione di uno o
più punti di fuga, veri e propri punti all’infinito in cui convergono le rette parallele di piani
aventi varie inclinazioni rispetto al piano del disegno, che però occupano posizioni ben
determinate nel disegno stesso. Nella geometria proiettiva si ha la formalizzazione del
punto di fuga mediante l’introduzione di coordinate omogenee; ogni punto del piano, cioè,
viene identificato non solo dall’ascissa [ e dall’ordinata \ ma anche da una terza coordinata
24
25
cfr. Aniceto MOLINARO, 7UDILORVRILDHPLVWLFD, Città Nuova editrice, Roma 2003.
cfr. Carl B. BOYER, cit., 340-344.
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15
W che può assumere i valori 0 e 1. Le ordinarie coordinate del punto sono ridefinite
mediante le relazioni: [ →
[
\
e \ → . Per i punti con W = 1 nulla è cambiato, ma se
W
W
W = 0 i rapporti non si possono formare e il punto viene definito come punto all’infinito.
Abbiamo quindi il risultato estremamente importante dal punto di vista concettuale che
mediante una terna di valori in un opportuno sistema di coordinate – ad esempio (1;1;0) – si
può attualmente identificare un punto all’infinito, il quale è diverso da altri punti
all’infinito – ad esempio da (− 1;1;0).
*DOLOHRHODJHRPHWULDGHJOLLQGLYLVLELOL
Il richiamo all’infinito della teoria della prospettiva non è né l’unico né il più importante
nella matematica dell’età moderna. Una concezione dovuta originariamente a Galileo e
successivamente sviluppata dai suoi allievi, Evangelista Torricelli e Bonaventura Cavalieri,
sostiene la possibilità della divisione di un continuo – ad esempio un segmento – in un
insieme infinito in atto di parti indivisibili e prive di estensione; SDUWLQRQTXDQWH, per usare
la terminologia di Galileo26.
Assumere questa posizione non è privo di risultati, in particolare comporta risultati
molto interessanti riguardo al calcolo dei volumi delle figure solide, cioè il cosiddetto
principio di Cavalieri27: VH GXHVROLGLVLSRVVRQRGLVSRUUHULVSHWWRDXQSLDQRLQPRGRFKH
RJQLSLDQRSDUDOOHORDTXHVWROLWDJOLVHFRQGRVH]LRQLHTXLYDOHQWLVRQRHTXLYDOHQWL.
Per spiegare meglio il concetto con un esempio,
consideriamo due insiemi di otto dischetti di
cartone tutti uguali tra loro. Con il primo gruppo
costruiamo
una
torre
facendo
combaciare
esattamente ogni dischetto con il sottostante,
otterremo così un cilindro retto. Anche con il
secondo gruppo costruiamo una torre, ma facendo
in modo che ogni dischetto sia leggermente spostato rispetto al sottostante. Avremo così un
cilindro non retto, ma inclinato rispetto al piano della base (qualcosa di simile alla torre di
Pisa). I due solidi così costruiti hanno forme diverse, ma poiché ogni dischetto del primo
corrisponde ad un uguale dischetto del secondo è immediato riconoscere che essi avranno
cfr. Lucio LOMBARDO RADICE, /¶LQILQLWR,WLQHUDULILORVRILFLHPDWHPDWLFLGLXQFRQFHWWRGLEDVH, Editori Riuniti, Roma
1981.
27
Giovanni MELZI - Livia TONOLINI, /H]LRQLGL*HRPHWULD, Minerva Italica, Bergamo 1993, 286.
26
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lo stesso volume. Il principio di Cavalieri estende queste osservazioni, ma adesso invece
che un dischetto sottile abbiamo una sezione piana, cioè una figura di spessore nullo. Non
dovremo più quindi confrontare gli otto dischetti di un cilindro con gli otto dell’altro, ma le
infinite sezioni di un solido con le infinite dell’altro. È immediato osservare che nell’ultima
frase abbiamo dato all’aggettivo “infinite” la stessa valenza di qualsiasi numerale finito, ad
esempio otto.
1DVFLWDHVYLOXSSRGHOO¶DQDOLVLLQILQLWHVLPDOH
Di fatto la moderna analisi matematica non è basata sulla galileiana geometria degli
indivisibili (la cui unica traccia nei testi moderni è il principio di Cavalieri) ma sul calcolo
infinitesimale sviluppato da Newton e Leibniz. In esso non ci si confronta più con
l’infinito, ma con un concetto a questo strettamente correlato, quello di infinitesimo. Una
quantità infinitesima può diventare più piccola di qualsiasi valore fissato, senza peraltro
mai annullarsi completamente. Il concetto di limite – su cui si basa tutta l’analisi
matematica – consiste proprio in questo: si dice ad esempio che il limite di una funzione in
un dato punto è un certo valore se la funzione si può arbitrariamente avvicinare al limite
quando la variabile indipendente si avvicina opportunamente al punto; tuttavia la variabile
indipendente non coinciderà mai esattamente con il punto, né la funzione con il limite.
Anche in questo contesto vi è un chiaro richiamo all’infinito (avvicinamento indefinito,
quantità più piccola di qualsiasi piccolo valore arbitrariamente scelto e tuttavia diversa da
zero...) però riconosciamo facilmente che si tratta di un infinito potenziale e non attuale; di
fatto, “l’infinitesimo attuale” è semplicemente lo zero, che non presenta alcuno dei
problemi concettuali dell’infinito attuale, sebbene sostituire gli infinitesimi con lo zero non
porterebbe ad alcun risultato.
La proprietà della continuità – tanto importante per l’analisi matematica – esprime la
possibilità per la retta dei numeri reali (o un suo sottoinsieme, semiretta o segmento) di
essere suddivisa in intervalli localizzati e piccoli quanto si vuole; se interpretiamo ciò
dicendo che la retta o il segmento è composta da una infinità attuale di punti ricadiamo nei
paradossi del tipo di quello di Achille e la tartaruga, l’applicazione del concetto di limite
ci permette invece di affermare la possibilità di un avvicinamento non limitato dal alcun
vincolo al punto desiderato. La differenza è sostanziale; da un punto di vista operativo
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qualsiasi tentativo di determinare completamente un numero irrazionale28 si risolve con
procedure che richiedono un numero infinito (in atto) di operazioni elementari.
Nondimeno, il numero irrazionale è perfettamente definito (ancora un’eco della distinzione
tomista tra ente infinito in atto ed ente attualmente infinito), tanto che processi di
costruzione geometrica possono permetterci di determinare esattamente il segmento
corrispondente sulla retta dei numeri reali.
*HRUJ&DQWRU
All’interno di questo genere di problematiche si situa l’opera geniale di Georg Cantor.
Bisogna innanzitutto ricordare che i problemi affrontati da Cantor non sono quelli usuali
dell’analisi matematica, legati alla continuità della retta reale e all’operazione di limite, ma
piuttosto di un ordine più fondamentale, riguardanti un concetto che per la sua elementarità
poteva rappresentare un ottimo punto di partenza per l’intera matematica: il concetto di
insieme. C’è da dire che l’aspirazione a fondare apoditticamente la matematica partendo
dagli insiemi (come da altri principi-base) si rivelò fallimentare, e ciò proprio a causa di
una serie di patologie che sorgono quando si prendono in considerazione gli insiemi
infiniti, evidenziate da Cantor stesso e da alcuni tra i maggiori matematici vissuti a cavallo
tra otto e novecento. A noi tuttavia non interessa in questa sede l’analisi della crisi dei
fondamenti della matematica29, quanto piuttosto prendere in esame le idee di Cantor
sull’infinito. Non sarà forse inutile ricordare in estrema sintesi l’essenza dei risultati
ottenuti da Cantor.
,WUDQVILQLWL
Partendo dall’ovvia osservazione che due insiemi (finiti) hanno lo stesso numero di
elementi (o – come si dice – la stessa cardinalità) quando ogni elemento del primo può
essere messo in corrispondenza con uno del secondo, e che nel caso degli insiemi infiniti, e
solo in quel caso, un insieme può essere messo in corrispondenza con una sua parte propria
(per esempio l’insieme dei numeri interi con quello dei numeri pari), egli dimostra una
serie di risultati che apparentemente stridono con il comune senso matematico. Per
esempio le frazioni, che ci immaginiamo densamente distribuite sulla retta dei numeri reali,
28
I numeri irrazionali – a differenza dei numeri razionali – non si possono esprimere come un rapporto tra due numeri
interi e quindi nel loro sviluppo decimale esibiscono una sequenza non terminata di cifre che non presenta alcuna
periodicità.
29
cfr. Bruno D’AMORE - Maurizio L. M. MATTEUZZI, 'DOQXPHURDOODVWUXWWXUD%UHYHVWRULDGHOODPDWHPDWLFDPRGHUQD,
Zanichelli, Bologna 1975, capp. 4 e 5.
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e quindi molto più numerose dei numeri interi (dei quali se ne incontra solo “uno ogni
tanto”) hanno in realtà la stessa cardinalità. Corrispondentemente si dimostra che questa
stessa cardinalità è minore di quella dei numeri reali, nel senso che se per assurdo
supponessimo di numerare tutti i valori reali, ne resterebbe sempre fuori almeno uno. In
altri termini, ogni numero intero o frazione può essere messo in corrispondenza con un
numero reale, ma non ogni numero reale può essere messo in corrispondenza con un
numero intero o frazione; questo basta per affermare che la cardinalità dei numeri reali è
maggiore di quella dei numeri interi e delle frazioni. Le conseguenze di queste
osservazioni sono enormi. Non sarà più sufficiente infatti distinguere tra insiemi finiti e
insiemi infiniti, ma nell’ambito degli insiemi infiniti ve ne saranno alcuni “più grandi” di
altri. Si introduce cioè una sorta di confronto o ordinamento tra infiniti; ma per poter
confrontare due quantità, ho bisogno di averle entrambe presenti e in atto. Sembra dunque
che l’infinito in atto faccia il suo ritorno trionfale; in realtà quello di Cantor non è lo stesso
infinito attuale che aveva in mente Aristotele, tanto è vero che gli si dà un nome differente:
non infinito, ma transfinito. I transfiniti sono infiniti in atto incrementabili che obbediscono
ad operazioni di confronto, composizione, ecc., ben diversi dall’unico infinito in atto non
incrementabile (l’Assoluto) che sfugge per sua stessa natura a qualsiasi formalizzazione di
tipo logico-matematico. In altri termini, l’opera di Cantor non è una confutazione del
principio aristotelico di impossibilità di un infinito in atto che non sia l’Assoluto (come
talvolta capita di sentir dire), ma piuttosto l’inserzione di una classe – a sua volta infinita –
di livelli intermedi tra i due infiniti aristotelici: quello potenziale e l’Assoluto.
,QILQLWRDVVROXWR
Questo punto è della massima importanza, e risulta chiaramente dagli scritti di Cantor30.
In effetti Cantor ha una concezione essenzialmente platonica: gli enti matematici esistono
da sempre nella mente di Dio, e affinché un ente matematico esista basta che sia possibile,
cioè non contraddittorio. Non si tratta però di formalismo alla Hilbert (sebbene possa per
certi versi assomigliargli). Infatti l’esistenza implicata dall’incontraddittorietà è qualcosa di
più forte della semplice coerenza logica dei formalisti. In particolare distinguiamo tra:
30
-
possibilità
-
esistenza astratta
-
creabilità (da parte di Dio)
cfr. Michael HALLETT, &DQWRULDQVHWWKHRU\DQGOLPLWDWLRQRIVL]H, Oxford University Press, New York 1984.
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-
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concreta esistenza
Questa posizione non era condivisa da Frege, per il quale la coerenza logica da sola non
basta a garantire l’esistenza di un ente matematico o logico. Per Cantor invece Dio non
crea ogni cosa che vuole, ma tutto ciò che può. Il richiamo a Dio è essenziale per
giustificare l’ontologia cantoriana; in particolare gli enti matematici, che sono possibili in
quanto incontraddittori, esistono da sempre nella mente di Dio. Questa è come la mente
umana, ma incommensurabilmente più potente, per cui può contenere concetti e idee
inaccessibili all’uomo31.
Se questo principio vale per ogni sorta di ente matematico, esso assume la massima
rilevanza per quanto concerne i transfiniti. Come abbiamo visto, secondo la scolastica
l’unico possibile infinito in atto è Dio, altrimenti possiamo avere solo infiniti potenziali.
Cantor si pone in continuità con questa posizione, sostenendo che essa era perfettamente
giusta e coerente in quanto al tempo non era ancora stata scoperta la teoria dei transfiniti.
Avendo egli dimostrato la possibilità di infiniti in atto incrementabili, appunto i transfiniti,
viene automaticamente rilevato come essi esistano nella mente di Dio, e abbiano pure la
loro esistenza in qualche modo nella creazione, secondo il principio della massima
possibilità. I transfiniti non sono dunque uno sminuire la grandezza di Dio togliendogli
l’unicità della prerogativa dell’infinito in atto, ma anzi un modo in più per glorificarlo, in
quanto aggiunta di un ulteriore strumento alla Sua potenza creativa, che Egli utilizza alla
stessa stregua dei numeri finiti.
I principi fondamentali sulla base dei quali Cantor giustifica il suo utilizzo dell’infinito
attuale sono tre32:
1. 3ULQFLSLR GHOO¶LQILQLWR DWWXDOH R SULQFLSLR GHO GRPLQLR: ogni infinito potenziale
presuppone sempre l’esistenza di un corrispondente infinito attuale; ciò significa
che le totalità infinite esistono in atto, e quando riconosciamo una successione
potenzialmente infinita, abbiamo in realtà “sollevato il velo” su una parte di una
totalità infinita già completamente data.
2. 3ULQFLSLR GL ILQLWLVPR: i transfiniti sono sullo stesso piano degli ordinari numeri
(finiti), e il trattamento matematico di tali entità è il più possibile simile a quello dei
numeri; ciò significa che si costruisce una vera e propria aritmetica dei transfiniti,
una scala in base alla quale essi sono ordinati, e in generale tutte quelle cose che si
31
32
,YL, 21.
,YL, 7.
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20
possono fare con oggetti matematici che sono appunto definiti e quindi
concretamente esistenti.
3. 3ULQFLSLR GHOO¶LQILQLWR $VVROXWR: l’infinito Assoluto non può essere determinato
matematicamente; rispetto alla tradizionale suddivisione di origine aristotelica
dell’infinito in potenziale ed attuale, Cantor introduce l’ulteriore divisione
dell’infinito attuale in transfinito (incrementabile) e assoluto. Quest’ultimo coincide
con l’unico infinito attuale a non incrementabile che la tradizione aristotelicotomista identifica con Dio; Cantor non cancella questa suprema concezione di
infinito, ma la arricchisce di un ulteriore strumento della sua potenza creativa, che
sono appunto i transfiniti.
,OFRQFHWWRGLLQVLHPH
Quello a proposito del rapporto tra infinito potenziale e Assoluto da una parte e
transfiniti dall’altra non è l’unico equivoco che viene sovente incontrato riguardo al
pensiero di Cantor. Alla base della teoria degli insiemi vi è infatti il concetto stesso di
insieme che – a dispetto del suo carattere fondamentale e basilare – non è affatto un
concetto banale. Cantor non considera “insieme” un qualsiasi raggruppamento di oggetti,
enti, ecc. messi insieme, bensì una molteplicità che possa – sulla base di qualche legge –
essere pensata come una unità33. In termini platonici, potremmo dire che un insieme è una
molteplicità la cui corrispondente unità possiede un’idea come modello esemplare
nell’iperuranio. Cosa si intende con “poter pensare come una unità” non è molto chiaro.
Potrebbe essere correlato ad una impostazione intensionale, cioè l’unificazione avviene per
mezzo di un concetto. Tuttavia Cantor sembra optare per una visione estensionale quando
dice che gli elementi dell’insieme devono essere chiaramente identificati. Naturalmente in
questo modo sorge immediatamente un problema con gli insiemi infiniti, per i quali non è
possibile il passaggio dall’intensionale all’estensionale, in quanto non si potrà mai
realizzare una enumerazione completa. C’è poi un’altra questione: cos’è che rende una
molteplicità di oggetti una unità, cioè un insieme. Forse il fatto che vengano pensati come
unità? Ma allora si avrebbe una sorta di ruolo costruttivo del pensiero umano, in grado di
trasformare, per esempio, due mele sul tavolo in un insieme di due mele. In realtà l’azione
costruttiva che Cantor sottintende non è quella dell’uomo ma della mente di Dio, che si
trova così ad avere il ruolo di iperuranio nel quale sono conservate le idee. Inoltre questo
33
,YL, 33.
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21
risolve anche il problema del passaggio all’estensionalità per gli insiemi infiniti. Cantor
infatti, citando esplicitamente quello stesso passo del 'H &LYLWDWH 'HL che abbiamo già
incontrato nelle pagine precedenti, nel quale viene detto che Dio conosce tutti i numeri in
atto, vi vede una chiara anticipazione del concetto di transfinito, inteso come una modalità
dell’infinito in atto posta al di sotto dell’infinito assoluto.
Ma come si può caratterizzare l’infinito assoluto? Esso è posto oltre tutte le scale di
numeri. È il dominio di tutto ciò che è matematizzabile, e come tale non è esso stesso
matematizzabile, deve cioè trascendere la matematica. È un infinito che non appartiene ad
alcun livello nella scala dei transfiniti. Infatti sia togliendo che aggiungendo alcunché – sia
finito che transfinito – all’assoluto la sua grandezza non cambia. questo ci dice che esso
non ricade nel dominio dei transfiniti, neppure come un infinito al di là di tutti gli infiniti
(esattamente come il transfinito è al di là di tutti i numeri finiti). Piuttosto, in quanto non
soggetto ad operazioni di accrescimento/diminuzione esso è non matematizzabile. La
totalità degli enti che possono essere trattati con i metodi della matematica è un ente che è
al di fuori della matematica. Lo potremmo forse pensare come l’insieme di tutti gli
insiemi? Ma sappiamo che tale nozione è contraddittoria. In realtà Cantor identifica
chiaramente l’assoluto con Dio (o almeno con alcune sue caratteristiche). Sorge però a
questo punto un problema di ordine logico. Se infatti tutti gli infiniti potenziali hanno un
corrispondente attuale nella mente di Dio, cosa impedirebbe a Dio di pensare in maniera
finitistica la classe universale degli oggetti matematici (cioè l’insieme di tutti gli insiemi),
allo stesso modo in cui pensa attualmente la totalità dei numeri naturali? È forse preferibile
ridurre la portata della concezione di Cantor, svincolando l’assoluto dalla teologia e
intendere la non matematizzabilità semplicemente come una separazione di tipi tra
l’Assoluto e i transfiniti, al modo della teoria di Russell34. Comunque, nell’accostare
l’Assoluto a Dio, non si può non rilevare una stringente analogia tra l’impossibilità di una
trattazione matematica del primo e l’inadeguatezza dell’intelligenza umana a comprendere
il secondo. In entrambi i casi infatti la ragione ci porta solo sulla soglia della comprensione
(qualsiasi cosa significhi il verbo “comprendere” applicato a concetti di tale portata...) e lì
ci abbandona. In entrambi i casi è possibile giungere fino alla dimostrazione del DQ VLW, ma
nulla si può dire sul TXLGVLW (eccetto alcune intuizioni che seguono la via negativa e quella
superlativa).
34
,YL, 45.
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$OHVVDQGUR&RUGHOOL
1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR
22
/LPLWD]LRQHGHOODGLPHQVLRQHGHJOLLQVLHPL
Dopo queste precisazioni sul carattere dell’Assoluto torniamo al problema della
definizione di insieme. Come abbiamo visto, per Cantor “insieme” non è un qualunque
raggruppamento di oggetti o concetti, ma è una collezione di elementi appartenenti alla
stessa “sfera concettuale”. Vi è cioè un riferimento alla nozione unificante di sfera
concettuale, cioè di idea o concetto. Questa nozione è di per sé molto vasta, ma viene
ristretta negli scritti di Cantor agli enti matematici. Così i numeri interi, i punti del piano,
ecc. saranno altrettante sfere concettuali. Tuttavia, come abbiamo visto, all’interno di
questa prospettiva non c’è motivo per escludere che l’intero universo degli enti matematici
sia a sua volta una sfera concettuale, ammettendo così la nozione distruttiva di insieme di
tutti gli insiemi. Questa è proprio la direzione in cui si muove Dedekind quando afferma
che un insieme è completamente determinato quando è possibile dire per ogni ente se
appartenga a tale insieme oppure no (in termini più precisi si tratta di definire la cosiddetta
IXQ]LRQHFDUDWWHULVWLFD di un insieme, cioè una funzione che abbia come dominio una certa
classe di enti e i cui possibili valori siano zero se l’ente-argomento non appartiene
all’insieme e uno altrimenti). Chiaramente, con questa definizione la proprietà che
definisce estensivamente l’insieme di tutti gli insiemi è semplicemente il principio di
identità. Nella visione di Cantor invece l’insieme universale viene escluso in quanto
immagine dell’Assoluto, e come tale non riducibile ad operazioni razionali (in particolare
ad operazioni matematiche). Questa soluzione del problema presenta però un forte
carattere DG KRF, e non è quindi molto soddisfacente. Inoltre lascia aperta la questione su
cosa si possa operativamente definire insieme e cosa no. Due saranno le strade per arrivare
a risolvere questo problema ampiamente battute nei successivi sviluppi della teoria degli
insiemi, ma entrambe già presenti negli scritti di Cantor:
1. una procedura di costruzione “dal basso” che partendo da un particolare insieme di
riferimento – per esempio i numeri naturali – permette di generare tutti gli altri
insiemi, vale a dire tutte le possibili cardinalità, finite e transfinite. Tale procedura è
quella dell’insieme potenza, per cui partendo da un certo insieme possiamo
costruire l’insieme di tutti i suoi possibili sottoinsiemi – appunto l’insieme potenza
– oppure, che è lo stesso, la classe di tutte le possibili funzioni aventi l’insieme dato
come dominio e valori in {0, 1}. Il vantaggio di questo approccio è che l’Assoluto
– rappresentato da classi omnicomprensive, come l’insieme di tutti gli insiemi –
risulta automaticamente escluso dal novero degli insiemi in quanto di qualsiasi
insieme generato con il metodo esposto sopra potremo a sua volta costruire
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$OHVVDQGUR&RUGHOOL
1RWHVXOFRQFHWWRGLLQILQLWR
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l’insieme potenza, e quindi non arriveremo mai ad una cardinalità non
ulteriormente incrementabile (che è appunto ciò che caratterizza l’Assoluto). In
questo modo vediamo che la classe universale non è un insieme poiché non è
raggiungibile con procedimenti costruttivi, e quindi non è trattabile secondo i
metodi matematici che si applicano agli insiemi: in tal modo è salva la trascendenza
e con essa il significato teologico dell’Assoluto. Il problema di questa impostazione
è quello di trovare delle regole chiare ben definite per la costruzione degli insiemi,
problema al quale sarà principalmente rivolta la teoria di Zermelo;
2. il secondo approccio procede invece dall’alto: assumiamo la classe universale come
assioma e definiamo gli insiemi a partire da essa, che tuttavia non è a sua volta un
insieme. La limitazione della dimensione è data quindi dalla stessa classe
universale.
In
questo
modo
alcune
limitate
operazioni
matematiche
(l’individuazione di sottoinsiemi) diventano possibili sulla classe universale, che
perde quindi il carattere di assoluta trascendenza e con esso il significato teologico
datole da Cantor.
,QILQLWjHGHWHUPLQD]LRQHLQUDSSRUWRDOODUHDOWjILVLFD
Tutte le considerazioni precedentemente svolte a proposito dell’infinito riguardano
aspetti esclusivamente pertinenti all’ambito matematico, ma possono essere concepibili
forme di infinità in relazione all’ordine della realtà fisica? Abbiamo già visto come l’idea
di infinito propria della mentalità comune sorga dalla constatazione di enormi quantità,
tempi e distanze nell’universo, ma si tratta pur sempre grandezze finite. Torneremo in
seguito sulla possibilità di un universo illimitato, ma prima vogliamo accennare ad un altra
questione legata ad aspetti di infinità nell’ordine fisico: quanti fattori occorrono per la
determinazione di un ente fisico?
,VLQJROLHQWLPDWHULDOL
A questa domanda paradigmi ontologici diversi forniscono risposte differenti. In una
visione puramente riduzionista qualsiasi ente o fenomeno è sempre completamente
scomponibile in un ben determinato numero di livelli inferiori, fino a quello più basso che
– a seconda della teoria accettata – potrà essere quello dei quark e leptoni, dei campi
quantistici, o delle stringhe. In ogni caso però sono questi oggetti elementari e le leggi con
cui interagiscono che determinano interamente ogni struttura di livello più alto. Questa
forma di finitismo si estende facilmente dal singolo ente all’intero universo e – nella forma
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più radicale di riduzionismo, il meccanicismo (l’intera realtà ridotta a particelle materiali
interagenti) – comporta un determinismo pressoché completo. Secondo le celebri parole di
Laplace:
8QLQWHOOHWWRFKHDXQGDWRPRPHQWRFRQRVFHVVHWXWWHOHIRU]HFKHDQLPDQROD1DWXUDHOHPXWXH
SRVL]LRQLGLWXWWLJOLHQWLFKHTXHVWDFRPSUHQGHVHTXHVWRVWHVVRLQWHOOHWWRIRVVHVXIILFLHQWHPHQWH
YDVWRSHUVRWWRSRUUHDGDQDOLVLTXHVWLGDWLSRWUHEEHFRQGHQVDUHLQXQDVLQJRODIRUPXODWDQWRLO
PRYLPHQWRGHLSLJUDQGLFRUSLGHOO¶XQLYHUVRTXDQWRTXHOORGHJOLDWRPLSLOHJJHULSHUWDOH
LQWHOOHWWRQXOODSRWUHEEHHVVHUHLQFHUWRHLOIXWXURFRVuFRPHLOSDVVDWRVDUHEEHURSUHVHQWLDL
VXRLRFFKL35
I moderni riduzionisti hanno abbassato le loro pretese, ma la convinzione di fondo che
qualsiasi fenomeno possa in linea di principio essere completamente determinato a partire
da un numero finito di componenti elementari perfettamente individuabili e dalle leggi che
esprimono le loro relazioni è rimasta ben salda:
&RQRVFHUH LO FRPSRUWDPHQWR GL XQ HOHWWURQH R GL XQ TXDUN q XQ FRQWR DSSOLFDUH TXHVWD
FRQRVFHQ]D SHU SUHYHGHUH LO WUDJLWWR GL XQ WRUQDGR q XQ DOWUR 6X TXHVWR SXQWR PROWL
FRQFRUGDQR0DOHRSLQLRQLGLYHUJRQRTXDQGRVLWUDWWDGLVWDELOLUHVHLIHQRPHQLLQDWWHVLFKH
DYYHQJRQR DO FUHVFHUH GHOOD FRPSOHVVLWj VLDQR PDQLIHVWD]LRQL GL YHUH H SURSULH QXRYH OHJJL
ILVLFKHRVHVLWUDWWLGLFRQVHJXHQ]H±DQFKHVHWHUULELOPHQWHFRPSOLFDWHGDGLPRVWUDUH±GHOOH
OHJJL FKH JRYHUQDQR OH VLQJROH PROWLVVLPH SDUWLFHOOH HOHPHQWDUL +R O¶LPSUHVVLRQH FKH
TXHVW¶XOWLPDLSRWHVLVLDJLXVWD,OIDWWRFKHVLDLPSRVVLELOHVSLHJDUHOHSURSULHWjGLXQWRUQDGRLQ
WHUPLQLGLHOHWWURQLHTXDUNPLVHPEUDSLXQSUREOHPDFRPSXWD]LRQDOHFKHXQVHJQDOHGHOOD
SUHVHQ]DGLQXRYHOHJJLILVLFKH36
Su quali definitivi argomenti si basi tale convinzione non è chiaro; in realtà sembra più che
altro un’opinione fondata su vecchi pregiudizi positivisti, principio di autorità e inerzia
intellettuale, se anche un premio Nobel come Steven Weimberg sostiene, con una buona
dose di arroganza, che:
$OO¶DOWURFDSRFLVRQRJOLDYYHUVDULGHOULGX]LRQLVPRFKHVRQRLQGLJQDWLGDTXHOODFKHDORUR
VHPEUDODWULVWH]]DGHOODVFLHQ]DPRGHUQD6LVHQWRQRVPLQXLWLGDOIDWWRFKHLOORURPRQGRSXz
HVVHUHULGRWWRDTXHVWLRQLGLSDUWLFHOOHHGLLQWHUD]LRQL>@1RQPLVHPEUDLOFDVRGLULVSRQGHUH
D TXHVWH FULWLFKH FRQ XQ GLVFRUVHWWR HGLILFDQWH VXOOH PHUDYLJOLH GHOOD VFLHQ]D PRGHUQD /D
YLVLRQHGHOPRQGRGLXQULGX]LRQLVWDqGDYYHURIUHGGDHLPSHUVRQDOHGHYHHVVHUHDFFHWWDWDFRVu
FRP¶qQRQSHUFKpFLSLDFHPDSHUFKpFRVuIXQ]LRQDQROHFRVH37
Pierre-Simon DE LAPLACE, (VVDLSKLORVRSKLTXHVXUOHVSUREDELOLWpV, 1825, trad. it. 6DJJLRVXOOHSUREDELOLWj, Laterza,
Bari, 1951.
36
Brian GREENE, /¶XQLYHUVR HOHJDQWH 6XSHUVWULQJKH GLPHQVLRQL QDVFRVWH H OD ULFHUFD GHOOD WHRULD XOWLPD, Einaudi,
Torino, 2000, 16.
37
Steven WEIMBERG, ,OVRJQRGHOO¶XQLWjGHOO¶XQLYHUVR, Mondadori, Milano, 1993, 57.
35
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25
Ma è poi vero che non vi è alternativa alla visione riduzionista sulla base di una
ragionevole analisi dei risultati della fisica moderna? Senza volerci troppo addentrare in
questioni epistemologiche, ci sembra che scienziati come Weimberg siano prigionieri del
loro paradigma, nel senso che a questo termine dà Kuhn nella sua celebre opera sulle
rivoluzioni scientifiche38, cioè un sistema di pensiero che definisce i fenomeni, i problemi,
il linguaggio, i procedimenti, e che di fronte a fatti spiegabili difficilmente e solo con il
ricorso a ipotesi DGKRF può anche vacillare, ma che comunque i suoi sostenitori tenteranno
di difendere con ogni mezzo contro l’affermarsi di nuovi paradigmi alternativi. È un fatto
noto che dall’ultimo quarto del XX secolo sia in atto una tale competizione di paradigmi,
nella quale la vecchia visione riduzionista cara ai fisici delle particelle elementari, che tanti
successi aveva raccolto nella prima fase dell’era quantistica, si oppone a quella che a tutti
gli effetti si configura come una nuova scienza, trasversale a molti ambiti tradizionali
(fisica, chimica, biologia, ma anche sociologia ed economia), e alla quale si fa variamente
riferimento come teoria del caos, dei sistemi non lineari, della complessità39.
Tornando al tema del rapporto tra infinità e determinismo nell’ontologia dell’ente fisico,
appare plausibile che posizioni alternative al riduzionismo escludano anche il finitismo da
esso implicato. In altre parole, se una data struttura non è nient’altro che la somma dei suoi
costituenti elementari e delle loro interazioni, nessuna forma di infinità può aversi
all’interno dell’ordine materiale: un gatto è “solo” l’insieme dei quark e dei leptoni degli
atomi delle biomolecole delle cellule dei suoi tessuti e le loro interazioni; indubbiamente
un numero grande, ma finito e determinato. Se però un gatto è anche “qualcos’altro” oltre a
quell’affollato insieme di quark e leptoni, ecco che può essere arduo stabilire quanti fattori
concorrono a determinarlo.
Se l’epistemologia riduzionista prevede che un ente possa essere completamente
dedotto dalle condizioni iniziali (cioè dalle parti costituenti) sulla base delle leggi che
descrivono le interazioni, nella dottrina aristotelico-tomista40 si ha l’eduzione della forma
dalla materia, e l’ultima determinazione è dovuta all’ente/processo stesso. Si tratta cioè di
individuare l’insieme dei fattori che concorrono alla determinazione dell’essenza di un
dato ente, cioè delle sue cause (cause seconde, non sufficienti da sole a garantire
l’esistenza in atto, per la quale dovremo riferirci ad un altro ordine di causalità). È questa la
Thomas S. KUHN, /DVWUXWWXUDGHOOHULYROX]LRQLVFLHQWLILFKH, Einaudi, Torino, 1969.
La letteratura in merito è pressoché sterminata, cfr. ad esempio due opere che sono ormai diventati classici: Hermann
HAKEN, 6LQHUJHWLFD,OVHJUHWRGHOVXFFHVVRGHOODQDWXUD. Boringhieri, Torino, 1983 e Ilya PRIGOGINE - I. STENGERS, /D
QXRYDDOOHDQ]D0HWDPRUIRVLGHOODVFLHQ]D. Einaudi, Torino, 1981.
40
Gianfranco BASTI - Antonio PERRONE, cit., 77-96.
38
39
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concezione aristotelica di “causa”, contrapposta a quella più riduttiva del razionalismo
moderno che riporta tale nozione a quella della sola causa efficiente. Ora, l’essenza di un
ente è proprio ciò che lo rende quello che è e lo distingue da tutti gli altri enti
dell’universo. Chiaramente la quantità di informazione necessaria per specificare una tale
essenza individuale è potenzialmente infinita. Tuttavia essa non è integralmente richiesta
per avere un qualche grado di conoscenza dell’ente; piuttosto, man mano che aumentano le
determinazioni acquisite, cresce corrispondentemente la profondità della conoscenza,
basata quindi non sulla completezza dell’essenza ma su una sua connotazione parziale che
chiameremo TXLGGLWDV. Infine, un’altra accezione equivalente dell’essenza è quella
denotata dal termine “natura”, che indica le azioni peculiari di un certo ente,
dall’osservazione delle quali potremo poi risalire alle determinazioni che costituiscono
l’essenza41.
Tornando quindi al rapporto di questa epistemologia con quella riduzionista, non si
tratta di negare che un ente strutturato sia composto di parti, ma piuttosto di riconoscere
che questa composizione non è da sola sufficiente alla piena e completa determinazione
dell’ente stesso. E quindi, in che senso viene a cadere il finitismo riduzionista? È chiaro
che l’enumerazione delle cause seconde non porterà ad un infinità attuale (che sarebbe
contraddittoria); tuttavia non siamo più neanche nella condizione in cui la completa
determinazione di un ente richiede esattamente tutti i suoi quark e leptoni, non uno di più
né uno di meno. Invece, scendendo a livelli sempre più approfonditi nell’indagine, si
troveranno sempre nuovi elementi nella scala delle cause seconde; abbiamo cioè una
quantità di enti e processi concorrenti finita sì, ma sempre incrementabile.
/¶LQWHURXQLYHUVR
Vi è un altro aspetto in base al quale l’infinito può presentarsi come categoria
concettuale applicabile alla realtà materiale. Si tratta dell’estensione spazio-temporale
dell’intero universo. La questione ci porta quindi a dirigere la nostra attenzione sui vari
modelli cosmologici, ampiamente discussi nella precedente sezione; non sarà fuori luogo
tuttavia riassumerne qui, a titolo di chiarezza, le principali caratteristiche e implicazioni.
Ricordiamo brevemente che il modello cosmologico standard – supportato da un gran
numero di prove osservative, di cui la principale è l’allontanamento delle galassie con una
velocità proporzionale alla loro distanza reciproca (legge di Hubble) – prevede che
41
Gianfranco BASTI, )LORVRILDGHOOD1DWXUD«, cit., 416-422.
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l’universo abbia avuto origine da una singolarità iniziale di dimensioni così piccole e
temperatura e densità così elevate che le leggi della fisica come le conosciamo perdono
completamente significato: il Big Bang. A dispetto delle molte conferme, vi sono però
alcuni punti non spiegabili all’interno del modello cosmologico standard. Inoltre, nel
modello cosmologico standard non è prevista alcuna causa per la spinta propulsiva iniziale
né per la enorme quantità di materia-energia presente, che devono pertanto essere assunte
come ipotesi DG KRF. Tutti questi problemi vengono risolti nell’ambito della teoria
dell’universo inflazionario42.
8QLYHUVRLQIOD]LRQDULR
Secondo questa teoria lo stato iniziale dell’universo consisteva in una forma di vuoto
diversa da quella ordinaria; come un atomo può avere solo particolari energie di cui la più
bassa è lo stato fondamentale e le altre i livelli eccitati, così anche il vuoto può presentarsi
in varie configurazioni quantistiche di differenti energie. Quella che compete alla materia e
allo spazio-tempo nello stato attuale che conosciamo è appunto lo stato fondamentale, di
energia minima e dinamicamente stabile. All’inizio della storia dell’universo, però, vi era
un seme di vuoto in un livello eccitato, quello cioè che tecnicamente si chiama IDOVRYXRWR.
Vi è una profonda differenza tra il vuoto ordinario – dinamicamente stabile – e il falso
vuoto: quest’ultimo infatti si comporta come un fluido a pressione negativa. Il concetto non
è per niente intuitivo; infatti nessun liquido, o gas, o plasma, o altro stato esotico della
materia, ha questa singolare proprietà. La sostituzione di un valore negativo della pressione
nelle equazioni di campo di Einstein comporta una repulsione antigravitazionale che causa
una rapidissima espansione dello spazio-tempo in progressione geometrica. Inoltre,
contrariamente a quello che fanno gli ordinari fluidi a pressione positiva che espandendosi
si raffreddano, il falso vuoto aumentando il proprio volume accumula energia. Ora, come
un atomo non permane che per un breve intervallo di tempo nello stato eccitato prima di
decadere al livello fondamentale emettendo energia sotto forma di radiazione
elettromagnetica, così anche il falso vuoto non è stabile e ben presto (in 10-35 secondi)
decade nel livello fondamentale producendo una enorme quantità di particelle di ogni tipo
che popolano un spazio che si espande a causa della spinta antigravitazionale subita nel
precedente stato di falso vuoto, in quella cioè che viene comunemente detta IDVH
LQIOD]LRQDULD.
42
Alan GUTH, 7KH,QIODWLRQDU\8QLYHUVH7KH4XHVWIRUD1HZ7KHRU\RI&RVPLF2ULJLQV, Basic Books, New York 1997.
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Malgrado l’ipotesi dell’espansione inflazionaria permetta di giustificare i fatti
osservativi che nel modello cosmologico standard non trovano spiegazione, nonché di
evitare il ricorso ad assunzioni DG KRF su punti della massima importanza come l’origine
stessa della materia ed energia che costituisce l’intero universo, essa comporta tuttavia
alcuni punti poco chiari. Il principale di essi riguarda le modalità del passaggio allo stato di
vuoto ordinario, cioè la fine della fase inflazionaria. Infatti il decadimento allo stato
fondamentale non avviene in ogni luogo contemporaneamente, ma si creano delle bolle di
vuoto ordinario in rapida espansione all’interno del mare di falso vuoto, che tuttavia si
espande più velocemente, in modo che non si ottenga mai la completa estinzione del falso
vuoto. Questo fa sì che le bolle di vuoto ordinario nella loro espansione non riescano a
raggiungersi, unificando le rispettive trame spaziotemporali; in altri termini la struttura che
emerge da questo modello – detto del nuovo universo inflazionario43 - è quella di un
universo “a bolle”, cioè un PXOWLYHUVR, con ogni bolla che porta con sé il proprio spaziotempo, incommensurabile e causalmente separato da quello di ogni altra bolla.
Anche se sul piano operativo e sperimentale la rilevanza di questi altri universi “fratelli”
del nostro è assolutamente nulla, in quanto non vi può essere per definizione alcuna
interazione con essi, su quello della filosofia della natura le cose stanno in maniera diversa.
All’interno del modello, infatti, il Big Bang non può più essere considerato come un inizio
assoluto del tempo, e dato che la continua produzione di bolle di vuoto ordinario
all’interno di una matrice di falso vuoto in espansione inflazionaria ha tutti i caratteri di un
processo stazionario, si affaccia la concreta possibilità della mancanza di un punto di inizio
per la totalità della realtà materiale44. Si ha cioè l’eventualità di un infinito potenziale nel
tempo.
8QLYHUVRFLFOLFR
Una concezione decisamente alternativa alle teorie inflazionarie è quella che emerge dal
recente modello dell’universo ciclico45. Gli ingredienti fondamentali di questa teoria sono
la teoria delle stringhe nella sua formulazione più generale e la multidimensionalità della
realtà materiale. Si ipotizza quindi che il nostro universo “viva” in una membrana
tridimensionale all’interno di uno spazio ad un maggior numero di dimensioni, insieme ad
43
Andrei D. LINDE, “A New Inflationary Universe Scenario: a Possible Solution of the Horizon, Flatness, Homogeneity,
Isotropy, and Primordial Monopole Problems”, in 3K\VLFV/HWWHUV 108B (1982) 389-392.
44
Andrei D. LINDE, “The Eternally Existing, Self-Reproducing Inflationary Universe”, in 3URFHHGLQJV RI WKH 1REHO
6\PSRVLXPRQ8QLILFDWLRQRI)XQGDPHQWDO,QWHUDFWLRQV (June 2-7, Marstrand, Sweden), edited by L. BRINK et al., World
Scientific, Singapore, 1987.
45
Paul J. STEINHARDT - Neil TUROK, (QGOHVV8QLYHUVH%H\RQGWKH%LJ%DQJ, Doubleday, New York 2007.
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29
altre simili membrane. Ora, accade che tra due di queste membrane si stabilisce una forza
di tipo attrattivo, come quella di una molla, che fa sì che esse si avvicinino l’una all’altra
lungo una direzione ortogonale a quelle dello spazio tridimensionale, e infine collidano.
Nel momento in cui ciò accade viene liberata una quantità enorme di energia, si ha cioè il
Big Bang. Le due membrane vengono respinte l’una dall’altra e lo spazio si dilata, dando
luogo al ben noto fenomeno dell’allontanamento reciproco delle galassie descritto dalla
legge di Hubble. In una prima fase l’espansione dell’universo tridimensionale e
l’allontanamento delle membrane lungo la quarta procedono nello stesso verso, poi il moto
delle membrane si inverte mentre lo spazio tridimensionale continua ad espandersi. La
distanza che separa le due membrane nel momento del loro massimo allontanamento è
minore del diametro di un protone, tuttavia noi non potremo mai riuscire a toccare il nostro
universo fratello nell’altra membrana allungando una mano, semplicemente perché
qualsiasi movimento avviene in una delle tre direzioni dello spazio, mentre le membrane
sono separate lungo una ulteriore quarta dimensione. Proprio come per un peso attaccato
ad una molla, man mano che le membrane si avvicinano, acquistano velocità e quindi
energia che andrà in parte a costituire il prossimo Big Bang, mentre la materia attualmente
presente viene diluita sempre di più, trasportata da uno spazio irreversibilmente in
espansione. Poco prima della collisione le membrane sono soggette ad una specie di
“accartocciamento”, cosicché alcuni punti vengono in contatto prima di altri: quelli sono i
semi del nuovo Big Bang. Si ha così una successione di cicli di evoluzione dell’universo,
ognuno dei quali ha una durata stimata in circa mille miliardi di anni.
Affinché un comportamento realmente ciclico sia possibile è necessario però che siano
superati i due ostacoli di carattere fondamentale espressi dal primo e dal secondo principio
della termodinamica. L’universo ciclico presenta infatti tutte le caratteristiche di un moto
perpetuo. Ora, il primo principio della termodinamica, vieta la possibilità di un moto
perpetuo di prima specie, cioè in violazione del principio di conservazione dell’energia.
Nel nostro caso ciò significa domandarsi da dove venga l’energia liberata nel Big Bang
all’inizio di ciascun ciclo. Avendo chiarito che non si tratta della materia prodotta nel ciclo
precedente – che si trova ormai diluita su un volume enorme – la soluzione più ovvia è che
tale energia venga fornita dalla molla cosmica che attira le due membrane. In tal modo
però dovremmo avere un effetto di smorzamento che riduce progressivamente l’ampiezza
delle oscillazioni (come un’altalena lasciata a se stessa che dopo un po’ si ferma) fina ad
uno stato finale di equilibrio. La soluzione al problema fornita dalla teoria si basa sul
contributo della gravità, che essendo una forza attrattiva corrisponde ad una energia
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30
potenziale negativa. In tal modo è proprio la gravità a restituire alla molla che lega le due
membrane l’energia che ha perso nel Big Bang.
L’altro ostacolo, legato al secondo principio della termodinamica, riguarda la
produzione di sempre nuova informazione ad ogni ciclo. È ben noto infatti che un sistema
fisico chiuso, lasciato a se stesso, evolve nella direzione di costante aumento del disordine,
distruggendo irreversibilmente tutta l’informazione in esso inizialmente contenuta. È
questo un risultato della massima generalità, espresso dal secondo principio della
termodinamica in una delle sue diverse forme. Se ad esempio lasciamo cadere alcune
gocce di inchiostro blu in un bicchiere pieno d’acqua, dopo un po’ avremo un uniforme
miscuglio celeste, e anche attendendo un tempo arbitrariamente lungo non vi sarà modo di
ottenere di nuovo l’acqua limpida separata dalle gocce concentrate. Essendo l’universo un
sistema chiuso, sembrerebbe che in esso la funzione matematica che misura il disordine,
chiamata HQWURSLD, sia destinata ad aumentare costantemente, cosicché ad ogni ciclo il
disordine totale aumenta fino a rendere impossibile qualsiasi tipo di evoluzione. Di fatto
questa è proprio l’obiezione più stringente contro i primi modelli ciclici, basati sulla
semplice soluzione delle equazioni di Einstein in condizioni tali che la densità sia tale da
permettere alla gravità di vincere la spinta propulsiva iniziale del Big Bang. Nel modello di
Steinhardt e Turok invece la materia che costituisce l’universo ad ogni ciclo non è la stessa
del ciclo precedente; in tal modo è vero che l’entropia globalmente aumenta in maniera
costante, ma ad ogni Big Bang vi è una nuova iniezione di informazione sotto forma di
materia altamente ordinata, e così ciascuna evoluzione può seguire lo stesso percorso delle
precedenti.
Il modello ciclico richiede un inizio assoluto dei tempi nel passato? No, ma nemmeno lo
nega. Ci troviamo quindi nella stessa situazione che abbiamo incontrato con i modelli
inflazionari: la produzione/successione di universi è un processo stazionario, e come tale
potrebbe benissimo essere illimitata nel tempo nelle due direzioni; tuttavia non vi sarebbe
alcun aspetto contraddittorio nell’assumere una fluttuazione iniziale all’origine del primo
seme di falso vuoto (nel modello inflazionario) o una prima oscillazione delle membrane
(nel modello ciclico). Anche nella teoria cosmologica precedente agli sviluppi degli ultimi
decenni, il fatto che le equazioni di Einstein ammettano sia soluzioni aperte in cui lo spazio
si espande indefinitamente, sia soluzioni oscillanti in cui ad una fase di massima
espansione – predominando la gravità sulla spinta iniziale – ne segue una di contrazione
destinata a concludersi nella singolarità finale del Big Crunch seguita da un altro Big Bang,
il problema dell’inizio assoluto dell’universo risulta indecidibile. Tale questione non può
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essere risolta nell’ambito delle attuali teorie. Tuttavia ciò non ha la minima importanza
riguardo al problema della Creazione, che non è l’attimo in cui il cosmo è apparso dal
nulla, ma una relazione metafisica (e come tale esterna all’ordine temporale e simultanea
ad ogni istante dell’evoluzione dell’universo) tra l’intera realtà materiale e la Causa Prima
della sua esistenza.
,PSOLFD]LRQLILORVRILFKHGHLPRGHOOLFRVPRORJLFL
Riportando la nostra discussione sul piano più specificamente filosofico, c’è da notare
che i due modelli (inflazionario e ciclico) nell’ipotesi di un inizio assoluto del tempo
comportano concezioni differenti. Infatti nel caso del modello inflazionario prima
dell’inizio dell’universo vi è realmente il nulla (ancorché un nulla ricco di potenzialità,
pronto ad accogliere spontaneamente le leggi quantistiche e a precipitare nell’essere), dal
quale il falso vuoto appare in seguito ad una fluttuazione; il modello ciclico invece,
essendo basato sulla teoria delle stringhe, prevede una struttura geometrica preesistente di
stringhe e membrane assolutamente immobili, una sorta di caos freddo dinamicamente
instabile nel quale un iniziale atto di moto elementare è in grado di innescare l’oscillazione
delle membrane, la produzione di universi e tutti i fenomeni che ne seguono a cascata. In
questo senso potremmo dire che l’inizio nel modello ciclico ricorda la cosmologia greca,
nella quale un demiurgo mette ordine in un caos primordiale, mentre il modello
inflazionario ci riporta piuttosto al racconto biblico della creazione secondo il quale prima
dell’apparire del cosmo non vi era nulla se non Dio stesso. Notiamo infine che per quanto
riguarda una eventuale domanda sul “prima” della creazione i due modelli sono
assolutamente equivalenti; il tempo infatti (secondo la concezione aristotelica ed
einsteniana, ma non secondo quella newtoniana) è misura del mutamento, quindi una
situazione in cui non esista nulla e una in cui ciò che esiste è assolutamente immobile sono
perfettamente equivalenti: sono entrambe situazioni senza tempo, nelle quali cioè il tempo
non è definito. Anche altri modelli cosmologici concordano nell’escludere la possibilità di
un “prima” della creazione; per esempio, nella teoria di Hartle-Hawking46 il tempo è
parametrizzato come una grandezza a due componenti (in matematica numeri di questo
genere si chiamano FRPSOHVVL) e quindi non viene rappresentato su una semiretta, che ha
un ben definito punto di inizio, ma su una superficie; ad esempio una sfera che, pur
essendo una superficie finita, non è limitata.
46
J. B. HARTLE - Steven W. HAWKING, “The wave function of the Universe”, in 3K\VLFDO5HYLHZ '(1983) 2960.
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In base a quanto visto finora, il problema della possibilità di un infinito attuale nel
passato rimane completamente aperto. E per quanto riguarda il futuro? È possibile un
futuro infinito compatibilmente con le teorie cosmologiche oggi accettate? Le
considerazioni fin qui svolte sono abbastanza simmetriche rispetto alle due direzioni del
tempo, vi è però una importante differenza. Nel caso del futuro non si presenta il problema
dell’infinito attuale, che invece si ha rispetto al passato, in quanto l’infinito nel futuro non
può che essere potenziale per sua stessa definizione (futuro è infatti ciò che non è ancora
accaduto...). Può accadere, però, che anche la possibilità di un futuro potenzialmente
infinito sia preclusa alla realtà fisica nel suo complesso. È chiaro che ciò non accade
nell’ambito del nuovo modello inflazionario come pure in quello dell’universo ciclico;
infatti essendo la produzione di universi-bolla o la ripetizione di cicli di espansionecontrazione processi stazionari, come non vi è la necessità di un inizio nel passato, così
non si dà neanche la possibilità di una interruzione del processo nel futuro.
Se però rivolgiamo l’attenzione al modello cosmologico standard – basato unicamente
sulle equazioni di Einstein della relatività generale – allora è necessario sviluppare alcune
ulteriori considerazioni. Il fattore discriminante è la velocità di espansione in rapporto alla
quantità di materia/energia contenuta globalmente nell’universo. Supponiamo infatti che la
densità dell’universo sia maggiore della cosiddetta densità critica; l’espansione attuale è
destinata in tal caso a rallentare e successivamente invertirsi in una contrazione sempre più
veloce che si conclude con una singolarità finale analoga al Big Bang (il cosiddetto %LJ
&UXQFK). Poiché lo spazio e il tempo sono logicamente posteriori alla materia/energia,
come non ha senso parlare di un “prima” del Big Bang così non potrà darsi neanche un
“dopo” il Big Crunch e l’ordine materiale non possiede alcun tipo di infinità, nemmeno
potenziale (abbiamo visto sopra come le soluzioni cicliche debbano essere escluse
nell’ambito del modello cosmologico standard per incompatibilità con il secondo principio
della termodinamica).
Diverso è il caso di una densità minore della densità critica, in cui la gravità non riesce
ad opporsi definitivamente all’espansione, che quindi procede indefinitamente. In tale
scenario il futuro è effettivamente infinito (in senso potenziale), e così anche lo spazio.
ÊSRVVLELOHXQDYLWDSHUSHWXD"
Vi è – nel caso di uno spazio-tempo aperto – una questione importante legata al
carattere dell’intero universo nel suo procedere verso questo futuro interminabile. Le
evidenze della storia naturale ci parlano infatti di una continua tendenza verso la
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formazione di strutture sempre più complesse e organizzate, dalle origini al tempo
presente.
Nei primissimi istanti successivi al Big Bang infatti l’universo era un brodo caldo ad
alta simmetria. Ma, con l’espansione, la temperatura si abbassa e si formano strutture
sempre più articolate (quark, particelle composte, nuclei...). Parallelamente, la gravità
trasforma fluttuazioni di densità in regioni localizzate di elevata energia, cioè le stelle. Si
vengono così a creare notevoli gradienti di temperatura tra punti vicini nello spazio, una
situazione inedita nell’universo primordiale altamente omogeneo. Ora, è ben noto47 che
sono proprio le differenze di temperatura a permettere la trasformazione di energia termica
in lavoro meccanico, e più in generale la produzione di ordine e informazione. Si arriva
così, dopo la prima generazione di stelle, alla sintesi dei nuclei pesanti, la formazione di
sistemi planetari, la comparsa della vita sulla Terra e – verosimilmente – di analoghe
manifestazioni di complessità autoorganizzata in altre parti del cosmo.
Ci domandiamo allora se, nell’ipotesi di una espansione illimitata dell’universo, sia
teoricamente possibile una parallela evoluzione nel senso di una sempre maggiore
complessità. La questione può essere affrontata nel contesto delle attuali teorie
cosmologiche, della termodinamica classica e della teoria dell’informazione48. Il punto è
che la vita (intendendo il termine nell’accezione più ampia possibile) ha bisogno per
sussistere di un continuo approvvigionamento di energia e informazione, e in un universo
che si espande a velocità sempre maggiore l’accumulo di risorse risulta essere un processo
corrispondentemente sempre più difficile. Sotto tale ipotesi, poiché la velocità di
allontanamento reciproco delle galassie dovuta all’espansione dell’universo aumenta –
secondo la legge di Hubble – proporzionalmente alla mutua separazione, si può calcolare
che, ad esempio, tra meno di 2000 miliardi di anni (che è un tempo enorme, considerando
che l’attuale età dell’universo è “solo” di 14 miliardi di anni) cadranno fuori dal nostro
orizzonte – cioè avranno una velocità di allontanamento superiore a quella della luce, e
quindi saranno invisibili e irraggiungibili – tutte le galassie esterne all’ammasso locale a
cui appartiene la Via Lattea. In termini più quantitativi, la densità di materia decresce come
l’inverso della terza potenza del raggio dell’universo, e la densità di energia
elettromagnetica come l’inverso della quarta potenza. In questa prospettiva, una ipotetica
civiltà di quel lontanissimo futuro si troverebbe nella frustrante condizione di dover
47
48
cfr. Massimo GOVONI - Alessandro CORDELLI, )LVLFD, vol. 2, ATLAS, Bergamo, 2006, 91-93.
Lawrence M. KRAUSS - Glenn D. STARKMAN, “Qual è il destino della vita nell’universo?” in /H6FLHQ]H 378 (2000).
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spendere tutte le particelle, radiazione elettromagnetica e bit di informazione che riuscisse
a rastrellare nell’operazione stessa di reperimento delle risorse.
Di fronte alla prospettiva di un processo di reperimento che dura indefinitamente ma
che permette di raccogliere solo una quantità finita di risorse, la soluzione potrebbe essere
quella di abbassare la velocità del metabolismo, cioè rallentare i processi vitali abbassando
opportunamente la temperatura di questi ipotetici esseri viventi futuribili. In questo modo
però anche la quantità di informazione elaborata si ridurrebbe sempre più, in un sonno che
scivolerebbe con continuità nella morte. In altri termini, il destino di un universo in
espansione illimitata è quello dell’estinzione di ogni forma organizzata e struttura
complessa.
&RQFOXVLRQL
La discussione sull’infinito si sviluppa su molteplici piani, da quello metafisico a quello
mistico, da quello matematico a quello teologico. Importante è la distinzione tra una
considerazione negativa dell’infinito, come assenza di determinazioni, e una positiva di
illimitata incrementabilità quantitativa; ancora più rilevante per gli sviluppi nella storia
della matematica è però un’altra distinzione: quella tra infinito potenziale e attuale. In
particolare fino all’alba dell’età moderna viene quasi universalmente accettato – con
l’unica importante eccezione del trattato ,O 0HWRGR di Archimede – il divieto aristotelico
dell’infinito in atto. Fondamentale fu durante il medioevo l’approfondimento filosofico
dell’idea di infinito, in particolare la distinzione tra infinito VHFXQGXP TXLG introdotta da
Tommaso d’Aquino e l’affermazione della priorità ontologica dell’infinito sul finito di
Duns Scoto. Anche sul fronte della mistica l’epoca medievale vede importanti
approfondimenti del concetto di infinito, fondamentale in questo senso è l’opera di Meister
Eckhart.
Con la nascita della matematica moderna l’infinito in atto irrompe sulla scena della
matematica, consentendo di ottenere notevoli risultati nell’ambito del calcolo (dai punti di
fuga della geometria proiettiva all’analisi infinitesimale), ma anche introducendo i
presupposti per pericolose contraddizioni che mineranno i fondamenti stessi della
matematica.
Con l’opera di Georg Cantor (in particolare l’introduzione della cardinalità transfinita
come una sorta di concetto intermedio tra l’infinito potenziale e quello assoluto in atto) si
raggiunge il più alto livello di comprensione di queste problematiche, e vengono messi a
nudo i paradossi derivanti dal considerare totalità infinte in atto. Strettamente collegato al
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problema della definizione di una classe universale (l’insieme di tutti gli insiemi) è poi
quello della definizione del concetto stesso di insieme.
Dopo aver analizzato l’infinito in matematica e filosofia, è lecito porsi la domanda se
siano possibili aspetti infiniti in riferimento alla fisica.
Una concezione risalente al pensiero greco e mai più messa in discussione nei
successivi sviluppi tende comunque ad escludere categoricamente ogni possibilità di
aspetti quantitativamente infiniti nella realtà materiale. Tuttavia, in base alle più recenti
teorie cosmologiche risulta che aspetti di infinità potenziale non sono necessariamente
improponibili all’interno della realtà fisica, la quale, non per questo, perde il proprio
carattere fondamentale di finitezza e determinazione.
Vi è infatti un vincolo profondo che lega tra loro tutti gli enti concretamente esistenti e
che non permette alcun tipo di deriva verso totalità infinite in atto: la causalità. È implicito
nella natura dell’ente concreto infatti il dover dipendere causalmente da altri enti a loro
volta concretamente esistenti. Poiché tale regola non ammette eccezioni, si capisce come
un principio metafisico “esterno” sia necessario per evitare la contraddittorietà della realtà.
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