Quando mangiare è un rito

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Quando mangiare è un rito
Quando mangiare è un rito
(Popoli n^4 / aprile 2009)
Per i cacciatori Lele del Kasai (Repubblica Democratica del Congo) il cibo è questione importante e
richiede attenzione. Non tutti gli animali possono essere mangiati: non gli «animali bambini», i
cuccioli, non i predatori, che rammentano la prepotenza del guerriero, non quelli che si cibano di
cadaveri e di sporcizia. E se qualcuno potrà alimentarsi con animali proibiti, ciò avverrà solo dopo
un rituale che li renda immuni dal pericolo. Le donne Lele, se hanno superato la pubertà o se sono
gravide, eviteranno di cibarsi delle galline, delle loro uova, del latte, degli uccelli, di qualche specie
di scimmia. A Brazzaville, in un ristorante di lusso, può però capitare di vedersi servire il pipistrello,
cibo permesso ai bambini Lele, ma rifiutato dagli adulti.
Grammatica culinaria e sintassi del cibo diversamente coniugate nella foresta e nella cucina del
ristorante moderno: perché, come scrive l'antropologa inglese Mary Douglas, che ai Lele ha
dedicato la sua ricerca etnografica (Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita
sociale, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 384, euro 23,76), il modo con il quale si tratta il cibo mostra
la superiorità dell'uomo sugli animali. Questi si nutrono, ma non discriminano. L'uomo, «animale
culinario» discrimina e separa alimenti commestibili e non, concessi e vietati. (1)
Seguiamo allora la linea simbolica che in Africa collega cibi, regioni e culture. Senz'altro separiamo
il cibo moderato, tranquillo del Mediterraneo dalla confusione di sapori, spezie, alimenti dell'Africa
e distinguiamo le regioni gastronomiche del Sahara, della foresta tropicale, delle isole. Ma non è
nella geografia che si rintracciano le frontiere. Queste, simboliche e radicate nell'esperienza,
riguardano piuttosto l'uomo e la donna, il sacro e il profano, il lecito e l'illecito, il sociale e
l'individuale.
Cucinare in Africa è un affare di donne: da sola o con le co-mogli, la donna africana si procura la
legna, le pietre, i bastoncini e il cotone per accendere il fuoco, i vegetali, la manioca, il mais e il
miglio per il fufù (una specie di polenta), le spezie. Una questione di genere, solo di recente infranta
dai ristoratori dei locali di lusso nelle capitali che esibiscono chef maschi. Perciò è esercizio di
seduzione: cucinare è, per le donne africane, rendersi appetibili agli occhi degli uomini. È anche
un'attività difficile, perché mette a contatto con una «sporcizia» ben più pericolosa di quella visibile.
È questa l'altra frontiera simbolica del cibo in Africa: la divisione tra ciò che è buono per la vita, e
ciò che non lo è. Poiché l'arte del cucinare espone chi prepara il cibo e chi lo consuma all'azione di
forze nefaste, essa sarà realizzata lontano da sguardi estranei, preservando in maniera quasi
religiosa lo spazio nel quale la massaia si muove e preservando la trasmissione delle conoscenze
culinarie, protette dal segreto, quasi si trattasse di formule magiche.(2)
Seguiamo ancora Mary Douglas nella sua ricognizione delle abitudini Lele. I tabù alimentari, che
impediscono ai Lele di cibarsi di determinati animali o vegetali, classificano le cose del mondo con
categorie che definiscono l'ordine e il disordine, il pulito e lo sporco. Regolano anche il
comportamento in relazione al cibo: la donna gravida o la puerpera, ad esempio, in quanto più
esposte al negativo, si allontaneranno dalla cucina per un tempo e restringeranno ulteriormente il
novero delle specie di cui si possono cibare. (3)
La foresta africana, scrive Tebaldi (Cibo d'Africa. Percorsi alimentari dal Sahara a Soweto, Slow
Food, Bra 2006, pp. 120, euro 13,50), è «nutriente». I pigmei, specializzati nella raccolta di miele e
nella caccia nel sottobosco, offrono cibo all'economia domestica dei villaggi e delle periferie.
Crudo, cotto e putrido (il «triangolo culinario» già descritto da Lévi-Strauss) si ritrovano nei
prodotti esposti nei mercati delle capitali africane, che sia il Mercado Total di Brazzaville o il Roque
Santeiro di Luanda, e in quelli a lume di candela (il «mercato della notte») dei villaggi rurali. Si
troveranno insetti da essiccare con aglio, peperoncino, alloro, pasta di arachide, olio di palma e sale,
facoceri, antilopi, gazzelle, tartarughe, termiti, polli, agnelli, pesci-gatto e serpenti, ostriche e riso,
larve di insetti, bruchi, grilli e funghi, spezie ed erbe aromatiche, cocco e banane, ananas e
tamarindo, vino di palma e distillati, birra di miglio e burro di karité da cuocere a lungo perché
risulti più leggero. E poi olio di arachide, grani di palma per condimento e foglie di mfunbwa
utilizzate per avvolgere cibi in un cartoccio, il liboke, da collocare sulla brace. È un mercato che
rende visibile la fitta ragnatela con cui sono collegati agricoltori, allevatori nomadi, raccoglitori
delle foreste. (4) Una rete che serve soprattutto la cucina dei poveri (5), cucina della foresta e della
brousse, piatti selvatici che sconcertano l'europeo. Perché l'altra frontiera dell'alimentazione, in
Africa, è data dalla radicale distanza tra il cibo che viene da fuori, che sa di frigorifero e di nave, di
potere che perpetua la dipendenza e la fame, e il cibo democratico della foresta e del campo, che
basta coltivare, raccogliere e trasportare al mercato più vicino a casa dove la donna proverà a
venderlo. Quello di cui ci si ciba, separa il domestico dallo straniero. I Lele, per tornare a loro,
considerano i vicini Cokwe come mangiatori di topi, gli Nkutshu mangiatori di serpenti. Gli europei
hanno disprezzato per secoli i «cannibali» africani: frontiere tra l'umano e il non-umano, la cultura e
la barbarie.(6)
E infine, è difficile pensare alla convivialità africana con le categorie che ci portiamo dal nostro
mondo: il cibo è piuttosto un rito e lo si affronta con la consapevolezza di star realizzando un atto
cerimoniale.(7) Nelle foreste della Costa d'Avorio non è raro osservare la libagione di vino di palma
per gli antenati prima di un avvenimento importante. E se il cibo è offerto all'ospite, si baderà che
avvenga con tutta la solennità del caso.
1) Commenta questa affermazione con precisi riferimenti a quanto studiato
2) Ricava dal testo i significati simbolici legati all'atto del cucinare
3) Qui compare la parola “TABU'” : cosa significa? Oltre a quelli riportati in questo punto
dell'articolo, rintraccia altri tabù alimentari citati in esso
4) Considera l'elenco dei cibi che si possono acquistare nei mercati delle capitali africane :
commentalo ce farebbe un antropologo che applica il modello del “materialismo culturale”
5) “Cucina dei poveri” è un'espressione che può essere ricollegata alle analisi di Pierre
Bourdieu ne “La distinzione” : riassumi la tesi di fondo di quest'opera
6) Commenta l'affermazione sottolineata; indica esempi relativi alla nostra cultura analoghi a
quelli riportati di seguito e relativi ai Lele
7) A quali riti si potrebbe accostare la libagione di vino per gli antenati in Costa d'avorio?
8) Che cos'è un rito? Chi è l'antropologo che ha studiato i riti di iniziazione? Quali sono i
momenti caratteristici di tali riti?
9) In diversi punti dell'articolo si cita l'antropologa Mary Douglas : illustra la tesi da lei
sostenuta in “Purezza e pericolo”