Racconti presi nella rete 2

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Racconti presi nella rete 2
Racconti presi
nella rete I I
Antologia di racconti
Lorenzo Carbone, Alessandro Ansuini, Sara Ricci, Roberto Miano,
Paolo Gera, Andrea Inglese, Maddalena Signori, Scrittorucolo,
Barbara Ferraris Di Celle, Francesco Smaldino, Enzo Cofani,
Franco Libus Uomo Pallido, Rebecca Lena, Alessandro Gabriele,
Autore Ics, Luigi Tuveri, Ottavio Taranto, Giorgio Brunelli,
Baricco Sfondato, Giovanna Rotondo, Emanuele Mandelli, effeffe,
Margherita Eallaigamma, Fabrizio Romano, Livio Borriello,
Stefano Antonio Bugannanna, Angelo Tozzi, Michele Caponi,
Jihan, Antonio Sofia, Villa Dominica Balbinot, malos mannaja
Copylefteratura Edizioni
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In copertina copyleft: “libri presi nella rete 2” di Copylefteratura
Edizioni Copylefteratura (2015)
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Premessa
Bando alle ciance: questa raccolta di racconti è pregevole tanto nella
forma quanto nella sostanza. Trentadue autori, trentadue storie,
trentadue diversi modi di rimasticare a parole brandelli di esperienze
e di vite umane. E trentadue è esattamente il numero totale dei denti
di cui dispone l’homo sapiens sapiens in età adulta. Un caso? Tutto è
caso, potremmo rispondere… non fosse che non è opportuno
avventurarsi in prolusioni filosofiche in una breve introduzione. No,
non è il caso, eh!
Comunque resta il fatto che la suddetta scimmia nuda, animale tanto
straordinario quanto sfigato e che per qualche insondabile motivo
odiamo e amiamo fervidamente con tutto il nostro essere, sia un
*eterodonte*. Ohibò: siamo dunque dinosauri, domanderete voi? No,
anche se faremo la stessa fine. Siamo mammiferi, e come la maggior
parte dei mammiferi, non solo siamo difiodonti, avendo due tipi di
dentizioni (da latte e permanente), ma anche eterodonti, disponendo
di denti tra loro diversi, distinti per funzione.
Tutto ciò per dire che nei vari racconti di questa antologia, troverete
tematiche e stili diversi, messaggi incisivi, latrati canini e gorgheggi
poetici, nonché emozioni capaci di stimolare, se non premolare,
l’immaginazione atrofizzata da ipermercati pieni di libri prodotti in
serie. Ebbensì, gli autori che hanno dato vita a queste pagine
macinando parole su parole, sapranno strapparvi un sorriso, lacerarvi
il cuore, ritagliare per voi un coriandolo di speranza o almeno
spezzare una lancia in favore dei perdenti che ancora lottano contro i
mulini a vento.
Tutto ciò per concludere che questa antologia non è pane per i vostri
denti, ma denti per il vostro pane quotidiano, ovvero una protesi
mentale per aiutarvi a digerire i casini della vita con annessi bocconi
amari.
la tredazione (Marco, Paolo e Simone)
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Bene
di
Lorenzo Carbone
https://glispaccialezzioni.wordpress.com
Oggi
Oggi sto bene, sto bene davvero, sono felice, ma non riesco ancora a
capirne il perché. Francamente non mi interessa, penso proprio che mi
farò una cioccolata calda… che strano, tutto questo è buffissimo,
sembra quasi che io veda quello che penso, bah, devo essere ancora
mezzo addormentato, ah ah. Proprio buona questa brioche, me la
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gusto, chiudendo gli occhi mentre mastico. Oh ecco mia moglie! La
saluto, le do un bacino sulla guancia, strofino la testa al buon vecchio
Spike e si va a lavoro!! Fischietto tranquillo mentre metto in moto la
macchina e parto allegramente, ascoltando la mia canzone preferita
alla radio. Che meravigliosa giornata, mentre sono in macchina saluto
il mio vicino, il signor Esposti… Oh cavolo… ma quel tipo sta per
venirmi addosso con la macchina!
Mamma mia che brutto incidente è stato… comunque, che fortuna!
Non mi sono fatto niente! Ho visto solo una specie di luce e per un po’
mi sono sentito stordito, ma non mi sono fatto davvero nulla. Ah!
Ecco chi è stato, è quel furfante del Signor Calabraghe! E’ sempre lui a
fare questi pasticci!! Come al solito ha bevuto, il lestofante! Ecco che
arriva il nostro amico carabiniere, sì, fagli una bella multa! Che
gentile, mi accompagna lui a lavoro! Si prospetta una bella giornata,
seppure piuttosto movimentata…
Il giorno dopo
Ah, che bella mattinata, come mi sento rilassato! La mia adorata
mogliettina mi ha portato la colazione a letto! Caffè e brioche! Come si
fa a non iniziare bene la giornata? E c’è pure Spike scodinzolante che
mi porta il quotidiano a letto! Oh mamma mia! Che notizie che leggo!
E quanti punti esclamativi! Il boschetto vicino a me ha preso fuoco: a
quanto pare qualche disgraziato ha lasciato accesa una sigaretta nel
buio spento della notte… probabilmente è stato ancora quel furfante
del Signor Calabraghe. Grrrr, quanto mi fanno arrabbiare queste cose:
divento subito paonazzo dalla rabbia! Fortuna che mia moglie mi
tranquillizza, facendomi notare che nessun animaletto è morto
nell’incendio: i pompieri li hanno salvati tutti! Che sollievo…
Ohi, basta poltrire però, adesso: meglio che parta per andare a lavoro.
Orsù, via via, veloce, non amo essere in ritardo. Che strano, per un
secondo mi è sembrato di vedere all’orizzonte una linea bianca, bah…
che strano, vabbè io me la rido in macchina.
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L’indomani
Un’altra bella giornata ha inizio! Dopo aver salutato mia moglie, Spike
e mio figlio Peppino, mi incammino per andare al lavoro: oggi me la
farò a piedi, ma sì dai!!! Ehi… di nuovo quella linea bianca, e stavolta
mi sembra di vedere anche una figura nera che fuma, spero che non
sia quel mascalzone che ha dato fuoco al boschetto. No, non può
essere lui, così continuo a camminare fischiettando andando a
lavorar… oh-oh… un cagnolino è scappato alla sua piccola padrona!!
Lo devo prendere, sì sì, devo salvarlo! Sta per andare in mezzo alla
strada! Preso!! Mi lecca la faccia, è così, morbido e peloso!! La
padroncina arriva e mi abbraccia, ringraziandomi gentilmente. Bene
bene, anche oggi la mia buona azione è stata fatta, meglio andare al
lavoro. Un attimo, mi è sembrato di sentire una voce: “Non trovi tutto
questo, molto strano?” Boh, io no… io sorrido e tiro avanti.
La mattina seguente
Ah, il mattino ha l’oro in bocca!! Squilla il telefono, è la mamma! Che
bello! Era da un po’ che non la sentivo! “Tesorino mio! Signor
Piumini!” ‒ mi dice con la sua voce allegra e serena. “Mamma!! Che
bello sentirti!!” “Come va al lavoro? “ “Bene bene mammina, tutto
be……………………………………………………………………
L’alba dopo
Ma… ma… cos’è successo? Io non capisco, la mia faccia è allegra,
eppure non mi sento allegro, proprio per nulla …n-non capisco, cosa
diavolo è successo?? Stavo parlando con mia madre… perché mi
ritrovo a letto, amore mio mi spieghi cos’è successo? Oddio... la mia
bocca, la… la mia voce non ha detto questo! Ha detto ‒ “Ciao vita mia,
tutto bene?”… che cosa mi sta accadendo? Come se nulla fosse, mi
ritrovo a mangiare la mia solita brioche, ad accarezzare la testa di
Spike, e nessuno sembra ricordarsi di quello che è successo: io stavo
parlando con mia madre e poi… o stavo sognando? Strano perché di
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solito sogno sempre cose belle, cose che mi piacciono tanto!
Comunque, mi ritrovo in macchina sulla strada del lavoro, ascoltando
la mia canzone preferita, vorrei cambiarla, dopo tutti questi anni mi
ha un po’ stufato, ma non ci riesco, non mi decido, e poi la mia
macchina non ha tasti per cambiare i canali della radio. Ommamma!!!
E chi è questo tipaccio che salta fuori dal sedile posteriore della
macchina! Che brutto che è! Non ha colori, è… è bianco e nero. Ha i
capelli neri spettinati, la giacca lunga e tetra, il petto bianco e
muscoloso pieno di strani segni… mi inquieta, i jeans lerci e gli stivali
consumati contornano un viso duro e spigoloso… ha mezza sigaretta
in bocca. In un attimo mi afferra per una spalla e dice ‒ “Tu ora vieni
con me”
Tutto bianco
Mi ritrovo in uno spazio completamente bianco: non vi è nulla, non vi
è alcun suono, non vi è alcun odore, nessun sapore, nessun tatto, nulla
di nulla… La figura dura e possente mi guarda, sta fumando una
sigaretta, che dopo aver finito lancia… da qualche parte: non finisce
da nessuna parte, è come se si fosse, cancellata… “Grazie Capo” ‒ dice
guardando in su ‒ “Ci troveresti un posto un po’ più accogliente dove
parlare, per favore?” E magicamente appare un bellissimo salotto, col
camino che scoppietta, le finestre che danno su un panorama
magnifico, due morbide poltrone in pelle di gran lusso… l’unica cosa
che mi disturba, è che è tutto invariabilmente o bianco o nero. La
figura si siede su una delle poltrone, si mette le mani tra i capelli e poi
sulla faccia, dopodiché si gratta il naso e mi guarda. “Siediti per
favore.” Mi invita a farlo con un gesto della mano. Obbedisco e mi
siedo. “Il mio nome, o per lo meno, quello che il Capo mi ha dato, è
Harlor Wyvern, e sono… come faccio a dirtelo, sono un cacciatore di
Esseri Maledetti.” “Piacere io sono il Signor Piumini!!” ‒ dico in
maniera allegra, ma… un attimo, che mi sta succedendo, anch’io sono
in bianco e nero!! Sento il mio corpo diverso. “Che cos’è successo?” ‒
chiedo a Wyvern. “E’ opera del Capo, stai tranquillo, davvero.” E
come se niente fosse appare un bicchiere di vino nero di buona qualità
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(credo, anche se sono astemio). “Grazie” ‒ dice, e mi guarda di nuovo,
per poi scolarsi il vino fino all’ultima goccia.
“Ma insomma, che sta succedendo?” ‒ domando disperato. “Eh, già,
giusto, che sta succedendo, Piumini?” ‒ mi fa eco con velato sarcasmo.
“Signor Piumini prego.” “SIGNOR Piumini, lei che lavoro fa?” “Uno
bellissimo!!” “Quale?” “ “Io… lavoro… lavoro… non me lo ricordo…”
“Cosa fa quando torna a casa?” “Io... saluto mia moglie… anche se, in
effetti non mi ricordo di un singolo giorno in cui sono tornato dal
lavoro.” “Come si chiama sua moglie?” “Io…………………… non lo
so.” “Quando vi siete sposati?” “Lo siamo sempre stati, ci amiamo
tanto tanto” “Non è vero… quando vi siete sposati?” “Non lo so…”
“Quando?” “Non lo so… “ “Quando?” “Basta! NON LO SO!!” Oddio,
cosa ho fatto?? Ho urlato per la prima volta nella mia vita… che cosa
mi sta succedendo? “Signor Piumini, la verità è che lei… lei... come
me, non è reale...” “Come non sono reale?” “Lei… è stato creato.”
“E… e da chi?” “Dal Capo” “O perbaccolina!” “Eccheccazzo!!” ‒
Harlor sbuffa e si alza in piedi ‒ “PERBACCOLINA!! Ma esiste
qualcuno che usi davvero un termine come “perbaccolina”!! Non lo
capisce? Non capisce che lei è il frutto di una ipocrisia?” “Di una?”
“Lasci stare… lei è un uomo giusto?” “Certo che lo sono… e anche lei
sembra un uomo giusto, sì, voglio dire non ha la faccia da Calabraghe,
quindi… però sembra diverso da me.” “Perché serviamo per due
scopi diversi: io parlo agli adulti, lei ai bambini. Ha mai notato come il
suo mondo sia vuoto, ha notato come ogni sua maledetta giornata sia
uguale? Ha notato che il suo mondo svanisce appena oltre la via che
imbocca quando va a lavorare? Lo sa quanti anni ha?“ “Certo, che
domande, ne ho trentuno” “Che bello… lei ha trentun anni da
quarant’ anni, ha un cane di oltre quarant’anni, non le sembra che
qualcosa non quadri?” “Sta s-scherzando?” ‒ farfuglio. Ma ora che ci
penso, è vero, ho sempre gli stessi vestiti, le stesse movenze, le stesse
parole, non capisco, CHE COSA SONO, COS’E’ SUCCESSO!! “Cos’è
successo, eh, la sua mente è un libro aperto, signor Piumini, non serve
che lei parli” ‒ dice serio Harlor ‒ “mi basta dare una scorsa alla
nuvoletta che le esce dalla testa.” “Nuvoletta?” “Sì... lei come me è
solo un fumetto.” “E… cos’è un fumetto?” “E’ una vita scritta da un
altro, da un Capo: non abbiamo nessuna libertà di scelta, signor
Piumini, anche quello che io sto facendo e le sto dicendo ora esiste
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perché il Capo lo sta disegnando, come sta disegnando te.” “Ma
perché... perché mi dici tutte queste cose… e perché ho visto quella
linea bianca?” “Quello è il margine di una tua vignetta, ogni tuo
giorno dura una pagina del tuo Capo.” “Una? Una… singola…
pagina…” Non posso non essere sconvolto, ho appena scoperto che il
mio mondo non esiste, che è qualcun altro a comandare, che quella di
poter disporre della mia vita è soltanto un’illusione ottica. Un non
meglio identificato “Capo” mi sta creando, attimo dopo attimo, crea i
miei sogni, i miei bisogni… ma allora, mi dico, ho vissuto tutta la vita
con creature che non ho mai voluto, ho desiderato cose che non
desideravo davvero, ho fatto cose che non so cosa fossero, ho parlato,
riso, giocato con essenze di un pensiero, con altre creature di
inchiostro e parole... proprio come me… Mi metto a piangere... cioè mi
fa piangere... forse era proprio quello che volevo. “Ma perché... perché
il tuo, il mio Capo... ci capisce?” Harlor si fa cupo, poi sospira ‒ “Lui ci
capisce, perché dice di essere come noi: noi viviamo finché abbiamo
successo, finché ci leggono. Solo quando cominciamo a non essere più
voluti prendiamo coscienza di quello che siamo; è quando ci troviamo
sul lastrico che capiamo cosa siamo e che cos’è successo. Solo allora ci
rendiamo conto di chi abbiamo visto davanti allo specchio per tutta
quella che possiamo chiamare vita… noi moriamo ogni giorno, e
ritorniamo dopo ogni giorno, è questo il nostro essere, ma dato che il
tuo Capo, disegnatore di un famoso giornale catechista, è stato
sconvolto da uno scandalo di pedof… lascia perdere… ha perso molto
del suo successo, beh, è per questo che tu, Signor Piumini ora sei
cosciente, perché stai morendo... come me, come il mio Capo: nessuno
lo vuole più.”
E detto questo mi spinge via, così mi ritrovo nel bianco assoluto,
cullato dall’eco a sfumare della solita domanda: cos’è successo? Cos’è
successo? Cos’è successo? Qualche attimo dopo, il vuoto s’inquina di
un’ultima frase. “Non ho fatto questo per salvarti Piumini, l’ho fatto
perché ho sentito che avevi bisogno di aiuto, e volevo darti le risposte
che io stavo cercando, oltrepassando il tuo cuore tinto di inchiostro,
ora và… tra poco chiuderanno la tua striscia e morirai: vivi questi
ultimi giorni sapendo che hai fatto divertire e sorridere milioni di
bambini, sei un grande Piumini, arrivederci.”
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Un’altra bella giornata
No… non è stato un sogno... sento ancora sulle mie vesti colorate tutto
il bianco e il nero di Harlor… presto, morirò, cadrò nell’oblio... beh,
COME SONO CONTENTO!! Meglio l’oblio che una vita di oblio,
perché almeno vivrò nel sorriso di bambini, con o senza le rughe, e
rideranno ripensando alle mie disavventure e alle mie gesta, così
semplici, ma così vere. Bene, ah che bella giornata, dai buttiamo giù
sta merda di brioche e andiamo a sto cazzo di lavoro che non so
neanche cosa minchia sia.
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Zohor filistin (Fiori di Palestina)
di
Jihan
https://poverapazza.wordpress.com
Nella notte tra il 22 e il 23 luglio 2014 l’IDF centra 80 obiettivi a Gaza;
durante il giorno precedente da Gaza erano stati sparati oltre 30 razzi
Qassam in territorio israeliano. Alle 15,35 del 23 luglio viene proclamata
una tregua umanitaria, i combattimenti sono sospesi per permettere i
soccorsi. Alle 17,05 tre convogli della Croce Rossa Internazionale entrano
nella Striscia per soccorrere i feriti: sette ambulanze e due auto arrivano a
Shujaiyeh, nove ambulanze e due veicoli raggiungono Khuza’a e una
terza squadra con sei ambulanze e due automobili arriva a Beit Hanoun,
nel nord della Striscia.
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Quando il convoglio esce dal valico di Eretz, dentro una delle ambulanze
giace il corpo privo di conoscenza di Badr Al Dalou. Ha atteso i soccorsi
per quindici ore disteso sull’asfalto. L’ambulanza attraversa Eretz e
subito rientra, respinta da una pattuglia dell’IDF, nonostante l’accorato
appello del medico israeliano a bordo.
Mentre il convoglio si dirigeva a ovest della Striscia, Badr non si è
mosso, non ha nemmeno sospirato. Non è arrivato vivo all’ospedale
Shifa, che del resto non avrebbe potuto accoglierlo. Aveva diciannove
anni.
Il 22 settembre 2005 Badr vide per la prima volta il mare.
Il giorno in cui nacque le autorità israeliane avevano lasciato il
governo della Striscia all’ANP. Per Wael fu un segno inequivocabile:
suo figlio sarebbe stato un uomo libero in una terra libera. Lo sollevò,
nudo e piangente, nella sterminata notte mediorientale e, tenendolo
fra le mani, sembrò adagiarlo in controluce nella culla di una enorme
falce di luna coricata sul dorso. Le braccia di Yanhya lo reclamarono
senza condizioni, ma perfino lei, già impermeabile a ogni speranza,
riuscì a credere per un momento che la vita di Badr sarebbe stata
diversa.
La prima volta che vidi Badr, pedalava su un vecchio triciclo
sgangherato. Andava un po’ sbandando lungo il sentiero limitato da
due gigantesche siepi di fichi d’india verso sua madre che, preceduta
da un enorme pancione, lo aspettava sull’uscio di casa. Era piccolo
Badr, aveva appena quattro anni, ma tenacemente ostinato come le
pazienti siepi spinose che sempre hanno segnato i confini degli orti di
Palestina, le uniche che, dopo il passaggio dei tank israeliani su
centinaia di ettari di frutteti, finivano per rispuntare. In arabo il fico di
Barberia si dice saabar, parola che ha la stessa radice di sabr, pazienza.
In ebraico sabrà è il fiore/frutto della stessa pianta e sono
nominati sabraìm i giovani nati in Israele dopo il 1948, che si vogliono
duri esteriormente, ma teneri e dolci all’interno.
Lo guardavamo io e Yanhya, da due punti opposti dello sterrato,
senza capire che già allora era il sabaar da cui sarebbero potuti
spuntare, soltanto per una promessa, i sebraìm.
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Oltre le due siepi invalicabili, dove una volta si stendevano a perdita
d’occhio un agrumeto e un uliveto, adesso c’erano due campi
desertificati, brulli di sete e di devastazione. Tutta l’acqua che arrivava
allora nella Striscia di Gaza era destinata alle serre di Gush Katif. La
casa di Yanhya e Wael era una delle pochissime della periferia
occidentale di Khan Yunis scampate ai mezzi corazzati d’occupazione.
Vi vivevano i genitori di Wael, i suoi due fratelli più piccoli e la
giovane coppia con il loro vivacissimo bambino. Era suo nonno a
parlare a Badr del mare. Jamal, classe 1948 per niente a caso, era stato
un pescatore che, all’indomani della guerra dei sei giorni, fu costretto
a lasciare le sue barche, quando Israele prese anche il controllo della
costa e impedì ai palestinesi la navigazione e la pesca. Era un grande
narratore, aveva un immenso serbatoio di tempeste, di albe terse, di
enormi pesci con cui aveva affascinato l’infanzia di Wael e ora sapeva
catturare anche tutta l’attenzione di suo nipote. Badr, ancora prima di
parlare correttamente, in qualunque punto della città si trovasse,
sapeva indicare la direzione in cui si trovava la costa. Ma non l’aveva
mai vista.
Rami nacque poche settimane dopo, qualche giorno prima di quel 28
settembre del 2000 in cui Sharon salì alla spianata delle moschee
protetto da mille soldati, qualche giorno prima che io fossi costretta a
rientrare in Italia per lo scoppio dell’Intifada di Al’Aqsa. Mentre Rami
veniva al mondo, Wael era bloccato al valico di Sufa; aspettava di
poter passare da sedici ore. Una volta entrato, corse a casa per vedere
sua figlia e uscì dalla Striscia solo dopo molto tempo; partecipò
attivamente alla rivolta che incendiò i territori occupati. La
frustrazione della sua impazienza quel giorno al check-point,
l’impotenza dell’attesa, la fitta sassaiola delle ingiurie, perfino la
commozione che provò quando gli misero tra le braccia Rami, si
trasformarono in una rabbia cieca che armarono la sua fionda di
centinaia e centinaia di pietre da scagliare, spesso da solo, contro i
mezzi corazzati delle forze di terra israeliane. Wael è stato il primo
della sua famiglia a combattere. Né la pacifica rassegnazione di suo
padre, né i pianti disperati di sua madre e nemmeno la paura folle di
Yanhya, che lo implorava ogni notte di smetterla, riuscirono a
fermarlo. Badr, che come ogni bambino palestinese viveva per strada
e dalla strada traeva ogni gioco e ogni insegnamento, lo vide, più di
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una volta. Probabilmente fu lì che dentro di lui s’insinuò il fertile
dubbio, il sospetto di mancare a quella terra strappata con l’inganno e
la violenza, di non contare più del paesaggio, degli alberi, delle pietre
che aiutava suo padre ad accantonare dietro il muro della casa.
Fu verso la fine dell’Intifada che accadde. Rami aveva tre anni e Badr
la proteggeva come un bene prezioso. Le stava dietro come un angelo
custode, di così poco più grande di lei, impedendo a chiunque anche
solo di guardarla con curiosità, di sfiorarla con un dito. Frequentavano una scuola che si trovava sul confine con Israele, appena a
ridosso della “zona cuscinetto” e nessuno, fino a quel giorno, si era
mai reso conto di quanto potesse essere pericolosa. Era appena
suonata la campanella dell’intervallo e i bambini erano tutti in
giardino a festeggiare il primo sole della primavera del 2004. Badr si
trovava strenuamente impegnato in una battaglia a colpi di spada,
fatte con dolci rami di mandorlo fiorito che qualcuno aveva
affastellato nel giardino; aveva due avversari e brandendo una spada
di fiori rosa si batteva come un leone. Fu attraverso il cancello lasciato
incautamente aperto, che Rami e Ismail s’incamminarono all’esterno.
Erano così piccoli, mentre mano nella mano, percorsero il sentiero che
andava a sud, verso il confine. Dissero che il soldato che stava a un
chilometro di distanza gridò, dissero che intimò in ebraico l’altolà, a
loro, che a stento capivano l’arabo. Le maestre nemmeno udirono i
colpi che li centrarono in pieno, da tanto lontano.
Io tornai a Gaza nell’autunno successivo. Attraversato Eretz, mi ci
vollero due giorni per percorrere meno di quaranta chilometri che mi
separavano da Khan Yunis. Trovai echi di guerriglia e lampi negli
occhi e gesti a scatti. Fu quella sera, la prima del mio ritorno in
Palestina, che qualcosa di me intuì che Badr sarebbe diventato un
combattente. Eravamo seduti sul terrazzino di un bar, quando mancò
la luce. C’era ancora un coprifuoco intermittente, in base al quale
Israele, senza regole, senza alcun preavviso, toglieva l’elettricità ai
territori della Striscia. Bastava una famiglia di coloni ritardatari che
passavano il confine diretti a uno degli insediamenti sulla costa o un
convoglio militare che attraversava i territori, bastava un qualsiasi
tipo di allarme, a far piombare tutti nel buio. Con calma, la calma che
porta molti a definire gli arabi un popolo d’indolenti, gli avventori e il
personale del bar ci incoraggiarono ad avviarci verso l’uscita. Fu
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allora che una piccola mano s’insinuò in una delle mie e una voce
infantile pronunciò il mio nome, facendomi trasalire. Con i miei occhi
che si erano abituati all’oscurità, distinsi i suoi occhi, neri e lucidi
come due olive delle colline di Cisgiordania. Tenendomi per mano,
Badr mi accompagnò fino al mio albergo, mentre in lontananza, da
nord, s’udivano i primi spari. E’ impressionante come si muovono al
buio i bambini palestinesi: furtivi e sicuri come gatti, conoscono ogni
angolo, ogni passaggio che serva a schivare la visibilità. Parlammo
pochissimo, in una lingua che era uno strano miscuglio di inglese,
arabo e napoletano e ridemmo a tratti, con quella complicità che io
credevo fosse andata perduta e che invece lui aveva conservato
intatta. Arrivati in albergo, mentre telefonavo a suo padre per dirgli di
venire a prenderlo, lui mangiava dolcetti e alla luce di una candela
strappava la carta velina azzurra che avvolgeva un veliero di legno
che gli avevo portato dall’Italia. Quando se lo trovò tra le mani, lo fece
volare su onde d’aria, poi intiepidì l’entusiasmo e l’allegria per
chiedermi.
‒ L’hai visto il mare?
‒ Certo che l’ho visto, bhar! 1 Ma il tuo è più bello del mio
‒ Io me lo riprenderò ‒ rispose, abbassando lo sguardo.
A poche centinaia di metri da noi, qualcuno sparava ancora su Haiz
Ad-Tuffah.
Restai a Khan Yunis abbastanza a lungo per vedere, l’11 settembre del
2005, ammainare la bandiera israeliana su ciò che restava di Gush
Katif; il 15 agosto era cominciato il disimpegno israeliano dei territori
occupati della Striscia e tutti i coloni residenti nei ventuno
insediamenti furono costretti, con le buone o con le cattive, a lasciare
le loro case. Il loro ennesimo esilio mi straziò. Perdevano tutto, quello
che avevano ricevuto, quello che avevano strappato e anche tutto
quello che avevano dato. Noi, a guardarli, ondeggiammo, sulla stessa
onda che li sospingeva verso un altro avvenire, per la rabbia furente,
la disperazione, la rivolta e infine la rinuncia offerta in cambio
dell’ultima promessa.
Il 22 settembre i palestinesi ebbero libero accesso ai territori occupati
fino alla costa. Fra essi c’erano Wael e Badr.
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marinaio
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Arrivò alla spiaggia di corsa, sordo al richiamo di suo padre, dal cui
fianco si staccò repentinamente. Aveva dieci anni. Era un giorno di
vento teso che faceva spumeggiare l’immensa lastra blu e una
particolare luminosità rendeva vicino ciò che è lontano: si scorgeva la
sagoma di Cipro e, a sinistra, anche la cima del Monte Ida. Corse più
che poteva nella sabbia tiepida disseminata di conchiglie intatte e
s’immerse fino all’orlo dei pantaloncini, senza badare alle scarpe.
Onde lunghe lo spruzzarono di acqua salmastra e lui tirò fuori la
lingua per sentirne il sapore.
‒ Badr!
Sembrò non sentire la voce di Wael.
‒ BADR!
Si voltò, il suo sorriso era un varco. Tutto il suo piccolo corpo
sorrideva.
Wael lo raggiunse a riva, frenò la sua corsa e lentamente entrò, anche
lui per la prima volta in vita sua, in mare. Un lungo brivido gli
accapponò la pelle. Badr, lo sguardo dritto davanti a sé, sentì l’affanno
di suo padre. Rimasero per un po’ in silenzio, dritti contro la risacca
che avvolgeva loro le gambe, sentirono la forza della corrente,
sentirono che voleva trascinarli un po’ più avanti, più dentro. Allora
Wael s’accostò al figlio, gli appoggiò una mano sulla testa e gli
scompigliò i capelli, in un gesto inusuale per loro. Badr incassò la testa
nelle spalle e sollevò la fronte come un cucciolo di cane, a prendersi
tutta la carezza. Restarono affiancati fino ad accordare il ritmo del
respiro a quello del moto ondoso.
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La pietra di Bismantova
di
Luigi Tuveri
https://www.facebook.com/luigi.tuveri.5
Era una di quelle cose che Paolo aveva sempre desiderato fare, tipo il
viaggio in Australia o fondare una cooperativa di vendita prodotti
biologici.
‒ «Ma davvero volete andare alla Pietra di Bismantova?» ‒ fece
Rachele.
Paolo nemmeno ci rimase male, assaggiò il formaggio che lei aveva
messo sul tavolo e alzò le spalle. Conosceva Rachele da una vita e non
aveva intenzione di polemizzare.
Proprio in quel momento tornò Luisa.
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‒ «Ora va meglio» ‒ sospirò ‒ «il mio autista non si ferma mai» ‒
lanciò un’occhiata al marito ‒ «gli autogrill li vedo sfrecciare e basta.»
Paolo girò attorno al tavolo, lasciò cadere le braccia fino a quel
momento conserte e spostò la sedia.
‒ «Già mi sento meglio» ‒ precisò beato ‒ «mi basta il profumo,
vedere la terra, il silenzio» ‒ sedendosi distese le gambe e prese
un'altra scheggia di pecorino ‒ «resterei qui per sempre.»
‒ «Il posto sai che c’è» ‒ ammiccò Rachele.
‒ «Lascialo dire» ‒ fece Luisa ‒ «fa così tanto per parlare, mica si
stacca dalla sua Milano.»
‒ «Lo capisco. In campagna si lavora davvero» ‒ rise forte Rachele ‒
«non come in ufficio.»
‒ «Te l’ha detto?» ‒ Luisa andò a sedersi di fronte a Paolo e
rivolgendosi a Rachele aggiunse ‒ «Domani si è messo in testa
d’andare a vedere questa pietra. Com’è che si chiama?» ‒ con la mano
spazzolò la gonna dalle briciole ‒ «pietra di trisavola, di bismario...»
‒ «Pietra di Bismantova» ‒ precisò Paolo ‒ «e non capisco che c’è da
ridere tanto.»
‒ «Pizzica» ‒ Luisa prese il coltello, per far forza si alzò in piedi e
tagliò un’altra scaglia ‒ «ma è buonissimo» ‒ scosse le spalle ‒ «è
distante questo posto?»
Rachele sganciò dalla corda un salame appeso sotto la credenza, prese
un’asse di legno e appoggiò tutto sulla tavola.
‒ «Felino» ‒ si girò verso il piano di fianco al lavello e pescò dal
tagliere il coltello adatto, senza onde sulla lama ‒ «Paolo, non fai la
solita battuta?»
‒ «Quella del gatto sparito?»
‒ «Cosa avrà mai di così bello questa pietra?» ‒ disse Luisa.
‒ «È un posto che ha una storia importante» ‒ Paolo non aveva voglia
d’illustrare l’evidenza ‒ «dal punto di vista geologico e naturalistico è
unico. Dante gli ha dedicato dei versi e ci sono alberi d’ogni tipo.»
Si alzò di scatto, afferrò lo zainetto lasciato sulla cassapanca e tirò
fuori un plico di fogli ben ordinato.
‒ «Ti prego…» ‒ fece Luisa.
‒ «Ci si trova di fronte questo spettacolo della natura» ‒ si mise a
leggere Paolo ‒ «che lascia senza fiato. Nel mezzo della vallata si erge
maestosa la Pietra di Bismantova. Si formò venti milioni di anni fa, nel
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periodo medio del miocene, in seguito a orogenesi, ovvero per la
fuoriuscita di materiale dovuta allo scontro tra zolle tettoniche…»
‒ «Dai, basta!» ‒ lo zittì Luisa.
‒ «E comunque» ‒ alzò le spalle Rachele ‒ «ci saranno due o tre tipi di
alberi, mica chissà cosa. Il nocciolo, la quercia. Il tiglio, mi pare» ‒
continuò ad affettare il felino ‒ «si cammina una mezz’ora in questo
sentiero e si arriva in cima. Ma mica c’è niente lassù. Ci vanno quelli
che si vogliono suicidare» ‒ l’insaccato restituiva un odore di budello
muffo e pasta grassa ‒ «ma se ci tieni tanto…»
‒«Quindi ci vuol poco a salire» ‒ si tranquillizzò Luisa ‒ «almeno
questo.»
Si alzò: il riflesso della cucina era dentro il vetro della finestra. Toccò il
cristallo col naso e vide la campagna avvolta nella sera. Dalla stanza
accanto, come il lamento di un animale ferito, arrivava la voce della
tivù.
‒ «Ci andate domattina?» ‒ domandò Rachele.
Luisa guardò Paolo che si preoccupò subito di confermare.
‒ «Ci portiamo da mangiare e facciamo il pic-nic lassù. Sarà piacevole.
Poi possiamo fare anche un giro a Modena, che ne dici Luisa?»
‒ «Tanto decidi sempre tu.»
‒ «Bianco o rosso?» ‒ s’intromise Rachele.
‒ «Rosso» ‒ rispose Paolo.
‒ «Bianco» ‒ rispose Luisa.
‒ «Un rosato, magari?» ‒ propose Rachele.
‒ «Va bene il bianco. Non aprirai mica due bottiglie».
‒ «Eccoli qua!» ‒ esclamò Gianni entrando in cucina ‒ «finalmente
siete tornati a trovarci.»
Si tirò le bretelle sopra il petto. Era in forma come al solito.
‒ «Gianni!» ‒ gridò Luisa.
Gli corse incontro e lo abbracciò. Si strinsero forte. Staccandosi e
guardandosi da vicino. Negli occhi, intrecciandosi le dita e alla fine,
slegandosi lentamente.
Paolo avvicinò la bottiglia che Rachele aveva messo in tavola, la
sfiorò, prese il cavatappi e infilò la vite nel sughero.
‒ «Sei uno splendore Gianni, davvero» ‒ disse mentre spingeva le ali
del cavatappi verso il basso. Il turacciolo, seguito da uno sbuffo di
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fumo, schioccò dal collo. Paolo mescé nel bicchiere due dita e ne
assaggiò un sorso.
‒ «Ottimo» ‒ dichiarò versandolo nelle altre coppe.
‒ «È di quello che produciamo noi» ‒ puntualizzò Gianni.
Aveva un viso sereno, roseo, guarnito dai piccoli peli di una barba
livellata con cura maniacale. L’insieme del suo abbigliamento, sebbene
etichettabile come informale, comunicava una certa eleganza.
Luisa si buttò in bocca una fetta di salame. Rachele prese il cesto del
pane.
‒ «Avranno fame anche i ragazzi, vado a chiamarli.»
‒ «Quelli hanno sempre fame» ‒ la rassicurò Gianni ‒ «è praticamente
un bianco di Scandiano» ‒ proseguì ‒ «anche se non posso metterci il
marchio.»
Sollevò una delle coppe.
‒ «Che colore, vero?» ‒ ondulò il bicchiere ‒ «sembra oro».
‒ «Stanno guardando la tivù» ‒ fece Rachele tornando in cucina ‒ «se
hanno fame arriveranno.»
‒ «Lasciali là che stiamo più tranquilli» ‒ disse Gianni ‒ «e brindiamo
noi invece.»
Fece una pausa, si voltò a destra e a sinistra.
‒ «A Luisa» ‒ stava già alzando la coppa ‒ «…e a Paolo, naturalmente:
ai nostri non ospiti.»
Brindarono.
Gianni fu il primo a riappoggiare il bicchiere sul tavolo.
‒ «Ancora non ti ha messo incinta questo pisello» ‒ dichiarò con foga
dando una pacca sulla spalla a Paolo e guardando Luisa.
Aveva due occhi rubino. Ammiccanti. Fiammeggiavano lucidi
sfuggendo dai seni di lei.
‒ «Qui in campagna si semina» ‒ andò avanti a dire incurante
dell’imbarazzo creato ‒ «cosa vuoi che ti dica Paolo, sarà l’aria di
città.»
‒ «E piantala un po’» ‒ gli disse Rachele.
‒ «Come va il lavoro? Sempre help-desk?» ‒ Gianni cambiò discorso,
ma non tono.
‒ «Sì, ma intanto vuol fare il musicista lui» ‒ rispose Luisa ‒ «Ancora
con il solito gruppo di amici d’infanzia. Solo che oramai sono
invecchiati, i ragazzi».
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‒ «Bene» ‒ disse Gianni ‒ «è bello avere un progetto. È importante.»
‒ «Veramente, prima di tutto, suonare a me piace. È una passione, non
un progetto…»
‒ «Pensa Gianni, ancora si trovano a provare due sere alla settimana»
‒ lo interruppe Luisa.
‒ «Spettacoli, ne fate?» ‒ domandò Rachele.
Si era seduta. Aveva una guancia dentro la mano e con le dita si
torturava una palpebra.
‒ «Sì, qualche serata, soprattutto d’estate» ‒ fece Paolo.
‒ «Ma vi pagano?» ‒ domandò Rachele.
‒ «Ma figurati!» ‒ intervenne Luisa ‒ «ti pare che qualcuno li possa
pagare per dar fastidio?»
‒ «Ma dai!» ‒ sorrise Gianni.
‒ «Suonano ancora quelle barbe di canzoni degli anni settanta».
‒ «Ma cosa vuoi capire tu di musica…» ‒ si difese Paolo.
‒ «Gianni, hai poi costruito quella pompa nuova?» ‒ chiese Luisa
cambiando discorso ‒ «quella per bagnare l’orto automaticamente.»
‒ «Sì!» ‒ rispose lui ‒ « Certo. Funziona a meraviglia. Silenziosa...»
Di colpo, i quattro ragazzi piombarono in cucina. Luisa li abbracciò
uno per uno.
‒ «Alice, Marco! E i due gemelli» ‒ strillò ‒ «Dio, ma come siete più
grandi. Alessandro, Federico!»
Li sbaciucchiò.
‒ «C’è la pubblicità?» ‒ fu la domanda di Gianni ad Alice. Lei annuì
seria: era la primogenita.
‒ «Posso farmi un panino col salame?» ‒ chiese Marco, undici anni,
che stava già cercando qualche fetta di pane avanzata dalla cena.
‒ «Anch’io!» ‒ esclamarono in coro Alessandro e Federico.
‒ «Ce n’è ancora di torta, mamma?» ‒ chiese Alice nascosta in uno
sguardo malinconico.
La maglietta era corta e l’ombelico a mandorla si affacciava sopra la
cintura dei jeans.
‒ «Ecco, è finita la pace!» ‒ allargò le braccia Gianni.
‒ «Non è che avete della frutta secca?» ‒ fece Paolo ‒ «con questo vino
bianco ci sta proprio.»
Rachele indicò la credenza e Paolo, dopo aver salutato in fretta i
ragazzini e prima di tornare a sedersi, prese la cesta e lo schiaccianoci.
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‒ «È così bello questo baccano» ‒ disse Luisa.
Era come se in cucina fosse entrata una musica. Una dolce
inconsistenza, qualcosa di molto simile alle gocce di rugiada. I ragazzi
si rifornirono di cibo nel tempo esatto in cui la pubblicità terminò il
suo corso, quindi, rapidi, sparirono in sala tivù.
‒ «Che dicevamo?» ‒ fece Gianni.
‒ «Pietra di Bismantova» ‒ ricordò Rachele ‒ «domattina vogliono
andare lì.»
‒ «L’anno scorso, con Luca» ‒ cominciò a raccontare Gianni ‒ «ve lo
ricordate Luca?» ‒ Luisa e Paolo annuirono ‒ «siamo saliti dalla parete
nord, dopo l’eremo. Intendo in scalata. Ma c’è anche un sentiero facile,
potete fare quello. E quando siete su c’è una bella vista.»
‒ «Infatti pensavo di fare così, ho preso tutte le informazioni da
internet.»
‒ «Ma senza sporgersi troppo. Che poi soffri di vertigini» ‒ gli
rammentò Luisa.
‒ «Internet!» ‒ esclamò Gianni ‒ «Rachele è patita e ha contagiato pure
Alice e Marco. Non vi dico, sempre attaccati a quel computer. Solo io e
i gemelli ci salviamo» ‒ scosse la testa ‒ «per ora.»
‒ «È comodo. È una fonte di notizie facilmente fruibili e…» ‒ stava
dicendo Paolo.
‒ «Preferisco sperimentare di persona» ‒ lo interruppe Gianni,
ammiccando all’indirizzo della moglie.
‒ «Ci facciamo una bella partita a carte?» ‒ propose Rachele.
Gianni tagliò altro salame. Altro pecorino.
‒ «Mangiate, mangiate. E bevete…»
Poi Rachele andò a prendere le carte. Erano quasi le undici. Le
mescolò. Le coppie di pinnacola si formarono in un istante.
‒ «Doppio misto ovviamente» ‒ affermò Gianni.
‒ «Mi raccomando, Paolo» ‒ si preoccupò Rachele ‒ «non come l’altra
volta.»
‒ «Ma se avevamo vinto noi!» ‒ sostenne lui.
‒ «Ma piantala» ‒ gli diede un colpetto Luisa ‒ «che vi avevamo
stracciato.»
La voce della tivù si sopì insieme a quella dei ragazzi e attorno alla
grande casa calò un silenzio di terra nera e alberi lontani, diritti come
impiccati, perpendicolari al distendersi della pianura.
23
La mattina c’era un sole pallido che teneva i campi avvolti in uno
scialle d’argento. Era sabato, i gemelli e Marco dormivano, come
Rachele. Gianni aveva accompagnato Alice a scuola. Luisa e Paolo si
erano svegliati presto, avevano fatto colazione con caffè, marmellata,
fette biscottate e si erano messi in viaggio.
‒ «Che freddo!» ‒ erano state le uniche parole spiccicate da Luisa.
Paolo l’aveva tranquillizzata dicendole che il sole si sarebbe alzato e
avrebbe fatto un bel caldo.
‒ «Ho visto le previsioni» ‒ aveva aggiunto.
Ora guidava senza fretta, c’era il traffico della gente che andava a fare
la spesa nei centri commerciali e in sottofondo la radio. Alle dieci,
seguendo una delle tante curve, d’improvviso e per la prima volta da
quando era al mondo, agli occhi di Paolo apparve, vitale come una
belva immortale, la roccia.
‒ «Eccola!» ‒ sussurrò a voce bassa, con devozione.
Il fiato, per la gioia, gli si fermò tra la gola e la lingua. Deglutì,
decelerò. Luisa stava parlando al cellulare con la madre: un’altra
curva e la Pietra sparì di nuovo dall’orizzonte.
‒ «Gliela farò dopo una foto» ‒ mormorò Paolo non trovando un buon
posto per fermarsi.
‒ «Sai cosa mi è venuto in mente?» ‒ disse Luisa lasciando cadere il
telefonino in borsetta ‒ «che forse dovevo mettermi le scarpe da
tennis.»
‒ «Chissà se troviamo un altro scorcio come quello di poco fa…»
‒ «Mi hai sentito?»
‒ «Era tua madre al telefono? Volevo fermarmi a fare una foto…»
‒ «Le scarpe, dicevo le scarpe» ‒ Luisa alzò una gamba e appoggiò la
suola sul cruscotto ‒ «dicevo se non era meglio mettere le scarpe da
tennis. Non credi? Come sarà il sentiero?»
Ne indossava un paio basse, color panna, di pelle morbida, con la
suola in lattice e un leggero rialzo sul tallone.
‒ «Quelle vanno bene per il bowling» ‒ la prese in giro Paolo.
‒ «È che proprio non c’ho pensato.»
‒ «Beh, non sarà un sentiero difficile. Se l’ha fatto Rachele.»
‒ «Sì, ma sono leggere. Sentirò tutti i sassi dentro i piedi.»
‒ «Ci prendiamo un caffè?»
24
‒ «Fermiamoci in paese, come si chiama quello prima della Pietra?»
‒ «Castelnovo Monti.»
‒ «Ci prendiamo anche da mangiare, mica c’è il bar lassù. Hai sentito
Rachele.»
‒ «C’è la natura. Pensa che la Pietra è nata almeno venti milioni di
anni fa…»
‒ «È ben vecchia.»
‒ «È antica come il mondo, non è emozionante? Hai visto com’è bella?
Sembra far parte di un altro luogo» ‒ le accarezzò la gamba ‒ «l’hai
vista poco fa, prima della curva?»
‒ «Ero al telefono».
‒ «Con gli occhi, dicevo: mentre parli con la bocca, con gli occhi puoi
vedere, sai?».
‒ «Stupido!»
‒ «Me lo dai un bacio?»
La strada seguiva il continuo declinare dell’Appennino e a tratti
s’impennava in saliscendi verdeggianti.
‒ «Accidenti a me e alle scarpe» ‒ le sfilò e sistemò meglio le calze.
‒ «Almeno potevi mettere quelle di cotone.»
‒ «Sai che le odio.»
‒ «Sì, ma con quelle di nylon sarai più scomoda, non credi?»
‒ «Sono comoda.»
‒ «E il bacio?»
‒ «Castelnovo Monti» ‒ Luisa lesse il cartello ‒ «ci siamo quasi» ‒ e si
rimise composta.
‒ «Sì, la faremo tornando indietro la foto» ‒ si convinse Paolo.
‒ «Ecco lì, un bar!» ‒ fece segno lei.
‒ «Sì, un caffè ci vuole» ‒ rallentò, mise la freccia e girò.
‒ «E noi?»
‒ «Noi cosa?»
‒ «Ha detto Rachele che lì ci vanno quelli che si vogliono suicidare…»
‒ «E allora?»
‒ «Noi non ci dobbiamo suicidare, vero?»
Paolo non fece in tempo a dire niente che Luisa iniziò a piangere in
silenzio. Due lacrime mute le nacquero dentro gli occhi e scesero
lungo le gote.
25
Paolo, quando accadeva, non sapeva mai bene cosa dire, cosa fare,
come consolarla. In realtà non c’era modo. Poteva solo provare a
stringerla e attendere che le passasse. Luisa riprese fiato.
‒ «Ecco… lo sai… lo s-sai che cosa me ne importa a me di quella
pietra? È solo una cosa morta! È una cosa fredda, grigia… mi manca il
fiato…»
‒ «Dai Luisa» ‒ spense il motore, si avvicinò a lei, piano ‒ «sai che non
ti fa bene fare così.»
‒ «Lasciami!» ‒ lo respinse ‒ «sta ferma lì da milioni di anni. Che me
ne importa a me di quella pietra? Sta sempre lì. Di notte e di giorno.
Se piove… se c’è il sole. Non ha emozioni, non sente il freddo, il
caldo» ‒ e piangeva ‒ «non ride, non respira, nemmeno s’arrabbia! E’
morta, m-morta…. morta!»»
Paolo restò zitto, non era proprio il momento di parlare. Luisa era
sconvolta. Provò ad abbracciarla di nuovo.
‒ «Non fa assolutamente niente» ‒ ripeteva singhiozzando, adesso le
frasi le venivano fuori slegate una dall’altra ‒ «niente di n-niente. Non
serve a niente» ‒ andava a scatti, come un rubinetto intasato di calcare
‒ «non serve a niente, è una cosa morta…»
Al fine si lasciò andare tra le braccia impacciate di Paolo bagnandogli
la camicia.
‒ «Una cosa morta…» ‒ ripeté con un filo di voce ‒ «una cosa morta,
l’unica cosa che so partorire.»
‒ «Shhht, basta amore» ‒ disse stringendola a sé ‒ «ti prego…»
Quando Luisa si calmò e si ricompose scesero dalla macchina. C’era
un piazzale costruito sopra un falsopiano. Tre gradini, l’ingresso.
Attorno al bar, una veranda e i tavolini. Dietro il bancone c’era una
ragazza giovane, rimmel carico, rossetto pesante: ordinarono. La
cameriera appoggiò le tazzine sul banco, loro le presero e le portarono
fuori dove si sedettero in silenzio a mescolare lo zucchero e a
guardare le macchine scorrere.
‒ «Da qui non si vede» ‒ disse Paolo.
‒ «Cosa?»
‒ «La Pietra. Per la foto.»
Breve silenzio.
‒ «Non hai detto che l’avresti fatta tornando?»
‒ «Hai ragione.»
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Alla fine riportarono le tazzine dentro e se ne andarono.
Il piazzale asfaltato, ordinato dalle righe a lisca di pesce, si aprì al
termine di un tornante sotto il lato occidentale della Pietra. Non
c’erano ancora molte auto e poterono scegliere dove fermarsi. Paolo
alzò gli occhi verso il cielo, mimò una rivoluzione con l’indice, poi
posteggiò di sbieco ai faggi degli scoscesi. Spense il motore, scese
dalla macchina e si mise a scattare foto. Avevano comprato uva,
banane, pane, prosciutto cotto. E una tavoletta di cioccolato. Luisa
appoggiò la bottiglia piccola sul cofano della macchina e travasò
l’acqua dalla bottiglia da due litri che infine lasciò sul sedile.
‒ «Come sono venute?» ‒ Paolo le mostrò lo schermo digitale.
‒ «Belle, belle» ‒ rispose Luisa senza guardare.
C’erano degli uomini vestiti di rosso. Molti di loro, in più, come segno
distintivo, avevano la barba. Tenevano corde attorno alle spalle e
tiranti, moschettoni e ganci. Ramponi appesi alla cintura. Paolo si
mise a leggere i cartelli turistici confrontandoli con gli appunti del suo
plico. Luisa gli diede lo zaino e non disse niente. Attese che lui
decidesse il percorso. Imboccarono una scalinata che li condusse sotto
le pareti granitiche della Pietra di Bismantova. Facevano paura, si
stagliavano verticali pungendo l’azzurro. Schegge di calcarenite,
conficcate dentro la marne argillosa e sfuggite alla forza della
struttura portante, venivano utilizzate come palestra da scalatori poco
esperti. Luisa notò anche qualche bambino. Uno avrà avuto otto anni,
un altro anche meno. I loro papà avevano sguardi duri. Li guidavano
con virile fermezza dall’alto di volti dai lineamenti aguzzi e
abbronzati. I piccoli rispondevano con occhi teneri e colmi di fiducia.
Luisa e Paolo passarono oltre dirigendosi verso l’eremo. Il fondo della
pieve poggiava a una parete della roccia e ad annunciarla c’era la
statua di San Benedetto. Paolo fotografò la chiesa lasciando in primo
piano la quercia del sagrato. Adesso Luisa pareva più serena:
gironzolava quasi stupita; lui provò a prenderle la mano ma lei non ne
aveva voglia.
‒ «Non è colpa di nessuno» ‒ provò a dire soltanto. Lei lo fulminò con
lo sguardo.
Dentro la chiesa, poi, Luisa si soffermò a contemplare il crocefisso,
assumendo la posa un po’ sbieca di chi reclama qualcosa. Paolo
pensava che Gesù Cristo avesse altro da sbrigare, così tornò fuori e si
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mise a studiare la valle che a onde inseguiva l’orizzonte filtrando tra i
rami fitti della boscaglia. Che ci restasse lei a pregare: “Tanto non ti
ascolterà” pensò “e non ti ascolterà perché ciò che chiedi forse è più
che altro egoismo e allora Dio non sarebbe davvero giusto se finisse
per accontentare tutti i nostri sogni”.
L’aria frizzava, veniva voglia di berla e restare lì per sempre, a
maniche corte, senza sentire né il caldo né il freddo. Paolo socchiuse le
palpebre, desiderava rimpicciolire più che poteva il paesaggio,
racchiuderlo nel tremolare delle ciglia. Poi Luisa uscì dalla chiesa
correndogli incontro.
Il sentiero di mezz’ora saliva da ovest. Per imboccarlo bisognava
passare davanti a un bar trattoria. Gli uomini vestiti di rosso erano
quelli del soccorso alpino e si erano riuniti lì. Dieci persone almeno, in
ordine sparso sopra le sedie di ferro e plastica dei tavolini all’aperto.
Bevevano e discutevano tranquilli. Era in corso una riunione
d’addestramento, cosa che non impedì al gruppo d’osservare Luisa
che passava e che a sua volta li guardava. Uno di loro, d’improvviso,
facendo sussultare Paolo che scambiò quel rumore per un abbaio,
starnutì forte. Paolo e Luisa, lasciandosi tutto alle spalle, cominciarono
a salire. Il sentiero era sassoso e in ombra. Luisa si rimise la felpa.
Ascoltando la nenia di Paolo, che leggeva le cose sulla Pietra, si
trascinava su.
‒ «Non è che ci cadrà un masso in testa?» ‒ fece a un certo punto tanto
per rompere il silenzio.
Paolo saltò al di là di una barriera che segnalava pericolo.
‒ «Io indietro non torno di certo.»
‒ «Quello è un divieto di accesso o sbaglio?»
‒ «Anche a Capri era uguale, ricordi?»
‒ «Almeno c’era il mare.»
‒ «Se a Capri avessimo dato retta ai cartelli saremmo rimasti sempre
in albergo.»
‒ «Correvamo il rischio, facevamo fatica, ma poi si arrivava in quelle
calette da sogno.»
Giunti in cima curvarono verso sud, quel senso di umidità e di ombre
verdi li abbandonò per aprirsi al sole e a una savana gialla popolata
dai tigli. Le foglie a cuore seghettato erano sparse ovunque e così i
trifogli. Lontani, verso nord, c’erano laburni, aceri montani e un
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carpino nero. Attraversarono la vegetazione arborea di noccioli, aceri
campestri e roverelle e raggiunsero l’orlo del precipizio. Con la fronte
a meridione e il vento che ululava, giunsero a un passo dalla picchiata
della roccia. Distanti, udivano le voci degli scalatori. Si arrampicavano
e gridavano cose. La rupe era diritta come lo strapiombo di un
grattacielo. I capelli di Luisa avevano preso una piega strana, il vento
li spettinava, ci s’infilava in mezzo e li modellava come fossero di
creta. I prati erano decorati da viole a tre colori, da genzianelle,
orchidacee e i loro petali oscillavano nella brezza degli oltre mille
metri sopra il mare.
‒ «Vassi in Sanleo e discendesi a Noli, montasi su in Bismantova e ‘n
Cacume con esso i piè» ‒ si mise e a dire Paolo ‒ «ma qui convien
ch’om voli; dico con l’ale snelle e con le piume del gran disio, di retro
a quel condotto che speranza mi dava e facea lume.»
‒ «Sei ubriaco?»
‒ «È Dante» ‒ spiegò lui ‒ «la citazione di Bismantova, della Pietra.
Nel quarto canto del Purgatorio».
‒ «Davvero interessante».
‒ «Ci sediamo un poco?»
‒ «Hai paura che mi voglia buttar giù davvero?»
Erano molto vicini a uno di quei dirupi. Due passi e cento metri di
salto avrebbero schiantato i loro corpi mortali contro la potenza
assoluta della Pietra. Luisa si avvicinò al ciglio. L’aria, nei pressi dello
strapiombo, era elettricità viva.
‒ «Cosa fai?» ‒ le tenne una mano lui ‒ «lo sai che soffro di
vertigini…»
‒ «Tu resta lì. Chi ti dice niente.»
‒ «Mi dà fastidio anche se ti avvicini tu.»
‒ «Mica mi butto.»
‒ «Basta con questa storia del suicidio, è stupida, non trovi?»
‒ «Sì, forse lo è.»
‒ «Allora stai lì, ti faccio una foto.»
‒ «Che noia! Possibile tu debba fotografare ogni cosa?»
‒ «Un ricordo» ‒ aveva già estratto dallo zaino la digitale. L’accese.
Inquadrò Luisa.
‒ «Vuoi che vada più verso il bordo?»
‒ «No.»
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‒ «Ma così la foto viene meglio.»
‒ «Viene bene anche così.»
Scattò. Due, tre volte. Mezzo busto, primo piano, figura intera.
‒ «Che ore sono?» domandò Luisa.
‒ «Hai fame?»
Luisa alzò le spalle.
‒ «Io sì!»
‒ «Facciamo questo pic-nic allora.»
Cercarono un angolo un po’ al sole, un po’ all’ombra e ci buttarono
sopra il plaid. Cominciarono a mangiare l’uva. Poi i panini. Infine le
banane. Paolo raccontava le cose che avrebbe fatto lunedì in ufficio.
Luisa provò ad appisolarsi. Ma non ci riuscì
‒ «Guarda là!»
‒ «Cosa?»
‒ «Non è quel bambino che faceva palestra giù, su quelle pietre vicino
al bar».
‒ «Mi pare.»
‒ «Ti dico che è lui» ‒ era certa Luisa ‒ «ed è venuto su scalando. Col
padre.»
‒ «Un po’ pericoloso.»
‒ «Guarda suo padre com’è fiero.»
‒ «Non capisco la necessità di fare questi sport estremi e in più
coinvolgere un bambino, quanti anni avrà? Dieci?»
‒ «Forse meno» ‒ rispose Luisa ‒ «non più di nove.»
‒ «Pazzo di un padre. Come si può fare una cosa così?»
‒ «È suo padre, saprà bene cosa è meglio per il figlio, cosa vuoi sapere
tu? Sei solo invidioso perché soffri di vertigini.»
‒ «Credi?» ‒ s’innervosì Paolo ‒ «Credi davvero che lui sappia cosa sia
meglio per il figlio? Io ne dubito. A lui piace arrampicare e costringe il
figlio a far lo stesso. Tutto qua.»
‒ «Mi fan male le scarpe.»
Paolo gliele tolse, vide le dita velate dal rinforzo del nylon e cominciò
a massaggiarle i piedi.
‒ «Te l’ho detto che avrei dovuto mettere quelle da tennis» ‒ fece lei.
‒ «Sì. L’hai già detto» ‒ scivolò lungo le gambe e il tronco e le diede un
bacio. Con le mani continuò a massaggiarla ‒ «non stiamo bene
insieme io e te?»
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Restarono abbracciati, dormicchiando e carezzandosi, per quasi
un’ora. Il cielo era appiccicoso di nuvole filanti. Poi Luisa si tirò su.
Voleva andare a fare un giro a Modena. Paolo raccolse lo zaino. Lei
infilò le scarpe. S’incamminarono. Un’altra coppia, sdraiata sotto un
tiglio, era persa in un abbraccio pigro. Paolo riconobbe il nodo del
ramo che tracciava la direzione della discesa: il sole si era spostato
verso occidente e indorava il sentiero.
Cominciarono a scendere. Paolo, a volte, prendeva delle foglie tra due
dita e le palpava.
‒ «Ecco, lo sapevo!» ‒ esclamò di colpo Luisa.
‒ «Cosa?» ‒ si voltò preoccupato Paolo.
‒ «Si è rotta, una scarpa si è rotta!»
‒ «Ma dove?»
‒ «Dove, dove? Qui!» ‒ la tolse ‒ «Lo sapevo. Per questa pietra inutile
pure le scarpe ci ho rimesso, ed erano ancora nuove.»
Sul tallone c’era uno squarcio.
‒ «A Modena ne compriamo un paio nuovo.»
‒ «Non avevo nessuna intenzione di gettarle via. Non ancora. È che
sono inciampata.»
‒ «Ma dai, per un paio di scarpe, quante scene.»
‒ «Per te va sempre tutto bene.»
‒ «Questa gita non ti è andata giù da subito.»
‒ «Certo! Dimmi cosa c’è di bello in questa gita? Avanti, dimmelo.»
Paolo si incamminò via. Luisa si rimise la scarpa.
‒ «Dove corri, non vedi che devo scendere piano, sennò si sfascia del
tutto.»
‒ «Sì, ti aspetto, basta che stai zitta.»
‒ «Zitta a me non lo dici, capito?»
‒ «Sì! Va bene, però stai zitta! Scusa Luisa, ma oggi mi hai davvero
rotto le scatole.»
‒ «Ma sentilo.»
‒ «Certo che mi senti. Non ne posso proprio più.»
‒ «Piantala tu! Te la tiro dietro questa scarpa, giuro che te la tiro in
testa.»
Giunti vicino al bar notarono uno strano movimento. Nessuno era più
seduto. C’era il rumore catarroso di una jeep che saliva veloce. Gli
uomini del soccorso correvano qua e là come formiche impazzite. Uno
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aveva la radio in mano e ci parlava dentro. Si udiva un’eco di grida
disperate.
‒ «Ma che succede?» ‒ si agitò Luisa.
‒ «Non so» ‒ le rispose lui alzando la voce, visto che camminando
avanti, l’aveva distanziata di qualche decina di metri.
La gente si dirigeva in fretta verso l’Anfiteatro Basso, il piede dello
strapiombo della Pietra. Paolo si trovò a seguire il flusso. Luisa
seguiva Paolo. Si era formata una piccola folla attraverso la quale gli
uomini del soccorso faticavano a passare. Dietro c’era un uomo con il
viso stravolto. Lo stavano soccorrendo. Parlava a monosillabi che
subito gli morivano in gola. Zoppicava e aveva gli abiti strappati.
Vicino a lui c’era uno di quelli con la blusa rossa. Gli altri correvano
più avanti, verso l’eremo. Paolo si alzò sulle punte per superare l’onda
delle persone. Lo vide appena. Non si muoveva più. Era lì sotto,
accoccolato come il Gesù di un presepe, adagiato tra i cespugli nani e
la polvere. La lastra rocciosa era una bocca dentata e saliva nel cielo.
La corda, precipitata con lui, lo avvolgeva. Il padre adesso era in
ginocchio, riverso nel sangue che sputava a fiotti mentre cercava di
spiegare all’uomo del soccorso cosa fosse accaduto. Gridava disperato
senza che si potesse capire quel che diceva. Gli uomini del soccorso
fecero allontanare tutti.
‒ «È quel bimbo? Vero?» ‒ ripeteva Luisa ‒ «quello che abbiamo visto
in cima alla pietra?»
Paolo tremava. Non rispose, faticava a respirare. Luisa, nervosa, gli
picchiava i pugni sul petto, era di nuovo isterica; Paolo, prima di
essere cacciato indietro, lo aveva visto per un attimo. Luisa chiedeva
se fosse ferito.
‒ «È quel bimbo? Vero? È lui? Come sta?»
Il bambino non si muoveva più. A folate, la brezza gli accarezzava i
capelli e solo i capelli sembravano ancora vivi.
Tornarono al bar a bere qualcosa. Luisa non voleva smettere di
piangere. Paolo la teneva stretta. Ordinarono due amari. Arrivò
l’ambulanza. Arrivarono i carabinieri, il magistrato. Gli uomini del
soccorso proseguirono negli adempimenti previsti. Il fermento andò
placandosi dentro il morbo di una quiete indistinta.
Luisa, zoppicando sopra la sua scarpa rotta, e Paolo, ancora con il suo
plico di appunti, ammutoliti, decisero di tornare a casa, da Gianni e
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Rachele, senza passare da Modena. Pagarono gli amari, un pacchetto
di cicche, un bicchiere d’acqua e, mentre scendevano la scalinata, c’era
un cagnetto grassoccio che si arrampicava faticosamente in senso
inverso. Era buffo. Aveva la lingua a penzoloni e la bava gli colava
sulla ghiaia. Lasciò andare un latrato dentro il silenzio irreale di quel
mondo. Affaticato si fermò un momento, poi abbaiò di nuovo.
Paolo, guardando il spiazzale dove la mattina avevano posteggiato, si
rese conto di aver calcolato correttamente il giro del sole: la macchina
era all’ombra.
33
Al palasport
di
Scrittorucolo
https://scrittorucolo.wordpress.com
Era almeno un’ora che continuavo a guardarmi intorno sbalordita: il
palasport era gremito e il frastuono del pubblico eccitato saturava
l’aria. Odore nauseante di pop-corn. Ricacciai indietro un vago senso
di soffocamento e mi sforzai di sorridere. Come avevo potuto
lasciarmi convincere da Alex a pagare venti euro di biglietto per
assistere ad uno spettacolo tanto idiota? Fino a poche ore prima non
immaginavo neppure che potesse esistere uno sport (sport?) basato
esclusivamente su tale “prestazione atletica” e adesso ero sugli spalti
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in mezzo a un’orda di tifosi invasati che si sbracciavano per incitare i
loro beniamini. E non potevo neanche consolarmi deridendo la
stupidità degli uomini, poiché nonostante una netta prevalenza di
individui di sesso maschile, tra il pubblico c’erano pure parecchie
donne.
‒ “Non ti pareeee che tutto ‘sto casino sia… eccessivoooo?” ‒ urlai
sporgendomi verso l’orecchio di Alex.
‒ “Eeehh?” ‒ fece lui regalandomi un’occhiata stupita, quasi si fosse
ricordato in quel momento che c’ero anch’io.
‒ “Troppo casinooo… per una cazzata simileee!!!” ‒ ripetei senza
riuscire a sovrastare il martellante rincorrersi di trombe e tamburi che
scuoteva la gradinata.
‒ “Ma stai scherzandoooo??! E’ la prima volta che la finale
mondialeeeee si giocaaa in Italiaaaaa!!!”
Non osai replicare, anche perché più d’un fanatico nel raggio di
qualche metro aveva iniziato a guardarmi male. Certo, era la finale
mondiale, ma io mica volevo contestare l’ufficialità dell’evento… ciò
che mi lasciava senza parole era che esistesse un campionato
mondiale di *trattenimento di urina*.
Trattenimento, intrattenimento, pensai, e rabbrividii perché specchiandomi negli occhi di chi mi circondava ebbi la sensazione di essere
l’unica creatura abominevole in cui sopravviveva un crepuscolo
d’intelligenza. Nella speranza di stordirmi ingollai una palla di konk e
finsi di interessarmi alla faccenda.
‒ “Chi vinceeee?”
‒ “L’ultimo che si pisciaaaa addossoooo…”
‒ “Ok… L’avevo capitoooo! Volevo direeeee chi sta-aaaaa vincendo
adessoooo?!!” ‒ gridai di rimando.
Il rimbombo del tifo all’interno del palasport iniziò a seguire un moto
ondulatorio, quasi che d’incanto la marea umana fosse stata teletrasportata su una spiaggia di Rimini a il frastuono variasse
d’intensità in base ai capricci del vento. Segno che il konk stava
facendo effetto.
Prima che Alex potesse rispondermi, dagli spalti partì un boato: il
terzultimo atleta sulla destra aveva ceduto di schianto e la divisa
“ufficiale”, un paio di pantaloni lunghi di colore azzurro chiaro, s’era
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variegata d’una chiazza blu estesa dall’inguine giù e giù fino alle
caviglie.
‒ “Evvaiiii!!! Anche il tedesco è fuoriiiii!!!” ‒ mi urlò in faccia Alex con
occhi luccicanti.
‒ “Evvivaaa…” ‒ gridai anch’io e cominciai a sentirmi più calda
dentro.
Qualche minuto dopo il bisogno di ridere era così gonfio che mi ero
decisa a porre qualche altra domanda all’esperto, ma quando presi
fiato fui interrotta dalla voce dello speaker.
“Gentile pubblico, come avete visto, gli atleti rimasti in gara hanno
svuotato completamente la bottiglia con il quarto litro d’acqua: il gioco si
fa duro…” ‒ ululati tra il pubblico ‒ “Ha resistito un’ora, sette minuti e
ventitré secondi, Hans Klemann, l’atleta di nazionalità tedesca che era tra
i favoriti della competizione e che va ad aggiungersi agli altri sei la cui
vescica ha già ceduto in precedenza. Passo quindi a leggervi la classifica
provvisoria dal decimo al quarto posto: decimo classificato…”
Quindici minuti dopo, a metà del quinto litro, toccò al russo bagnare i
pantaloni.
‒ “Evvaiiii!!!” ‒ gridò Alex saltellando sul posto ‒ “Mar-co! Mar-co!
Mar-co!!!”
‒ “Chi è rimastoooo oltre l’italianoooo?”
‒ “Jack Ashtooooon, l’americano campioneeee del mondoooo!”
Studiai Alex, e non so se per effetto del konk o per un’improvvisa crisi
mistica determinata da emozioni troppo intense, mi resi conto che non
potevo tollerarlo. Non c’era dubbio che fosse bello, alto e muscoloso,
con uno sguardo spettinato da Pettyfer dei poveri, ma era un coglione
come tutti gli altri. L’avevo assecondato seguendolo in questa bolgia
delirante con la speranza che significasse qualcosa e invece adesso
non vedevo l’ora che mi riportasse a casa. Ingannai il tempo giocando
col lucidalabbra al sapore di arancia finché, alla fine del quinto litro il
palazzetto dello sport ammutolì e Marco Sartori si bagnò le braghe
senza ritegno.
‒ “Nooooo….” ‒ sbraitò Alex disperato e si voltò verso di me.
Io lo abbracciai e forse diedi l’impressione di volerlo consolare, invece
grazie al konk stavo rimuginando sul perché, se umani e delfini sono
le uniche specie che fanno sesso per piacere, soltanto i leoni si
accoppiano più di quaranta volte al giorno.
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Vinse l’americano: ingoiò sei litri e mezzo e riuscì a impedire alla sua
vescica di esplodere per quasi due ore.
‒ “Ti è piacuto?” ‒ mi chiese mentre uscivamo dal palasport pigiati tra
la folla.
Come no, stronzo, pensai, ma il konk mi impediva di dire cose di senso
compiuto. Così farfugliai.
‒ “Certo! E’ strano come il piacere coincida con l’alleviarsi di un peso
fisico o mentale… qualcosa che prima dobbiamo trattenere e poi
possiamo eliminare…” ‒ infine in un barlume di lucidità aggiunsi ‒
“tipo mandarti a fare in culo…”
Ci rimase male: probabilmente, a suo modo anch’io gli piacevo.
Fuori il cielo notturno brillava pieno di stelle, ma era troppo freddo
perché la poesia potesse dare nuova vita ai mozziconi di sigaretta
spiaccicati sull’asfalto. Così quando il Pettyfer dei poveri cercò di fare
gli occhi dolci e di dire qualcosa di simpatico, rimasi spenta. Arrivati
alla macchina di Alex, sputai in terra: dopo aver preso il konk mi
capitava sempre che la bocca si riempisse in di saliva amara. Era per
quello che usavo il lucidalabbra all’arancia, per svagare la lingua con
un retrogusto di aranciata amara che mi riportasse indietro ai tempi
dell’adolescenza.
Mi riaccompagnò a casa e per buona parte del viaggio, riprese a
parlare di Jack Ashton, di come avesse migliorato tre mesi prima il
record del mondo che peraltro già deteneva da sei anni, riuscendo a
trattenere otto litri e mezzo di acqua per tre ore e ventidue minuti. Per
fortuna, il konk trasmetteva un sottofondo musicale fatto di canzoni
dei Dollyrots e la chitarra distorta di Luis Cabezas si mescolava al
suono della voce di Alex creando buffe risonanze elettriche. Fu
quando il rosso al semaforo tra via Goretti e corso Malta ci scattò in
faccia che decisi di farlo. Il konk amplificava le vibrazioni del motore
in folle e la manina con il dito medio alzato appesa allo specchietto
oscillava leggermente. Ero come ipnotizzata e la droga amplificava la
luce rossa del semaforo al punto che tutto l’abitacolo assunse una
sfumatura sensuale.
Quando arrivò il verde, bastò poco più di un minuto per accostare
davanti al condominio dove abitavo. Salutai Alex indugiando
sull’ultima lettera del nome. Tutto si stava svolgendo al rallentatore
come se il konk stesse girando l’ultima scena di un film per poi
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metterci una croce sopra. Scesi dall’auto e richiusi la portiera
lasciandogli il sedile completamente bagnato.
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Un vuoto di rosso al giorno
di
Ottavio Taranto
https://www.facebook.com/ottavio.taranto
Quando ho chiesto a Dio una donna a forma di violoncello non
intendevo un violoncello vero e proprio, volevo solo una donna che
avesse delle curve tali da somigliargli!
Adesso mi ritrovo di fronte questa strana creatura che, nonostante
abbia un viso scolpito in maniera impeccabile e un’espressione
distesa, tradisce con lo sguardo irrequieto una vaga apprensione. Non
mi conosce e non credo abbia vissuto qualcos’altro prima d’essersi
materializzata, se così si può dire, all’interno del mio salotto.
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Non mostro il mio disappunto, non voglio agitare la creatura ed ho
rispetto del mio Dio. In fondo avevo pregato per qualcosa del genere:
la colpa del malinteso è da attribuire alle figure retoriche che plagiano
i miei pensieri e nient’altro; non smetto di credere d’essere un uomo
fortunato.
O astuto.
Gli Dei sono invenzioni dell’uomo per l’uomo. Si fa presto a scegliere
una religione o ad averne inculcata una fin da bambini, ma, a mio
avviso, non sarebbe una decisione da prendere così a cuor leggero:
spesso condiziona l’intera esistenza di una persona e in certi casi si
finisce col credervi così intensamente da interagirvi. Ecco allora fiorire
un’infinità di storie, da chi vede il volto di Dio nei sassi a chi si
convince che una statua della Madonna pianga sangue. Visioni che,
per carità, saranno sceniche e di gran bell’effetto… ma che senso ha
convincersi della correttezza di una religione a dispetto delle altre
tanto da vederne le manifestazioni se poi queste, una ogni cent’anni,
sono per giunta così inutili? Che senso ha scegliere una religione che
permette al tuo Dio di farsi gli affari propri durante tutto l’arco della
tua vita, senza un benché minimo segno, e solo alla fine, da perfetto
sconosciuto, di prendersi la briga di giudicarti? Durante i tuoi amori,
i tuoi dissapori, i tuoi dolori, quel tale che hai scelto o che hanno scelto
per te dov’era? Al bar? In cima a una montagna? All’interno di una
sua rappresentazione in un tempio?
No, io non ci sono proprio cascato. Ho scelto un Dio in grado di
accompagnarmi in ogni dove, uno che non dimora in qualche edificio
che gli esseri umani hanno deciso essere mistico, ma che non ha altra
casa all’infuori del mio sguardo. Il mio Dio ascolta ed esaudisce ogni
mia preghiera, come è giusto che sia, e più ne avvera più si consolida
la mia fede in Lui, ovvero più credo in Lui più Lui è presente. Ho
fregato il sistema.
Che sistema poi... se un uomo chiede alla vita una donna tutta curve
perché non dargliela? Che male può fare? Questa qui poi, non sarà
esattamente ciò che volevo, ma sembra un’esistenza così flebile, così
leggiadra da non poter fare male a una mosca; gli equilibri terreni non
saranno certo prostrati da un violoncello così muliebre di nome e di
fatto.
‒ Come vuoi che ti chiami? ‒ le rivolgo la parola per la prima volta.
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‒ Oh! ‒ sussulta sorpresa in tono stridente. Poi, con un suono simile
alla voce umana, mi risponde che non concepisce un fattore
nominativo, che se voglio rivolgermi a lei debbo soltanto parlarle,
come ho appena fatto. Non fa una piega, evito perciò di presentarmi.
Comincio a girarle intorno e la osservo in maniera tecnica: è
interamente in legno, senz’altro in rovere anche se, a quanto mi
risulta, non è tipico di questi strumenti; i piroli invece sono in
palissandro e così anche l’elegante ponticello retto dalle sue corde. In
tutta la mia carriera non ho mai visto una levigatura più sottile né un
flettersi così duttile di un legno tanto duro. Rifinita in maniera
magistrale, mirabile... mirabile. Mentre penso questo, continua a
seguirmi attraverso le fessure tra le palpebre col movimento di un
liquido incolore, una goccia rappresa che ha tutta l’aria d’essere uno
sguardo. Mi viene in mente che ho dei mobili in soffitta che
potrebbero farla sentire più a suo agio e poi aspetto anche degli
ospiti… la sua presenza sarebbe piuttosto ostica da spiegare.
L’agguanto dalla "vita" con entrambe le mani e la porto di sopra: è
leggera o forse è solo un’impressione dovuta al fatto che le forze non
mi hanno ancora abbandonato nonostante l’età avanzata. Lo devo
all’esplicita preghiera di rimanere in salute fino alla fine dei miei
giorni, cosa che penso vogliano un po' tutti, ma che il mio Dio mi ha
concesso senza far troppe storie; in fondo, non ho mica chiesto la vita
eterna, sarebbe contro ogni principio scientifico! Ho solo chiesto di
non ammalarmi, di non indebolirmi, e dato che non fumo, non
conduco un vita viziosa e che non faccio alcun tipo di abuso, si vede
che la cosa era fattibile. Così eccomi qua: sessantasette anni suonati e
la forza d’un giovanotto!
‒ Oh! ‒ trasale sballottata per i primi gradini. Poi, placida
all’apparenza, si lascia trascinare di sopra e riporre in compagnia di
parecchie cianfrusaglie impolverate, che esamina con un filo di
inquietudine.
Soprappensiero, le spengo la luce.
Andati via gli ospiti torno in soffitta. Accendo la luce e com’è ovvio la
trovo nel punto esatto in cui l’ho lasciata: mi guarda a lungo, le labbra
strette e tese, come una linea piatta. La osservo meglio: non ha
l’archetto. Ovvio, ho chiesto una donna, non una donna e un archetto.
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Posso comunque costruirglielo: anche se in pensione, sono sempre un
falegname. Non sono mai stato un uomo avido, ho sempre lavorato; in
ogni momento della mia vita avrei potuto chiedere al mio Dio di
vincere alla lotteria, non credo mi avrebbe negato, né mi negherebbe
mai un po' di quella cartaccia che noi umani abbiamo inventato e che
distinguiamo da quella igienica chiamandola denaro e dandole un
determinato valore in base alla faccia famosa che c’è stampata sopra.
Tuttavia a che servirebbe avere più denaro? Di fame non morrò di
certo, un tetto sulla testa ce l’ho, e per giunta guadagnato! Ho di che
scaldarmi durante gli inverni e un seminterrato freschissimo nelle
estati. Inoltre, non ho corso il rischio che una donna decidesse di
sposarmi solo per soldi: ho convenuto fosse meglio una compagnia
artefatta, una donna che qualora non mi sia più congeniale possa
lasciare andar via per la sua strada. Tanto, con tutte le persone matte,
sole o abbandonate che esistono al mondo, che differenza potrà mai
fare un’esistenza in più senza né passato né famiglia? Che squilibri
potrà mai causare? Ciò non di meno, nell’intero arco della mia vita,
questa a forma di violoncello è soltanto la terza donna che chiedo: non
mi è mai interessato il sesso facile e comunque non vedo la necessità
di rivolgermi a Dio quando se ne può sempre avere per pochi
spiccioli. All’amore poi non credo. Molta gente, quasi tutta, trova
l’amore della propria vita nella stessa città in cui il caso ha voluto che
vivesse e non mi è mai sembrata una coincidenza... Credo all’amore
che nasce giorno dopo giorno, vivendo con chicchessia.
E’ deciso: le fabbricherò questo diamine di archetto, non avrò il legno
pregiato di cui lei è composta e nemmeno la pazienza o la capacità di
levigarne così bene la superficie, ma è un bel violoncello e se oggi o
domani smettesse di parlare e qualcuno volesse acquistarla, bisognerà
ch’io la ceda corredata di arco. E di custodia!
‒ Sai, posso rimediarti una custodia.
‒ Uh! E a cosa serve?
‒ E’ come un vestito: è in tessuto o rigida, ha una tracolla che serve a
trasportarti e...
‒ Oh che bello! E dove andiamo?
‒ Non andiamo da nessuna parte, ne rimedierei una per non farti
prender polvere.
‒ Oh... Capisco.
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‒ Capisci? Bene, per il momento possiamo metter su questo.
Dallo schienale di una vecchia sedia afferro un vecchio copridivano
verde scuro ripiegato più volte e lo distendo per coprirla. Subito però
vedo il tessuto risucchiarsi in un piccolo cerchio concavo all’altezza
della sua bocca. Glielo tolgo di dosso immediatamente.
‒ Oh! Basta, ti supplico ‒ ha gli occhi sgranati e respira a grandi
boccate ‒ ...Ti prego.
Non pensavo potesse essere tanto traumatico per lei, getto il drappo
lontano, per terra. Nemmeno la custodia è poi così importante: di
tanto in tanto salirò a darle una spolverata.
Terminato l’archetto e fatto “incrinare” da chi di dovere torno a casa;
non la vedo da questa mattina ed è già l’imbrunire. Ogni volta che
apro la porta mi rivolge subito lo sguardo, a volte implorante, a volte
seccato, a volte fiducioso. In questo momento, vedendomi entrare con
le braccia protese e l’arco sul quale tanto mi sono impegnato tra le
mani, modula un’espressione perplessa. Sembra non comprendere
appieno e mi fissa con la coda dell’occhio leggermente intrigata,
mentre un’impercettibile smorfia sulle labbra pare tradire un
disappunto viscerale. Sembra quasi stia covando una qualche forma
di rancore, ma non ne comprendo il motivo... Potrei sempre chiedere a
Dio delucidazioni sull’intera faccenda ma, anche trattandosi di una
donna oggetto, credo si configurerebbe una grave violazione della
privacy.
Per capirne di più mi avvicino e le descrivo a grandi linee come ho
realizzato il suo complemento, ma in cambio ne ricevo solo poche
esclamazioni meravigliate: il suo sguardo curioso non accenna a
staccarsi neanche per un attimo dall’archetto che muovo a destra e
sinistra o sposto da una mano all’altra, imitando un direttore
d’orchestra poco esperto e maldestro.
Decido, senza rifletterci troppo, che sia il caso di provare a suonarla,
così da stabilire un contatto diretto, il che però peggiora nettamente la
situazione: sgrana gli occhi, il legno cigola e si sfianca leggermente. Mi
rendo subito conto d’averla turbata, così indietreggio e imbarazzato
mi seggo su una vecchia poltrona polverosa. Lei è ancora contratta a
riccio, le labbra in legno socchiuse.
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‒ Ho sbagliato qualcosa? ‒ la mia domanda, dal tono sinceramente
ansioso, è quasi un soffiar via la polvere. Abbassa lo sguardo.
‒ Io... io non ho mai suonato. Sarebbe la prima volta, volevo fosse
speciale.
La situazione m’imbarazza moltissimo e sento il mio stomaco
chiudersi. Solo ora mi chiedo se...
‒ Mangi per caso?
‒ Oh no... ‒ mi risponde abbozzando un sorriso ‒ Però bevo!
‒ Ok, allora cosa posso portarti su da bere? Acqua o altro?
Mima ancora un flebile sorriso e dice che gradirebbe, se possibile, un
bicchiere di vino al giorno.
A volte la sento singhiozzare debolmente, su in soffitta, ma quando
alla fine metto via il giornale per salire da lei e chiederle come si senta,
mi risponde sempre che non è nulla, che stava soltanto pensando ad
alta voce e mi prega di avere la bontà di scusarla. L’umido che stagna
sotto i suoi occhi ha tinto il legno d’una sfumatura rossastra all’altezza
delle gote. L’ho notato mentre mi chinavo, avvicinandomi a lei, per
ritirare il bicchiere giornaliero. Di vino ne lascia sempre un goccio, che
si rapprende sul fondo in tanti puntini scuri, come fosse lì vecchio di
giorni.
‒ E’ una così bella giornata oggi! ‒ mi sorprende tirando su col naso.
Resto per un attimo interdetto, mezzo chinato e col bicchiere di vetro
vuoto in mano: noto che è riuscita a flettere le labbra in un triste
sorriso, ma gli occhi sono gonfi, o almeno così mi sembra. Quando le
chiedo se abbia bisogno di qualcosa di solito schiocca la lingua,
eppure stavolta credo di sapere cosa desideri. Non so da quanto
tempo non venissero aperte le persiane della soffitta e non so neppure
come lei, attraverso le fessure che lasciavano l’ambiente in penombra,
abbia potuto percepire che oggi il tempo sia particolarmente mite.
Poco importa: con delicatezza la sposto in prossimità della finestra di
modo che abbia la possibilità di osservare meglio l’esterno. Le dico,
prima di andar via, di sentirsi libera di chiamarmi nel caso avesse una
qualsiasi necessità, ma quasi non mi sente rapita com’è nell’osservare
dei bambini che giocano. Io di figli non ne ho mai voluti. Rifletto che
forse è giusto così: non sarei mai riuscito a sopportare il dolore se gli
fosse accaduto qualcosa e, d’altra parte, non volevo correre il rischio
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di cedere alla tentazione di inculcargli, in un modo o nell’altro, le mie
personali convinzioni. Non me lo sarei mai perdonato.
È la prima volta che la sento chiamare, così salgo allarmato.
‒ Oooh, guarda! Ha rifiutato quella bellissima rosa rossa! ‒ mi dice
con lo sguardo ammaliato rivolto all’esterno. Mi sporgo e faccio
appena in tempo a vedere in strada la scena di una giovane donna che
svolta l’angolo con falcate ampie e nervose e di un giovane che,
girando i tacchi e affondando le mani nelle tasche della giacca, si
allontana (molto meno deciso) in direzione opposta. Il viso di lui è
tuffato nella sciarpa, i capelli lunghi e castani di lei ondeggiano in
lontananza come l’eco d’una risacca. In mezzo, per terra, la rosa della
quale si parlava. Riesco a sentire l’odore antico del legno, le vibrazioni
dalla sua cassa armonica mentre mi racconta eccitata la scenetta cui ha
appena assistito, che altro non è che un banale litigio fra giovani
fidanzati. Le brillano gli occhi, ai quali tutto appare così nuovo e
provo tenerezza per il suo profilo delicato che s’infervora intuendo
melodie amorose. Mi sorprende per il modo in cui la sento parlare di
qualcosa del genere: coglie minime sfumature nell’espressione dei
volti, si sofferma sulle inclinazioni delle labbra, sui gesti del corpo
meno evidenti, sulla bellezza velata di malinconia d’una rosa mezza
spampanata sull’asfalto. Dico a me stesso che posso benissimo fare un
gesto carino e comprarle un mazzo di rose, se non altro per ravvivare
la vecchia soffitta, ma quando le porto i fiori non è contenta come
previsto: voleva “quella” rosa, quella che nel frattempo è ridotta ai
minimi termini, calpestata svariate volte ed irrecuperabile.
Ah, le donne... O i violoncelli.
‒ Le somiglio? ‒ mi domanda.
Mentre la stavo lucidando con attenzione ha notato un vecchio ritaglio
di giornale appeso alla parete che ritrae Ursula Andress.
‒ Non conosci il tuo aspetto? ‒ chiedo di rimando.
Impercettibilmente scuote la testa. Mi alzo, dev’esserci un vecchio
specchio crepato qua in mezzo, ma quando infine lo scovo è così
impolverato che nel riflesso distinguo a malapena il mio profilo.
‒ Aspetta solo un minuto.
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Dopo averlo pulito alla meglio con un panno, la posiziono di fronte
allo specchio, poggiandola adagio alla parete. Stringe gli occhi per
cercare di mettere a fuoco la sua immagine riflessa, ma sembra non
comprendere bene, sicché apro un altro spiraglio della persiana e la
luce filtra attraverso il pulviscolo fermo nell'aria.
‒ Oh! ‒ esclama ‒ Sono orrenda!
‒ No...
‒ Oh sì, invece! Somiglio all’arredamento! Non sembro... viva. Devi
fare qualcosa… ‒ m’implora con la fronte aggrottata sotto il riccio
della voluta.
Rimango di stucco.
‒ Cosa potrei mai fare io? ‒ rispondo pronto a confessare le mie
limitate capacità nel lavorare il legno, anche se dentro di me ho già
intuito dove vuole andare a parare.
‒ Devi chiedere al tuo Dio di cambiarmi forma, di rendermi umana!
Il suono della sua voce è rotto dal pianto, un pianto scordato.
“Perché”, le chiedo con lo sguardo e nel contempo pongo la stessa
domanda intimamente anche a me stesso: perché prima d’ora non ho
mai preso in considerazione un’ipotesi del genere?
Lei insiste.
‒ Ti prego. Così potremo uscire insieme da questa casa! Andare in
strada, a teatro...
‒ Sono tutte cose che possiamo fare ugualmente, indipendentemente
dalla tua natura...
E’ evidente che non crede ad una sola mia parola, comunque il
tremolio del suo ligneo labbro inferiore pare scemare. Nonostante mi
volti verso la finestra avverto il suo fissarmi imperterrita.
‒ Perché non vuoi ch’io cambi? Di cosa hai paura? ‒ domanda pacata.
‒ Non ho affatto paura. Se questo è ciò che desideri io pregherò
affinché il tuo corpo cambi, affinché tu abbia una forma umana;
tuttavia ci sarebbe qualcosa di artefatto nelle mie preghiere, non
sarebbero del tutto sincere ‒ mi trovo ad ammettere ‒ A parer mio sei
perfetta.
‒ Oh!
Non sta più fissandomi, la sua attenzione è di nuovo rivolta alla
propria immagine riflessa, incorniciata dalla polvere. Le sue labbra si
schiudono piano in un lieve sorriso.
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‒ Perfetta... ‒ sussurra.
‒ Sì... ‒ le sorrido, e sul suo viso sboccia allora un riso finalmente più
rilassato ‒ Perfetta... sei bellissima.
E la vedo felice.
Mentre cammino per strada, dei grandi manifesti catturano la mia
attenzione: “l’orchestra sinfonica eseguirà Bach al teatro”, dicono a
grossi caratteri.
Indosso lo smoking, ormai un po' troppo stretto, ma che ancora mi
dona e salgo in soffitta.
‒ Ciao ‒ mi dice senza guardarmi.
Il viso è illuminato dal tramonto che mette in luce le venature della
guancia. Faccio in modo, tossendo, che mi presti attenzione.
‒ Oh, e questo vestito che significa?
‒ Significa che usciamo, voglio portarti in un posto.
Pochi minuti e l’ho posizionata sul sedile anteriore dell’auto,
allacciandole la cintura di sicurezza.
‒ Come stai andando veloce! ‒ esclama stupita qualche attimo dopo la
partenza, mentre mantengo una velocità di circa 30 chilometri orari.
Decido di rallentare ulteriormente così da lasciarle il tempo di
osservare tutto con più calma: i negozianti che chiudono, i ragazzi
dell’oratorio che tornano a casa, il centro commerciale in lontananza.
Osserva tutto curiosa, con gli occhi che le brillano; la guardo e la trovo
così bella... La guardo tanto da non prestare più attenzione alla strada.
Epilogo
La casa di questo mio vecchio zio è abbastanza comune. Non ero mai
stato qui ma, d’altra parte, mi ero quasi dimenticato dell’esistenza di
questo lontano parente fino ad ora. Adesso tutto ad un tratto mi
chiamano e mi dicono che il vecchio, colpito da un malore mentre era
alla guida, ha avuto un incidente ed è morto. Dicono anche che
nell’ultimo periodo era del tutto ammattito e non si separava mai da
un contrabbasso che neppure era in grado di suonare. Lo strumento è
una delle prime cose che noto entrando in casa. È poggiato allo
schienale del divano in salotto e mi chiedo cosa possa avere di tanto
particolare: è grande, opaco e per giunta scheggiato.
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‒ Proprio un bel violoncello! ‒ mi dice un uomo, una delle poche
persone presenti al rinfresco.
‒ Abbastanza comune... ‒ rispondo con poco riguardo.
Tuttavia l’uomo continua a sorridermi e fissarmi, lo sguardo vispo
dietro le spesse lenti degli occhiali da vista. Ha un viso largo, cordiale
e rubicondo, mi viene solo in mente che abbia abusato col punch.
‒ Un parente?
‒ Un nipote...
‒ Ooh! ‒ gli si apre un sorriso ancor più solare che mette in risalto i
denti sporgenti ed i pochi, lunghi baffi ispidi da tricheco ai lati della
bocca. Torno a guardare il violoncello; fuori, il canto mattutino degli
uccelli non allieta il momento. L’uomo di mezza età continua.
‒ Tuo zio era un uomo fortunato. Ha vissuto gli ultimi dieci anni della
sua vita in compagnia di questo strumento che portava ovunque con
sé: teatri, cinema, parchi... Hanno persino viaggiato insieme ‒ il suo
tono vira dal sarcastico al confidenziale, non so se cominciare a
preoccuparmi ‒ Sai... in molti vorrebbero una vita come quella che lui
ha vissuto, sembrava non gli mancasse nulla. Era un uomo molto
intelligente che della vita aveva capito tutto, o perlomeno quello che
più conta. La vita è una strana faccenda, una cosa che appartiene a chi
sa capirla, a chi se la prende, non so se mi spiego, eh… gli altri fanno
semplicemente da contorno come un gregge di pecore bianche.
Mi allontano, ma l’uomo prosegue alzando il tono.
‒ ...Nella vita puoi essere e ottenere qualsiasi cosa tu voglia essere o
ottenere! In fondo la vita è una cosa da vivere intimamente: è quando
si è soli che si comprende il reale valore della vita!
Il tipo sorride tutto soddisfatto e io mimo un cenno d’assenso nella
speranza di levarmelo di torno. In questo periodo ho troppi problemi
per baloccarmi con filosofismi e frasi fatte: un lavoro precario, una
ragazza con la quale non vado d’accordo, ma che è rimasta incinta.
Pensavo di avere qualcosa da ereditare da questo mio zio, era l’idea
che mi ero fatto quando ho letto che mi avevano convocato, ma a
parte questa casa che andrà all’asta e quel suo stupido clavicembalo (o
quello che è), pare non avesse un granché. Eppure questo tricheco
parlante sostiene abbia avuto una vita invidiabile, cosa su cui ho i miei
dubbi: due relazioni andate male, nessun figlio che si sia preso cura di
lui durante la malattia mentale. Nonostante arrancasse da parecchi
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anni per i tanti acciacchi dell’età, dicono che sostenesse di sentirsi
sempre in splendida forma. Mi soffermo a guardare ancora il
violoncello e sento una nota stridente percuotermi dentro, una
sensazione che cresce intimamente come quando si sta per
comprendere qualcosa di molto importante. Invece, d’un tratto, la
ragazza che mi attende in auto strombazza il clacson spazientita,
sbuffa e incrocia le braccia sul pancione. Ripiombo nella praticità della
situazione, com’è giusto che sia: non ho tempo da perdere indugiando
sui vaneggiamenti esistenziali dell’uomo-tricheco! La vita non va
presa in nessun modo, è lei che ci prende; noi siamo solo scimmie
nude catapultate in questo mondo e possiamo solo attendere un colpo
di fortuna che sblocchi determinate situazioni; dobbiamo andare a
messa la domenica per evitare che la collera di Dio ci bistratti
ulteriormente! Chi è scaramantico come me è bene che frequenti la
chiesa anche se non ha fede (come la si potrebbe avere?), nella
speranza di compensare quel maledetto peccato originale che due
imbecilli hanno perpetrato all’inizio della storia dell’umanità e del
quale stiamo tutt’ora pagando le conseguenze. Non possiamo fare
null’altro che questo. Dio ci salvi e ci perdoni. Se vuole.
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Riflessi condizionati
di
effeffe
http://www.nazioneindiana.com/author/francesco-forlani/
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da
spiaggia, non si accorge di sé.
Una distesa di ombrelloni azzurri. Prima un riflesso. A perdita
d’occhio le sdraio appaiate in file interminabili a ridosso della riva. E i
lettini con i capezzali rovesciati. Due riflessi, poi, leggermente
sincroni. Il brusio delle prime ore del pomeriggio fa da rumore di
fondo all’annuncio distratto dell’altoparlante. Ora son diventati cento,
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mille, i riflessi che sembrano moltiplicarsi e seguono a vista le onde
fino a perdersi nella sabbia. La spiaggia è abitata per lo più da
famiglie e in una fila poco distante dalla passerella, sopra a un lettino
è disteso un uomo.
La tranquillità dello sguardo spento dagli occhiali da sole, la posizione
neutra, le braccia lungo il corpo, le mani penzoloni con le dita quasi a
toccare sabbia, le gambe leggermente divaricate e i piedi all’ombra di
poco inclinati e puntati sui due lati: il piede sinistro sulle nove e
quello di destra sulle quattordici. La particolarità delle spiagge a
conduzione familiare sta nella presenza accanto ad ogni ombrellone di
suppellettili giocattolo per lo più ingombranti, colorati e gonfiabili.
Come statue a guardia delle facciate dei palazzi qui sembrano custodi
degli effetti personali e governano l’andirivieni dei bagnanti dal
bagnasciuga alla sabbia asciutta e cocente delle postazioni. Il lido, che
diremo di Lerici per comodità, ha una disciplina del personale di terra
e mare a immagine e somiglianza della coppia di proprietari; lui è uno
scrittore di romanzi d’avventura e lei una ex modella che è rimasta
tale; lui e lei sono semplicemente e oggettivamente belli; di una
bellezza che porta in sé qualcosa di naturale e non la costruzione
sofisticata di corpi estranei a sé e portati in modo maldestro in giro,
per lo più.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia,
non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo
sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto
involontaria e dunque irresponsabile.
Una distesa di ombrelloni azzurri. I riflessi ora si perdono al largo
dove non c’è più piede. A tratti risalgono lungo gli alberi maestri delle
imbarcazioni ormeggiate al porticciolo. La spiaggia si popola adesso
di giovani alle prese con la maturità: ripeness is all. La prima ad
accorgersi della cosa è una signora dall’aria intelligente. Ha l’aria
intelligente perché sul tavolinetto ci sono due libri, quello di Luciano
Gallino e uno di Fabio Volo che sicuramente appartiene alla figlia
adolescente scesa da poco e che è in acqua insieme alle amiche.
“Gallino in Volo” ha sicuramente pensato spostandoli per prendere la
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crema solare; è stato proprio nel mentre di quel movimento di leggera
torsione del busto che ha scorto dapprima il libro del vicino, un libro
di Sinistra e a seguire l’erezione del lettore. Un leggero turbamento la
coglie, un trasalimento la porta a guardarsi intorno per precauzione e
prova un lieve imbarazzo in quell’atto di vedere e non vedere. Tanto
più che pochi minuti dopo la scoperta si accorge di come, dal costume
aderente a strisce bianche e rosse del vicino, quasi rispondendo alla
sicuramente inconscia domanda della signora, la cosa si stia facendo
strada superando il debole fuoco di sbarramento che un elastico un
po’ rilassato stenta a fare, cedendo.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia,
non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo
sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto
involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume,
insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo
aperto.
Quando le amiche della figlia della signora, ormai impegnate nel rito
del dopo-bagno, seguendo le istruzioni della figlia, si passano prima
gli asciugamani poi le creme con gesti meccanici e rodati da catena di
montaggio, ridendo e scherzando, la signora fa loro cenno di fare
silenzio; lo fa dapprima abbassando il palmo di mano in linea con il
braccio teso come quando si regola il volume di una radio, e
portandosi quasi contemporaneamente l’indice dell’altra mano tra le
labbra e la punta del naso: shhhhhhh! Nelle spiagge a conduzione
familiare è un gesto che ricorre spesso per quanto indirizzato ai
componenti della stessa tribù, tra uno slalom e l’altro in mezzo ai
passeggini parcheggiati in doppia fila, sotto lo sguardo vigile delle
mamme affrancate dal dormiveglia dei pargoli, libere per poche ore
dall’esercizio costante dell’attenzione verso le piccole macchine da
guerra. Lo spirito del tempo si offre alla vista in modo inequivocabile,
nella sua istanza demografica; le madri per lo più e i pochi padri
presenti sono cinquantenni alle prese con figli alle prime armi della
parola e del camminare. A quella prima vista si sarebbe potuto
scambiarli per i nonni ma allora i veri padri e le vere madri dov’erano
finiti? Era come se una guerra avesse spazzato via una generazione,
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quella di mezzo, uno Tsunami avesse scatenato un’onda in grado di
rendere la situazione anomala e inconcepibile fino a pochi anni prima.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia,
non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo
sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto
involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume,
insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo
aperto. Un dettaglio nello sterminato paesaggio marino, in grado di scatenare
una reazione incontrollata e maldestra, una reazione anticipata dell’eletto.
Le amiche della figlia della signora fanno capolino e scoprono
l’arcano; sul chi va là le ha messe la figlia che ha raccolto il messaggio
della madre all’inverso e mettendo il Volo davanti alla faccia, a non
farsi vedere, in quello stesso grado di separazione se la ride sotto i
baffi contaminando le amiche come quando si sbadiglia. L’azione
asseconda la prima volontà della madre a questo punto preoccupata
di due cose, uguali e contrarie. Intanto un coccodrillo gonfiabile
gigante con la testa appoggiata tra i seni di una madre di seconda fila
sbuca tra gli ombrelloni. Il sudore e l’acqua di mare in mezzo agli
occhi fanno pensare alle lacrime dell’animale. Da poco sopraggiunti
gli amici metropolitani della signora, invitati alla casa al mare, sono
informati dell’accaduto, dei fatti. Il fatto è che nel frattempo l’ospite
ingrato, leggermente arrossato, arrotondato in punta e sovrastato da
un taglio come da scalpello aveva guadagnato terreno grazie a piccole
spinte che lo fanno pulsare come un cuore. Il leggero movimento
coordinato al respiro pesante dell’uomo, fumatore, lo rende di colpo
più umano, quasi infantile; la stessa innocenza di un bruco, di un baco
da seta, sospeso nell’incerto divenire, nell’ipotesi di una metamorfosi
l’unica in grado di fargli spuntare le ali come il cielo agli uccelli; la
stessa operosità dei pesci che tentano con tutte le forze di aprirsi un
varco in mezzo alle reti, la stessa tenacia di uomini e donne a forgiarsi
un destino in un pezzo di vita.
Nessun oltraggio pare configurarsi al di là del comune senso del
pudore. La naturalezza del corpo scappato, evaso dal costume
bandiera di altre intimità non suscita alcuna reazione stizzita negli
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uni, accorsi poco dopo per passaparola e negli altri, quando ormai c’è
una piccola folla, nessun moto di scandalo o riflesso di respingimento.
Una giovane turista tedesca si è perfino proposta di rimboccarlo, di
rimetterlo sotto coperta, rassicurando i presenti con la promessa di un
tatto leggero e accorto al punto di non svegliare il signore. La
questione che si pone adesso è infatti ben illustrata dalla signora che
con padronanza di linguaggio e gestualità controllata spiega agli
astanti come nei due casi, qualora il signore si svegliasse
spontaneamente o per manipolazione della turista nulla avrebbe
potuto sottrarre la folla all’imbarazzo generale, in primis del
malcapitato. Nonostante l’estraneità di quest’ultimo all’inottemperanza del prepuzio che certamente in un battibaleno si precipiterebbe
nella risacca, accucciandosi sul lato sinistro come per lo più accade
agli uomini di buona volontà, alla vista del capannello sarebbe
minimo minimo morto di vergogna, annegato nelle pupille quasi
cento degli spettatori. Se poi la causa del risveglio fosse un’incauta
manovra della volontaria nordica dalle trecce bionde il signore si
sentirebbe oggetto e vittima di molestie pretendendo immediatamente
un risarcimento a quell’offesa magari facendo ricorso alle vie legali.
Ecco perché il bagnino corre ad avvisare il proprietario che
sopraggiunge per rimediare al guasto che aveva intaccato la magnifica
macchina di sabbia. La soluzione? Sgombrare il campo da ogni
iniziativa in grado, come una turbativa d’asta, di mettere a repentaglio
il principio di domanda e offerta, con relativi servizi e benefici di cui il
Lido, va detto, meritatamente gode. E il prepuzio? Anche lui pare
godersela un mondo per quell’inaspettata e provvida attenzione a lui
rivolta al punto che respira da sé in una totale indipendenza dal
battito del sognatore.
Dopo una breve consultazione con prefetto e questore, il proprietario
avvisa la clientela di lasciare la spiaggia con un’ora di anticipo
rispetto all’orario di chiusura. Lo fa a mezzo bagnino e non via
altoparlante per fare in modo che al risveglio il prezioso cliente non
ritrovi nessuno al capezzale del proprio lettino e ritrovare nell’intimità
la parte ribelle di sé a prescindere dal fatto che fosse dentro o fuori, la
partita, e nel secondo caso accomodandolo come meglio avrebbe
creduto, lontano da occhi indiscreti. Una saggia decisione malgrado la
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protesta degli uni, coloro che avevano pagato l’intera giornata ai
bagni e soprattutto gli altri privati del finale della storia. Ai primi il
proprietario offre un ingresso gratuito per l’indomani e ai secondi,
sempre per il giorno dopo, il racconto dettagliato che il suo bagnino
fidato, unico autorizzato a restare nella torretta di avvistamento,
avrebbe con dovizia di particolari rivelato.
Così, tutti cominciano, seppure a malavoglia, le operazioni di
evacuazione della spiaggia. Si rivestono e coprono ogni centimetro di
carne nuda indossando da prima mutandine e costumi, poi le
camiciole e i bermuda. Sono stati autorizzati a lasciare i giochi di mare
sotto gli ombrelloni con l’assicurazione del proprietario a prendersene
cura. Da nudi che erano, integralmente e naturalmente dal momento
che il lido in questione lo permetteva, tollerando chi non se la sente di
varcare la soglia della propria totale nudità lasciandosi indosso il
costume, raggiungono mesti chi la propria stanza d’albergo chi le
bianche camere con vista sul golfo dei poeti, quasi increduli di come
un semplice prepuzio li abbia di colpo riportati ad un’epoca felice e
illusoria, come i riflessi sulle onde del mare.
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia,
non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo
sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto
involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume,
insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo
aperto. Un dettaglio nello sterminato paesaggio marino, in grado di scatenare
una reazione incontrollata e maldestra, una reazione anticipata dell’eletto. In
una spiaggia di nudisti.
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I sommersi e i salvati
di
Autore Ics
[email protected]
Ridevano. Ridevano tantissimo. La risata più forte fece oscillare la
lampadina nuda appesa al filo al centro della stanza. Il vuoto non era
abbastanza vuoto per contenerle tutte.
‒ “Bleiben im einklan!”
Era freddo. Per uno strano incantesimo, però, la pioggia non riusciva a
tramutarsi in neve. Oltre la porta, la fila si allontanava nel fango per
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migliaia di chilometri e chi pian piano arrivava a varcare la soglia
pareva squagliarsi sulle assi del pavimento di abete grezzo: un
rigagnolo torbido tagliava in due lo stanzone ruscellando a ritroso dal
tavolo all’uscio. L’intestino del vecchio che era davanti a mio fratello
minore cedette e una poltiglia scura iniziò a colargli lungo le gambe.
Sembrava non finire mai, invece sparì mischiandosi all’acqua del
ruscello.
‒ “Sie stinken wie eine kloake voller scheiße!”
Altre risate si levarono dall’altra sponda del tavolo e stiparono la
baracca, picchiando più volte conto le pareti fino a imboccare le
finestre aperte. Mi concentrai sulla pelle della schiena di Yoel e pensai
a una pagina cancellata: era bianca e stropicciata da pieghe a forma di
brividi. Non so cosa mi prese: non capivo cosa stessero dicendo, ma
sentii il bisogno di gridare.
‒ “Raisisi di tina, domi, wola kuona!? He tuoni iarusi alisi o fu
termordi nami!”
Nessun altro nella fila parlò o si mosse. Sulle mie parole calò un
silenzio di brina e la mattina dopo eravamo ancora lì, nudi, impettiti,
coperti da un velo bianco di cristalli ghiacciati sulla testa e sulle spalle.
Uno dei soldati seduti oltre il tavolo scattò in piedi e si avvicinò: il suo
alito sapeva di frittelle di mele. Tonde. Quando iniziò ad urlarmi in
faccia il suo disprezzo, un frammento di mela schizzò dalla sua bocca
al labbro superiore della mia. Finita la sfuriata, continuò a fissarmi
attendendo risposta. Cercai una parola in cui rannicchiarmi con quel
poco che restava dei miei pensieri, ma nessuna tana era abbastanza
grande. Allora cercai con la lingua il frammento di mela sparato sulle
mia labbra e lo trovai. Il soldato smise di puntarmi la pistola alla
tempia, riprese a ridere e fece un lungo discorso che comunque le mie
orecchie non udirono perché ero diventato tutt’uno col sapore della
frittella.
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‒ “Schnell! Früher oder später der horror enden, wir haben nicht alle
zeit der welt!” ‒ gridò uno dei soldati rimasti sull’altra sponda del
tavolo e la fila riprese a strisciare lentamente.
La lancetta era fissata ad un cannello di legno e il tutto assomigliava
ad una penna per inchiostro. Sull’avambraccio del vecchio tracciarono
il numero 174511, su quello di mio fratello 174512. Nessuno dei due
disse niente, ma quando si voltò per tornare a mescolarsi al fango
oltre la porta Yoel svenne. Si afflosciò sulla poltiglia del pavimento
senza fare il minimo rumore, senza sollevare un’onda, senza riuscire a
scomparire. Era la cosa più senza che avessi mai visto. Con una forza
che non credevo di avere, divincolai il braccio sul quale i soldati già
stavano iniziando a tracciare il mio numero e mi chinai per
soccorrerlo. Un colpo al torace assestato col calcio del mitra mi
ricacciò indietro. Yoel non si riprese: lo sollevarono di peso e lo
portarono via. Era talmente molle che sembrava colare tra le dita dei
militari. Non lo rividi più.
Squillò una musichetta allegra e un ufficiale rispose al cellulare. La
voce dell’uomo si fece subito flautata: non capivo la sua lingua, ma
ogni asprezza di pronuncia sfumò all’istante in soffici gorgoglii
amorosi. Conclusi che probabilmente era la moglie o la fidanzata.
Restai in piedi davanti al tavolo per alcune ore, mentre la telefonata
andava avanti. A un certo punto l’uomo allontanò l’iPhone
dall’orecchio, inserì l’altoparlante e appuntò sul touch-screen un
elenco dettato da una voce femminile. Gli altri militari ripresero a
sorridere, anche se molto sommessamente, dandosi di gomito l’un
l’altro. Forse si trattava di una lista della spesa, o forse no, comunque
l’ufficiale era particolarmente allegro alla fine.
Tornò verso il tavolo e impugnò in prima persona la lancetta col
cannello. La maschera del suo volto s’irrigidì davanti ai miei occhi:
continuava a sorridere, ma dietro al calco delle linee d’espressione
c’era soltanto un buco nella pagina.
‒ “Sie glauben immer noch, etwas zu sein? Du bist nicht einmal eine
bestimmte anzahl!”
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E invece di tracciare 174513, mi tatuò sull’avambraccio in bella
calligrafia la parola “nummer”.
Grasse risate presero di nuovo a rotolare da un capo all’altro della
baracca.
Parecchi anni dopo, scoprii che in fila, quattro posti dopo di me, un
altro deportato era sopravvissuto. All’inizio pensai che sarebbe stato
importante incontrarlo e chiedergli se aveva dimenticato questo
episodio o se aveva scelto intenzionalmente di non raccontarlo nei
suoi libri. Poi lessi quello dov’è scritto: “Il mio tatuaggio è diventato
parte del mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo
esibisco e non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa
richiesta per pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara
incredulo. Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio
cancellare, e questo mi stupisce: perché dovrei?”
Conclusi che era stata una scelta voluta e che aveva fatto bene.
Da quel momento decisi che la mia vita era finita. In realtà ero già
morto molti anni prima, insieme a Yoel, ma avevo bisogno di una
conferma, di un pensiero che mi tastasse il polso senza trovarlo, di
specchiarmi in una pagina, tenendola davanti alla bocca, e non trovare
nessun alito ad appannarla. Invece i mesi passavano e io continuavo
semplicemente a non esistere. Poi un mattino mi svegliai prima
dell’alba e nell’aria c’era qualcosa di mal definito, come l’eco di una
risata così lontana da far oscillare la memoria nuda appesa al filo dei
miei pensieri. Pensai anche a un lieve terremoto, ma la televisione
continuò a mandare la solita pubblicità. Per sicurezza, controllai anche
su alcuni siti di informazione in rete, ma trovai solo un fuoco
d’artificio di finestre pop-up abitate da animazioni allettanti. Seguii il
consiglio e tornai a letto. Eppure quella mattina la mia pelle parlava
più forte, urlava, si staccava a brani lunghi quanto passi dell’oca, era
piena di parole indelebili, inevitabili, numerosissime.
Perché non ero morto al posto di Yoel? Perché ero morto insieme a
Yoel?
Mi alzai, mi vestii in fretta, saltai in macchina e puntai dritto verso il
tattoo center dietro il cinema multisala di via Contrari. Sembravo un
burattino agito da processi mentali ancora troppo istintivi per sentirli
miei.
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Feci cancellare la parola “nummer” e al posto di essa dissi al tatuatore
di scrivere “174512”. Lo chiesi sottovoce, come se scrivere potesse
ancora essere una sorta di sabotaggio del mondo, un gesto di
disobbedienza capace di vedere oltre la pagina una realtà di carne e
non di carta e inchiostro.
Uscito dal locale, vidi passare un bambino in bicicletta. Era così
leggero che le piccole ruote della bici quasi si sollevavano da terra al
minimo sobbalzo.
Pensai a Yoel con una dolcezza di cui non ero più molto capace.
E alla possibilità che stessi già lentamente vivendo, e proprio non
volevo farlo senza di lui.
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Alla ricerca di Dio
di
Franco Libus (Uomo Pallido)
https://mimettoingioco.wordpress.com
La chiesa del quartiere, la domenica mattina all’ora della messa,
sembrava sempre un po’ fredda, anche d’estate.
La gente convenuta per la funzione festiva, per tanta che fosse, non
riusciva mai a dar l’idea di poterla riempire al punto da farla
61
diventare un’assemblea pulsante e assorta di anime, tutte strette
attorno alla loro struggente preghiera.
Forse era colpa dell’ampio vano centrale che separava le due file di
panche o forse dell’immenso soffitto, delle pareti troppo alte, grigie e
disadorne; fatto sta che le celebrazioni non assumevano mai un calore
mistico, le candele non producevano alcun effetto sui volti e sugli
occhi dei fedeli e l’atmosfera che si creava tra l’officiante e la gente
perdeva la “magia” che la presenza di Dio avrebbe dovuto prevedere.
Su tutto e tutti, aggrappato in alto alle spalle dell’altare maggiore,
troneggiava un enorme crocifisso in legno chiaro, con un Cristo
morente a incombere sull’intera assemblea, che ormai abituata a
quella visione straziante di sofferenza e di morte, non si curava quasi
più di alzare gli occhi per soffermarsi ad osservarlo.
La maggior parte dei presenti, mantenendo gli occhi bassi sulla
palladiana ghiaccia del pavimento, si sforzava di ascoltare l’omelia,
ma le parole del sacerdote, distorte da un’inevitabile eco, giungevano
alle loro orecchie ormai prive di forza.
Le madri, poi, erano occupate a rincorrere i bambini urlanti, già stufi
dopo cinque minuti, e la scarsa attenzione dei fedeli era in pratica
riservata all’esangue coro, con tanto di accompagnamento di chitarra,
e alle evoluzioni canore a mo’ di litania del suo direttore, che si era
accaparrato un microfono tutto per sé e seppelliva, con la sua, le altre
povere voci di contorno.
***
Piero, sistemato a metà della chiesa, in una panca alla destra
dell’altare, avvertiva dentro sé una sorta di disagio che gli suggeriva
con forza di mantenere gli occhi fissi verso l’alto, rivolti in direzione
dell’immenso crocifisso come a raccomandarsi direttamente a Lui, al
Cristo spirante, visto che gli intermediari fra sé e il Cielo gli avevano
fatto perdere molta della fede e pure la speranza.
Piero era tutt’altro che un assiduo frequentatore della chiesa, ma quel
giorno, essendo sua figlia prossima a ricevere la prima comunione, si
era deciso a tentare di nuovo, per rimettersi alla prova.
E allora fissava il Cristo sulla croce, con gli occhi sgranati, quasi
convinto che l’intensità di quello sguardo potesse muovere a
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compassione il Salvatore, così da concedergli, infine, un segno
tangibile della sua esistenza.
Dall’altra parte della chiesa, nella seconda panca di sinistra, Matteo
pregava senza soluzione di continuità.
Era un uomo pio che, per amore del Signore, aveva rinunciato al
matrimonio e conduceva un’esistenza solitaria.
Dentro di sé Matteo coltivava un dialogo costante ed estenuante con
Dio, cui rivolgeva tante domande e mille preghiere sperando di trarne
prima o dopo una risposta che lo illuminasse. Frequentava la
parrocchia, anche se non con la stessa costanza di qualche anno prima,
quando insegnava catechismo ai bambini nel poco tempo libero,
dacché si era intestardito nel rapporto, diciamo personale, tète a tète,
fra sé e l’Altissimo.
Tra un’orazione, un segno della croce e un giungere le mani intorno al
naso, in atto di contrizione, anche Matteo innalzava, implorante, lo
sguardo verso il crocifisso, per poi rivolgerlo di nuovo verso il basso e
così via, in una specie di ciclo di suppliche e penitenze che sembrava
logorarlo.
A un certo punto della funzione, dopo il Credo, durante i riti che
precedono la santa comunione, gli occhi di Piero e quelli di Matteo,
egualmente desiderosi di un cenno di amore, di illuminazione divina,
notarono qualcosa che li fece trasalire, scuotendoli di meraviglia: il
dito indice della mano destra del Cristo in croce, infissa senza pietà
nel legno, si mosse: una sorta di lieve flessione, quasi impercettibile,
come se il Cristo volesse indicare qualcosa d’importante.
La prima reazione di Piero e di Matteo fu quella di guardarsi intorno
per osservare la reazione degli altri fedeli ma nessuno, tranne loro,
pareva essersi accorto di alcunché.
Quando i due, a una ventina di metri di distanza l’uno dall’altro,
incrociarono gli sguardi ansiosi e spiritati, furono certi di non aver
avuto le traveggole: bastò un attimo e entrambi si persuasero che pure
gli occhi dell’altro erano stati testimoni dell’evento soprannaturale.
63
La celebrazione fece il suo normale corso fino alla benedizione finale,
dopo la quale il sacerdote liberò l’anima dei fedeli col tradizionale
“andate-in-pace”.
I volti che sciamavano dal portone principale della chiesa erano più
sereni, inclini al sorriso, grati di poter respirare l’aria azzurrina del
mattino a pieni polmoni, quasi fosse diventata più fresca, più pura
dopo l’ora della funzione.
Solo le espressioni di Piero e di Matteo rimasero contratte, scosse dalla
tensione per via del dito mobile del Cristo in croce.
All’uscita i due si ritrovarono a breve distanza, separati appena da un
paio di persone, ma lo sguardo che si scambiarono fu diretto e
tutt’altro che complice: si guardarono in cagnesco, senza proferire
parola, indispettiti che fosse stata ad ambedue negata l’esclusiva di
quel manifestarsi divino.
Appena fuori dal portone Piero si diresse giù per la discesa a destra
della chiesa mentre Matteo salì a sinistra verso casa sua – ognuno dei
due volgendo più volte indietro la testa in direzione dell’altro per
osservarne il comportamento.
Il giorno dopo, lunedì, Piero mise la sveglia mezz’ora prima del
previsto ‒ “devo entrare un po’ in anticipo al lavoro stamattina” ‒ si
giustificò con la moglie, senza accennare niente dell’accaduto. Uscì di
casa prima delle 8, imboccò la strada in salita che portava alla chiesa
ed entrò.
La casa del Signore sembrava ancora più fredda e sconfinata per
quanto era deserta.
Piero si fece avanti verso l’altare e in prima fila notò una figura di
uomo in ginocchio nell’atto di preghiera. Prima ancora di averlo visto
in volto, capì di chi si trattasse.
Matteo, sentendo il cigolio del portone, si volse e riconobbe Piero.
I due restarono distanti, immersi nelle loro rispettive suppliche.
Si alzarono dopo un quarto d’ora di raccoglimento, in ginocchio,
durante il quale il crocifisso restò immoto di fronte ai loro sguardi.
All’uscita Matteo non seppe resistere e, con un tono tutt’altro che
cordiale, affrontò Piero in un atto di sfida.
‒ “Ma tu chi sei? Da dove vieni? Non ti ho mai visto qui in parrocchia.
Cosa sei venuto a fare a quest’ora qui, in chiesa?”
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Piero non si lasciò intimorire.
‒ “Che cosa vuoi da me? Che t’importa di sapere chi sono, da dove
vengo? Sono venuto a pregare, come te. Che, devo chiederti il
permesso?”
‒ “Eh” ‒ fece Matteo ‒ ”io lo so perché sei qui e non credo di
sbagliarmi. Tu sei qui perché lo hai visto anche tu!”
‒ “Che cosa avrei visto?”
‒ “Quello che ho visto io!”
‒ “E cioè?”
‒ “Su, dai, non fare il furbo. Anche tu l’hai visto! Quel dito del Signore
era per me!”
“E allora? Sì, l’ho visto anch’io, domenica alla Messa, quel dito. Come
se Lui chiamasse me.”
‒ “Chiamasse te?” ‒ rise Matteo, nervosamente ‒ “Era me che
chiamava, ero io! Io gli sono stato devoto tutti questi anni. Io l’ho
servito, pregato, osannato e ora Lui mi ricompensa. E tu invece cosa
saresti? Che cosa avresti fatto per Lui? … sono certo che neppure gli
credi. Non era a te che si voleva rivolgere, no di certo. Non a te…”.
‒ “Sarà come dici, però l’ho visto anch’io” ‒ replicò Piero con fare
strafottente ‒ “Lo sai anche tu, le strade del Signore sono infinite e
può essere che Lui abbia scelto quella che porta a me!”
Gli occhi di Matteo si riempirono di sangue. Si avvicinò minaccioso a
Piero sibilandogli.
‒ “Sono sicuro che la prossima volta soltanto a me, solo a me, Egli
riserverà questo grande privilegio!”
‒ “Vedremo, vedremo…” ‒ ridacchiò Piero, allontanandosi verso la
macchina che lo avrebbe condotto al lavoro.
Per tutti i giorni della settimana i due si ritrovarono, di mattina presto
nelle panche della chiesa, a pregare Dio e ad attendere un suo segno
che però non arrivava mai, lasciandoli dubbiosi e irritati.
E dopo la preghiera il loro animo era sempre più colmo di una rabbia
sorda che giorno dopo giorno virava verso un sentimento di odio nei
confronti del rivale: colui col quale ognuno dei due avrebbe dovuto
dividere un gesto sacro di cui rivendicava l’esclusivo possesso.
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***
Venne anche la domenica. Per la santa Messa, Piero e Matteo, in netto
anticipo rispetto all’orario previsto, si ritrovarono in chiesa, nelle
stesse posizioni della settimana precedente: Piero con gli occhi fissi
verso il crocifisso e Matteo con il suo ciclo nevrotico e automatico di
preghiera e sguardi rivolti verso l’alto.
Durante la funzione, con incredibile puntualità, l’indice della destra
del Cristo in croce, seppur minimamente, tornò a muoversi seguito a
ruota, questa volta, dal dito medio che parve assecondare il moto
dell’indice con una minuscola flessione. L’effetto visivo ottenuto fu
simile a una sorta di abbozzo di saluto.
Naturalmente, il movimento non sfuggì agli sguardi dei due
contendenti che, un attimo dopo l’evento, si incrociarono di nuovo.
Anche stavolta tutti e due avevano visto e nessun altro nella chiesa
pareva aver ricevuto la stessa percezione.
Piero aspettò Matteo all’uscita della funzione:
‒ “Ti sei convinto ora? Vuole anche me, o, chissà, forse soltanto me,
cosa credevi?” ‒ e si avviò a piedi ridendo di soddisfazione verso casa.
Matteo cieco di rabbia lo inseguì gridando.
‒ “No, non può essere che il Signore si mostri a uno come te. Soltanto
io, soltanto io…”
Piero, con un sorrisetto quasi carognesco a storcergli la bocca da un
lato, senza voltarsi imboccò la scorciatoia sgombra di persone che,
correndo sull’argine del fiume, conduceva a casa sua in un
battibaleno. Immerso nel flusso vorticoso dei suoi pensieri, ridusse
l’andatura quasi a specchiarsi nei mulinelli grigi del corso d’acqua,
gonfio per la pioggia dei giorni precedenti.
Fu a questo punto che Matteo sempre più fuori di sé, lo raggiunse
ansimante, urlando come un invasato
‒ “È me che vuole, è me, non te che sei un miscredente, un ateo!”
‒ “Ah ah ah, ti piacerebbe eh? Invece le cose non stanno così.
Tornatene a casa tua, vai…. Ma vai, vai, che sei ridicolo…”
Fu a questo punto che, Matteo perse il controllo e alzò le mani su
Piero.
Due colpi, una schivata, qualche spinta finché Piero, nell’atto di
difendersi, non urtò con un piede contro un sasso, perdendo
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l’equilibrio. Sbalzato all’indietro verso il fiume, slittò sull’erba
dell’argine, scivolosa di rugiada, e con un tonfo finì nell’acqua torbida
del fiume. Non sapendo nuotare, in men che non si dica sparì
sott’acqua trascinato dalla corrente.
Nessuno fu testimone dell’accaduto. Forse nemmeno Dio.
Passato l’attimo di smarrimento per l’improvviso svolgersi degli
eventi, guardandosi intorno e non vedendo nessuno, Matteo si
dileguò rapidamente.
‒ “Sarà stato anche questo un segno del Signore? … Ma certo… certo!
E’ stato un incidente… ed era quello che Dio desiderava. Non sono
stato io! È stata la volontà di Dio se tutto questo è potuto accadere!”
Così, farfugliando fra sé queste parole, si rasserenò in fretta, mentre
tornava sui suoi passi.
Il riposo di una notte gli fu sufficiente a convincersi che questa era
l’unica, plausibile spiegazione dei fatti: una questione di Volere
Divino.
La notizia della scomparsa di Piero, prontamente pubblicata dal
giornale locale, e quella del ritrovamento del cadavere, avvenuto due
giorni più tardi, non smossero Matteo da questa convinzione, né gli
fecero ripensare a quanto accaduto con un qualche senso di colpa.
Neppure l’esito di eventuali indagini lo fece preoccupare, giacché
nessuno avrebbe potuto pensare con sicurezza a un omicidio e
sarebbe stato, oltretutto, impossibile per gli inquirenti risalire al suo
nome, dato che lui e Piero avevano una conoscenza molto superficiale,
che nessuno li aveva visti venire alla mani, e che mai, prima del
fattaccio, avevano avuto realmente a che fare l’uno con l’altro.
Dunque, forte della sua incrollabile fede e della nuova certezza
acquisita, fin dal lunedì, tutti i giorni, al mattino, Matteo si ritrovò da
solo, finalmente da solo, nella chiesa deserta a pregare e ringraziare il
Signore, confidando in un gesto di amore e di assenso.
Tuttavia, era assai verosimile che avrebbe dovuto attendere ancora
per qualche giorno: la prova del disegno divino l’avrebbe
probabilmente avuta soltanto alla domenica, durante la Santa Messa,
quando Dio, nelle altre occasioni, si era manifestato.
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Infatti, la domenica, puntuali dopo il Credo, ecco che di nuovo le due
dita del Cristo si mossero, appena appena.
Il volto di Matteo si rigò di lacrime per la commozione: quel gesto era
per lui, soltanto per lui ‒ lui il prescelto, l’eletto del Signore, alla pari
di Bernadette!
Così, col cuore gonfio d'amore, fece ritorno a casa per il pranzo,
consumato, come di consueto, in assoluta solitudine.
***
Fin dall’inizio della settimana seguente, prima del lavoro, al mattino,
Matteo riprese il suo dialogo serrato e solitario con il Cristo in croce,
finché di mercoledì, al suo ingresso nella chiesa ebbe a constatare, con
sommo stupore, la presenza di una complessa impalcatura che si
levava, posteriormente all’altare, sulla parete frontale, proprio lassù
dove era sistemato il grande crocefisso.
Restò un attimo interdetto, poi vedendo il sagrestano Luigi intento ai
suoi uffici di ogni giorno, gli si avvicinò chiedendo.
‒ “Ma tutto questo, proprio qui, addosso al crocifisso, a c-cosa serve?
Cosa sarebbe?”
Luigi, ch’era piccolino e non più giovanissimo, con una vocina da
vecchietto tipo film western, incominciò a spiegare.
‒ “Eh, il crocifisso è davvero malandato.”
‒ “In che senso?” ‒ domandò un Matteo inebetito, a bocca semiaperta
‒ “Il legno non regge più ormai e inizia a staccarsi dal supporto della
croce. Abbiamo già provato noi della parrocchia a sistemare il guaio in
qualche modo ma non è bastato”
‒ “Come avete potuto! Non capite che…”
‒ “Ohi, è almeno un mese che col caldo e l’umidità, durante la
funzione della domenica, il braccio e la spalla destra del Cristo
tendono a cedere. La mano rischiava di spaccarsi, le dita non erano
stabili.”
‒ “Non… n-non...”
Matteo sentì gli occhi inumidirsi e il suo farfugliare si spense imitando
l’esaurirsi fumoso d’un lumino. Luigi, costernato per il visibile
affanno del fedele, tentò di rassicurarlo fornendo ulteriori spiegazioni.
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‒ “Siamo stati costretti a chiamare degli esperti per un restauro… oh,
mica che sia un’opera d’arte, però il crocifisso è da tanti anni che è
lassù, è nato con questa chiesa e in questa chiesa deve restare per
sempre; è il nostro simbolo, insostituibile. Stai tranquillo, i restauratori
hanno garantito che nel giro di un mesetto tutto dovrebbe essere a
pos… Ehi!, ma dove stai andando Matteo, dove corri?” ‒ s’interruppe
il sagrestano alzando la voce in direzione di Matteo che, avendo già
ascoltato quanto bastava, livido in volto e con gli occhi sbarrati, era
già lontano oltre il portone della chiesa, giù per la discesa con l’urlo
soffocato in gola.
Matteo l’irrazionale, il pazzo ossessionato da sconsiderate visioni.
Matteo l’assassino: voci su voci, impietose e gracchianti, s’accavallarono nella mente dell’uomo. Matteo continuò a correre a rotta di
collo come Giuda dopo il tradimento e la morte di Gesù, giù giù per la
discesa e poi in salita, senza che ormai niente o nessuno lo potessero
salvare.
Come inevitabile scherzo di Dio o del destino, quasi senza
accorgersene, Matteo si ritrovò sulle rive del torrente che aveva
inghiottito Piero pochi giorni addietro.
Si fermò lì, vicino al sasso in cui il rivale era inciampato, sospinto dai
suoi colpi. Lo fissò per un tempo indefinito, finché il sasso non iniziò a
chiamare sommessamente il suo nome. Matteo all’inizio rimase
dubbioso, ma in breve comprese e salì sul sasso, restando in precario
equilibrio. Com’era diversa la realtà scrutata da quella nuova
prospettiva! Il fiume, ancora in piena, disegnava una serie infinita di
risacche e mulinelli, il cui ruotare ipnotico rendeva il letto del fiume
stranamente accogliente, addirittura più rassicurante del letto caldo e
soffice della cameretta del suo bilocale.
Nella sua testa, la parola sasso si confuse con altri sussurri, mutando
pian piano in passo. Non restava che assecondarla e fare un passo, un
solo passo. Avanti…
Il piede destro aveva già lasciato il suo punto d’appoggio, quando
Matteo si fermò all’improvviso, scorgendo una figura che sembrava
uscita dal nulla a pochi metri di distanza, sulla sponda del torrente.
Era una nutria, col pelo scuro e bagnato, stranamente luccicante
controsole.
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L’animale s’immobilizzò alzandosi sulle zampe posteriori per meglio
studiare l’intruso: lo sguardo perplesso andò più volte dalle zampe al
volto dell’uomo senza riuscire a rammendare il senso delle cose. Agli
occhi di Matteo, l’espressione della nutria parve colma di rimprovero.
D’un tratto, sentì gridare.
‒ “Non farlo! Faresti un torto a te stesso e alla Vita che il Signore ti ha
donato.”
Matteo si girò di scatto, ma non vide nessuno. Allora si rivolse alla
nutria e replicò stizzito.
‒ “Che vuoi saperne tu della Vita… o di Dio, sei solo un povero
animale. Che vuoi saperne tu di me e di tutto il resto?”
Ormai la voce di Matteo era un grido strozzato.
“Io…” ‒ continuò ‒ “io non sono altro che un dannato! Ho continuato
a sbagliare nella speranza di trovare Dio, ma Lui…. Lui si è scordato
di me… O forse non esiste…. Vattene via, lasciami andare al mio
destino!”
‒ “Dio si ricorda di tutti i suoi figli fino all’ultimo istante, Matteo” ‒
rispose la nutria con voce ferma, penetrante.
Ma era già tardi. Soltanto di un attimo.
Matteo, si era lasciato scivolare nel fiume e nel momento in cui i suoi
piedi si staccarono dal piedistallo di roccia che lo legava ancora alla
terraferma, ebbe una specie di sussulto nell’ascoltare quella frase,
l’istinto di voler tornare indietro nel tempo, giusto di pochi secondi.
Per capire.
Prima che la piena del fiume riuscisse a trascinarlo via, vide un
arbusto proteso dalla riva nella sua direzione e gli si aggrappò
disperatamente, con tutte le forze.
Fece un lungo respiro e chiamando a raccolta il fiato che ancora aveva
in gola urlò in direzione della nutria, che nel frattempo si era tuffata in
acqua e lo seguiva a pochi metri di distanza.
‒ “Ehi, ma come fai a sapere il mio nome… chi te l’ha detto?”
La nutria non rispose e continuò a fissarlo negli occhi con il suo
sguardo intenso. Matteo ricambiò lo sguardo, scovando dei lineamenti
dell’animale un volto umano. Non era sicuro di averlo già incontrato
prima, ma gli parve di conoscerlo da sempre. Notò il suo viso smunto,
l’espressione calma, la barba e i capelli lunghi che gli conferivano un
70
aspetto mistico e familiare. Poi gli sembrò di scorgere una luce… una
luce divina negli occhi.
‒ “Salvami, salvami Dio, ti prego!!” ‒ gridò disperatamente
all’animale che si era fatto più vicino, ma non ancora a portata di
mano ‒ “non mi abbandonare proprio ora che ti ho trovato!”
Una boccata d’acqua gli gorgogliò in gola, eppure Matteo riprese ad
urlare.
‒ “Salvami!! Salvami Dio!!” ‒ frignò di nuovo, annaspando, nel
tentativo di rimediare anche all’ultimo dei suoi tanti errori.
E mentre lottava contro la corrente nel tentativo di restare attaccato
con la forza della disperazione all’ultimo appiglio della sua vita, un
turbinio di pensieri e di domande continuava a trascinargli via la
mente: davvero il Signore, tanto cercato per tutta la vita, in extremis,
si era ricordato di lui e gli si manifestava sotto quelle umili spoglie? E
se per caso fosse stato davvero Dio, avrebbe risposto alle sue
invocazioni d’aiuto, salvandolo? Cos’era meglio? Che Dio gli salvasse
il corpo, restituendogli con un miracolo la vita terrena, o l’anima,
perdonandolo di tutti i suoi errori e spalancandogli le porte del
Paradiso? Forse l’avrebbe dannato per sempre per i suoi atroci
peccati? Oppure si trattava dell’ennesimo abbaglio? Un’altra volta
l’illusione di avere incontrato Dio?
In fondo al fiume, dunque, lo avrebbe atteso qualcuno, qualcosa, o
solo il nulla ‒ niente e nessuno a premiarlo o a condannarlo?
L’impetuosa onda di pensieri si interruppe bruscamente quando
un’altra onda, quella altrettanto violenta del fiume in piena, con uno
strappo tirò a sé il corpo di Matteo, strattonandolo lontano dalla riva.
L’esile ramo che lo tratteneva non ce la fece più a reggere, la radice si
svelse dalla terra e Matteo si ritrovò di colpo senza appiglio.
La corrente lo portò via e lo spinse sott’acqua facendolo riapparire in
superficie per un breve attimo che gli fu appena sufficiente per
un’ultima supplica in direzione dell’apparizione, ormai troppo
lontana.
‒ “Abbi pietà di me, perdon…” ‒ ma non riuscì a terminare la frase
che una pietra incocciata con la testa gli chiuse gli occhi per sempre.
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Ormai abbandonato a se stesso, il corpo di Matteo fuggì via insieme a
un branco di nutrie che lo scortarono, col loro allegro luccichio,
durante il tragitto che conduceva a valle, verso un’acqua più calda,
più tranquilla, più pulita.
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Un silenzio sociale
di
Andrea Inglese
http://www.nazioneindiana.com/author/andrea-inglese/
Come tutti i disoccupati, gli spossati affettivi, e gli accidiosi per
natura, ero tremendamente indaffarato, dovendo costantemente
assicurarmi che non stavo facendo le cose più importanti, più tipiche,
più auspicabili di un maschio adulto quarantenne: lavorare,
guadagnare soldi, tessere proficue relazioni, contribuire alla
manutenzione della casa e all’aggiornamento degli elettrodomestici,
coricarmi con una donna, per espletare regolarmente le gioie della
sessualità adulta. Per essere ben certo, che non stavo svolgendo tutte
73
queste naturali mansioni, me ne dovevo assumere mille altre,
certamente risibili e grottesche, ma sufficienti a garantire il mio nonimpiego e la mia autarchia affettiva. Mi ero tra l’altro rimesso a
fotografare gli asfalti, e questo mi portava via una gran quantità di
tempo. Comunque ero riuscito a infilare nella mia fitta agenda un
appuntamento importante, e ci ero andato con grinta, senza per altro
avere chiara nozione di quali fossero lo scopo della mia visita e il
ruolo del mio interlocutore, o semplicemente me n’ero dimenticato
cammin facendo.
Non credevo di essere in una situazione difficile, ma delicata sì. Anche
perché era sicuramente una situazione sociale, quella in cui ero finito,
ed è tipico delle situazioni sociali la facilità dell’entrarci, e la
complessità dell’uscirci. Non avvertivo margini di rischio, in questa
situazione. Come avrebbe detto Peter Parker, i miei sensi di ragno non
pizzicavano. Però mi trovavo nel bel mezzo di un silenzio, e di un
silenzio sociale. Ricordavo bene che, prima di entrare in quella stanza,
ero stato accompagnato per un buon tratto di strada, e fin dentro
l’edificio, da un odore prepotente e pervasivo di minestra di verdura,
come se l’intero quartiere, incluso l’edificio dentro il quale mi trovavo,
si fosse dedicato a un’olimpiade di minestrone. (Persino il gruppo di
asfaltatori che avevo dovuto aggirare, disseminati tra marciapiede e
carreggiata, sembravano emanare odore di verza e di fagioli. Mi ero
guardato pure sotto le scarpe, nel caso avessi messo i piedi in una
pozza di minestra.) Ora, l’odore di minestra, che è un odore anche di
vecchiume, di ancestrale cucina di campagna, si era un po’ attenuato,
di modo che io potessi concentrarmi sul silenzio sociale in cui mi
trovavo. Un silenzio è sociale quando sono almeno in due a
dividerselo, ed era questo il caso, dal momento che di fronte a me
c’era un tizio seduto in una poltroncina che mi guardava con fare
svagato. Dal suo modo di tenere le braccia, per nulla impazienti, con
le mani posate a casaccio sulle gambe, si capiva che non aveva
nessuna intenzione di parlare, anche perché in un silenzio sociale
tocca sempre a qualcuno di parlare, in quanto la vociferazione
simultanea e collettiva è controproducente. Immaginavo si fosse
concluso il giro, e toccasse di nuovo a me: le conversazioni hanno
74
questo di bestiale, che possono durare molto a lungo, e nessuno sa con
precisione quando è giusto interromperle o saggio concluderle.
La delicatezza della situazione sociale, aggravata dal silenzio sociale,
nasce dal fatto che bisogna capire bene che cosa l’umanità circostante
pretenda da noi. Quando non c’è dramma, e non si tratta di scegliere
tra l’elargizione di denaro o della propria pelle, tutto si risolve nel
formulare la giusta battuta, la frase precisa, che permette all’altro di
rincarare la dose o di togliersi soddisfatto dalla vista. La mia
impressione era che il tizio seduto di fronte a me avesse un’evidente
voglia di rincarare la dose: lo spazio circostante gli apparteneva,
questo era chiaro, e dal momento che mi aveva fatto penetrare lì
dentro, in una sua stanza, non era semplicemente per assicurarsi che
anch’io, come tutti i passanti del quartiere, avessi percepito
distintamente un odore di minestrone ovunque.
Forse quello che avevo davanti era un prete salesiano, che cercava di
convertirmi, con la scaltrezza e l’entusiasmo dei salesiani,
adoperandosi in piccole e grandi domande sulla mia biografia
spicciola e sul mio solenne destino morale, ed era da queste risposte,
dall’inevitabile disarcionamento psicologico che l’esigenza di
rispondere provocava, che il salesiano traeva la sua forza, per
ricacciarmi indietro nel tempo, come fossi ancora in età scolare, un
pargolo da raccogliere dalla strada, secondo i santi dettami di
Giovanni Bosco.
Avrebbe potuto, altrimenti, trattarsi di un colloquio di lavoro, ormai
sul finire, e l’ultima domanda ipocrita a cui avrei dovuto rispondere
riguardava le mie attese salariali: quanto mi sarebbe piaciuto
guadagnare per quella mansione, o quanto mi aspettavo fossero
disposti a farmi guadagnare, considerando la gravità della crisi , e la
perdurante sofferenza delle imprese private, che guidano malgrado
tutto il paese verso una ripidissima ripresa? Si capisce bene, quanto
fosse delicato uscire da una situazione sociale del genere. Potevo
trovarmi, però, in tutt’altra situazione ancora: il tizio paziente e
svagato che avevo di fronte era un impiegato di Pole emploi, il centro
francese per l’impiego, e attendeva semplicemente che snocciolassi pii
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desideri su proposte di lavoro che, data la mia formazione scolastica e
professionale, sarei stato disposto ad accettare. Anche qui si trattava
di una domanda ipocrita: io e lui sapevamo bene che Pole emploi non
mi avrebbe proposto nessun tipo di lavoro, e che il vero ruolo di Pole
emploi era semplicemente di ostacolare burocraticamente, cavillosamente, l’osceno diritto di un disoccupato temporaneo a ricevere un
sussidio di disoccupazione.
Un dettaglio della delicata situazione, tuttavia, mi faceva pensare che,
se la scrivania, invece di separare opportunamente lo spazio tra me e
lui, era posta alle sue spalle, in modo tale da lasciare tra noi un
semplice tratto di tappeto, e un tavolino basso colmo di riviste, ciò
significava che il nostro incontro non era dedicato alla mia vita
professionale, né futura né passata. Mi aveva semplicemente chiesto
se avevo problemi alla prostata, o se avessi mai pensato di cominciare
a fare un po’ di sport e a razionare i piatti di patate fritte e bistecche al
sangue. Persino in questo caso la domanda non era del tutto scevra di
ipocrisia. Lui, se davvero era un medico, e lo era in fedeltà al
giuramento ippocratico, avrebbe dovuto esortarmi non a una più
ponderata autodistruzione alimentare, ma impormi diete, esami,
mutamento di abitudini, e indirizzarmi con mano salda verso la
salvezza, e non verso l’intervento chirurgico alle coronarie.
Se fosse stato un maestro di Tai Chi, prima di accettarmi nel suo
esclusivo gruppo di praticanti, avrebbe voluto che facessi tesoro del
silenzio sociale che si era venuto a creare. In quel caso, sarebbero state
bandite le ipocrite domande, e tutto sarebbe stato affidato liberamente
al mio sentimento. È dalla mia coscienza, che avrei dovuto trarre una
risposta convincente: volevo iscrivermi solo al corso settimanale, o
aggiungere duecento euro, per partecipare ai seminari mensili che si
tenevano la domenica in una magione forestale dell’Ile de France?
Questi seminari, infatti, pur non essendo obbligatori a detta del
maestro, stando però al senso implicito delle sue parole, erano
necessari per uscire da un’attitudine amatoriale, e in definitiva
completamente vana, nei confronti dell’arte marziale in questione, che
è anche un percorso spirituale, un tirocinio di equilibrio psichico, un
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bagno anti-stress settimanale, per chi vive dentro le malefatte della
civiltà consumistica e tecnologica.
L’ipotesi più grigia rimaneva quella del terapeuta. Dottore per
questioni di mente, non per organi fuori posto. Chi mi stava davanti,
forse, non parlava e non avrebbe parlato per principio preso, non
attendeva nessun turno, non voleva che si concludesse il giro, era
perfettamente paziente, perfettamente svagato, e voleva che io traessi
tutto quanto il materiale degno di quella situazione sociale da me
stesso, da quel dentro di me, che sembrerebbe risorsa così ricca e
inesauribile, se non risuonasse così spesso come un recipiente vuoto.
“Sto fotografando soprattutto asfalti” ‒ dissi ‒ “Mi capita anche di
fotografare un cane che vomita, come poco fa, oppure una lumaca
subacquea. Dentro una fontana di un parchetto vicino a casa mia, ho
visto, sul fondo di una fontana, una lumaca. Quelle col guscio, non so
se si chiamino lumache, comunque strisciava, insomma non era
morta. Sono rimasto un po’ ad osservarla, e mi è parso che si
muovesse lentamente come al suo solito, ma comunque non credevo
che le lumache potessero vivere sott’acqua, o forse hanno una certa
autonomia d’ossigeno, e avanzano in apnea. Altrimenti, fotografo
resti e tracce. Non le cacche di cane, mi rendo conto che per coerenza
dovrei fotografare anche tutte le cacche di cane e tutte le cicche di
sigarette e gli sputi. Ma preferisco di gran lunga le carte, distese,
stracciate o appallottolate, ogni tipo di buccia, gli involucri strappati, i
frammenti di giocattoli, o i giocattoli interi, tutto il materiale elettrico,
elettronico, elettromagnetico, in qualsiasi stato si trovi, e i cibi
disintegrati, le calze e le scarpe spaiate, i pezzi di polistirolo, le biro e
le matite, i fiori, le foglie, le schiume chimiche, le chiazze di vernice
secca o l’olio di macchina appena rovesciato. Trovo anche delle
stampe fotografiche per terra, come quelle di una signora che si
guardava allo specchio indossando una pelliccia, e sotto la pelliccia
sembra essere nuda. Sì, per terra si trova veramente di tutto. È un vero
continente inesplorato l’asfalto. Io prima mi vergognavo quando mi
sorprendevo a camminare con lo sguardo fisso a terra. Mi dicevo che
era un tipico atteggiamento depressivo, melanconico, e che la mia vita
avrebbe guadagnato in brillantezza e successo, se avessi imparato a
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camminare con la testa ben dritta di fronte a me, lo sguardo
lievemente inclinato verso il cielo, o assorbito almeno dal vasto
orizzonte. Quindi ho trasformato questa mia debolezza, in una vera
malattia: e da quel momento è diventato laborioso spostarmi, perché
costantemente sono attratto da scoperte, e devo estrarre la macchina
fotografica, e chinarmi in mezzo alla gente che passa, e tenermi ben
saldo qualche secondo, tutto accovacciato, pencolante, per studiare
un’inquadratura che mi soddisfi e poi finalmente scattare, e tre o
quattro volte, se il soggetto mi sembra degno d’interesse.”
Andavo dicendo tutta quella storia, per tenermi sulle generali,
sospettandolo sì terapeuta, ma ignorandone la specializzazione, e non
essendo comunque del tutto certo che non fosse un tipo di
professionista di tutt’altra tempra e genere, soldato di tutt’altro
esercito, non di quello che cura – che sollecita l’esibizione di tare e
guasti, debolezze del fegato o turbamenti dell’io – ma dell’esercito che
arruola per imprese realizzate con fisico e spirito sano, nel qual caso
confessare bronchiti o stati di nevrastenia era un’opzione catastrofica
per uscire degnamente da quella situazione sociale.
‒ “Sta progettando una mostra?”
Parlava anche lui, questo era un bene. Prima o poi si sarebbe tradito, o
prescrivendomi qualcosa o liquidandomi dal suo ufficio con la
seguente precisazione: loro di personale ne avevano, non solo
qualificato, ma anche psicologicamente equilibrato, e capace di
camminare per le vie della città, senza perdere tempo a fotografare la
pattumiera sparsa per terra.
‒ “No, no, ho riempito solo diverse cartelle del mio computer con
centinaia di foto. Credo che ci sia sotto un intento artistico, questo mi
è molto chiaro, ma per ora preferisco non definirlo, sa, non voglio
rischiare di concettualizzare troppo, per ora fotografo e basta, ma poi
non è questo l’importante. Ho deciso di organizzarmi in questo
periodo, di organizzarmi meglio su tutto.”
78
Incroci
di
Sara Ricci
https://lasediaeclettica.wordpress.com/
Se per caso qualcuno fosse passato attraverso il parco, quella mattina,
avrebbe visto passeggiare, nella nebbia carica di rugiada, tre uomini
dall’aspetto curioso. Il primo di una certa età, corporatura robusta
tendente al pingue; il secondo di mezza età, corporatura agile, quasi
atletica; il terzo, esile come fosse malato e dal volto senza età. Questi
tre signori se ne andavano placidamente chiacchierando attraverso i
viali grigiastri del giardino pubblico, totalmente presi dalla
conversazione al punto da non rendersi conto che del giardino era
79
rimasto ben poco: qualche pianticella malata, qualche albero
rinsecchito, utilizzato dai cani del quartiere e qualche fiorellino
sparuto, che ancora tentava di fare capolino nel fango e nella
trascuratezza. Lo stesso cielo pareva non volersi soffermare troppo su
quel luogo, costringendo il sole a velarsi di nubi cariche di pioggia. In
mezzo a questo parco, perché tale era per dimensione, scorreva
addirittura un fiume, un tempo meta di abili nuotatori e ora ridotto a
poco più d’un rivolo stagnante popolato di nutrie affamate. Ogni
tanto si scorgeva una panchina, a ricordare che in fondo si trattava di
un luogo fatto per passeggiare, riposarsi, immergersi nella natura e
nei propri pensieri o per fermarsi a chiacchierare con qualche vecchio
amico. Come i tre signori sembrava stessero facendo.
– “Ricordo quando questo luogo era pieno di vita: con mia madre
venivo spesso a giocare. Portavo con me Bobo, il mio cane, e insieme
correvamo per i viali che allora erano alberati e ombrosi” – disse il
primo, socchiudendo gli occhi per meglio imprimere nella mente
l’immagine del suo ricordo.
– “Io ci passo tutti i giorni. Non me ne rendo quasi più conto. È un
posto come un altro, una specie di scorciatoia per arrivare a casa
prima” – disse il secondo, con voce neutra, quasi inespressiva.
Il terzo taceva, riflettendo su quanto aveva ascoltato o ignorando
completamente l'argomento della conversazione.
– “Non posso dimenticare” – riprese il primo – “che qui, da ragazzo,
leggevo poesie ad una mia compagna di classe, sperando che
facessero effetto su di lei e che si accorgesse di me. Ma lei di me non si
accorse e pareva sorda alle parole splendide che le sussurravano
alle orecchie Neruda, Whitman, Montale, Emiliy Dickinson... Era
molto più attratta dai bicipiti del nostro atleta, il famoso Recalcati, che
mai si stancò di offrire il suo corpo alle attenzioni delle sue dilette
ammiratrici.”
– “Mia moglie viene qui ogni giorno. Non legge poesie, né scambia
chissà che meravigliosi discorsi. Forse è a causa di questo posto che ci
siamo sposati. In un certo senso non potevamo evitarci. Un po' come a
casa. Sembriamo due estranei, che scambiano qualche battuta solo
perché qualcuno l’ha stabilito per copione. Di solito restiamo in
silenzio, ognuno perso nei propri pensieri o nella propria assenza di
pensieri. Lei è così lontana. Come covasse dentro di sé del rancore
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profondo nei miei riguardi, quasi che ogni mio atto, pensiero,
parola la offendesse, o peggio, la trafiggesse al cuore. Io resto
indifferente a tutto ciò. A me piace il silenzio. Trovo conforto nel pelo
setoso del mio gatto, nei miei libri e nelle mie lunghe fughe da casa.
Peccato che siano solo passeggiate.”
Il terzo continuava a mantenere il suo silenzio ostinato. Camminavano
da qualche tempo, girando lo sguardo attorno e scrutando il cielo che
pareva essere sempre più carico di pioggia.
– “Che ne hai fatto tu dei ricordi?” – disse ancora il primo – “Dove li
hai ammassati? In scatole, valigie? Dove hai gettato il passato che non
sembra aver lasciato su di te alcuna traccia? Sembri un involucro
vuoto, nel quale un tempo c’era qualcosa di prezioso e che ora altro
non è che un contenitore qualunque. Come una bottiglia di ottimo
vino, stappata per un’occasione speciale e molto attesa, poi conservata
per ricordo.”
– “Non lo so. C'è un armadio nello scantinato a casa mia. Pieno di
scatole. Vecchie foto, lettere, diari. Ma è lì da così tanto tempo che non
so davvero che senso abbia parlarne ancora. Il passato ormai è un
capitolo chiuso, io guardo al presente. Nemmeno il futuro è utile. La
speranza illude, domani potrei non risvegliarmi e nessuno si
accorgerebbe di nulla. Che senso ha preoccuparsi del prima, del
dopo? Valigie piene di ricordi, tutto quello che resta di una vita.
Oggetti desueti, morti, che testimoniano un’esistenza vana. Scatoloni
in cui sono ammassate fotografie mute che mi guardano come se
riconoscessi quei volti, come se fossi io quello in costume da bagno
che regge la canna da pesca sugli scogli, come se fossi io quello
accanto alla mia consorte vestita di bianco. Non mi riconosco. Non ho
più quegli occhi pieni di speranza, non ho più quell’aria da
scanzonato poeta, non mi ricordo nemmeno cosa sentivo stringendo
quella canna da pesca, o la mano di mia moglie quando l’ho sposata.
Non posso essere stato. Io sono e basta. E tu, non dici nulla?” – chiese
l’uomo di mezza età al terzo che ancora non aveva spiccicato una sola
sillaba. Ma egli non rispose, perseverando in un silenzio alquanto
enigmatico.
Gli altri due si strinsero nelle spalle e continuarono a camminare in
silenzio. Così il primo, l’uomo di una certa età riprese a parlare.
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– “La mia vita, invece, è stata piena di avvenimenti, talvolta banali,
talaltra interessanti, che mi hanno portato fin qui a discutere con te
dell’infinita vanità del tutto. Io ho amato molto i poeti. Le loro parole
hanno spesso illuminato i miei passi incerti, hanno determinato scelte,
mi hanno condotto a un bivio: l’oblio o il ricordo. E ho sempre scelto il
ricordo. La memoria è tutto quello che ci resta per non dimenticare chi
siamo. Il futuro è solo una speranza, un auspicio, ma il passato è tutto
ciò che abbiamo sempre avuto, è il nostro rifugio sicuro perché è
stato.”
L'altro, infervorato, rispose con un tono quasi irritato.
– “No no e ancora no! Tutto quello che abbiamo è il presente, è
l’istante preciso in cui io respiro, in cui io sono qui davanti a te e ti
parlo. Tra un momento potrei essere colpito da un fulmine, tra due
minuti il tram potrebbe investirmi o qualche malintenzionato
accoltellarmi per guadagnarsi la giornata. Io non ho memoria, non ho
passato, non voglio avere qualcosa che mi leghi a questa vita
perché essa non mi appartiene. Ho sempre avuto l’impressione di
essere transitorio, non per cerebralismo, ma per disinteresse. A volte
mi coglie il dubbio di essere già morto. Potrebbe essere, no? Magari
tutto questo è solo un sogno, una conversazione con altri fantasmi,
una beffarda illusione, l’ennesima. Mia moglie non si accorgerebbe
della mia mancanza: sono anni che a stento si rende conto che esisto.
Quando cerco il suo sguardo, lei lo volge altrove. Quando riesco ad
incrociarlo per qualche istante, è vuoto. Forse è morta anche lei. E
siamo condannati a restare insieme, legati da questa distanza
incolmabile.”
Tacque, come fosse esausto.
– “Come sei diventato così? Sarai stato pieno di vita, di interessi, di
ambizioni. Io ti ricordo. Amavi la poesia, ne scrivevi di bellissime,
suonavi il violoncello con maestria, aspiravi all’assoluto. Cosa ti è
accaduto? Non posso credere che tu sia così vuoto ora. Non dopo
quello che hai scritto, non dopo quello che hai provato dentro di te.”
Disse il primo, con un’aria quasi sconsolata.
– “Non ricordo. E tu dovresti dimenticarlo. So solo che ora non mi
interessa nulla di tutto ciò, che il mondo fuori di me mi è indifferente,
che la mia stessa vita, se così possiamo definirla, mi è estranea. Sono
straniero a me stesso, come quel personaggio di un libro che forse ho
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letto da ragazzo e di cui non ricordo granché. Non sono come te, abile
con le citazioni, erudito, pronto ad esprimere sentimenti ed
emozioni. Sono arido come le foglie secche, che calpestiamo ora e
che si sbriciolano sotto il nostro peso. Eppure, in un certo senso, me ne
compiaccio: non vorrei mai essere come te. Tu di certo ricordi ancora
le lacrime versate, le sofferenze che la vita ti ha inflitto perché un
destino più indecifrabile del nostro amico ti ha scelto come capro
espiatorio.”
Il terzo, chiamato in causa, fu quasi sul punto di parlare, poi ci
ripensò. I due si guardarono perplessi per un attimo e tacquero. Una
pioggerellina fitta e sottile aveva iniziato a scendere dal cielo,
attaccandosi alle ossa, alla pelle e ai pensieri.
– “Avrai avuto almeno un amore, un tempo. Che poi è sparito,
ingoiato anch’esso nella voragine dell’oblio” – riprese il primo,
tentando di penetrare il muro invalicabile che l’altro aveva eretto per
difesa attorno a sé.
– “Sono ricordi che non mi appartengono più. Li ho lasciati nel
momento in cui qualcosa mi si è spezzato dentro e da allora non ho
più permesso alla mia mente di ricordare nulla.”
– “Eppure qualcosa ti tradisce” – continuò, insistendo, l’altro – “un
movimento impercettibile del labbro, gli occhi sfuggenti, le mani
sudate. Non negare l’evidenza, tu ricordi tutto.”
– “Ti illudi che io sia come te, non insistere. Non ho memoria e non ho
passato. Probabilmente non avrei nemmeno un futuro se avessi un
minimo di coraggio e di dignità e decidessi di togliermi di mezzo.”
Si volsero entrambi verso il terzo enigmatico amico che scrutava in
silenzio l’uomo di mezza età come se volesse penetrarne realmente i
pensieri. Erano arrivati in fondo al viale, che terminava con una
panchina. Sedettero e si guardarono attorno. Tutto era così intriso di
squallore da smorzare ogni anelito di poesia.
– “Anche gli alberi sono diventati grigi” – disse il primo con aria
nostalgica.
– “Dovrebbero piacerti, sembrano venir fuori da una fotografia in
bianco e nero” – rispose con tono aspro il secondo.
– “Non essere sarcastico, il sarcasmo tradisce interesse per la vita,
direi quasi attaccamento.”
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– “Scherzavo. Volevo solo dire che in questa città tutto è grigio. I
palazzi, il cielo, gli alberi, il fiume. Sembra che altri colori non siano
concepibili qui. In fondo, il grigio è un colore che non mi dispiace e
che si adatta bene al mio stato d’animo attuale.”
– “Tu hai detto di vivere ogni istante. Adesso ti si addice ancora il
grigio? E ora? E ora? Dove conduce la tua bizzarra filosofia?”
– “Non fare battute di spirito. Il senso dell’umorismo non è fatto per
nostalgici sentimentali.”
– “Tu non hai mai capito nulla. Vivi come se avessi carpito il segreto
di ogni verità eppure non hai mai capito nulla. Mostri di possedere la
chiave per vivere felice o almeno senza pensieri e te ne vanti come
fosse un trofeo, senza renderti conto di cosa sia in realtà” – disse il
primo, guardando a terra le foglie secche.
– “Tu pensi davvero che io mi vanti di non sapere se sono vivo, pensi
che io sia lieto di disinteressarmi totalmente di ciò che mi accade
intorno? Pensi che io voglia dimenticare per non soffrire? No, io
dimentico per provare ogni giorno un dolore nuovo, per lacerare ogni
giorno un pezzo nuovo della mia anima. E lo faccio con devozione,
direi quasi con gioia. La gioia dell’espiazione.”
– “E quale colpa hai commesso per doverla espiare in questo modo
atroce?”
– “La colpa… di aver dimenticato quale sia la colpa.”
Il terzò parlò, finalmente, contribuendo a sciogliere la tensione di una
conversazione giunta al limite estremo.
– “La tua colpa ormai è passata. Non hai bisogno di reiterarla in un
presente perenne. Ricordi il fiume in cui hai gettato il tuo futuro, le
tue speranze, le tue ambizioni per scegliere una vita mediocre e priva
di valore?”
Il secondo restò interdetto. Il terzo aveva ragione: la sua colpa era
ormai impallidita a tal punto nei suoi pensieri da non essere più
riconoscibile, da non meritare più il tormento di riviverla ogni giorno.
Doveva tornare al fiume. Farsi restituire il suo futuro. Avrebbe ripreso
a scrivere, sentiva una nuova linfa scorrergli nelle vene. Si alzarono
dalla panchina umida e ripresero a camminare per il viale ormai pieno
di pozzanghere. Andavano verso il fiume. O quello che un tempo era
stato il fiume. Attraversarono il ponticello di legno, angolo che in
qualsiasi altro posto sarebbe stato ameno, romantico, gradevole e
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che invece comunicava tristezza, abbandono, solitudine. I tre
guardarono giù. La corrente melmosa trascinava qualche piccolo
ramo, le nutrie si intravedevano sulla riva, pronte all’attacco,
detriti venivano trascinati a valle da quell’Acheronte giallognolo
dall’odore nauseabondo.
– “Non ricordi nulla?” – chiese il primo.
Il secondo non rispose.
– “Non credo che tu abbia capito il senso del nostro incontro qui. Io e
te siamo simili, siamo uguali, siamo la stessa cosa.”
– “Non dire idiozie. Come puoi essere me, o io te, o quest’altro uno di
noi due?”
– “Io sono quello che tu sei stato, tu sei quello che sei e il nostro amico
poco loquace è quello che tu sarai.”
L’uomo di mezza età restò immobile, in silenzio. Osservò con
attenzione i due personaggi che aveva per caso incontrato al parco
quella mattina e con i quali ancora per caso aveva intavolato una
discussione. Rivide se stesso nei tratti, gli stessi occhi, la stessa
fisionomia, lo stesso sguardo, la stessa pinguedine adolescenziale;
dall’altro lato il volto senza età e senza speranza di un uomo che non
ha più un futuro davanti a sé, ma i cui occhi tradiscono ancora un
desiderio di vita. Al fiume aveva perso tutto. Il fiume aveva ingoiato il
suo mondo, la sua memoria, le sue poesie, la musica che gli risuonava
dentro. Ora era morto. Non gli restava che riemergere da quelle acque
melmose in cui aveva vissuto per anni. Capì che doveva farsi
restituire tutto dal fiume e con un balzo, non dei più atletici, saltò giù
dal ponticello di legno, precipitando nella fanghiglia. Rideva,
saltellava, cercando di evitare l’attacco di nutrie e zanzare. Sentiva di
essere rinato, pur temendo di aver preso qualche infezione nella
sua impavida immersione. Per qualche istante ancora nella nebbia si
intravidero due sagome, una corpulenta ed una esile, che osservavano
il nuovo Attilio Savinio.
Poi svanirono, così come erano apparse, in quella strana mattina
uggiosa. Una donna attraversò il ponticello di legno per arrivare
prima a casa con la spesa. Udì delle risate e, pur nella fretta di
rientrare a casa, si affacciò al ponticello. Suo marito era là, immerso
fino al petto nella melma e pareva divertirsi come un matto. Quando
lui la notò, iniziò a gridare.
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– “Lidia, Lidia, ho trovato la poesia!”
La moglie gli sorrise, dopo tanti anni.
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La Paz dell’angelo
di
Alessandro Gabriele
https://aereoplanini.wordpress.com
Siamo arrivati in città con la sensazione precisa di esser finiti fuori
strada. Tutto il percorso difficile che ci ha accompagnati, il respiro
corto che le altitudini andine ci hanno imposto, i panorami mozzafiato
come tagli definitivi della natura e noi, quel poco che ne rimane, il
pensiero di come fare a tenerlo in vita nei limiti dell’umana decenza.
Si fa fatica a concepire La Paz, così aggrappata oltre il bordo del
cratere, a pensare il suo milione di abitanti rannicchiato nel vasto
imbuto dantesco che l’accoglie, e tutto il colpo d’occhio dei ghiacciai
che la incoronano sull’orizzonte lontano, come fosse teatro di un
Grande Giudizio permanente.
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Nel centro basso, tra il clamore turistico di questi larghi viali, Angela e
io ci diciamo stufi di veder pendere i mazzi di feti di lama secchi nei
mercatini abborracciati che occupano gli angoli dei palazzi più
moderni. Le paccottiglie di amuleti morti, le vecchie andine da banco
con la bombetta tradizionale calcata, i flussi torpidi di turisti che si
contendono il sinistro riflesso sulle grandi vetrate delle banche, tutto
l’insensato collettivo che ci ingoia senza chiedere permesso.
Stiamo risalendo velocemente i ripidi viali e le stradine complicate che
sfociano al barrio di El Alto. Al taxi abbiamo ordinato di portarci al
mercato delle streghe, frequentato dalla gente locale. Andiamo su
speranzosi, a curarci quel po’ di sorte e di malanimo che ci sono
capitati sulle spalle. Siamo i palpiti di me e Angela, nei giorni finali di
un viaggio che è come se ci fosse esploso tra i passi improvvisamente,
senza fare troppo rumore. Ora cerchiamo un equilibrio, che possa
farci stare in piedi su quel brano di strada che rimane.
Così smontiamo dal taxi insieme a tutta la trasparenza allarmata dei
nostri occhi, alla fretta di arrivare, all’attrezzatura fotografica un po’
chiassosa, ai pensieri che ci tallonano: tutto viene fuori dall’auto per
perdersi ai limiti di un lungo spiazzo sterrato sul bordo del grande
cratere, a fine corsa.
Ai lati si ammassano due file disordinate di baracche in lamiera e
cartone, colori e ruggini, font pubblicitari, disegni di minestre e
detersivi per pavimenti e merendine, montati a sbalzo ovunque.
Guardo Angela e la trovo stanca, vittima di quel sorriso privo d’occhi
che l’accompagna al mondo. Provo a scherzare.
– Sono Pronto. Dobbiamo farci coraggio?
– Stupido.
E’ una specie di bacio che mi dà, come fosse una prima volta tra noi.
– E’ meglio se cerchiamo un ragazzo prima, uno del posto che ci possa
aiutare.
Ha ancora quel po’ d’aria responsabile di chi è abituato a condurre
gruppi. Non ha ben capito, forse, che siamo rimasti soli, io e lei. Ed è
colpa sua, dopotutto, è stata la sua stanchezza che ha mandato il
disegno in malora.
– E’ meglio se andiamo subito, invece, respiriamo un po’ l’aria,
prendiamo qualche immagine a caso, senza starci tutto il pomeriggio.
Mi spingo avanti.
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Cerco di dare una naturale scioltezza ai miei passi, ma non mi sembra
facile, così esposto davanti agli antri delle streghe e non un’anima di
riferimento in giro.
Non siamo nemmeno una coppia, io e lei, ci siamo trovati per puro
caso, in vacanza. Lei conduceva il gruppo con taglio sbrigativo ed
esperto, ci siamo avvicinati naturalmente. Indossava un malessere di
gesti residui, pupille larghe e umori divergenti, come si tenesse
distante da un piccolo baratro interno.
Ho spiato quel nervosismo con vaga lussuria, tra le righe dei suoi
vuoti, fin dal primo dei giorni. Ho rifatto con attenzione tutti i conti
possibili su Angela, e ogni volta ho prodotto cifre differenti.
Mi soffermo ancora a guardarla proprio ora, occhi vaghi strizzati nel
taglio di luce fendente del pomeriggio mentre se ne va quasi divisa in
due, a zig zag sulla direttrice centrale della piazza, guardandosi ogni
tanto le Adidas lucide, perfettamente all’erta di me ma facendo in
modo di non darla a intendere.
La mia reflex comincia a scattare, ruba un cane rognoso che si gratta,
uno sgabello in una pozzanghera, un controluce su una lamiera
ondulata dipinta di rosso porpora.
Mi allontano ancora un po’ per sgranchire le gambe. C’è una tensione
nell’aria che non riesce a scaricarsi.
Sull’altro lato dello spiazzo Angela si è fermata davanti alla porta di
una curandera che le ha preso una mano con poca grazia: si lascia
leggere le increspature della pelle, cacciando un’unghia dell’altra
mano fra i denti.
E’ intuibile che la strega le stia prospettando qualche forma di
sciagura, i modi che mostra sono falsi ed esagerati, senza alcuna
mediazione.
Approfitto per documentare gli interminabili richiami agli armamenti
divinatori, ai rimedi, ai disturbi vinti, alle psoriasi e alla lebbra, allo
spirito e alla saggezza dei demoni e scatto a ripetizione, controllo,
decine di immagini in rapida sequenza.
Intanto un ragazzino cencioso è sbucato fuori, ha alzato la voce e
mandato un richiamo nella mia direzione. Mi volto e senza correre
m’allontano, inseguito da quelle che sembrano invettive.
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Prendo Angela per un braccio, la strappo dalle cure della bruja: ce ne
torniamo in silenzio e senza alzare lo sguardo verso la fila di bar
cadenti, vicino a dove eravamo smontati dal taxi mezz’ora prima.
– Tutto bene? Cos’erano quegli strani cenni larghi delle mani? Di che
parlava?
Questo le chiedo, dal fondo di un tono un po’ incrinato.
– Niente, non è niente di che... ‒ risponde lei, campando in aria le
parole senza formulare un punto. Poi torna di nuovo a guardarsi le
Adidas per un po’.
E’ buia la faccia che mi rivolge, adesso.
Un’altra corsa in taxi e scendiamo ancora lungo i gironi interni del
cratere, veloci come una pattuglia che interviene sul luogo di un
incidente. I boliviani sono persone sfuggenti, animati da un nerbo che
pare fretta, noncuranza.
Oltre il finestrino la gente procede dritta a piedi senza distinguere tra
salita e discesa. Il taxi prende le curve senza rallentare, oscillo sul
sedile e vado addosso ad Angela che sta aggrappata al poggiatesta di
fronte. Non ho voglia di sostenermi. Non avrei nemmeno voglia di
confrontarmi con questa imprevedibile sensibilità che pare essere
intervenuta a confondere lei e a irrigidire me.
Nel momento in cui la situazione le era sfuggita di mano, la curva
acuta, inconsolabile, che le piegava la voce mi aveva impressionato. Il
suo equilibrio di navigatrice esperta s’era rotto senza preavviso, come
un qualsiasi giocattolo cinese.
“Angelo”, così la chiamavo per scherzo, i primi giorni di viaggio. I
movimenti del suo corpo spargevano uno strano codice di desiderio
intorno a sé. Le occhiate azzurre tenevano all’erta una fiamma in
qualche parte minore di me, dove sentivo che non era caso
allontanarsi: il suo piglio atletico, vagamente mascolino, contribuiva a
disinnescarmi, e anche lei a un primo sguardo, pareva tenermi
distante nelle interazioni col gruppo.
Gli altri nel frattempo ne avevano avuto abbastanza e avevano
raggiunto un punto di rottura. Il comportamento provocatorio di
Angela aveva scoperto il nudo inconfessabile di tutti. Così era tornata
a cercarmi, dopo che lo psicodramma collettivo aveva ristabilito i fatti,
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liberato i ruoli e la presenza di ognuno dagli impegni reciproci
stabiliti.
M’aveva chiesto senza preamboli se m’andasse di passare gli ultimi
quattro andando giorni in giro da soli, noi due. Il bisogno che le
scappava dalla voce m’era parso strano e vagamente infido.
D’istinto, avevo buttato avanti un sì, non sapendo cos’altro pensare di
me e delle mie mosse successive, così un’ombra si era messa a
tagliarmi dentro.
– Ho fatto una pensata.
Questo dice lei, passandosi le dita tra i capelli, mentre il taxi entra nel
circondario dell’albergo dove tra poco forse dovremo condividere le
inevitabili nudità e la vicinanza in un letto.
– Chiamo il corrispondente e ci facciamo mandare una macchina. Se ci
alterniamo alla guida siamo a Puno in una volata e riusciamo a
dormire una notte o due ancora sulle isole degli Uros.
La macchina frena, Angela apre lo sportello e salta fuori come dovesse
allontanarsi da un fuoco che divampa. Pago la corsa e la raggiungo
sotto la tettoia dell’ingresso. Ci ripariamo dalla pioggia che ha
cominciato a battere rumorosamente e non facciamo nulla, non
entriamo e non parliamo.
Non mi piace il segno autoritario che ha preso, ma non mi piaceva
nemmeno prima, spinta sopra le righe emotive e poi sotto,
abbandonata ai modi di una sospensione vagamente accusatoria.
Sono in un angolo da cui devo uscire a ogni costo. Forse basta un
nulla per lasciarsi portare dagli eventi, e nulla viene chiesto in cambio.
Me lo dico come se mi piacesse guidare nella notte, in un paese
sconosciuto, ed è questo che credo sia vero, alla fin fine. Così sta
andando e non c’è verso di manovrare alcuno scambio.
Nella superficie della porta a vetri Angela mi guarda con insistenza.
Mi pare confusa, o forse sono io.
In ogni caso, l’azzurro acquoso dei suoi occhi si mescola alla pioggia e
in breve mi fiacca.
– Non riesco a credere che siamo venuti qui per questo, “Angelo” –
sbotto.
– Non puoi sottrarti all’istinto. Il destino è un fatto che riguarda tutti,
non te ne puoi semplicemente fregare.
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– Cazzo, ma non ti rendi conto che tutto, compreso il prezzo di una
strega a El Alto, dipende dalla disposizione d’animo di chi la
interpella? – protesto sbuffando, e intanto rimugino che il tratto più
tipico degli accoliti è la fascinazione per il baratro. Chissà perché…
Ancora stento a credere al discorso sconnesso che m’ha appena fatto.
Comunque non sono pronto a caricarmi sulle spalle le intere sorti del
mondo e il tutto riesce ancora a farmi sorridere. Il sorriso, quella fiacca
ciambella cui m’appoggio.
– E dove se ne starebbe nascosto adesso, quest’uomo misterioso,
“Angelo” mio? – la sollecito con tono sarcastico.
– Ma che ti credi, di smuovere il mondo con le battute, tu? La bruja
non ha voluto niente da me. Nessun dinero, niente di niente... Questo,
ancora, non ti basta?
Sono le tre di notte. Il volante, è come se ci bruciasse tra le mani.
Con il chiarore residuo, ospiti di un tunnel silenzioso nella notte poco
interessante dell’altopiano andino, siamo arrivati interi e affilati
davanti agli imbarchi di Puno. C’è voluto un battito di ciglia.
Ci siamo fermati un’unica volta a mangiare quasi niente, in un selfservice lungo la strada, un posto che serviva solo minestre giallastre
che stagnavano tra brutte isole di grasso. Angela girava il cucchiaio a
vuoto senza pescare nulla, con l’aria spaesata di un lungodegente
fuori di corsia.
Sotto la luce di neon sparato a casaccio ho concluso che dovessimo
procedere così come stavamo. Con il buio residuo di una curiosità che
si ritraeva all’orizzonte, con l’allarme di quell’incidente estraneo, poco
argomentabile, che c’era capitato.
Credo d’aver dormito qualche minuto, l’aria viene fuori fredda e forse
è il caso di riaccendere il motore.
Il sedile di Angela è vuoto. Mi riaddormento come se fosse un fatto
normale, che mi aspettavo accadesse. Cado in un sogno denso e
affannoso.
Strane figure si avvicinano lungo la spiaggia, sembrano spettri di
indios che barcollano, sul punto di cadere. Avanzano a passi
disarticolati fino alla macchina, mi scalzano dal posto di guida e
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salgono: sono almeno una decina di individui dalla grinta fiera che
arrivano, avviano il motore e si allontanano sulla superficie del lago.
Vedo me ancora seduto sul sedile del passeggero, e so che Angela è
perduta, sprofondata nella grande distanza verticale del lago.
Non so dove i silenziosi indios mi porteranno, finché non vedo le isole
di canne galleggianti che si avvicinano e penso che è troppo tardi per
sbarcare dagli Uros. Penso con angoscia che bisogna avvertire le
autorità locali.
Quando riapro gli occhi una luce s’è già fatta largo all’orizzonte.
Scendo anch’io nel pungente taglio di un’alba grigia.
Le brume del lago investono la strada. Chino su di me, tenendomi il
bavero, cammino fino a un locale che sta mettendo fuori i primi tavoli
del giorno.
Mentre in piedi, davanti al banco, bevo una brodaglia tiepida di
Nescafe, un vecchio con una pelle bruna simile a cuoio mi si avvicina
e chiede che gli offra una colazione. Intanto comincia a parlare,
racconta le sue storie a frammenti, ed è come se la vita lo
abbandonasse, ogni tanto, lasciandolo qualche istante vuoto e
immobile. Forse è questo che mi incuriosisce, questa presenza mezza
vuota e mezza carica di un fervore trattenuto.
Lo lascio dire, anche perché nel suo discorso vagamente confuso
emerge una bolla di interesse. Parla degli Uros: pare che non lascino
più le isole da molti anni. La gente di terra sostiene che l’inattitudine a
camminare sul suolo indurito della terraferma li renda ormai
malfermi e insicuri.
Il vecchio, però, è di altra opinione: secondo lui non è questo il punto,
il fatto è che il popolo delle isole di canne è condannato a scontare un
proprio destino, qualcosa che sorge dal tempo, dalle profondità stesse
del lago che abitano da sempre.
Gli chiedo se sappia qualcosa di Angela, lui fa un cenno con il capo
verso fuori.
Si offre di accompagnarmi sulle isole perché io ritrovi il sentiero che
lui ritiene abbia perduto. Insiste molto su questo punto, non si cura
affatto delle parole asciutte con cui nego di aver smarrito la strada.
Finisce che alla fine mi arrendo e lo seguo, nel solco della sua
camminata sbilanciata torniamo lentamente verso la spiaggia.
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Prendiamo il largo su un piccolo barchino a motore tirato fuori da
sotto un cespuglio. Il vecchio scende in un suo antico silenzio e io mi
adagio silenziosamente in esso.
Dopo un po’ chiedo qualcosa, senza riuscire ad evocare risposte. Da
lui non esce altra parola. Meglio così. In fondo non m’interessa o forse
preferisco non sapere quanto queste astruse fantasie mitologiche
possano avere a che fare con noi e col fatto che Angela non sia
affogata nel lago. L’importante è che possa ritrovarla ed avere
un’assoluzione che m’affranchi da quest’incubo lento e tormentoso.
Ci siamo crollati addosso esausti, sudati, nell’odore appesantito delle
emozioni che si sciolgono, con ancora in circolo lo spavento che m’era
preso poco prima perché la barca faceva acqua e il vecchio non
rispondeva a nessun cenno mentre la nebbia intorno stritolava l’idea
di una realtà afferrabile. Nausea e mal di testa ballavano ancora in un
giro annodato, nel profondo di me.
Angela e io, abbiamo cominciato a muoverci verso la grande capanna
centrale del piccolo villaggio, abbracciati stretti, pestando i passi sul
suolo molliccio di canne rovesciate, con quell’andatura imposta,
sprofondata e ondivaga, che tenevano gli indios del sogno.
Legata a me da stretti giri di braccia, Angela sembra bruciare di una
nuova vita, priva di quel taglio scettico, pericolosamente sbilanciato,
che aveva colpito la mia attenzione all’inizio del viaggio.
La curandera degli Uros, ricoperta di espliciti paramenti da cerimonia,
circonfusa dal fumo aromatico di un fuocherello quasi spento e
dall’attenzione di tre indios adolescenti che si occupano di lei, ci fa
larghi cenni di accoglienza con il capo e con le mani. Pare stessero
aspettando me, per cominciare non si sa cosa.
Finiamo mezzo prostrati ai suoi piedi, in una postura che sento
innaturale, ma che la nuova fisicità capiente di Angela mi costringe ad
assumere.
Un piccolo braciere dai disegni naif ci viene passato da una ragazza
seminuda con una spaventosa incisione cicatrizzata che le attraversa il
ventre scuro.
Angela respira a pieni polmoni le volute azzurrine che le sorgono tra
le dita. Poi tocca a me, mi tremano un po’ le mani, respiro e tossisco, ci
riprovo.
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La curandera mi guarda nel fondo degli occhi, annuisce appena, la
sua figura si slarga, perde i contorni, comincia a crescere contro il
fondo buio della capanna.
A un certo punto tutta la visione si mette a gravare su di noi, come se
fosse una gigantesca nuvola che ci spinge nella pace distesa del suolo,
rilassando le braccia e le gambe, togliendo la tensione ai nervi. Tutto si
dissolve, finché mi resta soltanto il ricordo prossimo di una mia mano
che abbandona uno dei pesanti seni di Angela cui s’era avvolta
stringendo.
Nel corso della notte riprendo coscienza, nel groviglio di quei corpi
frammentati che siamo tornati a essere. Angelo si insinua nel mio
corpo intorpidito muovendo le sue curve strette, dopo aver
lungamente narrato la vicenda della pena profonda di questo popolo
a una parte lontana di me che faticava a tenere il fuoco dell’attenzione.
Sento i miei pensieri, posso osservarli come se sorgessero direttamente
dalla superficie della pelle, come se il cuore e la mente si fossero
trasferiti alla periferia sensibile di me.
L’universo si specchia nella materna profondità del lago.
Siamo come radici disperse, siamo canali occultati che producono
linfa per la realtà rovesciata che ci fiorisce sotto, siamo due noi che si
vengono incontro.
Angelo si arrampica dentro di me, colgo appena l’idea che avvenga
qualcosa di sanguigno nel fremere dei corpi.
Vedo invece chiaramente quell’insetto stupido, minuscolo, che sale
lento lungo un interminabile filo d’erba, non posso fare a meno di
considerarne tutta la pena di un’azione che mi pare inutile, dal basso
all’alto, dall’alto al basso ancora, dopo aver trovato che non c’è uscita
dal percorso, che la giornata finisce così, al medesimo punto
d’esistenza da cui s’era partiti.
L’orgasmo di Angelo che si rompe su di me fa in modo che ogni cosa
produca il senso che deve produrre, la visione che deve avere.
Con l’abbandono della terraferma il popolo degli Uros ha pagato per
tutti.
La natura legifera per ritmi, ogni azione è priva di contenuto, non c’è
alcun valore né residuo concepibile.
L’universo è dinamica pura, la coscienza, soltanto un pigro inferno
minore in cui gli uomini sono stati cacciati.
95
L’indomani è un taglio di luce pura che filtra tra le pareti di canne,
sopra il giaciglio che ha ospitato la nostra notte.
Mi alzo ed esco a vedere l’alba che diffonde tra le brume lacustri,
cammino in quell’incertezza di canne che sprofondando, giro lungo il
perimetro dell’isolotto senza incontrare nessuno.
Passa quel minuto in cui mi fermo, immobile, non sapendo che altro
fare.
E’ un brivido che mi distoglie: Angela s’è alzata e m’ha raggiunto alle
spalle, senza far alcun rumore.
Ce ne stiamo un po’ così, osservando l’orizzonte, girando lentamente
lo sguardo, schermandoci gli occhi con il palmo della mano.
Parliamo quasi nulla, quelle poche parole scarne necessarie a capire
che dobbiamo prendere una delle piroghe e dare forza alle braccia per
tornare a Puno in tempi ragionevoli, tempi di cui nessuno dei due ha
un’idea precisa.
L’orizzonte di terra non sembra così lontano, ma a quest’altitudine
non ci si può troppo fidare delle percezioni, la rarefazione dell’aria
confonde le distanze.
La piroga è leggerissima, ci vuole un nulla a poggiarla sull’acqua.
Angela si incastra nella prua stretta, io cerco di mantenermi in
equilibrio, dietro. Cominciamo a pagaiare cercando un ritmo comune.
C’è un pensiero che mi disturba, al di là del vago affanno che sento,
che cerco di sciogliere nella regolarità del movimento imposto.
Qualcosa di insensato mi dice che Angela è tornata a essere la perfetta
estranea che appariva quando la incontrai la prima volta. E io non ho
idea di quale effetto questo possa farmi.
– Angelo… – domando al pelo dell’acqua.
Il tono di voce troppo alto che mi viene fuori disturba la magia
ambigua del mattino che ci ospita.
Ripeto la domanda. Urlo, ma è come se nessuno mi sentisse.
Uno stormo di piccoli uccelli sorge dal nulla brumoso e ci sfiora
radendo la superficie del lago.
Allora abbandono la stretta del remo e le afferro le spalle.
Lei si interrompe. Si gira col busto e mi guarda.
Dentro i suoi occhi leggo l’incredulità che si attarda su quel mondo di
vertigine che ci si è manifestato. Leggo il riflesso del mio bisogno
96
appena nato, sento tutta la nuova pienezza che mi ha invaso. E anche
che quel mondo, la notte bruciata, il mio Angelo, non li avrò mai.
Perché lui adesso è un’altra.
Leggo tutto questo nei suoi occhi e mi sento franare.
Afferro il remo e do forza, senza più orizzonte, privo anche del
rumore dell’acqua a conforto, in tutto il nulla che non sapevo e che è
già qui.
E tornerà, domani.
97
Il saltimbanco
di
Stefano Antonio Bugannannna
https://www.facebook.com/stefano.dekerki
1. Jan: e questa è storia
Jan è scarno, schizzo e scazzo.
Orfano di striglia, ha in testa un mar Morto di capelli densi appena
sciroccati e crespi ove la forfora galleggia leggendo un quotidiano. Più
sotto, cornice al volto, la barba s’avvita in tre matasse di peli che
nottetempo sogliono giocare a tressette col morto di fame.
Attorno a Jan, nel raggio d’uno scaracchio, dimora un palpabile olezzo
di olazzaretto ad obliare i mali del mondo.
98
Sul culo, troneggiano due toppe flanelline di terza mano e i pantaloni
galoppano a cavallo basso accentuando l’andatura valga da “cauboi
tecsano”. Di profilo, la groppa secca conferisce alle curve della sua
figura un tocco vagamente cubista.
Malgrado l’aspetto e l’alito certosino, la vita di Jan non fu facile.
La sua famiglia, di origini abruzzesi, era affetta da una grave tara
genetica: raggiunta l’adolescenza, i figli maschi diventavano
progressivamente saltimbanchi. Quindi Jan non poté che inforcare il
monociclo e correre incontro al suo destino a gambe larghe, un po’ per
le ginocchia valghe, un po’ per la gonorrea che contrasse durante la
sagra del Santo Patrono: s’appartò alcune ore coi fuochi fatui
all’imbrunire, amando senza precauzioni le ultime squillanti falci di
luce col crepu’scolo.
A ventitre anni s’innamorò d’una giovane contorsionista uzbeca, la
fantasmagorica Biaal: insieme diventarono l’attrazione principale d’un
circo nomade. Sotto quel tendone strapezzato e malsicuro si
sposarono, Tronco Umano e Barba Bietola a far da testimoni e i clown
a lanciare pugnetti di risa e a piangere zampilli. Jan non vedeva l’ora
d’avere intorno un mucchio di figli biaaletti sbaffati cui insegnare
l’arte del nulla… ma ahimè il fato cinico e baro era in agguato: in quel
di Goa, durante una tournée in India, eseguendo un numero
pericolosissimo di flessibilità estrema nel mondo del lavoro, sua
moglie si ruppe in due e di lì a poco morì.
Disperato e misantropo, Jan errò senza meta sbagliando una notte con
l’altra, costretto a ululare alla luna, laddove di giorno rifuggiva
metodicamente le voci del mondo: talvolta mimava un muro e ci si
nascondeva dietro. Dopo chissà quanto scianco girovalgare sentì
mordere il petto e arrestò il passo.
Per la prima volta dopo mesi e mesi, si guardò intorno: montagne di
Monnezza Ammassata si stagliavano dolomitiche facendo da
splendido contrappunto al cielo sempre più blu nonché agli augelli in
festa, mentre la nutria tornata in su la riva ripeteva il suo verso:
squiaaarkkk!! Che tuffo di roditore al cuore! Quell’angolo di mondo
triste e squallidoumido era davvero il posto giusto per infezionarsi di
nuovo alla vita…
99
Jan aveva trovato la sua Macondo: un sottoponte romano.
E’ ormai qualche anno che Jan vive sotto il ponte tra il quartiere
Infernetto e l’area di via Portuense. Il Tevere in quel tratto muore, ma
un attimo prima, scosso da un ultimo rantolo sputa sugli argini parte
dei rifiuti cullati durante il cammino; Jan ringrazia il buon dio Asopo
e prende in prestito il meglio.
Non gli manca nulla.
S’è fabbricato una bella casetta, in offerta 3x2 metri di legno marcio,
coibentandola con pezzi di polistirolo. Eppoi, siccome la gente butta
proprio di tutto, ha persino un frigorifero collegato alla ruota d’un
triciclo e dinamo “in gopp”, nonché palette senza secchiello al posto
dei pedali: il Tevere, volente o nolente, suda inforcando il sellino e
campa il frigo, di modo che Jan possa riporci palle, anelli, birilli e
trampoli, evitando che s’ammantino di muffa.
Quel tratto agonizzante del fiume, inoltre, è così saturo di ottimo
detersivo gentilmente fornito dalla Cleanus più a monte, che Jan ha
sempre l’uniforme da saltimbanco immacolata: basta immergerla in
acqua per qualche minuto. Talvolta, in occasione delle feste
comandate, mima pure una doccia e se la fa.
Per lenire la solitudine, coltiva un hobby: fuma di tutto e di più; a
riprova di ciò vanta gengive callose e due polmoni asfaltati meglio
dell’E45 tra Cesena e Mercato Saraceno (anche se poco ci vuole).
Sprezzante degli sprechi, ama raccogliere mucchi di mozziconi
orfanelli e dare loro una casa. Per giunta, avendo vinto a morra una
manciata di semi tigrati da un turco storpio, quest’anno alleva
piantine di tabacco sacro: spipacchia i fiori arancioneroverdi sentendo
il bisogno passeggero di cimentarsi in strambate e cazzate di randa,
finché, tira tira tira, alla quarta canna in rapida sequenza, le acque si
fanno agitate e un Jan burrasca incapace di rimanere a galla affoga nel
giornalino di Vamba Bertelli.
Poi, al termine d’ogni giornata, l’imbrunire squittisce presago di
strenui corpo a corpo notturni con nutrie culturiste scortate da allegri
sorcini in cerca di sballo.
Infine il sole tramonta, ed immancabilmente rifà capolino.
100
2. L’annoso problema del riempirsi la panza
Mattina nebbiosa d’ottobre.
Alfio, netturbino canuto, s’affaccia al parapetto del lungofiume.
‒ “Ehi, Jan, fammi il crack della Parmalat, che ho bisogno di tirarmi su
stamattina!”
Il saltimbanco non si fa pregare.
Si stira, si sistema sul palchetto ricavato da una barcaccia sfondata e
stringendo tra i denti un sorriso di circosTanzi, assume un’espressione
parzialmente scremata.
Quindi sfrega con forza gli occhi fino a spiritarli rossi mentre mima
una grossa rana butterata con la pipa. Da ultimo sfrutta l’indicibile
potenza dei suoi anfibi palustri e balza qua e là eccitato tra le Isole
Caymann e l’Italia gracchiando *crack! crack! crack! crack!*...
Alfio plaude e ride amaro: cinquemila e rotti euro gli hanno fottuto
per ‘sto scherzetto… avesse almeno la licenza d’uccidere! Fortuna che
una monetina da venti è scampata all’infame massacro. Così la getta
di sotto con millimetrica riconoscenza: la parabola culmina sull’occhio
di Jan. Questi dà vita a una catena cieca di cadute rocambolesche; indi,
apparentemente provato, fa l’inchino dalla parte sbagliata e mostra il
culo all’amico.
Il netturbino saluta sbellicandosi e riavvia il carretto al dovere
urlando: “RIFIUTI!!!”, poi stornella Battisti e sfuma.
Se Jan riuscisse ad avere altrettanto successo coi bambini, quei
graziosi pargoletti che la sorte gli ha negato, l’annoso problema di
riempirsi la panza ogni santo giorno si risolverebbe d’incanto. E in
effetti la ricca riserva di caccia custodita nel ventre dalla Scuola
Primaria G. Parini, due isolati più avanti, offrirebbe fiumi di monetine
come pure di burrose brioscine.
Ore 12:30.
La scuola vomita sull’asfalto tiepido centinaia di ragazzini unti ed
glutammati. I futuri cittadini operosi esaltano qua e là di sapidità tutta
infantile: è il momento.
101
Jan s’è sistemato all’imbocco del ponte, caricogravido d’una storia
fresca di giornata che inchioderà i bambini dirimpetto al suo cappello
questuo: ci sono i nomi buffi c’è l’omino di cacca… sarà un successo.
‒ “Hurrahhh hurrahhh, ragazzuoli miei, venghino-venghinohh! Nel
raro paese di Duriculì, non si riesce più a far la pipì… il sindaco stesso
Piercarlo Vasino, famoso tra i cessi pel mitto cecchino, rimane
all’asciutto morendo d’angoscia, la pancia rigonfia esplosiva di piscia!
Riunita la giunta in seduta bislacca, si chiede un aiuto all’omino di
cacca, che forse potrebbe lenire il patema, spremendosi… ih-ih-ih… le
meningi sul problema!”
E a questo punto, con sapiente teatralità, Jan tutto serio e ponderoso
mima l’atto di defecare, facendosi paonazzo in viso.
‒ “Nnnnngghhhh… ordunque, eh… L’omino li irride da sera a
mattina, disteso in silenzio su tanta latrina, sicché il giorno dopo vien
messo a verbale, che tutto permane letame e le quale. Piercarlo Vasino
però ne ha abbastanza, e in preda al delirio si buca la panza,
simmentre l’urina zampilla felice, e tutta la giunta così benedice.
L’omino di cacca beato sghignazza, ballando e saltando di dentro alla
tazza, già pronto a infierire con buffe trovate, sicché grida forte dal
fondo del water: so come risolvere tale questione! Ma il sindaco…
squash!… tira lo sciacquone!!! Pappara-para-para-pàààààà! Eh, eh…
eh… h…”
La risata di Jan s’estingue mesta nell’eco del vuoto assoluto mentre a
fatica l’uomo riemerge dalla trance saltimbanca mettendo a fuoco il
ponte deserto.
I bambini? Iti.
Dov’era il busillis? In cosa aveva sbagliato?? Possibile che avesse fatto
cilecca l’omino di cacca?!? Che schifo. E che tempi…
Mmmmm… Agognando l’aroma d’una crostatina, Jan quatto e
quattr’otto s’inlabrada retriever deciso a seguire la linea morbidoalcolica tracciata dai pennarelli indiani.
Ecco squittire i bambini 2.0!
102
Mimando un cactus, il saltimbanco si camuffa dal fioraio di fronte e li
guarda sbrilluccicare gli occhietti nel riflesso d’una vetrina di i-Phone
e videogames, rapiti da WhatsApp, cazzotti virtuali e scimmie killer
con più vite d’un gatto. L’insegna del negozio recita: “Dar Manopola”.
3. Jan vede la luce
Tendine romaniste si aprono come il Mar Giallorosso in tempi biblici
ed emerge un panzone fumante in canottiera, sandali e calzoncini
hawaiiani (ad Ottobre).
‒ “Anvedi quanti pischelli ce stanno! E diteme: chi ssò io?”
I bambini rispondono in coro.
‒ “ER MANOPOLAAAA!!!”
‒ “Ebbravi!! Chevve serve, oggi? A mme me mancheno le vvirtù ma
ssi parlamo de virtuale ve posso dà ‘na mano! Smartfon, aifon, la mejo
robba quad core che er core te s’apre subbito come 'no sportello.
Icsbòcchese, Pleistescion, Wii… Nnamo, nnamo: tricche-tracche, euri a
pacchi e viaaa… …Beh? N’intendo? Nnamo pupi che ssò tempi cupi!”
Ohibò, ma che succede? Gli apprendisti tossicomani tentennano e non
s’imbucano eccitati nel negozio: sembrano delusi…
Er Manopola suda freddo, ma ha ancora un asso nell’ascella: sperava
di lasciarvelo a salamoiare fino ad esaurimento di scarti e rimanenze,
e invece…
‒ “Mmazza aò quanto siete ‘nfami… sniffe… me fate piàgne… ammè
che v’ho sempre voluto bbene! Che ppè voi ssò stato nò un padre, ‘n
pa-dre-ter-no ar lo-ttooo! Ve meriterebbereste che nun ve dico che jeri
mm’è arivata giusta giusta l’Ultima Novità …”
Formicolante di touchscreen, l’orda di polpastrelli famelici drizza le
antenne. Dietrofront: presentat-arm!
‒ “…ma datosi che ssò ‘n signore” ‒ séguita Er Manopola ‒ “sturateve
bbene l’occhi: c’ho qui l’ultima appe pe’ tutti l’aifon! L’ai-nimaletto
virtuale, er SUPER-TAMAGOTCHI, ennò cotiche, così mmò potete dà
da magnà a li sorci, ar cane, a chi cccazzo ve pare…”
‒ “YEEEEEEHHHHH!!!!!!” ‒ urlano i bimbi ed irrompono nel negozio,
travolgendo Er Manopola che riesce comunque a sfregarsi le mani.
103
Jan socchiude gli occhi tra l’incazzato e il cogitante andante:
“Tamagocci, eh? Mmmh…”
Un’idea balena megattera nella testa del saltimbanco nel medesimo
istante in cui ad una casalinga viene venduto per 30 euro der Tufello.
Quella sera stessa Jan è preda d’una febbrile attività. Con occhi lucidi
e mani gelide armeggia fino a tarda notte tra pannelli di compensato e
scatoloni di cartone variopinti, trasfigurandosi più volte in Jandy
Warhol nella luce immateriale ri-flessa dal fiume livido.
Poi, a lavoro quasi ultimato, sale invasato sul palchetto e assume una
posa arcuata a banana contro il nitore freddo del lampione. Infine,
gonfiatosi d’aria i polmoni, grida: “SI… PUÒ… FAREE!!”, mimando
pure un tuono nella notte in sottofondo.
Una torcia, alcuni filtri colorati, un megafono ricavato da un pezzo di
grondaia…
E la creatura… VIVE!
Fine mattina, ora ics.
I futuri bravi operai flessibili sciamano vociando verso il ponte dopo
aver terminato agonizzanti le lezioni. Ma invece di zampillare
altrove, il flusso di bambini stagna di fronte a una specie di
cassonetto, tutto rivestito di pulsanti colorati, dal quale fuoriescono
lampi di luce nonché sinistri pigolii elettronici.
‒ “…pio pio… ciribiripì… pio pio… ciribiripì…”
Mesmerizzato, un bimbo schiaccia il tasto verde e *bonk! squisk!
squiash!* la paratia si solleva rivelando uno schermo di plexiglas
dietro al quale un mostriciattolo giallopiumato frigna accattivanti
idiomi tecno-vernacolieri.
‒ “… a mé-rendina… bip… lo vojo lo vojo lo vojo…. a mé-rendina…”
Come fosse una voce sola, il cicaleccio eccitato dei tossicomani si
scatena.
‒ “Ciullee!!!”
‒ “Spaziale!”
‒ “Uau!!”
‒ “Che grafica! Sembra vero! Sarà almeno venti gigamiliardi di picsels
accelerati in overlei pipelinato! E com’è grande! Questo sì che è un
super-tamagotchi!”
104
La scolaresca ammaliata ripone negli zaini i telefonini tamagotchati
che tosto spirano spiaccicati sotto quintali di libri schiumando cristalli
liquidi.
Il pulcione sogghigna sotto le piume e dietro lo schermo, pregustando
pasti luculliani ipercalorici. Sbava.
Bim! Bum! Bam! Gniiiiihh! Un quadro di lamiera s’apre cigolando e ne
esce un guantone scotchato… evvai col mantra!
‒ “…a mé-rendina… a mé-rendina… bip… a mé-rendina… a mérendina… a mé-rendina… a mé-rendina…”
E’ un trionfo: in pochi secondi, lo Janagotchi viene farcito di panini,
snacks, mele, arance, melarance e quant’altro.
Oltre il plexiglass del cassonetto, sotto gli occhi estasiati della
moltitudine di ragazzini accorsi, Jan pigola e banchetta gongolante
mimando una panza e una capanna.
‒ “…gnam gnam… ciribiripì… gnam gnam… ciribiripì… gnam
gnam, gnam gnam, gnam gnam… …ah, sì: ciribiripì.”
La fame è tanta, e così per troppa foga un boccone mal masticato
s’inceppa a metà esofago. Tutto paonazzo, Jan inizia a starnazzare
come un muratore impegnato nel vano tentativo di murare a secco.
‒ “…scoppio pio pio… argh… scoppio pio pio… couff coufhh
ciribiripì… glu-glu? Uaaaaaàààà!... glu-glu…”
Immantinente, succhi di frutta e bottigliette d’acqua si riversano sul
guantone scotchato, venendo subito fagocitati dal cassonetto
variopinto. Jan ingolla due belle sorsate di aranciata e l’iper-bolo
riparte verso l’allucinante viaggio intestino.
Soffocamento scampato e successo su tutta la linea: manca solo il gran
finale, il tocco di classe definitivo. Jan munge le budella, scuote
vigorosamente il cassonetto e barrisce un rutto così stroboscopio che
un’Audi parcheggiata più oltre si sveglia di soprassalto antifurtàndo
spaurita.
Capelli dritti, il crocchio di ragazzini sdilinquisce all’unisono.
‒ “Wooooow! Togo! C’ha pure il rutto ai-fai digitale! Saranno almeno
320 kpbs a 44kHz in dolbi surràund!!”
E’ l’apoteosi.
105
4. Resa dei conti
Sulla soglia del negozio, le mani nodose der Manopola tormentano la
canottiera dalla delicata nuance paglierina, oltremodo sudata.
‒ “Ammappete, sti regazzini der cazzo nun se fanno vède… E mò che
cazzo me ggioco a Tor di Valle: mi moje? Si penso che ce sta Cordon
Blues n’aa quinta, quello vince de sicuro… ma io v’acchiappo, anfami,
com’è vvero che mme chiamo Manopola!”
E presto detto, il bottegaro si mette alla ricerca dei tecnovizi da
ricondurre all’unica vera fede e in pochi attimi scova la causa della
latitanza del giovane parco clienti.
‘VENDETTA’ mugghia silente il cervello del colosso romano.
Con un balzo ferino si pilota nel deposito, tristo limbo delle merci
incomprese e riesuma la salma del famigerato Sĕga Monster System,
una quintalata di circuiti corazzati e contundenti, tolto dal mercato nel
secolo scorso in seguito a ben noti fatti di cronaca nera.
Brandendo a mo’ di clava il Monster, Er Manopola punta con passo
marziale verso lo Janagotchi.
Una campana si rintocca a morto.
Il ponte.
All’apparire del bottegaio furente, i bambini che s’erano raccolti in
tamagotchica contemplazione sbandano rapidissimi: il terrore è quello
di essere travolti dal mostro romano di fine livello, col rischio di
perdere diecimila punti e tre vite.
Per almeno un minuto, Er Manopola e il cassonetto si fronteggiano,
immersi in un silenzio irreale, rotto a tratti dal rumorricone sbuffante
del vento che mena cartacce rotolanti…
Il bottegaro apre le danze.
‒ “Ma ‘nvedi tu ‘sto fijo de na mignotta, che mmanco pagasse ‘e tasse
ar comune sui rifiuti umani... Cochi cochi, gnimo gnì, è ora da vvenì
dde fori pulciotto de mamma tua. Mmo te becchi er becchime ahr
arh!”
Jan batte in ritirata: tira giù di schianto la paratia, sigilla fulmineo ogni
apertura e s’acquatta sul fondo, più muto e buio d’un cellulare scarico.
Sapide gocce di sudore freddo gli imperlano la fronte mimando
sapide gocce di sudore freddo.
106
Il quintale e rotti d’Er Manopola prilla ballonzolando tutto ghignante
attorno alla creazione del saltimbanco, gli occhi iniettati di
sanguinaccio.
‒ “Aò, viè ffori… o devo da chiamà ‘r fabbro cò l’apriscatole?”
Tombale silenzio.
Er Manopola sbuffa e inizia a calare una serie infinita di mazzate col
Monster System sul fianco destro dello Janagotchi.
‒ “Noooooo!”
‒ “Noooo!”
Le grida dei ragazzini s’accavallano disperate tra un sms e l’altro.
Alcuni, d’animo particolarmente sensibile, addirittura piangono.
Er Manopola già s’appresta ad aprirsi un varco a mani nude nel
compensato fracassato, quando un bambino più audace degli altri gli
s’avvinghia a una caviglia. Jan approfitta subito dell’occasione ed
estroflette le gambette valghe dai fori predisposti alla base del
cassonetto per darsi alla fuga: zomp-zomp-zomp-zomp…
‒ “Li mortacci… je spunteno pure le zzampe! Ma io te smonto, a fijo
d’un cassonetto smozzicato! Vviè qua!”
Con poche ampie falcate, il bottegaro agguanta lo Janagotchi
caracollante. Basta assestare un ultimo colpo di Monster System alla
spina dorsale del cassonetto e la struttura portante già ampiamente
manomessa cede.
‒ “Cucùùùù? Ma ‘nvedi chi cccazzo c’ho trovato dentr’all’ovo! Ahr
ahr ahr... Ebbravo! Me spiace che tte devo da menà, ma tte devo da
menà. Ma mmica pecché mme stai sui cojoni, eh! No, è che me so
mmesso ‘na regola: si mme freghi ‘a clientela… io te sdereno. In un
monno senza regole nun se combina’n ccazzo...”
Jan si fa piccolo piccolo, zuppo d’albume sudaticcio. Con occhi
imploranti, guarda dal basso in alto l’enorme sagoma dell’aggressore:
sa che una frase intelligente forse può ancora salvarlo, così decide di
tentare una difesa argomentata nella speranza di ispirare compassione
e di toccare il cuore del bottegaro.
‒ “…Ehm… ciribiripì?”
Er Manopola frena a stento un moto d’ammirazione, mentre stordisce
Jan con un mazzata alla testa e lo smandrulla inanellando una
terrificante serie di legnate plastificate. Infine, eclettico, getta via il
Monster System e continua a suonargliele a manopole nude.
107
Nonostante abbia perso i sensi, il saltimbanco si produce in una
mirabile interpretazione di uomo pestato a sangue, circonfuso da una
psichedelica scenografia di piume giallognole che volteggiano a destra
e a manca.
Non basta: col tacco dei sandali da centurione, il bottegaro accarezza
gli stinchi dell’ex-Janagotchi, officiando le esequie con rito abbreviato
dell’integrità ortopedica del caro estinco.
Infine, tutto soddisfatto, si congeda lasciando Jan a rantolare
sull’asfalto.
‒ “Ahr... ahr... manvedi: t’ho arivortato proprio bene, come ‘na
frittata, ahr…”
Mentre Er Manopola ripiega, fischiettante, la narrazione indugia sul
primo piano del saltimbanco e il tempo pare dilatare il successivo tac
d’un infinito.
Poi invece si riscopre galantuomo.
Tac.
5. Gran finale
Lentamente, la truppa di bambini s’avvicina al corpo tumefatto e
spennato dello Janagotchi, lungo disteso sull’asfalto accanto al guscio
in frantumi.
‒ “Ahò! Guardate! Ce stava a fregà… di dentro c’era un uomo!”
‒ “Se questo è un uomo…”
‒ “Che brutta grafica!”
‒ “Che brutt’odore!”
Un alunno punzecchia il saltimbanco con un ramo.
‒ “Ehi… nun è picsel!”
‒ “…e pipelìni ce n’è?”
‒ “None.”
‒ “……”
‒ “Je menamo?”
‒ “Nnamo!”
Tutto sembra ormai perduto, quand’ecco farsi avanti Derozzi, il primo
della classe, l’unico in grado di dare voce alla ragione.
108
‒ “Deh, temporeggiate, o incauti: come potete giudicar? Magari
cotanta sarabanda di cazzotti ha ricombinato il suo dna virtuale
innescando un’evoluzione, tipo i Pokemon®! Costui potrebbe essersi
digi-evoluto!”
‒ “Digi?”
‒ “Digo.”
‒ “E allora che famo?”
‒ “Proviamo a punzecchiarlo ancora un po’.”
Detto fatto.
‒ “…groaf… hhhn… oh, Biaalettina mia, aiutami ti prego, disinfetta le
ferite col biaalcol... come dici? Non ti sento… ok, ripetilo di nuovo che
riprovo a leggere il labiaale… ma certo anch’io ti aaamo…”
‒ “Checcavolo sta a biaaascicà?”
‒ “Anvedi questo!”
‒ “…hhhnn… aspetta non andare, Biaalina Biaalettina mia… non
svanire nella nebbiaal… portami con te… è che non riesco a stare in ppiedi… ohi ohi… devo essermi rotto la tibiaal…”
I ragazzini vedono la luce.
‒ “Macché Pokemon® e Digimon®! St’imbecille è quer pezzente der
ponte! Quer barbone che cce tritava li coyote ieri!”
‒ “Concordo compagno” – aggiunge Derozzi – “e vi dirò di più: se
istintivamente…”
‒ “AMMORTE! AMMORTE! CHE SIA CROCIFISSO!”
Il branco ululante dei tecnovizi taglia corto. Derozzi piagnucola
scornato.
‒ “Aspettate, lasciate ch’io v’espliciti il concet…”
Troppo tardi. Agendo senza concetto, ma di concerto, i lillipuziani
sollevano facilmente il saltimbanco e lo trascinano fino al vicino
incrocio.
‒ “Emmò? ‘Ndove l’appiccamo?”
Qualcuno indica il cartello ‘dare la precedenza’.
‒ “Ahò, quello è la morte sua, che ccedoveva da pensà pprima, ah…”
Jan viene issato e legato al piano triangolare del segnale.
Quindi i ragazzini lo lapidano percuotendolo a sangue con le coste di
voluminosi tomi scolastici, finché il gioco si fa noioso e un po’ per
volta sfollano.
Il saltimbanco ha un sussulto.
109
‒ “…groaf… no biaalettini, figli miei… dove andate, perché portate
via la mamma… e soprattutto: dove la portate? …fermiii, mettetevi
d’accordo, non tagliatevi la strada… le gambe di là e le braccia di qua
ecco così… nooo… non avete capito niente… fermi, così la annodate
troppoooo… povero me… BIALI’ BIALI’ LEMA SABACHTHANI!!!”
Piange. Quindi reclina il capo e perde i sensi.
Un lampo levigato esplode altissimo.
Scortato da fruscianti cori angelici e da calde luminosità ad
incandescenza, un barbuto Dio analogico discende sul quartiere
dell’Infernetto. L’umanità tutta s’arresta terrifica, il naso volto al cielo,
mentre le lancette dell’orologio trino rintoccano gloria in excelsis e
trombe celesti.
Con voce tozza gaudente, Dio arringa le genti.
‒ “Questo è il figliolo mio, nel quale mi sono compiaciuto…”
E nel tripudio adorante del gregge, con un semplice gesto, libera Jan e
l’ascende alla sua destra.
Il saltimbanco sorride, armeggia imbarazzato con lo strascico di
nuvole impigliate agli anfibi e mima un brillare di luce propria,
stagliandosi contro il cielo fattosi scuro e piatto.
La scena cristallizza liquida.
All’orizzonte, la palla gialla d’un sole gigantesco avanza aprendo e
chiudendo le fauci con frenesia ossessiva: gnaca, gnaca, gnaca…
Nel loro insieme, pianeti, stelle e corpi astrali freddi, paiono
incolonnarsi in fila indiana su un’immaginifica Salerno-Reggio
Calabria siderale: un labirinto artificioso, segnato da semplici puntini
bianchi.
Il cerchio giallo solca il cielo livido e in breve ingloba tutto: puntini,
mondi, Dio, l’umanità con Jan e quello che ci resta.
Poi fugge oltre, che alle sue spalle, sta già sopraggiungendo Pinky con
gli altri fantasmini.
110
Il profumo
di
Maddalena Signori (mari mari)
www.maddy.altervista.org
Era l’otto dicembre, festa dell’Immacolata, quindi era vacanza.
Massimo, dieci anni, giocava controvoglia con il suo Game Boy. Era
un modello vecchiotto, ereditato da un qualche cugino e Massimo non
l’aveva mai considerato molto. Quando però il papà gli aveva detto
che lo avrebbe portato in parrocchia per il Natale dei bambini poveri,
improvvisamente gli era venuta voglia di giocarci ancora, anche per
dimostrare che tutto sommato ci teneva.
111
Papà non amava vedere cose inutili in casa e già tanti altri giochi
avevano preso la strada della parrocchia. A Massimo spiaceva, aveva
una sorta di attaccamento morboso per le “sue” cose, ma era troppo
piccolo per protestare.
Come per i vestiti di mamma.
Gli era sempre piaciuto tuffare il viso tra le maglie di lana, morbide
come una carezza, o aspirare il profumo di buono dai fazzolettini e
dalle sciarpe che una volta stavano nel cassetto del comò, ma quando
mamma se ne era andata tutti i suoi vestiti erano scomparsi, un giorno
che lui era a scuola.
Non se ne era accorto subito: quando aveva sentito il desiderio
struggente di riprendere in mano quei vestiti, aveva aperto il cassetto
e lo aveva trovato vuoto. Era rimasto pietrificato e forse proprio in
quel momento aveva realizzato che mamma non sarebbe tornata più,
che non ci sarebbe più stato il profumo di buono che sempre la
circondava.
Da qualche giorno nel cassetto erano comparse altre maglie, camicette,
fazzolettini e biancheria.
Cose da donna.
Che non era mamma però.
Da qualche giorno, in effetti, capitavano cose strane. Quando tornava
da scuola Massimo trovava sempre qualche piccolo cambiamento.
Il cassetto manteneva una sorta di ricordo dell’antico profumo, solo
che ora erano altre cose che pian piano lo stavano assorbendo.
E questo era impensabile.
Niente poteva prendersi il profumo di mamma.
Papà non c’era: negli ultimi mesi in casa ci stava poco. Forse era per il
lavoro, che lo costringeva spesso a girare per l’Italia, ma Massimo non
ne era così convinto.
Quando c’era mamma, il papà era sempre allegro, sempre in casa,
scherzava anche con lui.
112
Poi quando mamma se ne era andata ‒ proprio non riusciva nemmeno
a pensarlo, che mamma fosse morta ‒ papà si era fatto silenzioso.
Non giocava più con lui.
Leggeva il giornale, a malapena gli rispondeva, non gli interessavano
più nemmeno i suoi quaderni, che, sottratti al controllo, si erano fatti
via via sempre più trascurati.
Spesso in casa c’era Giulia, la ragazza che compariva quando papà era
via. Gli preparava da mangiare, tenendo il cellulare tra la spalla e
l’orecchio, o ascoltando con delle piccole cuffie una musica strana da
un apparecchio che sembrava una scatolina. Giulia non parlava quasi
mai: masticava la gomma pensierosa, faceva il minimo indispensabile
e non appena papà rientrava se ne andava, ben felice di tornarsene nel
suo mondo.
Il mondo di Massimo era troppo tranquillo e ordinario per lei.
Si avvicinava il Natale. Papà sembrava rianimato, da qualche giorno.
Diceva che presto ci sarebbe stata una nuova mamma per lui.
Massimo non voleva un’altra mamma.
Non voleva che un’altra donna rubasse il profumo dal cassetto di
mamma. Per fortuna, in sala, dentro una vaschetta portaoggetti, ne
aveva trovato un flaconcino che mamma aveva usato solo fino a metà,
prima di andare via, e lo aveva nascosto. Nessuno lo sapeva.
Comunque, ora c’erano altri vestiti nel cassetto di mamma. Vestiti che
avrebbero assorbito e cancellato il profumo di mamma. Al solo
pensarci Massimo digrignò i denti.
Abbandonò il Game Boy, si guardò attorno.
Giulia era in cucina, parlava e rideva al cellulare.
Papà era fuori.
Massimo andò in camera, si fermò davanti al comò.
Aprì il cassetto.
I vestiti erano lì.
Il profumo s’intuiva ancora, soffocato da quelle cose estranee. Il
bambino si guardò intorno, pensieroso: gli serviva una sedia, ma in
113
camera da letto non ce n’erano. Recuperò lo sgabello del bagno, lo
spinse fino ad accostarlo al comò e ci salì in piedi.
Nemmeno si accorse che stava piangendo, mentre lasciava che la
vescica si vuotasse.
114
Una morte, un desiderio
di
Angelo Tozzi
http://abrasionedarivoluzione.blogspot.it/
Il computer di controllo sul piano di comando è acceso. Tutte le spie
sono rosse. Guardandolo, ricorda quei ridicoli alberi che si facevano a
Natale, tutti pieni di luci. Tanti bambini euforici per l’imminente
arrivo di Babbo Natale, grandi scorpacciate e scambi di regali: questo
era il Natale. Oltre al senso di tristezza che ti accompagnava per tutta
la durata delle Sante Feste. Almeno, per me, era così. Mi sentivo uno
schifo. Puntualmente, arrivava il mese di dicembre e tu dovevi far
finta di essere buono, allegro e molto, molto stupido.
‒ “E’ Natale, perché hai quel muso lungo? E’ Natale!!!”
115
Questa frase te la ripetevano tutti, più volte al giorno.
E’ Natale.
Oggi, a 420.000 chilometri dalla terra è Natale.
Anche qui.
Su questa base siamo in tre. Un ebreo, Karl, un musulmano,
Mohammad detto Moha ed io, cattolico. Un tempo, ci sarebbe stato di
che scannarsi, eccome.
Le luci sul pannello di controllo si sono spente. Questo non significa
che tutto sia tornato normale. Neanche per sogno. Ora siamo ancora
più preoccupati, ma anche rassegnati: ci capita quello che sapevamo
che ci doveva capitare, tutto qui.
Questo pollo fa schifo, sa di cimice e muschio: trattamento da hotel di
prima categoria, eppure lo chef evidentemente ce l’aveva con noi.
Moha si lamenta del suo cous-cous.
Karl dice che i suoi carciofi sanno di calzini sporchi. Come farà a
dirlo… magari li succhia. E’ da così tanto tempo che mangiamo
schifezze preconfezionate, che non mi stupirei più di niente… ormai
quasi non ci lamentiamo più.
Ma oggi è Natale!
Ho cominciato io a parlar male del cibo, gli altri due mi hanno
seguito.
Capirai... Stare in un loculo che gira attorno alla terra, senza poter far
altro che guardare il panorama, sai che eccitazione.
E che panorama!
Immaginate un telo di plastica nero, che poi diventa di un colore
indefinito, poi diventa nero, poi indefinito, poi nero, poi indefinito,
poi nero, poi indefinito, poi nero, poi...
Dopo 621 giorni, forse stanca un tantino.
Gli unici svaghi che ci hanno permesso di portare con noi sono di una
noia mortale.
Moha ha potuto portare una serie di foto del Polo Nord.
Karl un corso per corrispondenza per lattoniere.
Io ero davvero indeciso. 6 spartiti musicali di Bach, oppure una
collezione di etichette dei migliori vini bianchi ungheresi dell’anno
1976.
Ho attaccato sui muri di plastica della navicella le etichette ungheresi.
Praticamente, potevi scegliere.
116
O una cosa o l’altra. Due opzioni preconfezionate ‒ come il cibo ‒ a
tavolino.
Moha: (1) - erbario del Madagascar versus (2) - foto del Polo Nord.
Karl: (1) - calendario svizzero del 1956 verus (2) - corso per lattoniere.
E io l’ ho già detto.
Ognuno di noi ha fatto la propria scelta. Ben ci sta.
Moha, in questo momento sta ridendo come un pazzo.
‒ “Vi ricordate che anni fa, giravano ancora quelle cose tipo: Ci sono
un musulmano, un ebreo e un cattolico su una base spaziale...” ‒ ci
dice.
Ce lo ricordiamo sì. E’ proprio per questo che siamo qui.
‒ “Ah, sì. E vi ricordate quella del pappagallo e della suora chiusi in
un ascensore?” ‒ ci dice Karl.
Anche quella ci ricordiamo.
‒ “E quella dei 41 barboni a New York, in una notte di pioggia?” ‒
chiedo io.
Ce le ricordiamo tutte, tutte. Come potresti dimenticarle?
Ormai manca poco.
Lo capiamo dal fatto che le luci che illuminano la base, sono molto più
accecanti. Un po’ ci danno fastidio ma che importa... L’unica cosa
importante è che tutti ci vedano bene.
Karl passa il rasoio a Moha, per radersi. In tutti i mesi che siamo stati
quassù, non si è mai fatto la barba.
E’ molto lunga ed onestamente lo invecchia.
Dobbiamo almeno apparire belli, freschi, riposati, se non contenti.
E faremo anche questa buffonata. La faremo.
I soldi che ci daranno, tantissimi per la verità, ce li siamo meritati.
Sulla Terra potranno dire qualsiasi cosa, ma non potranno accampare
scuse e impugnare il contratto milionario che abbiamo firmato alla
partenza: lo abbiamo rispettato fin nei minimi dettagli e adesso
dovranno tirare fuori i soldi.
I soldi.
117
Maledetto chi li ha inventati, diceva la mia bisnonna. Se ce li hai li
spendi, se non ce li hai li sogni. E se il sogno diventa realtà, non sai
gestirli e li butti via come un cretino. Però sono contento di una cosa:
soldi o non soldi, devi morire lo stesso, un giorno o l’altro.
Non so perché ma in questo momento mi torna in mente una storia,
una vecchia storia, che girava nella mia piccola città.
Nel 1984, una famiglia di poveri in canna, giocava al Lotto una cifra
per loro proibitiva. Ogni settimana. I numeri erano sempre gli stessi: 2
6 58 63 85.
Mio nonno mi raccontava che se gli chiedevi perché proprio quei
numeri, loro rispondevano: ce li ha dati Dio in persona! Fatto sta, ogni
settimana giocavano uno sproposito. Tutti sapevano come riuscivano
a trovare quei soldi: dal più grande al più piccolo dei figli e madre e
padre inclusi, si prostituivano. Era inutile dirgli che i soldi che
facevano con quel lavoro non erano puliti; loro rispondevano che se
Dio gli aveva dato in sogno dei numeri, era loro obbligo giocarli
settimanalmente. Più di qualcuno provò a fargli capire che se proprio
dovevano dar retta a Dio, avrebbero potuto giocare una parte dei loro
guadagni dal prostituirsi, che avrebbero potuto usare gli altri per
vivere decentemente, almeno. Senza quasi morire di fame. Non ci fu
verso. Tutto quello che guadagnavano, lo buttavano su quella
cinquina maledetta. A quei tempi, c’era una nuova malattia. Si
chiamava AIDS. Madre, padre, 3 figli e 2 figlie, furono uccisi da
quell’AIDS. Nel 1991, morì l’ultimo sopravvissuto della famiglia. Ed
era il più piccolo. Aveva solo 14 anni. Si erano tutti prostituiti,
avevano giocato ogni settimana tutto quello che guadagnavano e mai
una volta ebbero la soddisfazione di vincere.
I soldi!
Con quello che ci daranno, lasceremo le nostre famiglie più che agiate.
Certo... ognuno di noi tre, avrebbe preferito agire diversamente
riguardo al problema della propria morte.
Ci sarebbe piaciuto almeno riposare in una tomba, ma non si può: le
nostre tombe saranno l’universo intero.
Quando la base esploderà, subito dopo le nostre tre famiglie
ritireranno in diretta televisiva l’assegno di 5.000.000 World$ a testa.
La nostra morte avverà in diretta planetaria.
118
Tutti i nostri giorni passati quassù, sono stati ripresi dalle telecamere.
Ogni istante di ogni ora del giorno.
Tutto cominciò tantissimi anni fa.
Alla fine del XX° secolo, in parecchie nazioni del mondo, le televisioni
trasmettevano programmi che si chiamavano Reality Show. Ora non
ricordo tutti i particolari, ma so che una dei più famosi si chiamava
The Big Brother, almeno nei paesi anglosassoni. In pratica si trattava
di prendere alcune persone e rinchiuderle in una casa, arredata in
modo bellissimo. La casa era piena di specchi. In ogni angolo ce n’era
uno e dietro ogni specchio c’era una telecamera che riprendeva tutto. I
concorrenti del gioco a premi, perché questo era, dovevano rimanere
in quella casa per qualche mese. Le giornate le passavano
chiacchierando e facendo le prove per una scenetta che dovevano
ripetere durante una serata particolare. Man mano, con il passare delle
settimane, venivano eliminati i concorrenti meno meritevoli e alla fine
rimaneva solo il vincitore, che si portava a casa una bella cifretta.
Certo, niente in confronto a quello che prenderanno le nostre famiglie.
Poi inventarono altri Reality Show: La Fattoria, L’isola dei Famosi,
Beauty Farm, Campioni, Senior...
Nei primi anni del XXI° secolo proposero di tutto: ogni stazione
televisiva del pianeta doveva avere il suo Reality Show.
Alla lunga, i telespettatori si stufarono.
Occorreva qualcosa di nuovo.
Qualcosa che emozionasse veramente.
Quei programmi producevano soldi, tantissimi soldi.
Perché perderli, si chiesero?
2036. Precisamente, 20 ottobre 2036.
Quel giorno è molto importante.
Gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna, il Giappone, la Cina e
l’Italia, proposero alle Nazioni Unite di non considerare più un delitto
contro l’umanità l’uccisione in diretta televisiva di utenti che avessero
volontariamente firmato una liberatoria “per motivi di audience”.
Ovviamente, ci furono delle polemiche, ma via via, alla richiesta di
quelle nazioni, si aggiunsero quelle di tutte le altre.
Tutte.
119
Le grandi multinazionali appoggiarono la richiesta. Tutte ci misero
una buona parola e un mucchio di soldi per far passare quella
richiesta.
E la richiesta diventò legge. Da allora l’umanità sta attraversando uno
dei più lunghi periodi di pace globale che la storia ricordi. O almeno
così sostengono a reti unificate i siti di informazione di tutto il mondo.
art. 3
Non si può fermare né il libero mercato né il progresso. Se al fine di ottenerli,
dovesse rendersi necessario commettere atrocità o eliminare fisicamente un
limitato numero di persone, ciò è ammissibile, se non auspicabile, nell’ottica
del superiore bene comune.
art.7
Il lavoro è un’entità astratta e come tale può essere definita e ridefinita in
funzione dei bisogni espressi dal mercato. Una maggiore flessibilità delle
normative che regolano lo sfruttamento di tale entità astratta deve essere
perseguita in ogni modo, al fine di meglio tutelare il commercio globale
art. 21
Ad ogni morte di un consumatore, in nome del libero mercato e del progresso,
deve corrispondere un adeguato e giusto indennizzo alle famiglie delle
vittime.
art. 125
Il libero mercato, globale e umano, è il bene supremo di tutti. Ognuno,
avendo a disposizione fondi e risorse per le famiglie delle vittime, può decidere
di contribuire al progresso del pianeta, senza nessun limite.
art. 158
Nel mercato globale, non è ammissibile pretendere di non pagare il prezzo del
progresso, che deve però essere ben indicato ‒ con sistema di numerazione
decimale, carattere tipografico corpo minimo otto ‒ sulla targhetta dello
scaffale.
Cody Rush
Cody Rush era il Segretario in carica all’Onu, il 19 novembre 2036.
Gli articoli della legge, approvata all’ unanimità, erano e sono 158.
Io tutte queste cose le so perché, prima di inviare la domanda per la
partecipazione al programma, mi sono documentato. Sono fatto così.
Però ho faticato parecchio per raccogliere le informazioni necessarie:
120
erano difficili da trovare… beh, comunque ce l’ho fatta e ho inviato la
domanda.
Il titolo del programma televisivo a cui partecipo non mi piace tanto.
Tuttavia non è questo il punto: l’unica cosa che mi interessa è trovare i
soldi con cui potremo tentare di curare mio figlio Angelo. Purtroppo è
affetto da un tumore al cervello e nonostante il progresso delle scienze
mediche, questo è ancora uno dei pochi tumori che non ha una cura.
Però una speranza c’è.
E’ stato inventato un nuovo tipo di televisore pieghevole e trasparente
simile a lenti a contatto, chiamato LenTiVù, che, applicato davanti agli
occhi delle persone, le rende insensibili al dolore.
Una volta, mi raccontava mio nonno, esisteva la morfina per questo
scopo, ma poi hanno scoperto che rendeva le persone dipendenti e
l’hanno tolta di mezzo.
Ovviamente, non è solo per alleviare il dolore di mio figlio Angelo che
mi sono imbarcato in questa avventura senza ritorno. Studi
preliminari pubblicati su autorevoli riviste scientifiche, dimostrano
che LenTiVù è in grado di inibire in modo significativo la crescita
delle cellule nervose, colpendo anche le cellule tumorali del cervello.
Purtroppo, il televisore che è in grado di cancellare ogni sofferenza e
forse anche di salvare mio figlio, costa 4.500.000 World$.
Dicevo che il titolo del programma televisivo a cui partecipo non mi
piace.
Mi sembra brutto: “Una Morte, un Desiderio.”
Ma chi sono io per giudicare?
Ora ci siamo veramente.
Guardo Moha e Karl e mi sembrano sereni, magari mi sbaglio ma
vedo che sorridono anche. Con gli occhi provo a domandargli perché.
Loro, sempre con gli occhi, mi rispondono: vedrai!
Ormai sono mesi che ci siamo abituati a comunicare così: basta
guardarci, per capire i pensieri degli altri due. Ma questo non lo sa
nessuno, è una sorta di sesto senso telepatico. Per forza, se sei spiato
anche quando vai al bagno, devi imparare a cercare di sopravvivere
all’invadenza delle telecamere. Sono dappertutto, anche nelle nostre
viscere: ogni giorno ingeriamo una capsula-video di quelle usate per
la colonscopia virtuale così che possano riprendere addirittura le feci
121
che si stanno formando. Penso che tutti, sulla Terra, si siano tolti la
curiosità di come defechiamo in assenza di gravità, poiché ci
guardano farlo con riprese sia dall’esterno che dall’interno. Fa parte
del gioco e non dobbiamo lamentarci, altrimenti a 420.000 chilometri
da qui non si divertono. Almeno a noi tre è andata bene, diciamo. Se
penso a quei poveri disgraziati di “Ingozzati per un Patè”, mi
vengono i brividi. Loro sì che se la passano brutta: devono ingozzarsi
di tutto, per farsi crescere il fegato a dismisura, che una volta arrivato
al peso giusto... 6 chili, ci pensate?... si vedranno squartare in diretta. Il
loro fegato verrà venduto all’asta. Chi se lo aggiudicherà, lo dovrà
preparare secondo la ricetta originale e spalmarlo su tartine che
verranno offerte ai propri amici. Oppure penso a quelli di “L’abbaglio
abbaiante”. Prendi un essere umano, lo trasformi chirurgicamente in
un cane ‒ la razza è scelta dai telespettatori ‒ e lo abbandoni di notte
sull’autostrada più trafficata del paese: più sopravvive, schivando
macchine, più il montepremi sale. E quelli di “Un corpo per una
notte?” Sono persone usa e getta. I telespettatori mandano una e-mail
con le loro richieste e queste vengono esaudite in diretta. Qualsiasi
richiesta. Purtroppo, qualsiasi. Mi sembrano cose disumane. Brutte.
Ma, in fondo, chi siamo noi per giudicare?
Siamo soltanto tre piccoli uomini e il cervello degli esseri umani è
troppo limitato per comprendere appieno l’infinita lungimiranza del
disegno divino. Qualunque sia l’entità superiore che veneriamo, Dio
ama ognuno di noi, singolarmente, in modo unico e speciale: solo
l’amore di Dio calza alle nostre vite come un capo firmato su misura.
Senza rendermene conto inizio a pregare. Mi basta un’occhiata di
sfuggita all’indirizzo di Moha e Karl per essere certo che anche loro
stanno rivolgendo preghiere mute al loro Dio.
Le nostre divinità, ecco, loro e sanno ciò che è bene per noi, solo loro.
Le multinazionali.
Loro sanno santificare i nostri bisogni, i bisogni di noi comuni esseri
umani.
E’ ora.
Dallo studio sulla terra ci stanno chiamando e noi rispondiamo con
finta allegria e sorrisi forzati. Per quanto sia stato pesante passare tutti
122
questi mesi quassù, ci resteremmo volentieri se servisse a farci
rimanere vivi. Ma... non si può.
La mia vita non è stata né lunga né bellissima, di sicuro poteva
andarmi meglio… ma anche peggio. In fondo questa mia breve
esistenza da animale cosciente valeva comunque la pena di essere
vissuta. Vorrei solo poter abbracciare un’ultima volta i miei familiari e
soprattutto parlare a quattr’occhi con Angelo. Ma non posso. Devo
recitare in mondovisione quello che mi hanno scritto per l’occasione.
D’un tratto Karl afferra un coltello e dice che vuole tagliarsi le vene.
Moha comincia a piangere. Mi confessa la sua vergogna per la capsula
video dentro di lui: teme che stia riprendendo la sua terza scarica di
diarrea nel giro di venti minuti. Se la sta facendo sotto.
Io me ne frego e lascio che tutti vedano la mia paura. Ho già perso
ogni rispetto per me stesso, cosa posso perdere di più?
Crudelmente, dalla Terra, ci chiedono di dire che cosa sentiamo. Per
contratto noi dobbiamo essere sereni, felici, fortunati e unici. Ma noi
non siamo sereni, felici, fortunati e unici. Noi siamo morti che
camminano.
Ci chiedono cosa diremo prima di morire.
Cosa diremo?
I nostri discorsi erano pronti già da tempo.
Ce li hanno scritti prima di partire e sono orribili.
Quante volte ci siamo immaginati la nostra morte? Forse poche. E
forse è stato meglio così, per me. Mai avrei immaginato che sarei
scomparso a 420.000 chilometri di distanza da tutto quello che ho
amato. Ho amato. Come potrei amare di più quello che ho vissuto?
Dobbiamo prepararci.
Per la nostra morte, i telespettatori hanno votato che dobbiamo
vestirci da antichi romani.
Potevano sceglire tra questi: da gentiluomini di campagna del ‘700, da
paperi o da quello che hanno votato.
Moriremo almeno da gladiatori e non da quaquaraquà.
Ancora una volta, dalla Terra ci chiedono di dire qualcosa, di
esprimere a parole ciò che sentiamo.
Moha e Karl mi guardano. Mi dicono che non diranno quello che ci
hanno scritto. Mi dicono che invece faranno di testa loro: pazzi! E’
123
proprio quello che sperano da laggiù per invalidare il contratto e
risparmiare anche un bel po’ di soldi dopo averne fatti a palate con
noi.
Gli rispondo che loro non hanno un figlio malato di tumore che
morirà se non dirò quello che devo dire.
I loro occhi continuano a insistere: vogliono convincermi che è la sola
cosa giusta da fare. Vista la tragicità del momento, non pretendo di
avere la freddezza di capire cosa sia giusto fare, ma mi sento superiore
a questo lugubre teatrino. Io, con le parole che dirò, salverò mio figlio
Angelo. E loro? Loro sono finiti quassù per denaro, come me, del
resto, ma non erano del tutto impotenti di fronte alle avverse vicende
della vita. Karl ha perso un braccio sotto una pressa e Moha è senza
gambe dopo un incidente d’auto, ma entrambi, dandosi da fare,
avrebbero potuto ancora lottare per riciclarsi nel mondo del lavoro. I
loro figli hanno tutta la salute che vogliono, mica sono condannati a
morte certa! Nella peggiore delle ipotesi potevano vivere di stenti,
facendo la fame, ma comunque potevano provare a sopravvivere
insieme.
Ho deciso. Io non dirò come mi sento. Dirò quello che mi obbligano a
dire, dalla Terra. Tutti e tre sappiamo che il contratto da noi firmato
prevede che dobbiamo seguire un copione, ovvero che dobbiamo
recitare quello che hanno scritto per noi. Altrimenti moriremo
inutilmente. Non daranno più 5.000.000 World$ a ciascuna delle
nostre famiglie, ma 1.000.000 World$ a cinque telespettatori,
sorteggiati tra quelli che hanno chiamato in diretta la trasmissione,
nell’arco della nostra permanenza quassù.
Pazzi, sono dei pazzi. Tutti e due. Tutti.
“Non immaginavo che quassù si potesse essere così vicini alla realtà.
Ho scoperto che non mi importa molto di morire, ho capito che la vita
deve essere vissuta. E, sinceramente, la mia vita mi piace che finisca
così. Ho scoperto che non ho paura. Sono tranquillo e sereno, calmo,
sono consapevole di quello che mi succederà e voglio che il pubblico
mi guardi mentre morirò. Tutti vorrebbero essere al mio posto ma... io
sono stato fortunato. Il progresso è questo, solo questo. Poter scegliere
come morire. E cosa fare per meritarselo. Viva il libero mercato!!!”
124
Questo è il mio discorso e questo dirò.
Moha e Karl facciano come vogliono, non ho voglia e tempo per
convincerli a dire quello che hanno scritto per loro.
Dalla Terra mi stanno chiamando. La conduttrice di “Una Morte, un
desiderio” sembra elettrizzata. Dal tono della sua voce capisco che
qualcosa non va. Dal monitor vedo che ha un foglio in mano. Lo agita
sorridendo. Lo legge e rilegge avidamente. Chiede che dalla regia le
facciano un primissimo piano sul volto. La sua bocca s’inarca in una
risatina isterica di circostanza. Si apre lentamente. Lentamente si
richiude. Gli occhi le brillano. La sua lingua lecca le labbra. Le narici le
si dilatano a dismisura. Il suo respiro è appena affannato. Fissa la
telecamera. Si sposta con la mano una ciocca di capelli.
‒ “Gianluca! Tuo figlio Angelo si è suicidato! Proprio nel bagno dello
studio, qui accanto. Questo è il suo messaggio di addio e te lo leggo:
‘Papà, perdonami ma non ce la farei a vivere con questo rimorso. Io so
che morirai per me e non è giusto. Non è giusto. Perdonami, ti voglio
bene. Arrivederci in paradiso. Angelo.’”
Dallo studio sulla Terra, ascolto gli applausi di solidarietà del
pubblico. La testa mi sta scoppiando. Non capisco. Non è vero. Non
può essere vero.
Una telecamera inquadra mio figlio. Si è impiccato. Vedo mia moglie
Monica. E’ in piedi, impietrita, accanto al corpo appeso di mio figlio.
La vista mi si annebbia. Un senso di irrealtà mi agguanta. Un’angoscia
incredibile mi soffoca. In un attimo, mi rivedo con Angelo tra le
braccia, quando lui era appena nato. E io sono quassù, ora.
Gli occhi mi stanno scoppiando. L’urlo mi esce senza che possa
fermarlo.
‒ “Noooooooooooooooo!”
Karl e Moha mi abbracciano. Sento i loro respiri affannati nelle mie
orecchie. Le loro mani mi accarezzano. Io non so più cosa sono. Non
capisco più niente. Tutti i sensi sono scomparsi. La telecamera
continua a rimanere fissa su Angelo. Aiuto. Aiuto.
Gli applausi dalla Terra sono assordanti.
Mia moglie è svenuta.
Lo schermo viene sdoppiato. A destra c’è l’immagine di Angelo e a
sinistra quella di Monica, a terra, immobile.
125
Aiuto.
Una fiammata si sprigiona attorno al nostro corpo, inesorabilmente ci
avvolge, comincia a bruciarci.
Il programma è terminato.
Dalla Terra lo hanno fatto: hanno pigiato il pulsante giallo di Ultimo
Istante e per noi è finita.
L’ultimo suono che ascoltiamo è quello degli applausi senza fine del
pubblico.
‒ “Guarda, una stella cadente! Esprimi un desiderio, amore...”
Nel parcheggio fuori dello studio televisivo, le labbra dei due ragazzi
si avvicinano e le loro lingue si toccano.
126
In inverno c’è sempre un poeta che scrive
una poesia chiamata “neve”
di
Alessandro Ansuini
https://alessandroansuini.wordpress.com
E così comincia a piovere, verso le sette, sette e un quarto, e continua a
piovere mentre fa buio e il poeta è lì seduto davanti al suo computer
con la pagina di Facebook aperta davanti e guarda fuori, è un
momento di pausa, di distensione, il poeta tiene il mento appoggiato
sulla mano aperta, la sigaretta come il remo di una barca appoggiata
nel posacenere fa salire un filo di fumo, il poeta contempla fuori dalla
finestra con il mento appoggiato sulla mano e mentre fa buio la
pioggia che si riflette fra la luce alonata dei lampioni ha un che di
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incorporeo, di magico, qualcosa simile ai brividi, ai brividi di un altro
raccontati in una cornetta del telefono, e allora il poeta sospeso su
queste sensazioni apre una pagina di word e spinge CAPS LOCK e
digita il nome della poesia che è PIOGGIA che comincia con la parola
“Piove” alla quale seguono una serie di considerazioni molto
intimistiche su questo strano effetto che fa la pioggia riflettente fra la
luce dei lampioni e la sua finestra e sul fatto che continui a piovere per
molto, moltissimo tempo, sembra che il poeta la poesia l’abbia scritta
nell’arco di tutta la notte dove pare, sempre nella poesia, che abbia
continuato a piovere appunto per tutta la notte e c’è una descrizione
del rumore della pioggia che richiama qualcosa di lontano e appena
percepibile e perduto, una bella metafora fra le luci sgranate che si
vedono attraverso i parabrezza delle macchine e le luci che le gocce di
pioggia modificano con un’espressività quasi consapevole, anche un
ricordo lontano, dove il poeta o un oggetto non ben identificato che lo
trasfigura resta in un determinato punto a prendere della polvere, un
sacco di polvere che dopo una serie di vicissitudini viene lavata via,
finché il poeta non mette il punto finale e rilegge la sua poesia
togliendo i refusi.
Poi a un certo punto viene l’autunno, non d’improvviso, diciamo che è
un po’ che girava per le strade, però adesso gli alberi hanno tutti le
foglie secche e qualcuno ha acceso un camino e si sente odore di legna
penetrare dalla finestra socchiusa del poeta che è seduto davanti al
computer con la pagina di facebook aperta davanti, è in quel
momento, nonostante l’autunno sia cominciato da un pezzo che il
poeta sente di essere entrato in comunione con questo cambio di
stagione, e allora apre la pagina di word e spinge CAPS LOCK e
scrive il titolo AUTUNNO di questa sua poesia che comincia in
sordina, tutto un accennare alla stanchezza, alle fasi della vita, alle
cose perdute, chiaramente verso la seconda terza riga scrive la parola
“caduco”, tutto è caduco o sono caduco, questo non è chiaro, per
continuare sulle ali di questa sua sensazione a descrivere
minutamente il paesaggio che si vede dalla sua finestra, che
sostanzialmente riepiloga per strati case, prati, alberi e cielo, fino al
culmine della poesia che è un raccordo fra tutte queste emozioni
soffici e marroni e l’odore di legna che proviene da un camino
sconosciuto, ed è qui che il poeta assesta il colpo infilando una serie di
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metafore fra le cose che accadono e quelle accadute e quelle che
accadranno e riflette che niente, è tutto fermo, le cose si muovono se le
guardi in prospettiva, ma l’autunno è una stagione da castagne e tè
fumanti e non ci si può concentrare troppo sulla consequenzialità
degli eventi quanto sull’impermanenza delle cose che si esprime
attraverso tutte queste foglie che cadono e formano tappeti, queste
foglie che sembrano zampe di anatra mozzate, scrive il poeta e chiude
la poesia per rileggerla fumando una sigaretta, bevendo un tè e
mangiando tre caldarroste.
E benché fosse stata ampiamente prevista da tutti i telegiornali e da
tutti i conduttori del meteo in tv con ampi gesti didascalici arriva la
neve, e il poeta è seduto davanti al computer con la pagina di
Facebook aperta quando i primi fiocchi cominciano a cadere, e
improvvisamente il poeta ha un’epifania, nella mente gli balena
l’immagine di quando a New York l’anno prima era cominciato a
nevicare mentre lui era in strada, e così colto da questa improvvisa
ispirazione apre una pagina di word e spinge CAPS LOCK e scrive
NEVE e centra il titolo e comincia la poesia con le parole “New York”
per continuare dando del tu a una persona immaginaria, forse una
ragazza, che probabilmente era con lui perché continua a dirle
“ricordi”, e “tu ti fermasti” mentre lui appare come un cane bastonato,
in questo frangente della poesia, per riallacciare quella sensazione al
fatto che nevica dappertutto con lo stesso suono, e continuare
infilando una quartina sulla geometria della neve, sulla geometria
incredibile dei fiocchi di neve ingranditi e allora via con la le spirali e
la sequenza di Fibonacci, ed è tutto un richiamo alle leggi naturali
misteriosamente regolate da una qualche entità che si esprime per
forme geometriche, e allora eccolo accennare a dei fiori sotto alle neve,
dei fiori che vanno coprendosi di neve, ma qui si ferma un attimo, ha
come un blocco, mentre cerca di gestire la parola “fiori” e la parola
“fuori”, che vuole far coesistere nel breve battito di una strofa.
Così si distrae leggiucchiando qualcosa su Facebook, lascia un paio di
commenti, uno a suo cugino che è a casa malato e uno a un altro poeta
che ha pubblicato una poesia chiamata INVERNO scrivendogli
“apprezzata moltissimo”, quindi apre la pagina del corriere della sera
e si informa casualmente su cosa succede in Cina, legge tutta una serie
di notizie sull’inquinamento e vede anche qualche foto di Shangai
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avvolta da una nebbia irreale, ma quando torna su facebook ha già
dimenticato tutte le informazioni sulla Cina e legge uno status di un
suo amico col quale non è per niente d’accordo, uno stato riguardante
l’ultimo pezzo di David Bowie, quindi apre un video di Richard Kern
che si chiama “Face to panty ratio” dove scorrono una serie di ragazze
e delle loro mutande che lo ipnotizzano, finché l’occhio gli cade
sull’icona di word in basso a sinistra e si ricorda della poesia, così la
apre, la rilegge e aggiunge qualcosa del tipo “in inverno c’è sempre un
poeta che scrive una poesia chiamata neve” e questa cosa lo
galvanizza, perché anche lui sta scrivendo una poesia chiamata neve e
questo gioco postmoderno di irridere gli altri includendo se stesso lo
fa sentire superiore, in qualche modo, e allora spalanca la finestra e si
mette ad apprezzare il silenzio che fa la neve quando cade e si
concentra su questo, appena dopo i fiori coperti di neve, si concentra
sul silenzio che fa la neve quando cade e lo descrive accuratamente
scegliendo delle parole dal suono morbido, tipo “plana” e “maglione”
e “questua”, a un certo punto decide addirittura di sparpagliare
graficamente le parole sul foglio proprio come fossero una nevicata e
questo lo aiuta incredibilmente a trovare lo slancio finale per la chiusa
della poesia che termina con un punto di domanda, qualcosa come
“sorrideresti ora per me?”, ma non proprio questo, qualcosa di simile
che non si capisce se sia rivolto alla ragazza misteriosa che forse era
con lui a New York o alla neve stessa.
A quel punto il poeta rilegge la sua poesia mentre fuori continua
silenziosamente a nevicare e il suo volto riflesso nel vetro della
finestra ha un che di diabolico, una sentenza spigolosa di triangoli, ma
il poeta non se ne avvede poiché quando volta il viso verso la finestra
i triangoli scompaiono, così finisce di leggere la poesia appena
terminata e addirittura sospira per le sue stesse parole, che sono
riuscite a ricreare, secondo lui, proprio quello che voleva comunicare,
la sua sensazione esatta di quel momento in contemplazione della
neve, come se la neve stessa avesse qualcosa da dire, da comunicare
cadendo in quel modo e lui fosse riuscito a interpretare questo enigma
e a dargli una chiave di lettura e si sente incredibilmente grato per
questo dono che gli è stato dato di inserirsi fra le fessure del mondo
come acqua che riesce a dare forma all’invisibile così decide di postare
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immediatamente la poesia su Facebook e i fatti gli danno ragione,
perché sette like in mezz’ora non sono per niente una cosa da poco.
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La visita
di
Barbara Ferraris Di Celle
https://pillaccia.wordpress.com/
‒ Tra una settimana sarò lì, passerei volentieri una serata insieme a
voi. Magari a cena … ‒
Appesa al filo del telefono, raggiante, Enrica aveva accolto con
entusiasmo la proposta di Alessandro e prima ancora di aver
riattaccato la cornetta, aveva già iniziato il conto alla rovescia, come
era solita fare da bambina prima di ogni grande evento.
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Da più di un anno lei e sua sorella non vedevano il nipote e quella
telefonata, così inattesa e insperata, aveva di colpo trasformato una
giornata dalle premesse tanto monotone, così uguale alle altre da
confonderle tutte nella mente, in qualcosa da raccontare. In un attimo
c’era un’infinità di cose da decidere, preparare e organizzare! Doveva
immediatamente avvisare Antonia – come al solito la noiosa doveva
essere in giardino da ore a curare le sue stupide rose – e iniziare a
pensare al da farsi.
“A cena”, aveva detto Alessandro. Ma chissà se da solo o con moglie e
figli; si era dimenticata di domandarlo. Non avrebbe fatto differenza,
l’importante era che ci fosse lui e poi se c’erano i bambini, meglio:
portano tanta allegria. La moglie, a dir la verità, non l’aveva mai
potuta sopportare, così supponente, altezzosa. Nelle rare volte in cui
era andata a trovarle, pareva davvero che si stesse concedendo di
malavoglia al popolino. In fondo, forse, non era corretto biasimarla
oltremisura: doveva essere una bella noia andare a trovare due zitelle
ottantenni, rimuginava Enrica più per tacitare la coscienza e cacciare i
brutti pensieri che per reale convincimento.
D’altro canto, era pur vero che lei e sua sorella avevano una vita intera
da raccontare, magari non densissima di avvenimenti, ma per lo
meno lunga e talvolta condivisa con altre esistenze più interessanti
della loro.
Enrica e Antonia vivevano insieme da sempre. Era semplicemente
capitato così. Era capitato che nascessero quasi un secolo prima nella
stessa e numerosa famiglia; era capitato che solamente loro due, fra
tutte le sorelle e i fratelli, non si fossero mai sposate; ed era capitato,
allora, o forse era stata una scelta ‒ l’unica ‒ di cercare di allontanare
quel doloroso senso di vuoto unendo le loro solitudini.
Un connubio ben riuscito, a conti fatti, in cui la tranquillità e la
pacifica convivenza avevano quasi sempre avuto la meglio su piccoli
rancori e inevitabili dissidi le cui origini avevano lontanissime radici.
Avevano due caratteri perfettamente complementari e ormai vivevano
in assoluta simbiosi.
Il primo chiarore dell’alba le sorprendeva già in piedi, ordinate e
vestite di tutto punto, le lunghe trecce bianche raccolte in uno chignon
fatto di gesti rapidi e sapienti, gesti antichi. Quando il profumo di
caffè non aveva ancora abbandonato le tre stanze di cui era composta
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la casa, le anziane donne solevano raccogliersi in preghiera raccomandando l’anima a Dio perché anche quel giorno trascorresse senza
traumi. Poi un po’ di spesa, sempre quella, e brevi ma accurati
preparativi per i loro semplici pasti.
Il pomeriggio lo passavano cucendo e ricamando, ogni giorno un po’
di meno per via della vista che piano piano se ne andava.
Questi erano i loro ritmi puntualmente scanditi dall’antico pendolo ‒
un tantino inquietante ‒ che conservavano come una reliquia in
salotto. Aspettavano con ansia la domenica per la messa, per
scambiare quattro chiacchiere con le altre vecchiette del quartiere e
per le pastarelle che solo una volta alla settimana si potevano
concedere.
Come supposto da Enrica, Antonia si trovava in giardino con quel suo
buffo cappello di paglia sulla testa, vecchio almeno quanto lei, e con i
guanti ormai lisi e tutti bucherellati ‒ cosa li indossava a fare dal
momento che erano tutti rotti? ‒ e di certo non si aspettava la notizia
che stava per darle.
‒ Indovina Antonia: sai chi ha telefonato poco fa? ‒ Senza neanche
voltarsi e fingendo indifferenza, Antonia fece segno di no con la testa
ma Enrica, che la conosceva fin troppo bene, sapeva che la sorella
stava facendo di tutto per celare l’impazienza e la voglia di conoscere
il nome di quel misterioso quanto raro personaggio. Antonia stava
passando rapidamente in rassegna tutte le persone che potevano
telefonare a casa loro: Padre Bruno aveva già chiamato la settimana
precedente e quindi per almeno un mese non si sarebbe fatto sentire;
con Adele si erano già incontrate in chiesa e il parentame sparso non
si faceva mai sentire. Dunque chi poteva essere? Vinta dalla curiosità,
ma senza dare troppa soddisfazione alla sorella, si risolse a chiederle il
nome.
‒ Alessandro! Pensa Antonia, ha telefonato proprio lui, in persona, e
ha detto che la settimana prossima sarà qui e vorrebbe passare
un’intera serata insieme a noi. Non è fantastico? ‒
Il consueto tremore delle mani di Antonia si fece appena più evidente,
mentre un sorriso le illuminava il volto. Alessandro, il nipote
prediletto, il quasi-figlio che quasi avevano allevato, stava per
arrivare. Non poteva crederci e in uno slancio improvviso si ritrovò
abbracciata alla sorella.
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Non aveva importanza che Alessandro non si facesse quasi mai
vedere né sentire ‒ del resto con quel lavoro che faceva, così
importante… ‒ l’essenziale era che stesse per arrivare.
In un turbinio di gesti, sovrastando l’una la voce dell’altra,
concitatamente iniziarono a pensare al da farsi. Era essenziale una
pulitina alla casa, soprattutto alle tende, così ingiallite, e quei copridivano ormai lisi e tristi… Senza parlare dei centrini di merletto; tanto
per rifarli ci sarebbe voluto un attimo! E poi il menu, non andava
affatto trascurato il menù; in fondo mancava una sola settimana.
I giorni volavano in preparativi via via più frenetici; sembrava quasi
che le due sorelle stessero organizzando un matrimonio, tanta era la
cura minuziosa che mettevano in ogni più piccolo dettaglio. Tutto il
vecchio quartiere ne era al corrente e quasi quasi l’attesa aveva
coinvolto un po’ tutti. Ci si chiedeva chi fosse mai questo nipote tanto
atteso.
Alla vigilia del giorno convenuto tutto era pronto: avevano lavorato
alacremente in cucina perché fosse tutto fatto in casa e secondo i gusti
della famiglia di Alessandro. Come antipasto avrebbero servito dei
calzoncelli ripieni ‒ la passione della moglie ‒ e pomodori farciti con
zucchine e scamorza. Qua e là avrebbero aggiunto qualche
stuzzichino saporito soprattutto per invogliare i più piccoli.
Avrebbero poi servito una pasta fredda con verdure grigliate e una
crema verde (in fondo anche loro avrebbero dovuto mangiare
qualcosa). Infine avevano previsto degli spiedini di agnello con
couscous accompagnati da un’insalata mista con tarassaco.
Non sarebbe mancata, poi, la vera passione di Alessandro: la crostata
di pesche al vino rosso che mangiava fin da piccolo.
Non restava che pensare ai vini e alle cose che necessariamente si
sarebbero dovute fare solo all’ultimo minuto.
Le rose, disposte su tutti i vasi disponibili, erano naturalmente quelle
di Antonia.
Arrivò il gran giorno; Enrica e Antonia si erano alzate ancora prima
del solito e ognuna per sé ripassava nella mente i propri compiti.
Insieme si recarono dal parrucchiere ‒ quant’era che non lo facevano?
‒ e si fecero fare anche le mani. Si sentivano come due adolescenti e a
volte ridevano, eccitate, per delle inezie. Verso le quattro del
pomeriggio il telefono squillò e fu Antonia a rispondere.
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‒ Certo, capisco. No, non devi fartene uno scrupolo, non avevamo
ancora preparato niente, figurati… Sai che puoi venire quando vuoi,
la casa è sempre aperta. Senz’altro, Enrica te la saluto io. Ciao, un
bacio ai ragazzi.
Uno sguardo a Enrica e poi uno in direzione della cucina, da dove
provenivano tutti quei profumi dimenticati.
Lentamente, in silenzio, cominciarono a far tornare la casa quella di
sempre.
Riposta la tovaglia delle grandi occasioni, sul tavolo non rimaneva che
quel vaso con le rose che avevano già cominciato, adagio, ad
appassire.
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Il papa
di
Francesco Smaldino (taughtbythirst)
https://thecatswillknow2012.wordpress.com
(prologo)
Il Papa benedice a mezzogiorno i convenuti deferenti nella Piazza che
sa di sugo stracotto misto a panni stesi e che ignora le evidenze
spiumate appese al gancio oltre le vetrine delle macellerie in discount
da aviaria.
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Con fare solenne e bonario dispensa benedizioni di vetro opaco e
infissi di regole buone, perché forse non si è ancora pontificato
abbastanza sulla salubrità delle carni bianche e su quanto le arance
siano il miglior scudo contro l’influenza.
Sa di avere un tumore all’esofago al penultimo stadio eppure mastica
serafico frittura d’impasto di fecola e aspira polpa di ricci, ghignando
col ghigno beffardo che hanno le figurine di carparo giallo fra le curve
d’acanto della Chiesa di San Basilio, il sorriso di chi possiede parole
monodose per comunicarti quello che è bene per te e candide armate
di tredicenni per far scoppiare in ogni istante la mattanza nell’improbabile circostanza che tu non sia convinto.
“Ossa, Don Alfredo, ossa d’uomo.”
“Una bella fregatura, ingegné.”
“Se ci facevamo sgamare erano cazzi amari… Agli operai ho fatto
scoperchiare il tombino della fogna e ce le hanno buttate giù.”
“E meno male, Ruggierobello, ché la burocrazia della politica del
ministero così non romp’u'cazz…”
La villa di Padre Cosimo della Marra mica poteva aspettare la
Sovrintendenza; se a quelli gli girava per il verso sbagliato addio
concessione e dai muratori algerini si passava alle mani da spendere
dei laureandi in archeologia per tirarne fuori una tomba a camera
oppure un sepolcreto baronale dell’epoca del re spagnolo. E tanti
saluti ai sogni finalmente da realizzare con i risparmi tirati su grazie a
una vita a dipingere statue di Madonne con i toni del rosso e ad
aspergere d’acqua santa i panni sporchi del Quartiere Carlo V. Che
poi il re non c’è mica mai venuto qui: è solo il belletto della storia doit-yourself e la disperazione mista a irritazione degli stoici storici e
degli storiografi. Eppure tutti a dire "grazie alla munificenza
dell’imperatore che tanto amò questi luoghi", "ad attestare il ruolo
strategico di B. fu proprio il sovrano che ne potenziò la piazzaforte",
"un periodo florido nelle arti e nei commerci grazie al potente sovrano
sopra le cui terre il sole non tramontava mai" (con pure un evidente
errore di attribuzione, del resto al giorno d’oggi l’unica fonte
bibliografica attendibile sono gli articoli di gossip)…
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(prima)
Di pietra bianca di T., sotto il sole allo zenit, il Castello irradia e
ruggisce Orano agli occhi di Ahmid, nato di maternità sgozzata e
accecata nella città della Peste il giorno del plebiscito, ma morto
dentro già da tempo (forse perché un po’ più sfigato di Khaled).
Cantante part-time, citato perfino da "Le Monde" per auto-censurare
l’improvvida fuoriuscita di un’inchiesta sul passato come torturatore
di Monsieur Le Pen nell’isola, ha sempre meno tempo da dedicare al
pop nobilitato da partiture di liuto, anche per via di dodici ore al
giorno consumate alla Fiat di Algeri. Poi barattate, causa ostinata
sopravvivenza del corpo, con le ugualmente non confortevoli giornate
da weekender in stato straniero negli stabilimenti di concimi chimici
ora dismessi della Montecatini.
Infine, riciclandosi, s’impara anche ad affiancare mattoni e spargere
sabbiature, benché, maturata una certa coscienza enologica, la caduta
dal trabattello sognando di essere Rabat Madjer al 77° minuto di
Porto-Bayern e gli otto mesi di prognosi abbiamo smosso il reparto
ortopedia e un decreto ingiuntivo d’espulsione da attendersi dietro le
sbarre caritatevoli, poi limate, del CPT.
“Io so il sapore del sangue sulla lingua, che poi scende giù nella
gola… Dolce più di questo Primitivo di Manduria, fratello.”
Senja all’anagrafe Costantinu annuisce presso lo slargo dei fianchi e
decreta l’apertura dei giochi di corpo (labbra in forma di canotto a
svellere la carne fattasi osso), due metri distanti dal funesto vociare
dei marmocchi al di là della siepe di rododendri e chissenefrega se
qualcuno li vede, al massimo si finisce su Youtube a fianco di Britney
senza il Segreto di Victoria.
Un minuto e diciotto secondi dopo Senja sputacchia sotto lo zampillo
gelido della fontana fascista smontata nel ’48, poi rimontata e
rimaneggiata nel ’55 e così via a intervalli ciclici di 7 anni, quindi
s’accende una Merit per detergersi la bocca e s’avvia verso Via Banco
di Cambio. Più oltre, la vita disabita il suo monolocale per nove nel Le
Corbusier dai fianchi sdruciti e dai gerani scotti al centro del
Quartiere Carlo V, creatura tirata su come si fa con le formine per i
dolci da un paio di geometri fattisi proclamare ingegneri a mezzo
stampa.
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In casa, Senja ingolla due pasticche di Sereupin, poi s’affloscia sotto
uno strato di cotone in attesa della Nouvelle Cuisine a cura della
Mensa delle Suore di Madre Teresa, dopo essere riuscita a sgusciare
compiaciuta dalle manileste del condomino del piano rialzato, un
brav’uomo a detta di tutti, solo un po’ troppo di manico largo.
Del resto Vito detto Dante per via di qualche sonetto dedicato
all’Ammore, a Mammà e al protagonista di un film girato a Matera
("fui comparsa nella passione", ama ripetere in chat con considerevole
efficacia involontaria) ha sempre sofferto di erezioni cutanee, flagello
dal quale non è riuscito a guarire nemmeno presso la Casa
Circondariale di T., dove forte di una stazza prossima al quintale e
mezzo s’è visto costretto ‒ si dice ‒ all’eterodossia dell’orgasmo con
mariuoli di basso profilo.
(dopo)
“Buona domenica” ‒ tossiscono Carmela e Giovanna madrine del
Sommo e immarcescibili prefiche, dirette alla messa delle 11 e 30 e
reduci impeccabili nella loro tenuta in Tintura del Diavolo da casa De
Nittis, dove Gaetano ha lasciato un vuoto incolmabile e due fondi
d’investimento hi-tech andati in malora ‒ “La mamma lassù ti guarda,
guaglione, fai u’brav e non la fare soffrire più.”
‒ “Buona domenica Donna Carmela. Donna Giovanna” ‒ inchino a
baciare la mano avvizzita ‒ “Nessuno può dire male di me, il Signore
e mio Padre lassù in Cielo mi sono testimoni che sono un bravo
guaglione…”
Dante, però, non lo devi toccare sull’onore, sei gli fai un livido lì puoi
essere pure il Padreterno, ma Dante non perdona, sorseggia bile e gli
s’innescano i tensioattivi e ti serve il piatto freddo della faida come
pranzo della Domenica, altro che penne rigate irrigate di pomodoro e
manzo d’importazione rumena.
Riposta la libidine e sfoderata la dodici colpi di provenienza Durazzo
s’incammina blando verso la Piazza che sa di sugo stracotto misto a
panni stesi e urlando "Ricchione a chi?" scarica una gragnuola di
proiettili e giusto un secondo dopo il Papa sviene senza mai più
risvegliarsi causa dimenticanza del cuore.
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Un colpo frantuma la vetrina della Murrina, un altro fa perfettamente
centro nella prima "o" della scritta "automatic sexy shop" di una
dispensatore di Akuel installato di recente, due vanno a ledere organi
non vitali di Don Alfredo, detto il Papa, boss del Quartiere delle Sette
Rue o Carlo V, quattro s’infrangono contro la parete est del Castello,
uno dei quali di rimbalzo straccia jeans e qualche centimetro quadrato
di coscia destra ad Ahmid ancora infrattato a rollare poco distante
dallo zampillo gelido della fontana.
L’ultimo si dirige verso il cranio di Giulio, sfondandolo con schizzi
come di melograno, fra le urla di sua madre che oscurano quelle dei
chiazzieri e lo starnazzare delle prefiche che così non smetteranno il
lutto. Almeno fino alla prossima discesa da Mediaworld in occasione
di una fila agli ingressi per il ritiro di un ricevitore per il digitale
terrestre in comodato gratuito.
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Senza dimora
di
Baricco Sfondato
http://www.scritturafresca.org
Inverno. L’asfalto velato da una patina di brina riverbera la luce dei
lampioni e l’alito disegna nuvolette che svaniscono nel nulla. Notte.
E proprio di notte, la gente piscia per le strade, spesso accanto ai
cassonetti o agli angoli dei sottopassi. Giulio si chiede perché, mentre
piscia contro una campana gialla per la raccolta differenziata di
plastica e lattine, sferzato da zaffate di tanfo più pungenti del freddo.
Quando la vescica s’è già svuotata per metà, viene colto
dall’ispirazione e si mette a cantare a squarciagola quella vecchia
canzone di Arisa al festival di Sanremo.
142
‒ “Perché così mi sentooo, accanto a te, pisciando controventoooo…”
Non contento, ripete il verso e nel gorgogliare “accanto a te”, concede
un’amichevole pacca sulla spalla alla campana gialla. Una folata più
veemente di maestrale spazza via l’odore acre dell’urina, ma gli gela
la punta dell’uccello. Chissà se anche la mia, eh… puzza così tanto, il
giorno dopo ‒ si chiede ‒ o se è il mescolarsi del piscio di persone diverse che
causa reazioni chimiche speciali. Trova l’intuizione interessante e ci
ricama su, anche perché il cuore, visto il rischio di congelamento del
cazzo, dirotta in tale direzione ingenti quantità di sangue lasciando il
cervello a bocca asciutta. Tipo le miscele di tè, che devono il loro aroma alle
diverse componenti, a blend selezionati ‒ riflette serioso rievocando
antiche pubblicità ‒ e infatti i conti tornano: anche il tè è giallo, proprio
come il piscio e la campana.
‒ “…pisciando controventoooo…” ‒ canticchia nuovamente, a mezza
voce, dopodiché ripone l’arnese prima che l’ultima goccia di urina si
trasformi in stalattite. Per un attimo lo invade una sensazione di
perfezione assoluta, come quando capita di trovarsi non solo al posto
giusto nel momento giusto, ma anche di fare la cosa giusta. Quella
della perfezione è un’ossessione che l’ha sempre accompagnato nella
vita e d’altro canto, in tempi di limitate capacità immaginative il
supermercato globale è pieno di sogni patinati, tette floride e anime
belle, onde per cui il bisogno indotto più potente è proprio quello: la
perfezione assoluta, messa a scaffale (amen) insieme a tutto il resto
per cui c’è Mastercard.
Eppure qualcosa stona. Forse è lo strappo sulla coscia del pantalone
destro, forse è la tasca scucita o forse è la cantilena infantile che
riemerge da un anfratto polveroso del cervello e recita “chi non piscia
in compagnia o è un ladro o è una spia”. Magari, in ultima analisi, è che
ogni cosa sembra sempre giusta prima e sbagliata un attimo dopo.
Fatto sta che Giulio avanza tutto sgualcito lungo il marciapiede a
notte fonda e nessuno se ne cura.
Nessuno tranne Giacomo, detto Jack, che nemmeno lo conosce, ma ha
la sfortuna di aver scelto come dimora per la notte un’insenatura
accanto alla porta grigia dei contatori dell’Enel di un palazzo di dodici
piani, al civico 1203 di Viale Krasnodar. La scelta, a prima vista
illogica, è dettata invece dal fatto che dalle quattro feritoie orizzontali
nella parte inferiore della porta in ferro esce un alito d’aria tiepida.
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Giulio ondeggia assorto nelle sue meditazioni e inciampa sul
millefoglie di cartone in cui s’è avvolto il suo consimile col risultato
che il buon Jack sbuca fuori come quando si morde un bignè rimasto
in fondo al frigo e di lato cola giù uno spurgo di crema avariata.
‒ “…azz…” ‒ biascica con voce verdognola e stridente ‒ “…guadda
dove metti i piedi, stonzo…”
Sorpreso dalla comparsa di Jack, Giulio fa un balzo indietro cadendo a
sedere.
‒ “Scu-scusa” ‒ farfuglia, destando nell’altro un’incontenibile ilarità.
‒ “Ah, ah, ah, ma da dove sbuchi, ffatello? Sei poppio un coglione…”
‒ sbadiglia mostrando le gengive spopolate ‒ “se ti facevo *buh!*
facevi una cappiola all’indietto? Ah ah…”
La risata risulta particolarmente irritante, forse per l’assenza quasi
completa di denti, forse per la sua durata quasi infinita, onde per cui
Giulio si rialza in piedi e avanza minaccioso verso l’uomo ancora
semi-coperto dai cartoni.
‒ “Vieni fuori che ti spacco la faccia…”
Jack esita, intimorito da tanta improvvisa aggressività, anche perché
non gli è ben chiaro quale dentro stia abitando e come si possa venir
fuori da un esterno.
‒ “Eeeeeh… respìa a fondo, amico. Dico, siamo tutti sulla stessa bacca
no?”
‒ “Puah, parla per te, stronzo! Non voglio avere nulla a che spartire
con te…”
‒ “Senti, lasciamo staee, ok? Non mi piacciono le guee faticìde…” ‒
mugugna Jack facendo il gesto di voltarsi dall’altra parte per
rimettersi a dormire.
*Guee?*, delira Giulio, ma se gli manca la erre, allora doveva dire *gu* e
basta, no? E’ tutto un imbroglio, tutto un imbroglio! Questo mi sta
prendendo per il culo e poi… che orrore quella bocca che sghignazza senza
erre!
Fa un passo avanti e assesta un calcio ai cartoni facendone volare
alcuni fino in mezzo alla strada. Scoperchiato per intero, l’odore di
Jack mima un pugno di baccalà mal scongelato che colpisce in pieno
naso l’aggressore.
Io non puzzo così, ragiona Giulio, io non puzzo così, io non…
L’altro, tiratosi a sedere sul marciapiede resta inerte e fissa inebetito lo
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sconosciuto che all’improvviso parrebbe essersi trasformato in un
temibile alieno color verde pisello con le antenne. Per Giulio, invece,
lo sguardo sbarrato non può che sottintendere un ulteriore guanto di
sfida.
‒ “Credi di farmi paura, eh? Non mi fai nessuna paura, bello!” ‒
farnetica agitando le braccia e, a conferma di ciò, colpisce l’altro sulla
coscia destra con un preciso calcio di punta.
Jack esplode un grido acutissimo e si chiude in casa, tutto rannicchiato
nell’anfratto tra il muro e la porta di ferro. Se la strada fosse un cestino
di vimini, osservando la scena dall’alto sarebbe inevitabile scambiarlo
per un gomitolo di lana grigia variegata. Un inquilino del decimo
piano si affaccia a una finestra per dare corpo al pensiero precedente,
poi, com’è apparso, sparisce dal racconto. Giulio guarda in su,
sentendosi osservato, ma nel cielo nero non c’è traccia dell’astronave
madre. L’altro apre il solo occhio destro per spiare le mosse
dell’aggressore e sorprende l’alieno assorto a scrutare il firmamento.
ET telefono casaaa, pensa Jack, ET telefono casaaaa… In qualche modo, il
tormentone gli trasmette un senso di conforto, così continua a
ripeterlo mentalmente, a ciclo continuo: ET telefono casaaa…
Pausa.
Sebbene tutti, autore compreso, restino in attesa col naso all’insù per
una manciata di minuti, nessun raggio trattore giunge dall’oscurità
per far spiccare il volo a Giulio, che alla fine si riscuote e torna a
mulinare le braccia invitando Don Chisciotte a sferrare un attacco; ma
Jack non ha la benché minima intenzione di recitare la parte del capro
espiatorio, quindi, contrariamente a quanto previsto dal copione,
smette di belare il suo mantra e scoppia a piangere: sa per esperienza
che più d’una volta funziona.
Ed in effetti, è una di quelle volte.
Giulio ripone le braccia nella fondina e rinuncia allo scontro a fuoco in
stile “Sfida all’Ok Corral”.
‒ “Sembri un ragno dentro una crepa del muro” ‒ sproloquia con tono
sprezzante ‒ “statti pure rannicchiato nel tuo piccolo buco di merda…
Bah…”
Dà le spalle al gomitolo umano e s’incammina di nuovo, con passo
strascicato lungo il marciapiede. A mano a mano che l’altro si
allontana, Jack riprende un minimo di fiducia. Si alza, zoppica fino al
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centro della strada per radunare i cartoni e osserva la sagoma di
Giulio farsi sempre più piccola all’orizzonte. Non appena giudica che
l’aggressore è ormai a distanza di sicurezza, gli urla dietro.
‒ “Non è veoo!! Non lo vedi?” ‒ indica tutt’intorno ‒ “La mia casa è
così gande che sta dovunque: un balcone dà sul Colosseo e uno sui…
Campi Elisi!”
La sagoma in fondo alla via è ormai sul punto di sfumare, desiderosa
di svoltare l’angolo. Così Jack insiste e rincara.
‒ “Abito ogni angolo del mondo e… e se spalanco le finètte vedo
l’infinito! ‒ grida a squarciagola ‒ “Tu cosa ne sai dell’infinto, eh?
Eh???!? Che vuoi sapenne, tuuuu?”
Al secondo piano del mega-condominio, qualcuno tira su di scatto
una serranda e un’ombra sporge il suo teschio spettinato oltre il
davanzale. Un attimo dopo ‒ splashhh!! ‒ una secchiata d’acqua gelida
chiude l’arringa del barbone.
Giulio percorre vie parallele, ma anche perpendicolari. Nessuna
obliqua.
Cammina.
Cammina, cammina.
Cammina, cammina, cammina, passano le ore, passo dopo passo, e lo
spasso di vagare senza fine a notte fonda si smarrisce per le vie d’una
città deserta. S’aggira su se stesso, Giulio, immerso in considerazioni
indegne della seppur minima considerazione, finché verso le quattro,
non prende corpo un intrinseco bisogno di materasso. Così, forse per
caso, forse per necessità, le gambe prendono il controllo della
deambulazione e lo portano all’incirca a metà di via Monte Bianco.
Curioso, pensa il cervello di Giulio ponendo l’accento sull’improvvisa
intuizione, che la meta si trovi proprio a metà via. Così, in attesa che il
cervello finisca di fare i suoi bisogni, l’uomo rimane immobile davanti
al portone d’ingresso del palazzo al numero civico 340 di via Monte
Bianco. Si tratta di un edificio piuttosto signorile, di quelli dove
d’estate i gerani parigini tentano invano il suicidio gettandosi oltre i
lucidissimi davanzali in marmo.
Giulio contempla la placca dorata su cui sfilano impettiti nomi e
campanelli, disposti su due colonne da dodici. Esita. Sa che sarebbe
inutile suonare.
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Sospira, estrae le chiavi da una tasca scucita, fa scattare la serratura ed
entra.
Sguscia oltre l’androne dell’ingresso e s’infila agile nell’ascensore,
anche se, vista l’ora, incrociare un vicino di casa sarebbe davvero il
colmo della sfortuna! Comunque si rilassa solo dopo essersi appartato
nel suo appartamento: sarebbe piuttosto disdicevole farsi sorprendere
conciato come un barbone.
Accende la luce dell’ingresso, si richiude la porta alle spalle e getta il
mazzo delle chiavi sul tavolo accanto all’appendiabiti. Lo scroscio
metallico riecheggia nelle stanze vuote, ancora buie. Si guarda attorno,
inquieto: qualcosa non va… il tablet non è al posto esatto dove l’ha
dimenticato, sopra la mensola. Odore di chiuso. Stagnante.
‒ “C’è nessuno?” ‒ domanda con un filo di voce incerta.
‒ “Certo che sì, bel maschione, ci sono io” ‒ risponde l’app voce
pornostar del tablet dal divano, vibrando di sensualità pre-impostata.
Giulio sussulta, poi sbuffa e perlustra ogni angolo dell’abitazione,
facendo scattare gli interruttori in cucina, bagno e camera da letto:
ogni cosa è al suo giusto posto, compreso il vuoto.
Il familiare ronzio della ventola del computer perennemente acceso lo
invita a sedersi alla scrivania. Così apre Facebook e scorre la bacheca:
più di un ex-compagno di università ha già postato le foto della serata
scatenando un profluvio di like, commenti e condivisioni tra i vari
partecipanti alla festa. In una Giulio sta ballando sui tavoli,
visibilmente ubriaco. Dev’essere stato un attimo prima della caduta in
cui s’è strappato i pantaloni… come abbia fatto a non spaccarsi l’osso
del collo resta un mistero. Pensa sconsolato a domenica pomeriggio,
quando si sveglierà, e tra mal di testa ed ossa rotte il suo corpo urlerà
di dolore. Comunque ne valeva la pena, riflette, in fondo il ventennale del
mitico primo anno di corso di economia e commercio andava celebrato in
modo consono. Clicca una serie di *mi piace* e accanto a una foto di
Francesca scrive: “gran bella festa, ragazzi, sembrava di essere tornati
all’università!” In fondo ho fatto bene a prendere la metro e andare a piedi
come allora, prosegue assorto nelle sue riflessioni, mancava solo che
rigassi la R8 o che sforassi l’etilometro!
Passa a Twitter, ma al primo, timido click si apre una finestra pop-up:
“Il nuovo iPhone 7s è qui, cosa aspetti? Stai al passo coi tempi. Apple:
smartphone sempre più intelligenti per consumatori sempre più
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rincoglioniti.” Probabilmente un virus informatico diffuso dagli
Enterroristi, quelli convinti di poter combattere il sistema operativo
dall’interno. Chiude la finestra spubblicitaria e dà un’occhiata
all’hashtag “terremoto”, uno dei più caldi dopo le ultime scosse.
Francesco Consalvo piange la sua casa andata semi-distrutta. Giulio
risponde d’istinto, senza smentire il cinismo un po’ carognesco tipico
del suo twittare: Beh, sei vivo, no? Allora accontentati che tanto anche
avere una casa senza avere un mondo decente dove metterla non è tutto ‘sto
godimento.
E’ così abituato a ragionare in 140 caratteri che senza rendersene conto
gli esce un twoosh. La sedia a rotelle della postazione computer, però,
se ne avvede e infatti quando Giulio si alza spingendola indietro batte
le mani e accarezza il pavimento sussurrando un twooooshh
ammirato. Si sfila la giacca e studia la tasca scucita. Il pantalone è da
buttare, ma la giacca è bene recuperarla visto quanto gli è costata.
Sorride: il fatto che stia tornando a ragionare in termini di economia di
mercato vuol dire che la sbornia inizia a svaporare.
Si sposta in bagno e si concede una doccia chilometrica: venti minuti
buoni di trattamento rigenerante a base di Aqua-Amara, lo shower gel
di Bulgari che appaia mare e amare in un simbolismo armonico di
arancia amara, bergamotto, mandarino, evocando i profumi del
Mediterraneo più esotico. Quando alla fine riemerge dal box,
l’accappatoio lo abbraccia con evidente trasporto.
Phon.
Si asciuga i capelli.
Lo specchio, colto da un moto introspettivo, riflette sul senso
dell’esistenza e osserva un giovane commercialista rampante sui
quarant’anni, uno di quelli con lo studio in centro e la clientela a sei
zeri. La menta del dentifricio è meno vivace del solito, ma lo
spazzolino elettrico impone comunque il giusto moto rotatorio alle
setole della testina e i denti splendono impettiti su tre file.
Si butta sul letto e dopo un attimo crolla in un sonno profondo.
Sogna sogni che lo sfiorano appena, sfumando rapidi come una folata
di vento, per essere completamente svaniti il giorno seguente.
“Perché così mi sentooo, accanto a te, sognando controventoooo…”
canta sorridente negli universi paralleli ed infiniti che prendono corpo
in modo automatico nel suo cervello. Beve e sghignazza. Salta, balla, si
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diverte tornando ad indossare i suoi vent’anni. Cade e si rialza.
Incontra Jack. “Sai cosa ti dico ffatèlo? Che la casa è quel posto dove
quando bussi pee entaare, sono costetti ad appitti la potta… ah ah
ah… senti come suona buffo… costetti ad appitti la potta, ah…”. E
non sa più se sia la sua voce o quella di Jack a ridere e a parlare. “Io
non ho una casa”, dice, “neanch’io” risponde l’altro, e via a ghignare
senza erre, senza strumento, senza scopo e senza fine. All’infinito. In
cielo, in un tripudio di luci sfavillanti e di arcobaleni spaziali, per un
attimo appare l’astronave madre, ma subito si dilegua a velocità
stellare lasciandolo orfano. “Vieni, non c’è tanto spazio sotto i cattoni,
la mia casa è infinita ma il letto è a una piazza…” Si rannicchiano
sotto gli scatoloni disfatti e la puzza è la stessa e si annulla. “Anche
casa mia è strana: a volte mi capita che appena entrato mi chiudo la
porta alle spalle e sono già uscito… eh…” “Ah, ah ah…” Giulio tira
fuori una mano dalle coperte di cartone e twitta: Beh, sei vivo, no?
Allora accontentati che tanto anche avere una casa senza avere delle persone
decenti da metterci dentro non è tutto ‘sto godimento. E inspiegabilmente,
anche se la stringa è di 149 caratteri, viene pubblicata per intero. Forse
per questo, si scatena una nuova serie di piccole scosse di terremoto e
tutti si ritrovano in strada per mettersi in salvo, anche Consalvo.
Giulio e Jack lo salutano e guardano la gente accalcarsi sull’asfalto
buio a parlottare concitata. E’ come se si conoscessero tutti: i vecchi
scherzano coi ragazzini, una ricca signora in crisi isterica si fa
consolare da un netturbino e le badanti si accudiscono l’un l’altra. Poi,
i due si rimboccano addosso le coperte di cartone, visto che d’un tratto
si è alzata una bella arietta di tramontana, e continuano a sognare
controvento.
Sognare.
Controvento.
Tic.
Tac.
E’ così leggero, il tempo, che basta un lieve controvento in sogno per
portarlo via.
Sì, sì, proprio così…
Quando Giulio si sveglia, come previsto, è giorno inoltrato. Ha un
forte mal di testa e dolori che gli mordono tutta la schiena.
Silenzio tumefatto.
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Resta immobile per qualche minuto, intento a fissare il soffitto.
Indugia pigramente, puntellato dalle virtù ergonomiche del biomaterasso in lattice di pura linfa vegetale, conforme all’Oeko-Tex
Standard 100 che certifica i materiali degni di un dio. Ha dimenticato
di chiudere le imposte e s’incanta a guardare il sole che gioca con le
gocce di cristallo del lampadario, in un tripudio di luci sfavillanti e di
arcobaleni spaziali. Un rutto al retrogusto di cartone lo colpisce allo
stomaco.
D’un tratto scatta in piedi, come l’avesse morso la tarantola.
Tira via le lenzuola, senz’altro infestate dal sogno, e corre a ficcarle in
lavatrice.
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Compenetrazione
di
Emanuele Mandelli
http://sussurrandom.it
1. Il contratto
L’inserzione sul giornale suonava strana: “Cercasi persona che viva in
casa mia nei fine settimana”
Un modo davvero originale di mettere un’inserzione per la ricerca di
un custode. Però, mi dissi cercando di giustificare la cosa, il nome
dell’inserzionista suonava straniero e forse non aveva padronanza
dell’italiano. Magari nell’impaccio di dettare l’annuncio al centralino
del giornale ne era venuta fuori quella formulazione bizzarra.
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Avevo proprio bisogno di un lavoretto poco impegnativo e un
impiego da custode part-time era perfetto.
La chiamata al numero dell’inserzione fu breve. Una voce femminile,
effettivamente non italiana, ma dal parlare forbito e chiaro, mi disse
che non cercava un custode, ma proprio una persona che vivesse nella
sua casa nei fine settimana.
‒ “Dammi una mail e ti mando il contratto.”
i. Ogni fine settimana, dalle 20:00 del venerdì alle 24:00 della domenica sono
lontana da casa. In quegli orari, tu dovrai vivere nella mia casa,
ininterrottamente. Non mi vedrai mai. Ti presenterai al portiere alle 20.05 e
avrai le chiavi per entrare che restituirai domenica notte, alle 23:55.
ii. In questo lasso di tempo non dovrai mai uscire dall’appartamento o
ricevere ospiti, se non per evenienze straordinarie. In casa troverai sempre
tutto l’occorrente per il fine settimana. Potrai usare tutto quello che trovi in
casa come se fosse tuo. Leggere libri, ascoltare musica, usare il pc, aprire i
cassetti… Insomma fare quello che faresti a casa tua
iii. Dormirai nel mio letto, che troverai con lenzuola usate una sola giornata,
non le cambiare né prima né dopo.
iv. Usa pure il telefono, ma non rispondere alle chiamate.
v. Potrai comunque portarti il cellulare e gli effetti personali.
vi. Dalla seconda settimana in poi potrai portare anche altri oggetti, uno alla
settimana, a patto che però poi tu non li porti più via. Potrai riprendere i tuoi
oggetti solo se rescinderai il contratto.
vii. Per comunicare con me durante i fine settimana scrivi dei messaggi sul
pc e lasciali sul desktop nella cartella con il mio nome. In quella con il tuo
troverai i messaggi che lascio io a te.
viii. Durante la settimana potrai inviarmi degli sms o delle mail, massimo
due per settimana, ma non chiamare mai, pena la rescissione immediata del
contratto.
ix. Troverai sempre in anticipo il pattuito della settimana, quantificato in
300 euro complessivi per ogni fine settimana di lavoro. Se tu dovessi decidere
di non proseguire l’incarico lascia un messaggio con un post-it sul monitor
del pc, spegni tutto e non ripresentarti.
x. Non andartene mai prima della fine del fine settimana, pena la rescissione
immediata del contratto e una penale a tuo carico quantificata in euro 800.
A dir poco, alla fine della lettura del contratto ero basito.
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Una perfetta estranea mi invitava a fare della sua casa la mia casa due
giorni alla settimana, senza poterla conoscere!
I fine settimana mi avevano sempre annoiato, impegni e amici non ne
avevo, la paga era buona. Come da richiesta, accettai rispondendo per
mail e allegando un file in pdf del contratto firmato.
2. Mi avvicino
Per il resto della settimana non ci pensai troppo. Era uscito il nuovo
album dei Joanna Gruesome e ciò assorbiva il mio tempo e mi rendeva
felice. Poi il giovedì mi prese l’ansia e le mie perplessità crebbero a
dismisura.
Come se lo percepisse, lei mi mandò un sms.
“Oggi ti sentirai di tirarti indietro, non farlo. Hai già firmato il
contratto e domani si inizia.”
Non mi tirai indietro.
Il pomeriggio del venerdì ero in fibrillazione. Buttai nella borsa solo
un cambio di vestiti: niente libri, lettore mp3 e fumetti, visto che la
prima settimana non potevo portare nulla di mio. La cosa mi mise
addosso un certo disagio, essendo abituato a preparare per prima cosa
musica e libri quando partivo per un viaggio.
Alle 19.30 ero sotto il portone di casa sua, in auto, in attesa dell’orario
giusto. Abitava a poche decine di chilometri da casa mia, ma era una
zona che non conoscevo.
Alle 20:05 mi presentai dal portiere che mi consegnò le chiavi e mi
indicò la strada. Gli chiesi se la proprietaria fosse uscita.
‒ “Sì, lei se ne è già andata” ‒ disse laconico, senza aggiungere altro
ed era chiaro che non mi avrebbe fornito ulteriori informazioni sulla
persona che mi aveva assunto.
Così mi avviai verso l’abitazione della sconosciuta brancolando nel
buio: dalla voce che avevo sentito al telefono non avrei saputo darle
un’età precisa, avrebbe potuto avere dai 20 ai 60 anni. Chissà che casa
mi avrebbe accolto… Una casa da vecchia, una stamberga fredda e
piena di soprammobili? Oppure una casa colorata e giovanile? Ero
curioso e intimorito.
Stavo per dormire in un letto che non conoscevo, nelle lenzuola di una
perfetta sconosciuta.
153
Cosa avrei trovato? Perché mi ero buttato in quell’avventura che
assumeva sempre più i contorni di un gioco perverso?
Salii le scale e mi trovai di fronte alla porta.
Due giri di chiave ed eccomi pronto a toccare con mano il futuro dei
prossimi weekend.
3. La casa.
Quando apro la porta vengo avvolto dalla luce: ha lasciato tutto
acceso… le luci, il computer, la televisione. Non credo l’abbia fatto per
fretta o semplice dimenticanza, sembra quasi un messaggio: la casa
deve rimanere in vita, come una linea di montaggio al cambio del
turno. I macchinari non si devono mai spegnere.
Sullo schermo del pc è aperto un file word. Poche righe indirizzate a
me.
Mi ricordano i termini principali del contratto, ma poi il tono cambia e
diventa meno formale, più amichevole: “Ci sono alcune birre in frigo,
ci sono tanti film da vedere, se vuoi. Il pc è acceso, sto scaricando delle
cose, ma non farti problemi ad aggiungere ai download ciò che
preferisci se hai voglia di scaricarti qualcosa.”
Il fatto di trovarmi in una casa aliena che devo fare mia e che non
posso abbandonare nelle 48 ore successive, continua a comunicarmi
una strana sensazione di disagio. Tuttavia l’atmosfera è tranquilla e
l’inquietudine inizia a passare a braccetto col tempo che, da quando
mi sono richiuso la porta alle spalle, scorre indifferente e sempre
uguale.
Una delle cose che mi mette più a disagio nelle case altrui è l’odore.
L’odore forte degli abitanti permea l’aria, segna il territorio e si
mischia a quello dei muri, dell’umidità e delle cose da mangiare
facendoti sentire profugo in territorio straniero.
Nella casa di lei, invece, apparentemente non c’è odore, anche se
presto imparerò che non è proprio così. Lo imparerò perché
l’impalpabile odore della sua casa mi resterà addosso anche quando
sarò tornato nel mio appartamento, anche dopo che avrò fatto una
doccia calda, anche dopo che mi sarò coricato nel mio letto… che
scoprirò tremendamente scomodo.
154
Già, il letto... Il suo letto è ordinato, ma non rifatto. Ho l’impressione
che sia ancora caldo, scosto una pesante trapunta blu e lo tocco. Cerco
dati per capire con chi ho a che fare.
Non ricevo nessun feedback, nessuna scossa, nessuna sensazione
definita.
Eppure il materasso sembra ancora trasmettere un lieve calore.
L’assenza di feedback, o forse l’illusione del tepore mi rassicurano e
senza che me ne renda troppo conto, mi rilasso ulteriormente.
La casa è una sorta di grosso bilocale open space e su tutto regna un
caos calmo, che mi offre una moltitudine di indizi. Penso che forse
dovrei cominciare a seguirne uno, ma poi mi fulmina l’idea che non
sono qui per indagare, ma per vivere.
E allora assurdamente la prima cosa che mi viene da fare a casa di lei è
una doccia.
Non appena entro in bagno, la vasca e la lunga fila di bagni schiuma
colorati in bella mostra mi invitano a fare una cosa che non faccio da
anni: mi viene voglia di fare un bagno.
Ebbene sì, io che da anni risparmio tempo e acqua concedendomi
soltanto docce lampo, stavolta non ho motivi per risparmiare. E allora
mi faccio un bagno da re. Mi immergo nell’acqua calda e oziosa e non
penso a nulla. Ogni singolo muscolo si scioglie. Mi rilasso.
Resto quasi immobile a galleggiare cullando sensazioni primordiali,
un abbandono che mi fa bene.
Quando riemergo dalla vasca, oramai sono le nove di sera di questo
strano venerdì. Mi stappo una birra, mi metto in tuta, mi butto sul suo
letto e adesso sì, sento il suo profumo. E’ una sorpresa, visto che
prima non lo avevo notato. O forse è la mia di pelle che ha assorbito il
profumo del bagnoschiuma.
Spingo play sul telecomando del lettore dvd: qualsiasi cosa ci sia
dentro andrà bene.
Non vedo neppure i primi dieci minuti del film giapponese che parte,
perché mi addormento immerso in una pace che da anni mi mancava
nella mia casa.
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4. L’incubo.
Mi sveglio tutto sudato, all’improvviso: un incubo terribile di serpenti
e morsi, di tagli, paure e solitudine. Immagini che non riconosco come
mie.
Leggermente ansante, mi metto seduto e solo dopo qualche secondo
mi rendo conto che sono nel letto di Lei, nella casa di Lei, forse anche
nell’incubo di Lei.
Il dvd è finito, scorrono giusto i titoli di coda. Mi domando se il mio
sognare non sia stato dettato dal film che scorreva in sottofondo. Mi
concentro e in testa riecheggia una frase: “vuoi dire che le vittime
sono andate a comprarsi l’arma del delitto?” Scuoto la testa.
L’ansia della novità, il film in subliminale che in effetti, mi pare di
ricordare dai pochi minuti iniziali, aveva il passo tipico di un noir
d’autore… Ma sì, dai, è evidente che mi sono suggestionato, mi dico.
Quando cerco di alzarmi, mi accorgo che mi formicolano le gambe,
anche se il materasso è la quintessenza del morbido avvolgente.
Ancora accaldato, mi siedo davanti al pc: voglio scrivere qualcosa,
magari mi distenderà. Mentre sto per cliccare sull’icona di Facebook,
noto sul desktop, in bella mostra, una cartelletta, con sotto scritto
“Incubi”.
La apro ed è vuota, nulla dentro.
Mi metto di buona lena, apro un file di Office e metto per iscritto
immediatamente l’incubo che ho avuto. Sembra tutto così strano,
quasi che Lei sapesse già che sarebbe successo, che avrei avuto un
incubo!
Dopo aver rendicontato in poche parole quello che ho appena sognato
torno a letto e mi riaddormento. Stavolta mi accoglie un sonno senza
sogni, lungo e piacevole.
5. Primi pensieri.
Eccomi sveglio, investito dalla luce, in una casa che non è mia.
L’incubo di stanotte mi ha lasciato addosso una vaga sensazione di
inquietudine, sensazione subito fugata dalla tranquillità curiosa che
pervade il mio stomaco.
156
Sono ancora steso in un letto dove dorme un’estranea, in una camera
sconosciuta. Non ho ancora infilato gli occhiali e guardo in giro con i
miei occhi miopi.
E’ tutto pieno di oggetti, libri, cd, dvd, di cui non riesco a leggere i
titoli, ma che conferiscono alla camera un aspetto colorato,
avvolgente. La televisione è ancora accesa, sullo schermo il menù del
lettore dvd. Dopo aver spinto “return” sul telecomando, scopro quale
film m’ha indotto a sognare l’incubo di stanotte s’intitola “Mdp
psicho” del giapponese Takaschi Miike.
Scoprirò poi che Lei ha una passione, quasi insana, verso il cinema
orientale, il Giappone e tutto quello che è hi-tech. Su due pareti,
campeggiano gigantografie aeree della grande e tentacolare Tokio.
Una passione che intaccherà anche me, come tante altre sue passioni
che mi riecheggiano attorno riverberando da un muro all’altro della
casa.
Scosto la trapunta blu e scivolo fuori dal suo letto, il mio letto.
Immediatamente ho una sensazione che mi accompagnerà per tutto il
tempo: la mia pelle ha cambiato odore.
Ho sempre avuto una sensibilità spiccata per gli odori e d‘altro canto
l’olfatto ha radici profonde nel nostro cervello, facendo capo al
cervello rettiliano e ad una fisicità ancestrale. La vista sì, mi stimola,
ma le cose che mi colpiscono di più passano dal naso e dalla bocca. In
fondo credo sia una cosa molto naturale: fin dai primi attimi di vita il
neonato riconosce l’odore della madre e del latte, e anche andando
ben oltre l’infanzia, le alterne vicende umane in ambito sessuale
possono essere influenzate dalla produzione di feromoni.
In passato, più di una volta mi è capitato di notare come gli odori
siano in grado di evocare in me emozioni intense ed istintive, quindi
non mi sorprendo per il fatto che dormire nel letto dove lei ha passato
la notte prima mi abbia ingarbugliato i pensieri. Conosco il suo odore
intimo adesso, lo sento addosso, sebbene non possa associarlo ad una
immagine. La mancanza di un elemento così importante per acquisire
un minimo di familiarità con una persona mi dà da pensare.
Credo che sarà una delle cose che le scriverò nella nota che lascerò
prima di andarmene al termine di questo fine settimana.
157
Intanto mi metto alla ricerca di qualche altro elemento su di lei. Mi ero
ripromesso di non frugare tra le sue cose, ma adesso la curiosità è
troppa e in fondo sembrerebbe che sia esattamente ciò che vuole. Farsi
frugare nell’intimo. Chissà che motivo la spinge?
Purtroppo, di sue immagini chiare in giro non ne trovo. Qualche foto
di spalle, dove mostra capelli lunghi e fianchi esili. Tuttavia, anche
interrogando il resto della sua figura non riesco a immaginare che viso
possa avere.
Scandaglio il pc, prima puntando diretto sulla cartella “documenti” e
poi eseguendo una ricerca per “*.jpg”: non trovo niente di rilevante.
Rifletto su come, incredibilmente, una singola notte in casa di una
donna sconosciuta abbia sconvolto nel profondo il mio equilibrio
mentale. Il lavoro di far vivere la sua casa si sta inesorabilmente
trasformando in un lavoro a far vivere “Lei”.
Ci sono un sacco di file di testo nel suo computer. Vorrei buttarmici
dentro per studiarla, ma vengo colpevolizzato dalla mia coscienza e in
breve ingaggio una battaglia cruenta con me stesso.
Lei vuole che io la conosca? No, non credo.
Eppure mi ha affidato la sua casa, o comunque io sono stato affidato
alla sua casa.
La parte razionale del mio cervello cerca di dominare la parte istintiva
che mi morde le viscere e il conflitto interiore proseguirà per tutto il
weekend. Avevo paura che restare 52 ore chiuso in casa d’altri mi
avrebbe ucciso e annoiato. Per fortuna non è così. Il tempo passa in un
lampo, merito anche di qualche film, dell’ampia offerta musicale, e
delle pause sul balcone a guardare i campi di fronte, esperienza che
mi è del tutto nuova dato che abito in un appartamento vicino al
centro della città.
Alla fine dei due giorni mi sento davvero esausto. La battaglia interna
è stata incessante e feroce. Ormai l’assenza di questa donna è
diventata più invadente di quanto potrebbe mai essere la sua
presenza. Inizio a pensare che questo non sia un lavoro, ma una
missione impossibile, un esperimento folle, una malattia psichiatrica,
una reazione chimica.
Così domenica alle 23.55, dopo aver scritto due righe di circostanza,
scompaio e mi preparo al primo day after.
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6. Messaggi.
Lunedì le scrivo un lungo messaggio.
E’ ovvio che questo che mi hai affidato non è un lavoro. Sono tante le
domande che mi affollano la testa. Ma per ora te le risparmio anche perché
credo che non risponderesti a nessuna di esse...
Però almeno una cosa me la devi dire. Come sapevi che avrei avuto un incubo
nel tuo letto, e soprattutto come sapevi che lo avrei trascritto, tanto da
preparare una cartella con la dicitura “incubi” nel pc?
Dimmi che è un caso e mi tranquillizzo.
I due giorni sono passati veloci. Ho combattuto contro me stesso, contro la
curiosità di investigare su di te, per capire chi sei, cosa sei, cosa vuoi da me.
D’istinto, avrei voluto buttare tutto per aria come un topo d’appartamento
che fruga alla ricerca di qualcosa, ma non l’ho fatto. Ho lasciato che la tua
casa mi scivolasse accanto. Mi prenderò di te quello che mi capiterà sotto gli
occhi, quello che mi capiterà tra le mani.
A venerdì. Che strano scriverti “a venerdì”, come se stessimo per incontrarci,
quando invece, da contratto, non ci vedremo mai.
Ps. Se puoi comprami del the verde…
Devo attendere fino a giovedì per una sua risposta.
Non è strano che tu mi dia appuntamento anche se non mi vedrai. Non è per
nulla stano. Anzi, sei entrato nel tuo lavoro forse più di quanto mi aspettassi.
Non preoccuparti: se hai voglia di cercarmi tra i miei oggetti, puoi farlo. E
non preoccuparti se ti viene da chiedere, fallo sempre in massima libertà.
Non posso dirti che sia un caso che hai trovato una cartella incubi sul desk
del pc. Soffro di incubi da quando abito in questa casa. Ero certa che le
briciole dei miei incubi ti avrebbero sfiorato e magari contagiato.
Ma questa settimana, almeno lunedì e martedì notte, nessun incubo. Forse
avevi già esplicato tu la formalità… forse. Forse aleggiava ancora la tua
presenza e non avevo bisogno di incubi per farmi compagnia.
A lunedì…
Nella credenza trovi il the verde…
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Rileggo il suo messaggio infinite volte. Solo quando mi accorgo che
sto cercando di scovare altre parole, quasi potessero nascondersi nello
spazio bianco tra le righe, smetto.
7. Seconda settimana
Eccomi. Sono in auto, con il mio zainetto per il weekend, il secondo di
lavoro da lei. Da oggi posso portare oggetti personali da abbandonare
nella sua casa. Ho avuto la tentazione di portare la chitarra, ma amo
suonare la chitarra anche durante la settimana. Vedremo.
Per stavolta mi accontento di una tazza, la mia tazzona da the. Spero
che abbia davvero comprato il the verde. Mi sento orgoglioso per non
aver contravvenuto alle sue direttive e portato con me solo la mia
tazza gialla e rossa.
E’ stata una settimana strana. Francesca, la mia donna, non ha preso
bene questo strano lavoro che mi è capitato. Le avevo detto del
contratto, e già lì si era risentita.
Lunedì mi guardava strano. Ho protestato dicendo che in realtà ho
fatto le stesse identiche cose che di solito faccio da sempre ogni
weekend: dormire, mangiare, leggere, ascoltare musica e scrivere
qualche riga. L’unica novità, volendo, sono i 300 euro in più che mi
ritrovo in tasca... mica poco! E’ rimasta comunque perplessa. Ma, in
fondo, che le frega? Nei fine settimana non ci si vede comunque: ha i
turni di notte e quando di notte lavora, di giorno dorme. No, non fa la
puttana: lavora in un autogrill e le tocca sempre il turno di notte sia il
sabato che la domenica. Non fosse che la lascerebbero a spasso nel
giro di un nanosecondo, dovrebbe protestare o sentire i sindacati.
Da quando sto con Francesca i miei fine settimana sono vuoti. E allora
perché se la prende se li ho riempiti con un lavoro?
Forse è gelosa perché li ho riempiti di un altro vuoto?
Mah, non importa. Immerso nei miei pensieri prelevo la chiave e apro
la porta dell’appartamento di Lei. Come venerdì scorso lo trovo vivo:
tutto acceso e in movimento.
Premo play sul dvd, e parte l’ultimo film che ha guardato, o che ha
lasciato nel lettore per me. Di nuovo un film orientale e sempre di
Takashi Miike, come la scorsa settimana, anche se stavolta si tratta di
160
un film in lingua originale, senza sottotitoli. Rimango affascinato dalle
prime immagini: una ragazza giapponese si spoglia in uno stanzone
immerso in un silenzio surreale dove vanno alla deriva i corpi di
almeno sei uomini… qualcuno scatta delle foto e la scena lascia
supporre che la donna si prostituisca.
Il film si intitola Visitor Q. Cerco una sinossi in rete tanto per avere
un’idea di ciò che vedo e scopro che è la storia della famiglia
Yamazaki, una famiglia giapponese benestante: padre represso
cronista televisivo, madre tossica, figlio violento e figlia prostituta. Se
fosse Almodovar sarebbe una cosa ironica, al massimo un po’ cinica,
invece in Giappone tutto è sempre così sofferto, viscerale.
Arriva un visitatore che rivoluziona la famiglia.
Mentre continuo a guardare il film e cerco altre informazioni in rete
mi viene in mente che forse Lei mi ha lascito qualcosa di scritto. Sì,
poche righe… speravo di più. Comunque, sembra che il mio modo di
lavorare le vada bene.
Ne sono lieto.
Nella cartella incubi non c’è più il file del sogno della scorsa
settimana. Chissà perché l’ha cancellato. Arriva la mezzanotte che
quasi non me ne sono accorto. Una doccia e poi a letto.
Faccio ripartire Visitor Q. Adesso che a grandi linee conosco la trama,
forse riguardandolo capirò qualcosa di più.
Mi stendo tra le lenzuola scure e tiro la trapunta blu sulle gambe.
Appoggio la tazza di the verde sul comodino. Mi soffermo ad
osservarla per renderle i dovuti onori: in fondo è il primo oggetto
veramente mio che porto in questa casa.
Poi mi addormento.
Il buio dentro mi travolge. Una stanza tutta rosa, una foto che non
focalizzo e qualcuno che mi colpisce con un battipanni. Non sento
dolore. La scena ricorda una sequenza distorta di Visitor Q, ma a poco
a poco vira in incubo. Un millepiedi gigantesco mi spinge in terra e
inizia a camminarmi sopra. Col tono d’un missionario moralizzatore
mi urla “devi soffrire”. Un numero infinito di passi mi calpesta fino a
togliermi il fiato, ho paura.
Mi sveglio e so già cosa fare: mi siedo davanti al computer e trascrivo
di getto anche questo incubo. Per fortuna è meno spaventoso e
161
coinvolgente di quello della scorsa settimana, anche se mi ha lasciato
addosso un senso di fame d’aria.
Apro una finestra e pure un nuovo documento di Office, su cui scrivo
un nuovo messaggio per Lei. Ogni tanto butto un occhio su eMule per
vedere cosa sta scaricando questa settimana. Sempre film, un sacco di
film con titoli che non conosco, ma ormai mi sono convinto che io e
Lei abbiamo gusti simili, quindi immagino che comunque li vedrò
prima o poi. Mentre scorro di nuovo i titoli, mi viene voglia di farmi
qualche idea in più sui suoi gusti musicali.
Mi dici di domandare, quindi domando, ma nessuna domanda strana.
Parliamo di musica.
Che musica ascolteresti sotto un temporale assurdo lungo una statale alle 17
al tramonto?
Io Wish you were here dei Pink Floyd. Mi ricorda le notti in giro a bordo di
una Renault nera schiacciato a fianco di una ragazzina che non avrei mai
avuto.
E di notte per le strade della bassa in giro a caso?
Io Faust’o e i Dresden Doll, ma forse anche qualcosa di jazz anni ’40, o anche
gli amati Cure o i Ramona Falls.
E alle 18 di un martedì di febbraio tra la nebbia tornando dal lavoro?
Io Paolo Conte….
Le sue risposte saranno: Interlude di Morissey e Siouxsie, i Nightwish,
Battiato, o i Diaframma.
Cazzo! Suonavo Siberia con la mia seconda band! Mi emozionano le
sue risposte. O meglio, mi emozioneranno.
Mi ributto a letto e cado un’altra volta in un sogno bianco e senza
sogni, incubi o paranoie.
8. Il racconto di Francesca.
Da qualche settimana Franco sta vivendo un lavoro. Sì, lo sta vivendo.
Stiamo insieme da tre anni e tra noi tutto è sempre filato via liscio: è
una persona tranquilla, non ha mai dato segni di pretendere troppe
attenzioni o non è mai stato troppo possessivo.
Nei fine settimana lo sapevo a casa a leggere, a scrivere sul suo blog o
a postare foto su Facebook, a suonare la sua stupida chitarra. In fondo
l’ho sempre giudicato gentile e inoffensivo, incapace di tradirmi.
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Non mi sento tradita neppure adesso, con questo strano lavoro.
Dopotutto non mi crea nessun problema visto che, per i miei orari di
lavoro, in pratica nei fine settimana non ci vediamo mai.
La cosa incredibile è che se ne va a casa di questa persona che non ha
mai visto e vive a casa sua per 52 ore filate senza poter uscire. Io non
lo potrei mai fare. Lui sembra che si rinchiuda in un bozzolo, un utero
dove sta davvero bene. Ha sempre avuto tratti caratteriali un po’
infantili.
Però devo confessare di essere infastidita dal fatto che nelle ultime
settimane lui parla solo di Lei.
Sì, Lei con la maiuscola, lo sento da come pronuncia il suo pronome.
Chissà se conosce anche il nome… non me lo ha mai detto. Però tutto
il resto sì. O meglio, mi ha raccontato tutte le cose che ignora: non sa la
sua precisa provenienza, non sa che faccia abbia, non sa se sia davvero
una donna, quanti anni abbia, che impegno improrogabile abbia ogni
weekend, cosa pensi realmente di lui, che lavoro faccia nella vita…
Insomma quel minimo di informazioni classiche grazie alle quali gli
esseri umani “normali” pensano di conoscere una persona.
Di Lei sa cosa guarda, e lo guarda anche lui, cosa ascolta, e lo ascolta
anche lui, cosa legge, e lo legge anche lui.
L’ultimo libro che gli ho visto leggere è stato “La regola del buio” di
Iles Greg… incredibile. Un romanzo psicologico sessuale cupissimo!
Fino a qualche settimana fa leggeva solo romanzi musicali o manuali,
tutt’al più fumetti… ho il timore che in qualche modo Lei lo stia
plagiando. E’ diventato ossessivo: mi ha raccontato la storia di ogni
granello di polvere che trova in quella casa, degli incubi che scrive e
che è convinto siano una sorta di contagio dovuto al fatto di dormire
nel letto di Lei.
Ho paura che la desideri. Abbiamo fatto sesso poche sere fa: era
strano, distaccato eppure eccitatissimo. Aveva gli occhi sfocati, non mi
guardava, fissava il vuoto. Invece le sue mani erano irruenti… non mi
aveva mai toccato così, prima d’ora, con bisogno, con insistenza, quasi
a cercare altro sotto la mia pelle.
Ho un po’ paura e un po’ devo ammettere che sono incuriosita da
questa storia. Cosa può avere di tanto affascinante un appartamento?
Cosa ha da nascondere una donna che non si lascia vedere nemmeno
in foto?
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9. Altri messaggi.
Dopo l’ultimo fine settimana è stata Lei la prima a scrivermi.
Ho imbracciato la tua chitarra quasi tutte le sere, questa settimana. Ho
cercato di immaginare la canzone che hai scritto per me, di ritrovarne qualche
nota rimasta impigliata tra le corde. Nessuno ha mai scritto una canzone per
me. Ho quasi pensato di comperare un piccolo registratore digitale per
permetterti di inciderla e lasciarmela. Nel contratto era specificato che tu non
avresti sentito la mia voce. Non io la tua. Vedremo.
Ho rinunciato ad una notte con i miei film orientali per vedermi la seconda
serie dei Griffin in dvd che hai portato.
Meno velocemente di quanto fai tu con me, anche io sto conoscendo
l’animatore della mia casa attraverso gli oggetti. Uno alla volta.
Nella tua tazza ci prendo il the verde tutte le sere.
Incubi sempre, ma meno, molto meno. E’ molto più divertente leggere ed
immaginare i tuoi.
La lavatrice perde dall’oblò. La guarnizione l’ho presa come mi hai detto. Me
la cambi?
Appena ricevuto il suo messaggio, le ho risposto subito.
Ma sì, dai, prendilo il registratore digitale, così ti faccio sentire questa
canzone che continuo a strimpellare.
Mi fa piacere che usi la mia tazza e le mie cose. Io vivo oramai da due mesi a
stretto contatto con i tuoi oggetti e mi raccontano ogni giorno di più quello
che sei. O la proiezione di quello che vuoi essere.
Appena arrivo, venerdì sistemo la lavatrice. Anche perché l’incubo della
settimana riguardava proprio la lavatrice… pensa un po’….
10. Utero
Quanto tempo è che mi rifugio qui?
Non lo so ho perso il conto. Otto, dieci, cento, mille settimane… Mi
sembra da sempre. La condizione della mia vita sembra da sempre
questa.
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Ecco, apro la porta. Sono le 20 del venerdì sera, il momento più atteso
della settimana. Le luci accese, il dvd pronto con un film in carica,
quello perfetto per me, quello che mi darà l’incubo di benvenuto,
dopodiché saranno ore di pace totale.
La vasca, il bagno, le lenzuola dove impregno il mio corpo del suo
profumo. Una pace eccitante dentro la quale vivo per 52 ore la
settimana. Come stare per tre giorni filati dentro una donna: una
penetrazione infinita, una compenetrazione totale. E’ fantastico sentire
godere tutto il corpo, non solo il cazzo! E’ come rientrare in un utero
accogliente. Lei è enorme, vive tutt’attorno, e anche se Lei qui non c’è
come persona fisica, questo appartamento è la sua figa, il suo utero, la
sua mente, la sua pancia, il suo cuore.
Mi ci immergo dentro: un utero arredato, un utero che sto
contribuendo ad arredare anch’io.
Appena varcata la soglia mi guardo attorno. Il mio amplificatorino e
la mia chitarra appoggiati sul suo letto, appunti di mie canzoni con
correzioni a biro fatte da lei, sparsi con cura sulla scrivania. Il suo pc
acceso con accanto il mio lettore mp3, la mia tazza da the sporca del
suo latte e cacao.
I suoi romanzi psicologici e i miei manuali musicali mischiati assieme.
La sua vita e la mia che si amalgamano grazie ai nostri oggetti fusi
entro queste quattro mura.
“Tu la desideri”, ha sentenziato Francesca, la mia donna di carne, “è
Lei che ami, non me”.
Dio no… Non so. Si può amare una persona senza riuscire ad
immaginare come sia realmente? Lo scorcio della sua voce sentito al
telefono è scomparso nella mia memoria. Le poche foto di spalle e
strane che c’erano le prime settimane sono andate sparendo.
E’ vero, non so immaginare i lineamenti del suo volto, ma la conosco
benissimo: penetro il suo spazio più intimo per 52 ore la settimana, e il
resto della settimana sono preliminari per il prossimo (non) incontro.
“Tu la desideri, la vorresti abbracciare”, continua a dirmi Francesca,
sempre più esasperata ogni volta che parlo di Lei. No… non so
immaginare come sarebbe un suo abbraccio reale: mi basta ogni fine
settimana il grande abbraccio della sua casa che vive con me.
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Mi dà fastidio che Lei continui a pagarmi per questo “lavoro”, gliel’ho
anche scritto: “non voglio più i tuoi soldi, desidero solo che mi lasci
vivere da te, sempre” Risposta: “se lo dici ancora sei licenziato”.
Mi sono spaventato. Perdere questo lavoro e perdere Lei sarebbe come
essere partorito di 6 mesi: non sono pronto, non potrei sopravvivere.
Forse sto davvero regredendo verso uno stato mentale fetale, prenatale.
Quando arrivo all’appartamento, la prima cosa che faccio è volare al
pc per leggere ciò che mi ha scritto. Tuttavia, alle volte non c’è nulla e
un po’ ci resto male: adoro leggere i suoi messaggi. Quando non trovo
nulla per me, mi consolo pensando che avrà avuto i suoi motivi e che
dev’essere stata una settimana davvero tremenda per Lei.
Più spesso, però, ci sono belle parole, dolci, e allora sento che siamo in
perfetta sintonia, che mi capisce. Parlo con lei come se parlassi con la
sua coscienza. Eppure stasera arrivando ho trovato una frase in fondo
al messaggio che mi ha dato da pensare: “so che un giorno mi
parlerai.”
Possibile?
Se ha scritto così vuol dire che ha percepito un’ombra in me, qualcosa
che magari nemmeno io sono in grado di distinguere nel buio
interiore del mio animo. Davvero potrei arrivare a tanto? A tradire la
sua fiducia? Forse non sono completamente sincero in quello che
scrivo, ci dev’essere di più dentro di me da tirare fuori, da vomitare.
Eppure sono mesi che le rivelo ogni mio pensiero, parlo più con Lei
che con qualunque altro essere umano. Di cosa dovrei parlarle,
ancora?
Ho confessato al suo pc le mie paure più profonde, quelle che non
osavo confessare neppure a me stesso. Malgrado ciò, in qualche modo
la guerra dentro di me non è ancora finita, sì in questo ha ragione.
Forse vuole che sia sincero fino in fondo, forse vuole che le urli che la
amo, come sostiene Francesca. Invece mi fa paura anche il solo
pensiero di amarla, non riuscirei a dirlo neanche allo specchio del
bagno, figuriamoci se posso dichiararmi a Lei… ma forse Lei lo sa già,
io ho paura di ammetterlo, ma Lei lo sa già.
Oppure, di supposizione in supposizione, mi sto incartando con le
mie stesse mani e quelle parole vogliono dire altro?
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Chissà... Comunque scrivo. Scrivo tanto, compreso il racconto
dell’incubo della settimana, che arriva puntuale venerdì notte, sempre
più allucinato e slabbrato. Un incubo che non mi spaventa più come
prima, anche perché lo attendo con ansia, quasi si trattasse di un rito
catartico che cancella il resto della settimana appena trascorsa. Lo
desidero con tutte le mie forze, perché poi giunge la tranquillità del
post-orgasmo e mi immergo nel liquido amniotico del suo utero.
Negli ultimi giorni ripenso spesso a mia madre. Esiste una madre
universale? Una madre bianca, enorme, totalizzante? Una madre che
possa coccolarmi come un bambino, che mi avvolga in un impasto di
premure, che mi accarezzi di parole ogni pensiero.
“Ma come puoi sentirti coccolato da una persona che non c’è?!?”, ha
ribattuto stizzita Francesca, quando le ho svelato le mie riflessioni.
Cazzo, cazzo, cazzo…. Com’è possibile che non capisci? Non capisci
perché sei una donna insensibile! Ecco cosa avrei voluto risponderle,
ma non l’ho fatto, per non ferirla. In fondo le voglio bene. Ma Lei. La
sua casa. Lei, Lei, Lei, Lei…. Lei mi conosce più della mia donna in
carne ed ossa, più di mia madre, più dei miei amici…
Lei sa che devo affrontare ancora una battaglia prima di dichiarare
finita questa mia guerra interiore.
Intanto sono qui, nel suo letto. L’incubo per questa settimana è andato
e adesso devo solo stare bene. Sì… rilassarmi e godermi la mia pace
uterina. Solo, nella luce del nuovo giorno, eppure insieme a Lei, nella
luce, io e Lei, nella luce.
Perché non muoio dolcemente qui, adesso?
11. Ancora messaggi.
Ecco cosa le ho scritto stavolta.
Questo fine settimana mi sono stupito di me stesso, sai? Mi sono scoperto a
pensare con una certa indolenza che mi sarebbe piaciuto morire nel tuo letto.
Pensavo che saresti tornata, mi avresti trovato, mi avresti sfiorato, ti saresti
seduta accanto al letto a vegliarmi in attesa dell’arrivo delle pompe funebri.
Mi sono accoccolato nel pensiero. Un sola cosa mi disturbava, che io
comunque non ci sarei stato. Ci sarebbe stato il mio corpo, non la mia
essenza. Se solamente avessi la certezza che nel passaggio tra vita e morte mi
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fossero concessi 10 minuti di presenza incorporea per vivere quel momento,
allora mi starebbe bene morire.
Che pensieri infantili, vero? Un po’ puerili e un po’ maledetti, brandelli di
egoismo adolescenziale che mi circolano ancora nelle vene. Le ultime ombre di
pensieri che cercano di ricondurre la realtà entro i binari rassicuranti della
“normalità” di un rapporto.
Come se contasse davvero l’incontro. E’ stupido. Eppoi sei il mio datore di
lavoro, che discorsi ti sto a fare?
Ma sì, dai sdrammatizziamo, scherziamoci su. Mi stai educando ad una
dimensione diversa. Il tuo obbiettivo era questo? Non lo so. Ho smesso di
chiedermelo tantissimo tempo fa, credo dalla seconda settimana che navigo a
vista nella tua casa utero.
Eppure a volte ancora emergono delle domande, delle paure. Ma so che se
chiudo la porta a chiave e metto un film nel dvd, so che se ti “rubo” un
dolcetto e me lo mangio, se mi avvolgo nella tua trapuntina blu, se respiro il
tuo profumo… Allora tutto cambia.
Ci sei, anzi c’è Lei…
Ed ecco cosa mi ha risposto Lei.
Mi stai arrivando molto vicino all’anima.
12. Francesca vuole capire.
Che l’avessi perso ormai era evidente: da mesi avevo assistito al
calare attorno a lui di una fitta nebbia che ci aveva reso invisibili l’uno
all’altra. Era cambiato, trasformato.
L’uomo indolente e senza grilli per la testa che conoscevo e che, forse,
avevo amato adesso era tutt’altra persona. Quel nuovo lavoro già,
quel nuovo lavoro, l’aveva trasformato in una persona che non
riconoscevo più.
Avrei accettato di perderlo per un’altra donna, sì magari a
malincuore, l’avrei accettato… ma perderlo per una casa, Cristo
santo… non riuscivo davvero a capacitarmene.
Quando il lunedì lo rivedevo e lo sentivo parlare, con gli occhi
stralunati, quando lo sentivo raccontare per filo e per segno quanto
fosse stato fantastico l’ennesimo fine settimana passato chiuso in
quella casa, la gola mi si serrava in un nodo che neanche le lacrime
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riuscivano a sciogliere. Sì, lo ammetto, ho pianto, ma è stato più per
un senso di frustrazione che per pena d’amore.
Quella casa, cui si riferiva dicendo lei, un lei con la L maiuscola, non
era più una casa: la bramava, la desiderava come una persona,
sebbene si ostinasse a negare l’evidenza. Non era un’altra donna in
carne ed ossa, eppure sentivo che lo spirito di un’altra donna si era
insinuato nell’animo del mio uomo.
Pazzesco! Non mi stupirei di essere la prima donna nella storia
dell’umanità che sta perdendo, anzi che ha perso, il suo uomo non per
un’altra donna, ma per la casa di un’altra donna…
Ci rimugino sopra in continuazione: non ho mai pensato a lui così
intensamente come in questi mesi, né a qualcosa di tanto astratto e
tanto concreto quanto l’idea di casa in sé e per sé. Me ne sono fatta
una ragione, ma mi rimane forte la curiosità di capire come sia stato
possibile perdere una persona per una casa… così invece di
restarmene con le mani in mano, mi armo di coraggio e prendo la mia
decisione: voglio vedere, voglio capire, voglio comprendere cosa è
successo dentro di lui e per farlo ho bisogno di entrare in quella casa.
Qualcuno mi troverà stupida perché è chiaro che il fatto di violare la
sacralità di quelle quattro mura non ci salverà, anzi, forse affosserà
definitivamente la nostra relazione, ma ormai ho deciso: lo seguirò,
scoprirò l’indirizzo, farò irruzione nella casa e forse toccherò con
mano il senso di tutta questa faccenda tanto assurda.
Non è solo gelosia. Non mi interessa di vedere la proprietaria della
casa, il datore di lavoro sconosciuto, la donna che me lo ha portato
via…
Voglio soltanto capire, ecco, sì, capire: un desiderio che tutti gli esseri
umani hanno, voglio capire cosa succede in quella casa e nella testa
della persona che amo, capire se posso ancora fare qualcosa per noi
due, io voglio capire… capire… capire… capire…
12. Ultimi messaggi.
Stavo cercando le pile di ricambio per il telecomando del televisore. Lo dico
perché voglio che sia chiaro che non ti stavo mettendo sotto sopra la casa per
curiosità o per altri intenti poco nobili. Stavo cercando le pile di ricambio e
non le trovavo. Ci saranno da qualche parte, mi dicevo, ci sono sempre, in
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qualche cassetto o dietro l’anta di qualche credenza, due mini-stilo
dimenticate che diventano preziosissime e salvifiche quando il telecomando
all’improvviso ti muore tra le mani. Così ho aperto lo sportello in basso a
destra del mobile bianco e marrone del soggiorno. E ho trovato alcuni libri
impilati in modo strano, con la costa rivolta verso l’interno. Quello sì, lo
ammetto, mi ha incuriosito: sembravano nascosti, riposti nel ventre della
credenza perché restassero al di fuori della mia portata. Chi mette via dei libri
girati al contrario, in modo da impedire di leggere il titolo stampato sulla
costa? E’ strano non credi? Li ho tirati fuori dal mobile. Sono almeno una
decina di trattati tra psicologia e psichiatria. Potrebbero essere i libri di testo
di un corso di studi universitario.
Ti prego, dimmi che non è vero.
Stanotte ho sognato un precipizio.
Dimmi che non sono una specie di esperimento, che non sono la cavia
inconsapevole di una tua ricerca scientifica.
Oppure dimmi che era così all’inizio, ma che per te, ora, pian piano, sono
diventato qualcosa di più. Abbiamo troppe cose in comune, la sintonia che si è
creata tra me e questa casa, tra me e Lei, sì, insomma, tra me e te… non può
essere tutto solo un freddo protocollo sperimentale.
Ti prego…
Ho letto la sua risposta sapendo già cosa avrebbe scritto.
E’ vero.
Si precipita sempre nella vita. E prima o poi arriva lo schianto, e non è detto
che sia spiacevole arrivarci a quello schianto.
A volte ci si schianta da soli, a volte in due. A volte ci si schianta
stupidamente, per una piccola disattenzione, altre per un grande ideale.
C’è gente che precipita per tutta la vita e non si schianta mai. C’è gente che
improvvisamente si accortoccia e non sa perché… non stava mica cadendo…
E allora sono diversi gli schianti che si possono verificare. Mentali e fisici. E
alla fine comunque si rimane sempre con nulla dentro e tutto addosso.
O con tutto dentro e nulla addosso. Sopra un letto.
Rileggendo più volte la sua risposta, non posso che aggrapparmi al
doppio senso che aleggia sull’ultima riga. Forse c’è qualche speranza,
mi convinco.
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14. Resa dei conti.
Ha pensato e ripensato a quel momento infinite volte e ogni volta si è
riproposta di mantenere la calma.
Nella sua mente si vede arrivare alla casa, aprire la porta, salire le
scale, tranquilla, quasi ascetica. Si vede entrare in quel mondo che
conosce già perfettamente per tutti i racconti fatti da lui, guardarsi in
giro, capire, magari scattare qualche foto, e poi andarsene… Con la
consapevolezza che tutto è gia finito, o mai iniziato.
Ma le cose non vanno mai come vogliamo noi.
Mattina di un sabato mattina. Ha preferito non arrivare il venerdì
sera. Meglio al mattino, alla luce del giorno.
Un’auto si spegne e una donna chiaramente agitata scende dal
veicolo.
Avanza veloce, risoluta: deve capire.
Lo stabile è nuovo, colorato, colonnine ai lati dell’entrata, un
cortiletto. Sì, è qui. Sei piani, l’edificio più alto sul limitare di una
collinetta che degrada verso la campagna: Lei, la casa… eccola.
All’ingresso un uomo, forse il portinaio, con la scopa in mano: pulisce.
La donna entra sicura. Lui alza lo sguardo: una sconosciuta allucinata
davanti ai sui occhi. Le si fa incontro.
‒ “Signorina… posso esserle utile?”
Francesca tenta di dribblarlo, l’uomo si insospettisce.
‒ “Scusi ma dove va? Posso esserle utile?”
Lei punta il muro per aggirarlo, sembra non sentire, gli occhi fuori
dalle orbite, i capelli biondi scompigliati.
‒ “Signorina, che fa? Dove va? Mi scusi, ma devo insistere.”
La prende per un braccio e Francesca sembra scuotersi dal torpore.
‒ “Devo salire!” ‒ quasi urla.
‒ “Salire dove?” ‒ domanda ancora l’uomo, sempre più sospettoso
Lei si divincola.
‒ “L’appartamento della ragazza straniera.”
‒ “Ma che dice… non capisco”
Gli sfugge e punta le scale.
‒ “Che appartamento?!” ‒ è lui che quasi urla, adesso.
Francesca frena, intimorita dal tono fattosi aggressivo dell’uomo.
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‒ “Ma sì, mi accompagni lei” ‒ dice a voce troppo alta, quasi a voler
essere accomodante sebbene sia chiaramente fuori di sé.
‒ “La accompagnerei anche, signorina, ma dove?”
Ma dove?
Stop…
Il groviglio di pensieri nella mente di Francesca le impedisce di
rispondere prontamente: “come dove? cosa sta dicendo? come dove?
chi sei? lasciami andare, stare calma, salire, chi sei? ragazza straniera,
dove? casa, capire, capire, capire!”
Un respiro profondo, poi scandisce le parole.
‒ “Devo – salire – nella – casa – della – ragazza – straniera – quella –
che – nel – fine – settimana - non c’è.”
‒ “Ma si calmi! Continua a non capire!”
‒ “Oddio, magari non è straniera, la ragazza, comunque quella che nei
fine settimana se ne va e lascia l’appartamento in custodia ad un
ragazzo tranquillo che non esce mai”
Lo dice quasi di un fiato.
Si lancia su per le scale, una rampa dopo l’altra, non è sicura del
piano.
‒ “Un ragazzo che…” ‒ urla lui arrancandole dietro.
‒ “E’ il mio ragazzo, devo vederlo, ora” ‒ urla lei.
Ecco la porta. Sopra appesa c’è la ghirlanda di lana, metà bianca e
metà verde, con tre piccoli centrini fatti all’uncinetto…
Bussare. Suonare. Bussare. Entrare. Capire. Capire. Capire.
L’uomo la raggiunge ansimante, ancora con la scopa stretta in mano.
‒ “Mi lasci in pace: ho già trovato da sola, ecco” ‒ protesta Francesca.
Un secondo di silenzio che sembra infinito.
Hanno capito entrambi.
Dall’appartamento non arrivano segni di risposta, solo la musica di
una chitarra elettrica. Francesca bussa e suona ancora, impaziente.
‒ “Probabilmente non mi sente. Sta suonando la chitarra.”
‒ “Lo sento. Gli altri inquilini non ne possono più…”
Il custode sospira sconsolato, poi estrae dalla tasca un corposo mazzo
di chiavi.
‒ “Le apro io. Sembra che il ragazzo le stia molto a cuore.”
172
Per la prima volta Francesca guarda l’uomo dritto negli occhi. Sente
l’impulso di abbracciarlo, ma si trattiene. La serratura scatta, la porta
si apre.
Ecco, adesso capirà….
Mentre la porta si spalanca, la luce filtra e i suoni chitarra invadono
l’androne delle scale. Francesca avanza.
Luce, vuoto, capire. Sorpresa, silenzio, altri accordi di chitarra…
‒ “Però questo appartamento” ‒ dice il custode da dietro ‒ “è stato
sfitto fino a sei mesi fa, poi lo ha affittato questo strano ragazzo.”
Due stanze vuote, o quasi.
Un’immagine di vuoto, di bianco, di bianco totalizzante.
Francesca si guarda intorno, improvvisamente calma.
La finestra aperta getta una lama di luce calda nella stanza. In un
angolo, buttata in terra, una copertina blu, cartoni di pizza sporchi e
vuoti, lattine di birra schiacciate, riviste sgualcite qua e là sul
pavimento…
Lui sta seduto di spalle sopra l’amplificatorino, la tazza gialla posata
accanto, in terra. Tutto è bianco e vuoto.
La chitarra attacca una canzone.
“Faith si veste lentamente, tra un minuto se ne andrà….”
Canticchia, un po’ stonato.
Francesca è paralizzata. L’uomo con la scopa se ne è andato.
Lui fa per voltarsi.
15. Fine.
Sabato mattina. Che splendida mattina di sole. Metto l’amplificatore
della chitarra davanti alla finestra. Decido di strimpellare qualche
accordo intanto che sorseggio il the.
Penso che un giorno verrai.
Ne sono quasi certo, ormai.
Nessun incubo stanotte. Strano. Dopo le ultime rivelazioni, ne avrei
tutte le ragioni.… chissà come mai… sarà un buono o un cattivo
segno? Magari l’incubo liberatorio arriverà poi.
173
Mentre sto nella tranquillità, sento giù da basso del trambusto. Non
mi affaccio, proseguo a strimpellare, ma la voce di donna che mi
arriva alle orecchie, con parole che non capisco, forse straniere, mi
mette agitazione.
Sento salire le scale, un passo veloce, leggero ed esile. Il campanello
suona, ma io, come da contratto non posso aprire. Parole.
Un flash… magari sei proprio tu che vieni?
Oddio.
Non è possibile! Io non ho aperto, non ho tradito la tua fiducia come
tu forse hai tradito la mia, eppure ho sentito scattare la serratura. Ho
udito nitido lo scatto.
Sì, la porta dell’appartamento dev’essersi aperta: me lo conferma la
corrente d’aria che entra dalla finestra per accarezzarmi il volto.
Respiro profondamente e attacco la tua canzone, la senti?
174
Gimmefive
di
Paolo Gera
[email protected]
Per Calvin era ora di rendersi operativo al massimo. Era o non era un
adolescente? Per esserne sicuro, si concesse qualche istante di
concentrazione: anche senza tirarsi giù le mutande, bastava toccarsi il
viso cosparso di acne, pensare con sgomento ai limiti dell’universo e
ai percorsi fallibili delle meteore, battere i denti di fronte al pensiero
d’una qualsiasi prima volta, anche innocente, per poi fare spallucce
quando le occasioni temute si presentavano davvero. Soprattutto
175
occorreva trasferire tutto il fermento nel qui e adesso di una vita
giovane a Fun Valley, riempirsi il corpo e la mente dei tic in voga,
tecno-slang, abiti e schifezze alimentari. Scopiazzare dagli altri
ragazzotti, imitarli come una scimmia. Infine passare dalla
simulazione alla più completa immedesimazione, essere realmente un
bullo diciassettenne, un pornomane alle prime armi, un giovane
stordito da psytrance music, un i-phonanista col cervello appaltato ad
un’app di sistema.
Calvin era arrivato da poco ed entro un mese avrebbe dovuto
sloggiare. Un passaggio obbligato sarebbe stato il Gruppo, il Mucchio,
la Ghenga, la Compagnia, ma Calvin non aveva il tempo di cercarsi
un clan di sballati duri per condividere esperienze, un branco di ultrà
nichilisti dove affogare le proprie responsabilità. Vista la situazione
contingente, non gli conveniva neppure provarci. Riti di iniziazione,
pratiche teppistiche… una faccenda troppo lunga e articolata. Eppoi
sebbene non fosse al corrente di tante cose, certo non c’era scritto da
nessuna parte che alla prova finale bisognasse arrivarci a braccetto
con altri!
In fondo l’unica cosa importante, quella che tutti conoscevano, era la
via maestra verso il Caos, un viaggio da panico, vero, puro e semplice.
La gran parte dei ragazzi della Fun Valley ci finiva di volata, era il
vero sballo del momento, un affare grossissimo davanti a cui i
responsabili della Pianificazione chiudevano volentieri un occhio, se
non tutti e due. E infatti a chi ancora si permetteva un moto
d’indignazione o un’interpellanza per tutti quei giovani che si stavano
perdendo, le istituzioni rispondevano che al momento il fenomeno
non era ben circoscrivibile e che comunque, nel lungo periodo, il
sistema mercato globale avrebbe sanato ogni malessere sociale.
Per Calvin non fu difficile raccogliere le informazioni che lo
interessavano. All’interno di una sala-giochi gli fu indicato un tipo
basso e nervoso che poteva avere giusto la sua età. Ah, per quelle
faccende era Chico lo specialista! Era meticcio, i capelli corvini sparati,
la maglietta con le facce poco raccomandabili dei Rockaway Critters, i
pantaloni aderenti e luccicanti di piastrine metalliche. Regolare,
insomma. Lui conosceva i posti e le persone giuste. Lui aveva le chiavi
del Paradiso.
176
Per le presentazioni non ci furono problemi.
‒ E’ a uno sputo da qui, vamonos ‒ disse Chico facendo schizzare
lontano il mozzicone con un gesto da duro.
Calvin notò le Croma Shuttle nuove di zecca che portava ai piedi.
‒ Belle! ‒ esclamò.
‒ Costano una cifra. Ma con l’aria che tira c’ho sempre il porco pieno ‒
disse Chico strizzando l’occhio.
A quale aria si riferiva? E a quale porco? Domande di poco conto:
Calvin le accantonò deciso a puntare fin da subito al nucleo polposo
dell’argomento. Assunse l’aria tipica da adolescente sprovveduto e
parlò con gli occhi rivolti a terra. Disse che voleva provarci, anche da
solo, era stufo che quelli già istruiti lo prendessero continuamente per
il culo…
Chico divenne loquace e tassativo.
‒ Bah, non ho mai sentito di GM5 consumato tutti insieme, mai sentito
di cerchi intorno al fuoco, di fantomatici trip party o altre furbate del
genere! Del tempo dei cannoni se ne ricorderà giusto tuo padre…
‒ Davvero?
‒ Cristo, si va di fretta oggi! Guardati intorno: più uno va veloce e più
affari combina! E poi la faccenda del tocco non permette viaggi
organizzati, né gite scolastiche… E’ questione di un attimo, capisci?
Tutto sta nella precisione del pusher, nell’abilità della sua santa
mano…
- Capisco…
‒ A molti può dispiacere, ma questo è il nuovo corso del dope e dati
gli effetti voglio vedere chi c’ha il coraggio di rinunciarci! Fanculo le
prese di posizione moralistiche contro il potere degli spacciatori,
contro il fanatismo che suscitano tra i coys… Cazzo, il GM5 è sballo
che picchia duro, va giù forte e ti rivolta come un guanto!
E a sottolineare le ultime parole tirò fuori un sonoro fischio di
ammirazione per la nuova magnifica dope, ma anche per se stesso che
era tanto bravo a raccontarne vita e miracoli.
Calvin e Chico se ne andavano caracollando lungo la strada che
conduceva al Settore dove agiva anche di giorno uno dei più celebri
guaritori di Exbologna.
177
‒ ‘Sto guaritore è come una rock star, roba da poster giganti in camera
da letto, da impataccarci le carenature delle motobees con la sua faccia
scannerizzata!
Calvin provava ad imbarazzarsi un attimo, a fare la figura di quello
venuto da fuori e completamente all’oscuro di tutto. Così quizzava a
tutta randa verso il compare, che neppure si meravigliava troppo
della sua ingenuità e se lo smerdava non lo faceva di brutto, ma con
un’aria condiscendente e anche un po’ tenera da fratello maggiore.
‒ Ma perché lo chiamano guaritore, Chico? Raccontami meglio ‘sta
storia – disse Calvin rallentando un attimo il passo.
Chico si bloccò del tutto e allargò solennemente le braccia.
‒ Ehi, loquito, c’è poco da raccontare. Allora, in ospedale magari ti
guariscono con una flebo… Ma qui non si tratta di buchi né di
endovene. Lui è un guaritore perché ti tocca, ragazzo, e toccandoti lui
ti guarisce, è chiaro?
‒ Ma a te questa faccenda del guaritore superstar non ti becca proprio
bene, vero amico? ‒ chiosò Calvin, credendo di cogliere una nota di
sarcasmo nella voce dell’altro.
Un po’ insaccati nei loro giubbotti, le mani molli nelle tasche, i capelli
a posto, salirono sul nastro mobile che li avrebbe portati al parco
pensile dove girava la roba.
‒ Relativizza, relativizza, hermano ‒ ribatté Chico con un sospiro ‒
non è che io voglia dire che il guaritore in tutta la faccenda non
c’abbia nessuna importanza. Quello veramente bravo sa guidarti nel
posto più adatto senza nemmeno guardarti negli occhi e toccarti in
modo talmente veloce e preciso che nemmeno ti accorgi che ti ha già
fatto. Ma da qui a sostenere che anche l’efficacia del GM5 dipende
esclusivamente dal tocco del guaritore, dal fluido magnetico che ti
trasmette insieme alla roba, beh, questo è credere alla magia nera, non
ti pare? E’ dimostrare l’esistenza di Dio…
‒ Davvero incredibile.
‒ Qualcuno dice che il GM5 in sé non esisterebbe senza la mano del
guaritore. Certo, io credo sia necessaria per l’innesco, ma per il resto
mi sembrano balle grosse come lottatori di sumo. E’ il dope che ti
stende, è il dope che ti apre gli occhi… Chissà, forse queste leggende
che stanno circolando sui pusher non sono che un’estensione delle sue
178
propaggini allucinatorie. Eh, quando poppi il latte, mammina è la
Madonna, capisci bello?
E proprio per dimostrare che non ci credeva, Chico iniziò ad
illustrargli una variopinta galleria dei guaritori top del momento, a
fargliene l’agiografia, a offrirgli simpatici quadretti in cui la tecnica
del pusher diventava prova di prodigi, in cui il sordido di tutta la
questione si trasformava in gloria, gloria e ancora gloria in excelsis.
Mentre l’altro parlava, Calvin immaginava le effigi dei guaritori
contro-celebrati da Chico come quadretti e santini: li vedeva levitare
circonfusi da un’aura di luce coi loro ghigni promettenti al posto delle
ragazze colle tette nude che sorridevano dai video piazzati ai lati del
nastro trasportatore. Un’ascesa mistica verso quello che sarebbe stato
il suo guaritore, annunciata dai santi pusher di Exbo evocati dalle
storie di Chico, completi di aureola psichedelica, ognuno con il suo
attributo che ne attestava la sacra leggenda spacciativa: il Guaritore
dell’Aquadrome che sa parlare ai pesci, un giglio tra i capelli, un tocco
leggero, un viaggio a cartoni animati, Pokèmon e dintorni; quello che
gira fra il traffico davanti alla Videoteca delle due torri, con la leucosi
ed il coltello infilato nella cintola, un tocco bruciante, un trip da
macelleria; il pusher delle cave di pietra con il cranio tatuato, da
evitare perché in diversi ci hanno lasciato la pelle, anche se dicono che
quella sì che è una morte in-di-men-ti-ca-bi-le; quello che spaccia un
po’ fuori dalle parti del deserto-discarica, con i capelli da rasta e un
cagnolino bianco tra le braccia e molti ci vanno proprio per il primo
tocco…
‒ Non ti sto a raccontar balle ‒ precisò Chico ‒ e di questo qui da cui
andiamo adesso non conosco la leggenda particolare, ma è un tipo
affidabile, preciso preciso, te lo assicura Chico: il GM5 che ti passa è
tra i migliori che c’è in giro ‒ concluse, riallacciando con un nodo
invisibile tutte le sue storie al motivo reale del loro arrivo nel parco.
Il nastro li aveva trasportati in poco tempo al disco sopraelevato su cui
poggiava la gigantesca aiuola dei giardini, protetta da un guscio di
cristallo, su cui premevano senza possibilità di infiltrazione i fumi e le
nebbie della città.
Appena entrati nell’area Chico respirò a pieni polmoni.
‒ Senti che arietta qui. E’ ozono quasi puro sai, per la climatizzazione
delle piante protette…
179
Calvin si guardò intorno, ma scorse soltanto innumerevoli cespugli
zoomorfi, disposti a distanza regolare tra loro. Il respiro profondo di
Chico si era trasformato in un attacco di tosse da lasciarci i bronchi.
‒ Ehi, fantastico! Ti smuove la polvere che hai dentro, tutta quella che
hai succhiato da quando eri un poppante…
Ma la raschiatina alla gola che diede dopo, non c’entrava già più
niente con la difficile osmosi tra i suoi alveoli pieni di fuliggine e lo
scopettone d’ossigeno del parco. Si diede un’aggiustata al giubbotto
attillato e anche questo voleva dire che lui il suo lavoretto da cane
pastore lo aveva fatto e che ora poteva tornare anche dabbasso se
Calvin si sbrigava a tirare fuori quanto si era pattuito.
Calvin tirò fuori il credito in modo che Chico ne fiutasse il valore, ma
invece di passarglielo abbassò la mano che lo stringeva. Il ragazzetto
si passò la lingua sulle labbra e fece una mossa golosa, senza
protendersi violentemente, però.
‒ Aspetta ‒ fece Calvin ‒ ti devo chiedere un’ultima cosa. Ecco,
siccome io non l’ho mai fatto, vorrei che tu…
‒ Vorresti che io? ‒ lo incalzò Chico.
‒ Vorrei che tu mi facessi vedere come si fa ‒ completò Calvin.
‒ Eh? ‒ fece Chico mettendosi di profilo e portandosi una mano
vicino all’orecchio ‒ Ma guarda cosa mi tocca sentire! Da dove arrivi,
cocco, da Urano? Eh no, querido, proprio non è previsto, il dottore mi
ha prescritto dieta assoluta e poi non è orario per me, no, proprio no!
Calvin rialzò la mano e diede col pollice e l’indice una bella
strofinatina al suo credito. Chico si bloccò di colpo e si accarezzò il
mento valutando il da farsi. Poi con un gesto fulmineo si sporse in
avanti e sottrasse la carta elettronica dalle dita di Calvin.
‒ Un giro di GM5 in omaggio, questa sì che è una vera istigazione a
delinquere. Chi l’avrebbe mai detto, eh, adesso mi metto a dare
dimostrazioni pratiche alle verginelle! Ok, siediti sulla panca e stai a
vedere come fa un vero artista. Il guaritore è quello lì vicino alla
fontana, lo vedi ? Quello col soprabito da esibizionista, gli occhiali e i
capelli con la coda, ok? Ora vado.
Chico si diresse svelto verso il pusher, ma fu solo una fulminea
occhiata d’intesa quella che si scambiarono la prima volta. Calvin
l’aveva notata proprio perché ci era stato attento. Chico lasciò
scivolare il credito sotto le barre metalliche di una panchina, poi, come
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un torello che si arresta di colpo, si voltò e tornò alla carica, puntando
dritto verso il guaritore con lo stesso sorriso a trentadue denti che
avrebbe potuto riservare all’amica delle ore più liete. E in un certo
senso lo era. Il pusher vibrò la mano nell’aria e i due batterono un
cinque fragoroso e perfettamente collimante, con Chico, più basso, che
fu costretto a un leggero saltello. Un brevissimo incontro gioioso, un
petardo di fraternizzazione. Ognuno, ora, per la propria strada.
Il problema del possesso e dello smercio della roba era stato
brillantemente risolto: era il nuovo corso del dope, la droga
direttamente spalmata sulla mano del pusher. Toccami e guariscimi.
Un bel ciocco con le mani. Gimme five. Gimme five.
Chico tornò tutto gongolante dalla sua opera di tutoraggio.
‒ Visto? ‒ sembravano dirgli gli occhi, in cui però la pupilla già
leggermente dilatata stava impostando un nuovo prevedibile
programma. Il trip stava per iniziare: il GM5 era rimasto impresso sul
palmo come uno strato di leggera vernice argentata, ma già la pelle se
lo stava bevendo tutto e prima di sparire ne rimanevano soltanto le
tracce pigmentate che seguivano ed evidenziavano le linee del destino
della mano.
‒ Sbrigati amico ‒ lo stava spronando Chico mentre si succhiava il
pollice ancora mezzo colorato ‒ gliene rimane appena una pellicola, se
si fa avanti un altro, il ciocco successivo te lo fai col guanto di
protezione del pusher. Nemmeno riusciresti a vederlo. E’… una
seconda… pelle…
Il GM5 consentiva uno sballo immediato. Chico stava per partire.
‒ Invece di battere un cinque, posso stringergli la mano? ‒ chiese
Calvin.
‒ Sì… anche così… funziona… vagli incontro come se… devi
presentarti… va…mo…nos ‒ farfugliò Chico a fatica.
Ma intanto i razzetti delle Croma Shuttle si erano messi in funzione e
Chico partì in retromarcia, un po’ piegato su se stesso, senza avere
nemmeno l’idea o la forza di salutare.
Calvin lo lasciò sparire all’orizzonte e si mise alle costole del suo
guaritore. Fecero una cinquantina di metri ad una distanza di
sicurezza, uno dietro l’altro, schivando mamme col passeggino
monitorizzato, vecchi signori con cani da laboratorio al guinzaglio,
coppie di giovani amanti con ai polsi le manette dell’eterno amore. Un
181
bel traffico a quell’ora del giorno. Lungo un tratto del viale un po’
meno affollato di presenze, il pusher avvertì i passi del ragazzo dietro
di sé. Si fermò allora, fingendo di fissare le foglie tremendamente
lucide di un cespuglio. Calvin gli passò accanto battendo di taglio il
credito già pronto sul palmo della mano aperta. Non sapeva se pure
quello fosse un segnale convenuto, ma tutto ormai gli veniva fuori
naturale, come se potesse fare affidamento su un sesto senso innato.
Saltellò dentro un’aiuola e ficcò il suo credito tra i rametti intricati di
un cespuglio a forma di coniglio. Ritornò sul tracciato e si diresse
verso il guaritore che intanto si era mosso, senza neppure preparare la
mano per il contatto, ma tenendola ben dentro la tasca, deciso ad
estrarla solo all’ultimo istante. Calvin accennò un sorriso e lo stampò
sul volto informe di diciassettenne ormonico. Enigmatico si sarebbe
detto, il sorriso.
Arrivati uno di fronte all’altro il pusher allungò la mano e solo allora
il ragazzo gli offrì la sua per la stretta. Un po’ più lunga del previsto.
La regola era di stringersi la mano per un attimo, scambiarsi qualche
rapido convenevole, salutarsi e filare via. Ma Calvin non voleva
saperne di mollare.
‒ Può bastare, figliolo ‒ disse il guaritore con una voce stridula ‒ ti ho
toccato ed il tocco è passato. Ora puoi andare, figliolo
Calvin non voleva sentire ragioni, anzi stringeva più forte, curioso di
vedere la reazione del suo dispensatore di GM5.
‒ Ehi, non è così che si fa! Nessuno ti ha detto niente? Ho detto che è
sufficiente. Ripeto: ti ho toccato e guarito. Adesso lascia, per…
Il pusher ora iniziava ad avere paura. Che quello lì davanti fosse un
subnormale, un bisognoso di assistenza psichica, capitato per errore
nella rete dei traffici gimmefiveistici? Sentiva le ossa della mano
scricchiolare in quella morsa tremenda. Iniziò ad urlare.
‒ Ehi, cazzo! Lascia andare la mano, stronzo! Porca puttana, mi fai
male! Aiuto, è un pazzo, uno psicopatico!
I passanti iniziavano a farci caso. Calvin lasciò andare di colpo la
stretta e iniziò a correre verso l’imbocco del più vicino nastro
trasportatore. Solo quando si ritrovò con le scarpe su quello
predisposto per la discesa aprì il pugno che aveva tenuto ben chiuso
da quando si era scollato dal pusher e notò sul palmo una banda
trasversale che squillava d’argento. Fece una smorfia e si diede una
182
grattatina sulla punta del naso. Non era poi così sicuro che il suo caos
interiore ne avrebbe tratto giovamento. Mentre scendeva non si
sentiva particolarmente sballato, magari soltanto più forte, più
consapevole. In grado di condurre il gioco da solo. Decise di fare una
puntatina a casa: aveva voglia di mettere un po’ di paura a papà e
mami. Gli adolescenti non avevano un bisogno incessante di soldi?
Nel frattempo il guaritore che aveva toccato Calvin nel parco stava
sperimentando una strana sindrome di guarigione alla rovescia. Dopo
che il ragazzo se n’era andato il pusher aveva passato alcuni minuti a
controllare lo stato della sua povera mano stritolata. Il timore non
riguardava tanto il male sofferto, che andava attenuandosi o il
sospetto che qualche ossicino avesse ceduto di fronte a quella
manifestazione di entusiasmo, quanto l’eventualità che la pellicola di
GM5, se non addirittura l’intera guaina protettiva fosse penetrata
all’interno della sua mano.
Un controllo accurato al riparo di un cespuglio gli confermò per
fortuna che tutto era a posto. Eppure qualcosa dentro di sé… Ora che
l’ansia si era un po’ placata, sentì montare dentro una sacrosanta
indignazione, mai provata prima di allora. Non era ammissibile che
certi giovanotti circolassero liberamente, minacciando il tranquillo
lavoro e addirittura la stessa salute di persone come lui! E gli agenti
che dovevano controllare il parco, dove erano andati a finire, eh?
Eppure lui le tasse le pagava, e profumate, se era per questo, e quei
soldi diventavano gli stipendi e le pensioni degli agenti, ma la Clown
Police se ne fregava di tutti quei maledetti teppistelli che circolavano
impunemente e ormai si potevano permettere qualsiasi atto incivile!
“Non hanno più ritegno, signora, e i cittadini, gli onesti cittadini, chi
li difende, eh?”
Si accorse con sgomento che quelle cose non le stava soltanto
pensando, le stava dicendo, a voce piuttosto alta veramente, ad una
anziana lady che continuava a sgranare gli occhi di fronte a lui e a
stringere con apprensione il manico della borsetta.
Il pusher si allontanò alla svelta. Ma che cazzo gli stava succedendo?
La Clown Police chiudeva volentieri un occhio sulla faccenda dello
spaccio istantaneo, ma non era certo il caso di svegliare il can che
dorme! Era assurdo che proprio lui si mettesse a gridare aiuto aiuto ai
quattro venti o a invocare un pronto intervento delle forze dell’ordine
183
contro un consumatore balordo… Sudava, si sentiva strano. Le forze
gli mancavano. Si accoccolò dietro un cespuglio dalla forma di
dinosauro. Da lì poteva osservare l’allegro andirivieni delle persone
del parco.
Vide papà, mamma e bambino camminare sicuri tenendosi per mano.
Li vide sedersi tranquillamente su di una panchina, il bambino
orgoglioso del posto occupato fra i due genitori, le gambe penzoloni
che avevano ancora da crescere tanto per arrivare a toccare terra.
Guardò meglio scostando i rametti e riconobbe il viso del bambino.
Era lui da piccolo. Si ritrovò seduto dietro a un banco di scuola, tra
tanti automi che come lui scrivevano in silenzio sotto dettatura e tutti
avevano quella calligrafia tonda, fatta di sfere impenetrabili e di cappi
minacciosi. La madre gli versava nel piatto la minestra e lui cercava di
vedere il volto del padre nascosto dal giornale. Il padre lo abbassava e
gli passava il telecomando per sintonizzarsi sulla partita. Lui lo
afferrava. La sua mano adesso era quella di un ragazzo e sventolava il
diploma che il preside gli aveva consegnato: sapeva di avere ottenuto
una delle migliori votazioni finali. Poco dopo, in mano aveva anche
una mazzo di chiavi e con quelle apriva migliaia di volte la porta di
casa e migliaia di volte metteva in moto la macchina e migliaia di
volte faceva scattare la serratura d’ingresso del suo ufficio. Si sedeva
al suo posto, accendeva il computer e lo schermo si riempiva di
numeri e dati. Andava avanti per ore e alla fine della giornata,
distrutto dalla stanchezza e dalla noia, un solo pensiero riempiva la
sua mente: “non ne posso più. Se torno a vivere giuro che farò lo
spacciatore.” Lo schermo si svuotava di lettere e cifre, diventava un
biancore accecante e usciva fuori dalla cornice del visore: era la sua
testa ormai canuta riflessa in uno specchio. La moglie lo chiamava a
tavola e finiva che litigavano. Dava una chiave in una mano che non
era la sua, anche se il ragazzo che aveva di fronte gli somigliava
vagamente. Uno studio più grande. Il verso di un gabbiano. Una torta
con troppe candeline. Lui che accarezzava davanti allo specchio uno
strano gonfiore alla gola. Lui vecchio in un letto tutto bianco: sta male
ed ha paura. E’ intubato, non può piangere o urlare. Vede accanto a sé
macchine piene di lucine flebili, schermi con tracciati intermittenti.
Un’infermiera di schiena controlla gli strumenti e lui ha il terrore che
abbia intenzione di staccare la spina. L’infermiera si volta e lui sotto la
184
cuffia riconosce la faccia del ragazzo che non voleva lasciare la sua
mano. Il ragazzo che lo ha guarito.
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Moet
di
Giorgio Brunelli
https://www.facebook.com/gio.brunelli
Misi in prima la Triumph e, dopo un giro di ruota, mi accorsi di un
coccio di vetro inspiegabilmente conficcatosi nella mescola anteriore.
Sfanculando, congedai le natiche dalla sella e, spedito, raggiunsi a
piedi la piazza.
Ficcai le corna sulla lingua e fischiai al giovine Dennis. Se ne stava
accovacciato sullo scheletrito liberty di un souvenir di panchina,
intento a rollarsi una presa di Drum misturata ad ingerenze
fortemente psichedeliche. Dopo avergli intimato uno strappo, montai
186
dietro il sellino monoposto del suo scooter da gara e partimmo.
Emulando la guida del “46”, sua eletta divinità, in poco meno di
mezz’ora, dopo un incubo di cento allucinanti chilometri di pieghe
perigliose, verticali impennate e diserzioni nei campi al fine di eludere
l’evenienza di un posto di blocco, mi domiciliò compiaciuto sul luogo
deputato al reading. Ringraziai il giovine poliassuntore regalandogli
un braccialetto della fortuna e, in un battibaleno, binocolo alla mano,
lo vidi rincasato incolume e già diligentemente chino sul sussidiario di
Beyoncé.
Al reading ero stato invitato da Orazio, un intemerato magnaccia
titolare di un night club fatiscente, che ebbe l’audacia di nominare con
una locuzione inglese vagamente naif: “Choose Meat”. La fedifraga
ricevitoria low-profile era strategicamente ubicata in un St. Pauli
nostrale, in un’astuta triangolazione geografica godereccia,
difficilmente ravvisabile anche dai rabdomanti Tom Tom delle Alfa
degli sbirri.
Orazio lo conobbi assieme alla sua baldracca cino-keniota di turno,
tale Regina, in occasione di un viaggio premio di tre ore alle foci del
Po, sponsorizzato per otto persone dalla Raminax S.p.A., una
fantomatica ditta di stoviglie e posate. I fortunati prescelti, oltre a
ricevere in omaggio una confezione sottovuoto di ravioli agli spinaci
di Giovanni Rana, una sovracoscia di pollo surgelata di Francesco
Amadori e un cartone di vino rosso Tavernello da un litro, avrebbero
altresì dovuto confermare al National Geographic, la veridicità in
merito all’esistenza dei temibili pesci Siluro. Effettivamente, nel
cabotaggio pluviale, ne avvistammo una coppia davvero terrificante
che sfrecciava minacciosa di fianco alla nostra imbarcazione.
Noi tutti paventammo che quella coppia orrifica di bestie avrebbe
potuto balzare facilmente oltre il parapetto del natante, al fine di
scannarci crudelmente.
Fortuna volle, che fra noi vagliati fruitori, presenziavano anche due
wrestlers keniani, dai mostruosi deltoidi, anch’essi ben acclimatati nel
nostro esiguo gruppetto, e come noi atterriti da cotanta aberrante
ittiologia pluviale. Stranamente investiti da una sagace intuizione,
dopo aver agilmente soppesato con gli atletici sguardi l’ambiente
circostante, afferrarono i due svizzeri mulatti, una coppia gay in luna
di miele d’acacia, e li gettarono in quell’acqua putrida e dolce. I due
187
ittiosauri si elevarono magistralmente a iperbole e, spalancando le
smisurate mandibole, se li risucchiarono al volo nel ventre,
degustandoli come due Morositas, sul letto del fiume. Nemmeno il
tempo di godere del loro rantolio, che sul faccino di noi tutti ritornò
sgargiante lo smile.
Orazio, a distanza da quel nostro proficuo incontro, si trovava in
trasferta di lavoro a Minsk, per trattare il suo asset ben cernito di
bagasce con un altro buyer della sua risma. Ebbe modo di leggere le
mie invenzioni pseudo letterarie, su indirizzi virtuali underground e
in altri URL, diciamolo pure, smaccatamente ficherecci. Lesse con
accigliato interesse una mia silloge di limericks & calembour, tanto
che per tal suo onorifico disturbo, mi assoggettai ad essergli eterno
debitore. I miei file dissennati erano tutta robaccia illeggibile, un
composito remix equalizzato con citazionismi di intramontabile
letteratura contemporanea centrifugati con idiote ibridazioni splatter.
Addebitandomi il costo della chiamata, mi telefonò al cellulare,
spronandomi a declamare qualcosa ai suoi affezionati avventori, al
termine del colorito live-show di mezzanotte, a cui seguiva lo sfarzoso
rituale del risotto allo champagne con foglie d’oro zecchino a decoro,
cui provocatoriamente Orazio, amava servire dentro un trogolo
comune. Egli riteneva che quella redditizia masnada di lap-dancer di
sua pertinenza fosse scarsamente acculturata, nonché indegna di
essere in busta paga nel suo prestigioso covo. Era affetto da patologico
complesso del Grandioso, per il qual disturbo esigeva da loro, oltre a
un’incommensurabile bellezza e a un’impudente puttanaggine, anche
uno sculettio amplificato, pregno di credibile allure. Solennemente,
egli soleva ripetermi: “Oh, ricordati che la cultura alla fin fine paga
sempre”. Notando al parcheggio del night la sua fiammante
Lamborghini Murcielago, non stentavo a credergli. Era assurto a
redivivo Jorge Luis Borges, grazie ai meritocratici orifizi innatamente
posizionati nei papabili baricentri delle sue spumeggianti sciantose.
M’invitò a bere qualcosa alla mezzaluna del bar, tremendamente
kitsch, che sprigionava effluvi di sesso persino dai poggia bicchieri
cartonpressati della Becks. Parlamentammo alcuni secondi riguardo al
mio cachet: con sincinesie alla Ray Charles lo frazionò in modo
consistente, infilandomi un cono appuntito, modellato con un foglio
da venti euro, nell’occhiello del revers della giacca. Lui ordinò al suo
188
acrobatico barman marocchino un Mojito. Io ordinai una “cavallina
lettone” di almeno centosettanta al garrese, accompagnata da un
artico tumbler di Buck’s Fizz. Mi servirono il cocktail e non la
giumenta, ed Orazio, da sempre fan dei Maudits, mi ordinò un calice
tiepido di assenzio. Bevvi il Buck’s e il nettare dei poeti alla stregua di
una tequila bum bum. Seduto sul purpureo sgabello, rumoreggiando
con la cannuccia nel fondo dei liquami delle misture alcoliche, mi
avvidi di una splendida figura muliebre, e ivi follemente
m’innamorai. Mi si avvicinò. Scansionai una pertica da uno e ottanta
in blue-jeans paillettati e lineamenti del viso tardo-romantici. Evinsi,
dal prosieguo della tomografia assiale, che dal top le smottava una
quarta di silicone last generation e che, in plusvalore, ostentava al
mondo l’archetipo Leonardesco del Derrière.
Era strepitosa, e pensai che in fondo, anche le care meretrici fossero
umana merceologia drammaticamente innamorabile. Pertanto iniziai
a giustificare tutto quel coacervo da macellazione di attricette,
modelle, starlettes, show-girls, soubrettes, gettoniere, puttanelle e
quant’altro di stucchevolmente riprovevole imperversa nel fasullo
sfavillio del mondo mediatico e in altri mondi parimenti immondi.
Scoccata la mezzanotte, col capo affogato nella mangiatoia, assaporai
quei chicchi a 24 carati assieme al live show. Dopodiché mi avviai
verso l’Agorà preposto al reading. Orazio in persona afferrò il
microfono del karaoke, azionò l’effetto wa-wa, e presentò
ampollosamente al pubblico la mia bizzarra figura: “Muti gente! Qua
c’è uno che dice”.
Le luci si soffusero gradualmente e il silenzio s’ovattò greve. Dalle
tavole del proscenio fuoriuscirono fumi di ghiaccio secco, mentre un
cono di luce fredda rischiarava la mia figura conferendomi un’aura
solenne.
Edulcorai la tensione dell’ouverture sverginando “Starlette”, un
sonetto dalla metrica rapper, dedicato a tutto quell’inutile bailamme
di ficame televisivo, che impunemente impera da ogni antenna
dell’universo.
Oh Starlette che vuoi tivù
ma ci pensi proprio tu,
alla immane gran trafila
189
per cui dovrai sudar di figa?
L’elettricista in studio sette
t’ha adocchiato le gran tette.
Il macchinista è assai infoiato:
a pecorina je mozzi er fiato.
Il regista è basso e grasso
orsù Starlette, dai benza al casso!
Dolorante e nervi a pelle
dovrai ciucciar tante cappelle!
Dai ti prego non mollare
ormai sei prossima al canale.
Il mezzobusto assai rapace
ti chiede breve, sei capace?
Tu ferita nell’orgoglio
gli smutandi il tuo portfoglio
e il mezzobusto assai arrapato
te lo ficca con afflato.
A Rete 4 manca un passo,
poco più che qualche casso!
Te lo dice il tuo sentore
che sei vicina al direttore.
Nella stanza di potere
del novanta vuol godere!
Gli proponi un bel pompino
ma lui vuole il sederino.
Tu ti chiedi del perché
di questa cosa troppo osé.
Ma alla fine accetti il cazzo
e ti sottrai dall'imbarazzo.
E dopo tutti quegli Hatù
ora spot decanti tu.
Ai tuoi molti ammiratori
che non san dei tuoi dolori
fai la firma in una riga
e più non scomodi la figa.
Sebben troietta emancipata
certo rotta e un po’ scazzata
190
con la coscienza ritrovata
oh Starlette…tu sei arrivata.
Ogni bon vivant, incluso Nestore, l’alano merle di Orazio, applaudì
per venti minuti filati, fino allo scoperchiamento degli scafoidi.
Peraltro, notando un gran via vai dal cesso unisex, capii che li resi
pure incontinenti.
Poi con postura da chansonnier, iniziai a declamare alcune riflessioni
dedicate a tutte quelle donne ferenti per le quali, nel mio girone
infernale sentimentale, mi dovetti poi sempre tracannare containers di
benzodiazepine.
Il successo si esplicò in una sincera standing ovation.
Una di queste mie riflessioni, intitolata “Vita” – ohhh cara, senza di te
la vita, cosa vuoi che ti dica… adesso sa tanto di fica! – fu eletta a
tormentone della serata e tutti quei bei grufolanti verri la
scimmiottarono subito in modalità repeat alle loro fortuite
benefattrici.
Visto il lampante consenso di critica, ne seguì un’altra dozzina della
medesima cifra stilistica. Oramai possedevo il dominio dell’intero
parterre, soprattutto di quella nicchia a cui più bramavo, ovvero tutta
quella mandria di giovenche che, per il sottoscritto, si sarebbero
suicidate nelle più singolari attuazioni. Dopo quelle letture,
puramente stilnoviste, esiliai verso letture licenziosamente filosofiche.
Si trattava di poesiole istintuali fuoriclasse, in realtà esercizi karmici di
vuoto mentale, volutamente redatti sul water ad occhi bendati, e
pensando a tutto all’infuori dello scrivere. Nondimeno, era da
considerarsi degna di menzione la musicalità dei testi.
Ultimate le salmodie delle astruse performances, in platea aleggiò un
silenzio artificioso. Forse quel parterre avulso da pallose teorie
ermeneutiche, ed ebbi ragione di credere pure di altre teorie, si sentì
percettibilmente gabbato da cotanta mia assurda ed astratta logorrea.
In fondo le mie liriche “a braccio” altro non erano che polluzioni
patafisiche e non, di un apolide al Polo.
Eppure, ugualmente arrivò l’elettrizzante agnizione. Molti astanti si
strapparono il toupet, gettandolo in mezzo alla pista ed altri, in preda
a ridanciane convulsioni, chiazzarono con atolli di piscio la patta dei
Versace da boutique.
191
Reduce da quel riscontro così accalorato, omaggiai quella folkloristica
congrega con un ultimo struggente pezzo: un sofferto poemetto
autobiografico, scritto all’andata sul sellino di Dennis, mentre ad
ascissa tagliava in derapata un campo di cachi. A fine lettura capii
perfettamente che, come me, anche loro non avevano inteso nulla,
tuttavia sommai compiaciuto l’ennesima apoteosi.
Transennato come un divo, deambulai fino al bar. Notai di nuovo
quel jeans luccicante; lei era appena fuoriuscita da una sessione in
privé con un panciuto tycoon dei culatelli parmensi.
Mi venne incontro, devolvette alla mia vista una lussuriosa fenditura
scapolare, poi compassatamente si aprì un varco fra le mie cosce e mi
appoggiò sulla patta quei glutei così tondi, così tonici e così tutto il
resto. Esordì con un sensualissimo e roco: “ccciao gggioia sssono
JJJesssica”.
Trasecolato, le cinsi la vita con un braccio, mentre l’altro lo dedicai ad
un gesto plateale, per ordinare al funambolo dello shaker due flûte del
miglior champagne della Maison. Intanto Orazio, scorgendo la
sequenza del mio iter seduttivo, si prodigava nell’inviarmi
commoventi marconigrammi esplicati con desueti moti corporei e
preoccupanti tic oculari. Considerai inorgoglito che il mio reading era
indubitabilmente riuscito a rafforzare la nostra quinquennale
amicizia, nata ai tempi del nostro concorso di colpa per il duplice
omicidio preterintenzionale del Po.
Proposi alla mia bella di abdicare allo sgabello, al fine di effettuare un
romantico looping nell’agognato privé. Le fabulai, tra un rabbocco e
l’altro di Moet, del mio tanto essere e del mio zero avere. Mi dilungai
in un autoritratto deliberatamente bohémienne, sulla mia vita d’artista
con tutte le difficoltà di ordine pratico ad essa connesse e soprattutto
sconnesse. Ma ciò che sancì il predestinato coup de foudre, fu in virtù
della mia acclamazione ieraticamente intonata: “Jeans-ElegantiStanno-Seduti-Invocando-Cazzo-Abile”; acrostico formulato seduta
stante e a lei dedicato.
Astringendo le cosce, rise e applaudì fragorosamente. Tutt'intorno,
un’invisibile claque di maschi intenti a tener ben posizionati i rossetti
professionali sulle loro taglie extra-large abbassate sulle ginocchia,
esternarono come Jessy un deificante plauso.
192
Fra un piccante struscio e l’altro, le chiesi quale fosse la sua età ed ella
mi rispose stranita: “Ventotto!”. Paraculamente, la sollecitai a
mostrarmi un documento di riconoscimento.
Lo snidò intimorita dal push-up, sito più convenientemente agevole
per l’esibizione dello stesso ad eventuali improvvisati blitz della Pula.
Me lo porse e rimasi impietrito. La mia Jessica risultava all’anagrafe
come Michele Esposito, nato a Capodimonte, anni trentacinque,
professione architetto.
Notando il mio stato obnubilante, mi tranquillizzò verbalizzando che
si era tramutato ufficialmente in Sottana sei mesi prima, grazie alle
chirurgiche mannaie di Casablanca.
Amaramente, decodificai l’increscioso alfabeto Morse d’Orazio.
Ma sì, tanto la mia operata era bella, colta, elegante e soprattutto
facilmente sbolognabile.
Ed io già mi sognavo a zonzo per il paese, tra lo schiattare d’invidia di
tutti quei conoscenti incatenati a vere femmine di nascita, ma
trasmutatesi poi in obbrobri belligeranti a concluso menarca, sempre
adirate a causa di addendi d’anni strascicati con interminabili
reprimenda.
Jessica ed io, onorammo la nostra neonata liaison col tocco cristallino
dei frizzanti perlage del Moet, poi ci alzammo dall’imbottitura in
corredo al privé, abbracciati come i due innamoratini di Peynet.
A Orazio, che scorsi madido di sudore, a causa della pelliccia in ocelot
che ancora tronfio sfoggiava durante il nirvana colonscopico con una
lei di una coppia scambista, gli urlai perentoriamente di lanciarmi il
telecomando del bolide.
Uscimmo al parcheggio, dispiegammo le ali di gabbiano in carbonio, e
volammo come due flamingo in amore, fino allo spegnersi dei
lampioni arancioni del night.
193
Ida e la cosa
di
Margherita Eallaigamma
margheritaealla.altervista.org
E’ un tiepido mattino d’aprile e il parco, contrariamente al proprio
nome, è prodigo di trilli, cinguettii, profumi e polveri sottili. Ida è
seduta su una panchina scorticata e ha già strappato i suoi collant
dietro un polpaccio, eppure l’attenzione della donna, volta alle pagine
del libro accovacciato sulle sue ginocchia, non mostra la benché
minima smagliatura.
194
Una moto di grossa cilindrata transita lungo la via adiacente,
tuonando un cumulonembo a incudine dai tubi di scarico manco fosse
un aereo a reazione. Nessuna reazione: Ida s’annida maggiormente
nella trama del romanzo seguitando a librarsi sulle ali del pensiero.
Alcuni minuti dopo, l’ottantatre barrato sfreccia oltre la siepe in lauro
sul limitare del parco, nell’ardua impresa di recuperare dieci minuti
sulla tabella di marcia. Lo spostamento d’aria vorticosa innescato
dall’autobus produce un uragano: raffiche di vento a ottantatre
chilometri orari prima garriscono la gonna della donna, poi frullano le
pagine del libro in un frappè di frasi. Ida accetta la sfida: stizzisce,
perdendo più volte il segno, ma lotta strenuamente aprendo le dita a
ventaglio sui fogli sferzati, fino a puntellare la sintassi d’ogni singolo
periodo. Quando la ragazza sembra avere avuto la meglio, una nuova
folata s’abbatte prima sull’aiuola di rose adiacente, strappandone
petali e vocali, quindi sul libro: sotto gli occhi sconvolti della donna, il
vento riesce a svellere alcune parole dalle pagine e le prilla in alto,
mulinandole beffardo.
Una manciata di secondi e l’uragano s’acquieta: dopo aver finto di
portarsi vocali e consonanti a spasso, l’uragano viene a patti con la
bella giornata di sole e lascia cadere il tutto sull’aiola con ghigno da
esperto donn’aiolo.
La donna sospira, raduna ciò che può e, assieme a qualche petalo,
ripone ogni cosa tra le pagine del libro. Mentre saluta la panchina,
l’occhio le cade sul titolo del libro: “Il nome della cosa”. Strano, pensa
d’istinto, ma senza star troppo a cercare la “o” di pelo nella parola
uovo, lascia correre e s’incammina lentamente verso casa.
‒ Ehi, un ossimoro! ‒ ride tra sé, orgogliosa per la sua innata abilità
nel dire le cose come stanno; ed in effetti, è risaputo che una parola
giusta, al momento giusto, è sempre un’ottima cosa.
Girato l’angolo s’imbatte nella vetrina di un minimarket d’alimentari.
Ida riflette e lo specchio della vetrina ne rimanda la magra figura non
solo retorica: certo che il turbine degli eventi l’ha tutta scompaginata! I
capelli spenzolano a ciuffi ricorsivi gotici, la messa in piega è messa
sottosopra (amen), la calza contenitiva ha perso il filo del discorso e
s’è smagliata lasciando intravedere una vena varicosa… insomma Ida
ha l’aspetto sgualcito di chi s’è smarrito nel bosco in una giornata
burrascosa. Appena arrivata a casa dovrà fare qualcosa, anche se, sì
195
ecco, per fortuna non è attaccata all’aspetto materiale delle cose: fin da
ragazzina ha sempre cercato rifugio nell’essenza della sostanza più
che nella forma delle cose in sé, con buona pace di Platone e Kant. Un
inebriante profumo di salame interrompe bruscamente le erudite
riflessioni di Ida che, dopo aver osservato per un attimo il buffo logo a
icosaedro nell’insegna del negozio, decide di entrare per vedere cosa
può comprare.
‒ Allora, signora, cosa desidera? ‒ domanda l’uomo corpulento al
banco macelleria.
La donna sussulta subendo la portata totalizzante della domanda.
- Oh… non ho ancora scelto.
Ida deve pensarci su: non è abituata a fare le cose come capita.
Scegliere è un’incombenza faticosa!
‒ Allora, signò? Vuole tirare i dadi? Quanti etti gliene faccio?
‒ Beh, vada per un etto…
Uscita dal negozio, pochi passi oltre, incrocia la sua amica Irene.
‒ Ida! Quanto tempo… Come vanno le cose?
Ida stranisce. C’è qualcosa di sinistro e iterativo che le sfugge nella
piega del racconto… poi risponde senza dar troppa corda all’interlocutrice e alla sua loquela appiccicosa.
‒ Bene. Però mi sta venendo un gran mal di testa. E’ stata una giornata
burrascosa: sto andando a casa a riposare.
‒ Ma cosa mi dici mai! Non è che mi stai scaricando?! Eh, eh… proprio
tu che di solito hai sempre qualche storia succosa da raccontare…
‒ Senti, Irene, una cosa è stare comodamente sedute al bar, un’altra è
stare in mezzo al marciapiede con un’emicrania. Ora, se vuoi
perdonarmi.
Ida aggruma le linee d’espressione in posa bellicosa e si congeda, ma
Irene la tampina passo passo.
‒ Hai una calza smagliata! Ehi, senti… secondo me tu non mi vuoi
dire le cose come stanno.
‒ Ma figurati…
‒ Sei pure spettinata… Non è che vieni adesso adesso da
un’avventuretta particolarmente focosa?
‒ Cosa?
‒ Una bella scopata, allora, se vuoi che chiami le cose con il loro nome.
‒ Oddio.
196
Ida s’è immedesimata tanto nell’interpretare la propria cefalea, che
ormai sente pulsare realmente la testa. Non può fare a meno di
pensare che se assestasse all’amica un colpo secco alla nuca,
probabilmente farebbe la cosa giusta. Un conato di nausea.
‒ A-ahhh! Sei incinta! Ecco cosa!
‒ Ma di cosa diavolo vai cianciando Irene?!
‒ Ohi… a me puoi dirlo, Ida. So come vanno queste cose: una
strusciata, vieni da me, no vengo da te, sì vengo, oh…
‒ I-re-ne!! Tu stai farneticando e poi… poi sono cose che non ti
riguardano.
‒ Mamma mia… acconciatura psicosomatica, oggi, eh?
Un altro conato di vomito. Ida sbuffa e senza replicare s’avvia di corsa
verso casa: nonostante il malessere le si legga sul volto da almeno un
chilometro di distanza, il condominio l’attende senza il mino accenno
a venirle incontro. E d’altro canto, pensa Ida, l’edificio, fin dalle sue
prime interpretazioni alla metà degli anni ottanta, ha sempre recitato
con coerenza la sua parte di immobile.
Dall’androne si precipita in ascensore, laddove invece sale fino al
quinto piano. In parallelo, anche la nausea cresce, inerpicandosi lungo
l’esofago e la saliva viscosa inizia a sottendersi in filamenti
raggomitolati al corpo della lingua.
Ghhh… ghhhh…
*Ding!*
La chiave è già nel buco della toppa quando, accompagnati da un
ululato ferino, due fiotti di vomito prima schizzano il noce
impiallacciato della porta e poi si tuffano a pesce sopra lo zerbino. Ida
s’appoggia al legno levigato dell’uscio a capo chino mentre lo stuoino,
per nulla schifato, continua ad affermare “BENVENUTI!” in
stampatello rosso, su sfondo marroncino crespo. Così, forse in
ossequio a tanta cordialità, altri cinque o sei zampilli eruttano dal
ventre sconvolto dal pallore della donna.
A mo’ di aruspice, Ida interroga il frutto delle sue interiora alla ricerca
d’una qualche delucidazione sul significato degli eventi: in mezzo alla
poltiglia appiccicosa, trova, caffè, biscotti solo parzialmente digeriti e
qualcosa di nero che pare inchiostro, forse parole andate di traverso.
Tira le somme vaticinando un prossimo pranzo a base di camomilla
197
più un quarto di fetta biscottata. Sorride amaro e si munisce di
straccio e secchio.
Più tardi, in attesa di prendere servizio in biblioteca alle quindici, si
stende sul divano. In sottofondo, il telegiornale snocciola le note
infiltrazioni mafiose nell’alta finanza italiana. Ida, ormai persa in un
paludoso dormiveglia, si scopre a pensare che Cosa Nostra sia ormai
un po’ casa nostra e che la casa abbia bisogno delle pulizie di Pasqua.
Già, un po’ più di pulizia non guasterebbe, ribadisce sottovoce a se
stessa, anche se il vero problema resta l’Euro, che è stato concepito con
precise finalità politiche per smantellare lo stato sociale e accentuare la
polarizzazione di redditi e ricchezze.
Rinfrancata dalla breve pennichella, s’avvia al lavoro. Sull’uscio del
condominio, l’accoglie una frizzante ventata di primavera in libera
uscita.
‒ Forse dovrei lasciarmi andare anch’io… ‒ parlotta tra sé ‒ essere più
avventata, ecco, più primavera e dopo donna di lettere. Chi non risica
non rosica, eh, eppoi, si sa, chi cerca… chi cerca… cova? mmmm…
Sbuffa: qui ci si perde come parole vento. Una gatta spelacchiata
attraversa la strada andando ad accovacciarsi più oltre.
Che fastidio: qualcosa dev’essersi infilato tra le scanalature del
carrarmato della scarpa destra. La donna s’appoggia a un lampione,
capovolge il piede e trova un sasso piatto incuneato. Con l’unghia
dell’indice lo svelle dall’incavo gommoso e poi lo getta via.
L’atto di scagliarlo lontano, le riporta alla mente quando da bambina
faceva rimbalzare i sassi sull’acqua del laghetto per vederne i cerchi
riverberanti prima di andare a fondo. Per un certo periodo era stata
una, beh, sì, una cosa capace di affascinarla.
In biblioteca tutto torna a scorrere lungo i lucidi binari a scartamento
ridotto della più locale ordinarietà, finché non s’appalesa Diana.
‒ Oplà: guarda che bella sorpresa ti ho portato!
L’amica ha gli zigomi raggianti che riflettono barbagli d’ossidiana e
appoggia sul bancone
un pacchetto di miscela arabica di prima qualità. Ida, però, resta
interdetta, quasi le sfuggisse il senso, così Diana rincara.
‒ Ehi, è per te, non sei contenta? Non avevi detto che al tuo
supermercato non si cosa più?
198
‒ Uh? …mmmm, sì grazie… proprio uno splendido pensiero, da
parte tua.
Ida rigira le due confezioni sottovuoto, palpandone l’odore noto: che
cose strane.
‒ Cosa è?
‒ Come cos’è?!? E’ cos’è!
‒ Oh, già. Scherzavo, sai…
‒ Ehm… bella la tua nuova camicetta a rose gialle!
‒ Eh?
Ida studia la propria camicetta, cercando invano di capire cosa
intenda l’amica, quindi glissa.
‒ Oh, ok, g-grazie. Ehm…
‒ Sai che ho finito il libro che mi avevi suggerito. Me ne consigli un
altro?
‒ Cosaaa? Già finito in due giorni? Pensavo che avessi anche altri
interessi, oltre la lettura.
‒ Non dubitare, so come spassarmela: aprire un libro e aprire le
gambe, per me pari sono.
Diana ride di gusto e Ida rimane un po’ interdetta, così l’amica la
sollecita con un’occhiata giocosa.
‒ Ehi… Cos’hai oggi? Sembri assonnata: hai avuto una notte focosa?
‒ S-sarà che non ho ancora smaltito la pennichella… mi capita se
dormo dopo… dopo… non cena, dopo… beh dopo mangiato. Oggi ho
pure rimesso.
‒ Oh.
L’amica culla un infante di silenzio e Ida continua a cercare la parola
dietro il bancone dell’accettazione. Ma dov’è finita? Cavolo ce l’aveva
sulla punta della lingua, eppure! Mmmm… No la bocca è vuota, come
pure non c’è traccia del pranzo né sul ripiano né sotto il bancone.
‒ Allora? Che cosa mi consigli? Un libro leggero, mi raccomandi ‒
incalza Diana.
‒ Oh, sì, hai ragione… beh, c’è il nuovo romanzo di Strakeskij: un
disertore cosacco che si rifugia sugli Urali e sopravvive facendosi una
canna.
‒ Mah, sembra un’americanata.
‒ E’ uno scrittore russo.
199
‒ Russo o meno, anche se si facesse dieci canne al giorno, morirebbe di
fame.
‒ Ma no, cosa hai capito?! Si fabbrica una canna artigianale e si
stabilisce accanto a una palude pescosa.
‒ Cosa?
Ida sente di nuovo pulsare la testa: l’eco del mal di testa torna a
rimbalzare contro le pareti del cranio.
‒ Ida tu stai male ‒ sentenzia Diana con piglio sherlockholmesco.
‒ Un attacco di emicrania.
‒ Prendi qualcosa per il mal di testa.
‒ Non qualcosa, no. Meglio qualcos’altro.
Oddio, sta sragionando! Perché tutto si è fatto improvvisamente così
complicato? Il corpo pare irrigi-dirsi cose in una lingua sconosciuta e
Ida ascolta e ascolta all’infinito fino a scoprirsi vecchia e isterilita
quanto un ramo secco.
Nel tentativo di recuperare un minimo di lucidità, si morde a sangue
la lingua. Il dolore morbido avvolge il cervello e ogni termine inizia
ad acquisire una propria dimensione spazio-temporale, diventando
concretamente “cosa alla luce del sole”. D’un tratto, le ritorna in
mente un episodio dell’infanzia: a casa della nonna, sull’albero di
mele, quello che sembrava solo un ramo secco, ad una più attenta
analisi, s’era rivelato essere un insetto stecco.
‒ E infatti ‒ chiosa ad alta voce la donna facendo appello alle sue vaste
nozioni di entomologia ‒ il fasmide è un insetto dell’ordine
Phasmatodea, ovvero dal greco phasma *fantasma*. Chi meglio di lui?
Eh…
‒ Ma cosa stai farneticando, Ida? ‒ domanda Daria sempre più
atterrita.
Stranita per le implicazioni del proprio delirio, Ida irrigidisce tutti e
quattro gli arti, o forse sei (qualcos’altro), chissà, mentre l’insetto
immaginifico mulina le zampette in stampatello sopra lo sfondo
bianco del classico lenzuolo fantasmatico, mimando epilessie di
lettere; infine traducendo un suo stolido bisogno interiore, evade
verso le alte sfere… Corporeo dall’incorporeo, frattale e quale, la
donna confonde l’infinitamente grande con il piccolo, così da
trasformare l’enunciazione in annunciazione: Ida è l’insetto stecco.
‒ St’eccomi! Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai
200
detto.
Diana grida e scuote l’amica, cercando di restituirle un barlume di
lucidità. Ida la vede trasfigurarsi in arcangelo Gabriele.
Ida galleggia nel vuoto, perfettamente immobile come dev’essere
qualsiasi insetto stecco coscienzioso, ricciolo di grafema elementare
tanto piccolo e preciso da essere puntuale sia nel tempo che nello
spazio. E’ un viaggio nell’universo in lungo e in largo, fra capo e collo,
un navigare senza né andata né ritorno, essenza di unità linguistica
minima dotata di significato. L’ebbrezza semantica che gliene deriva è
prossima all’illuminazione. Quante volte, infatti, la prende la smania
di darsi, o meglio di ardire parole in libertà come un soffione lambito
a fior di labbra e sparso nel sole! Un seme che si getta nel vuoto, un
gesto d’allegra follia, un colpo di testo, e poi restare lì distesa per ore
ed ore, per os ed oris, per es ed eros, succinta o barocca nei costumi di
alfabeti umani, su libri e quaderni, insieme a una setta di lettori, o in
solitudine minimalista.
Ed ecco che Ida ode delinearsi pure l’eco d’un sottofondo musicale:
una sinfonia di fonemi, un’atmosfera da carta canta che tutto avvolge
e su tutto trionfa. La donna ne cavalca l’onda, sentendosi indiscussa
vincitrice, e avanza con piglio risoluto, modello marcia trionfale “della
Ida”: “Danziam, fanciulle Egizie, le mistiche *parole*, come d’intorno
al sole, danzano gli astri in ciel! Vieni o guerrier, vieni a gioir con noi,
Vieni, vieni, vieni, o salvator!”
Da lì all’orgasmo invocato a gran voce il passo è breve: Ida è un
tripudio di convulsioni vagamente cubista.
‒ Aiuto! Qualcuno ci aiutiiii ‒ grida Diana a gran voce, sconvolta a sua
volta nel vedere l’amica preda di quella che parrebbe essere una crisi
epilettica.
‒ Uh?? Gluuuerrr…
Ida, caduta a terra, gloglotta un suono gutturale, a capo chino e
tacchino. Poi sente in bocca il sapore dolciastro del sangue e comincia
a sputare. E’ vagamente intorpidita. Diana prova a sollevarla, ma
l’amica crolla di nuovo sulle ginocchia molli, a peso morto. Allora
fruga nella borsetta alla ricerca di un fazzoletto pulito, con cui tenere
aperta la bocca dell’amica per evitarle di mordersi ancora la lingua.
Ida intanto si dibatte come un pesce boccheggiante.
‒ Eppiantala di divincolarti peggio d’un animale selvatico!
201
‒ Diana gluurr ‒ farfuglia l’amica erudita ‒ Diana comunque è la
protettrice d-degli animali selvatici, nonché gluuurrrrr la custode dei
font e dei torrenti.
‒ Dei che??
Mmmm, rimugina Ida, in effetti forse erano le fonti. Con l’aiuto di un
buon samaritano quasi ottantenne, Diana la trascina verso il bagno.
Un po’ d’acqua fresca a sciacquare il volto e le cose migliorano un po’.
Rassicurati i soccorritori circa le proprie condizioni di salute, Ida si
chiude in bagno e trova la forza di guardarsi nello specchio. Il volto è
normalissimo, nessuna plica anomala, nessuno scarabocchio lungo le
linee d’espressione: calcola la funzione dello sguardo, trovando come
risultato un numero razionale. Rassicurante.
Accenna un sorriso con le labbra ancora insanguinate.
Oddio.
Oddio oddio.
Cos’è?? Cos’è lo strano filamento che ha sul labbro superiore?
Ida lo pinza circospetta tra l’indice e il pollice, esaminando quello che
ad una prima analisi pare un capello biondo… ma non lo è.
Oddio!!! Si muove! E sembra articolato proprio in mezzo…
aaaaaaahhhhh!!
La donna salta indietro e getta il filamento che si stampa sullo smalto
bianco del lavabo, continuando a contorcersi.
Poi subitanea la certezza: una zampetta… una zampetta d’insetto
stecco!
Vampata di sangue alla testa. Sviene.
Ida è una nota a piè pagina sul dolore, giusto sotto il lavabo del
bagno. Ma cosa le sta succedendo? Vede le piastrelle brillare nel cielo
notturno, mentre la domanda straluna lungo i bordi del soffitto. Deve
tornare in sé. Ecco, sì, deve tornare insétto… no no no… deve tornare
in sé! Deve allentare la tensione: forse canticchiando qualcosa, pensa,
sì sì, buona idea
‒ Parlano d’amore i tulli… tulli… no, oddio… magari sul più bello,
stecco! Non sono mai stata troppo intonata.
La nota, la notte, le note… vertigine, si sente male di nuovo, ma prova
a darsi coraggio: bene o male, non le sembra il caso di farne una
questione morale.
202
‒ Non tutto l’animale vien per nuocere, eh…
Eppoi, forse, questa è la sua *chiamata*! Magari è l’eletta da Dio, la
nuova guIda dell’umanità… forse la sua missione è quella di scrivere
il Nuovo TestamEntomologo, insegnando ad ogni essere vivente a
portare alla luce la natura divina che ha insétto. A meno che non abbia
in sé uno scarafaggio, che invece quello preferisce il buio. Eh…
Ommadonnasanta! Sta delirando: una crisi mistica nel cesso? Si tira su
e caccia la testa sotto l’acqua fresca.
Attende un minuto buono prima di provare nuovamente a riflettere
allo specchio la propria immagine. Si osserva in silenzio.
‒ Non dirmi che credi di potermi leggere il silenzio sulle labbra!
L’estraneità della propria voce mentale (non saprebbe dire con
esattezza chi si rivolga a chi) innesca un soprassalto di coscienza e Ida
conclude che tutta questa cosa è una cosa. Sì, insomma, che è solo
qualcosa.
Una serie di respiri fondi e con cautela.
Esce.
Dal.
Bagno.
In biblioteca l’atmosfera è rilassata. Per un secondo gli accaqualcosa le
passano davanti sfumati, o meglio deformati, proprio come
accadimenti che sanno di mentire. Prova a fare il punto della
situazione.
‒ Oh, rieccoti ‒ riattacca Diana ‒ ce ne hai messo di tempo in quel
bagno.
‒ . . … ) , “)
‒ Lascia perdere, non fare tanto d’occhi, tanto l’appunto te lo si legge
in faccia. E secondo me c’entra l’ultimo tipo con cui ti eri messa... Ah
l’amore, l’amore.
‒ (( )))
‒ Inutile mandarla a dire. Hai fatto bene a dargli il benservito…
‒ !,; …(“) ‒ chiosa Ida, proseguendo con le sue prove tecniche
d’interpunzione.
‒ Ben, chi tace acconsente. Buona serata…
- :,,; )(…
Ida torna al bancone d’ingresso della biblioteca, in religioso silenzio,
osservando la parola carta nel cestino dei rifiuti. Si avvicina: c’è pure
203
una parola accartocciata ed una straccia; più dietro macchia e
inchiostro.
Con una smorfia di terrore sul volto, arretra inciampa e cade: piange.
Potesse vedersi dall’esterno, la donna noterebbe alcune sillabe di
lacrime colare mute sulle guance.
Arriva un utente di mezza età. Ida si rimette in sesto e s’asciuga le
lacrime col dorso della mano, spandendo larghe tracce d’inchiostro
nero lungo il volto.
‒ E’ tutta sporca di cosa, sul volto signorina.
‒ Non… oh beh, non ci faccia caso. Alla cosa, intendo. Desidera?
‒ Se vuole ho dei fazzolettini di cosa.
‒ Oddio…
L’uomo cerca di interpretare lo strano comportamento della
bibliotecaria. Quindi si stringe nelle spalle e passa oltre, esponendo il
suo problema.
‒ Mi scusi, ma mio figlio piccolo ha giocato con la tessera della
biblioteca. E l’ha cosata.
‒ Cosata?
‒ Sì. Guardi, l’ha cosata in quattro parti.
‒ Oh, vedo. Non si preoccupi, gliene faccio un’altra. Può capitare a
cosa.
‒ A cosa?
‒ Sì, intendo, può cosare a chiunque.
‒ Già…
Resa maldestra dal nervosismo strisciante, Ida urta il vasetto
portapenne, che cade sparando cose ovunque. Qualcosa finisce anche
per infilarsi sotto un grosso mobile a sei ante. La donna si distende in
terra e cerca di recuperarlo. Niente. Serve una pila.
Così torna al bancone e estrae una mini-torcia dal cassetto: pronti.
Torna a distendersi ed illumina l’anfratto.
‒ Aaaahh!
Ida è una maschera di raccapriccio: sotto il mobile, oltre a qualcosa, c’è
un grosso ragno nero. E nella ragnatela impolverata, mezzi invischiati,
scheletri di parole rese quasi indecifrabili. Eppure si fa coraggio e osa.
Si concentra: torcia contro ragno, osa contro cosa.
Prese tra le maglie della tela scorge alcune lettere elle e pi.
204
‒ Toh guarda… ellepidotteri ‒ rimugina come fosse la cosa più
naturale del mondo ‒ …che, in effetti, i ragni sono ghiotti di
ellepidotteri, che sono insetti tipo le farfalle e le falene.
Stupendosi di come suoni bello il suo ragionamento assurdo, si spinge
sotto il mobile fino a invischiare gli occhi nella ragnatela. Il ragno
capta le leggere scosse della rete neuronale e fa un balzo in avanti. Ida
si ritrae di scatto sbatacchiando l’occhio destro sullo zoccolo del
mobile. Stordita dal dolore, si siede in terra, mentre intorno all’occhio
fiorisce scuro l’ematoma.
Il ragno abbandona il suo rifugio sotto il mobile, avanza sul
pavimento e raccoglie una penna stilografica. Ida lo osserva senza
reagire. L’aracnide impugna la stilografica e s’arrampica lungo il
corpo della donna. Giunto in prossimità del volto, tuffa il pennino
nell’occhio nero e lo estrae colante d’inchiostro. Poi scrive sulla
camicetta bianca di Ida: “E’ un tiepido mattino d’aprile e il parco,
contrariamente al proprio nome, è prodigo di trilli, cinguettii, profumi
e polveri sottili.”
‒ Non… non è possibile!
‒ Cosa pensi che sia impossibile?
Messa così, la domanda assume risvolti intriganti. Esiste davvero un
pensiero che sia impossibile? Ida ci pensa su, senza trovarlo.
‒ Epperò in un certo senso è una cosa inevitabile ‒ ribatte.
‒ Cosa?
‒ Non trovarlo. Un pensiero non pensabile, intendo. E’ inevitabile non
trovarlo, proprio perché per cercarlo sto usando il pensiero ed invece
è qualcosa che il pensiero è incapace di pensare.
‒ Una cosa è certa: tu sei fuori di testa. E sai perché?
‒ Perché?
‒ Perché senti parlare un ragno.
‒ Non sono fuori di cosa. I ragni sono esseri viventi. Sarei fuori di cosa
se sentissi parlare le cose ‒ protesta Ida.
Per tutta risposta, la penna stilografica si schiarisce la voce e arringa i
presenti.
‒ Buonasera signora, permetta che mi presenti: sono una cosa e le
assicuro che le cose stanno proprio così. E se glielo dico io può
credermi: so di cosa parlo, per esperienza diretta.
Ida ancora non si arrende e replica stizzita.
205
‒ Non sono del tutto fuori di cosa. Sarei fuori di cosa se sentissi… se
sentissi parlare le cose in latino!
‒ Verbum caro factum est ‒ declama il vasetto portapenne,
visibilmente sbeccato dopo la caduta.
All’est le ossa degli scheletri di ellepidotteri rispondono.
‒ Res, res!
‒ Chi ha parlato? ‒ domanda Ida.
‒ Il vasetto e le ossa, credo ‒ dice il ragno.
‒ Non è possibile che le ossa parlino… è un’eresia.
‒ E res sia, ordunquinem!!
‒ Ancora le ossa, prima che tu me lo domandi.
‒ Oh, grazie ragno. E… e cosa lingua parlano?
‒ Difficile dirlo. Le ossa attingono ad un loro gl’ossario arcaico.
Ida rabbrividisce: l’ossurdità del siparietto probabilmente indica che
sta sognando. Il tutto le ricorda qualcosa. Massì, dai, quel cartone
animato che le piaceva tanto da bambina: la Pimpa, il cane a pois rossi
disegnato da Altan!
Quasi potesse leggerle nel pensiero, il ragno entra in febbrile attività.
‒ Potresti aprire la bocca, gentilmente, Ida e buttare in fuori la lingua?
La donna esegue e l’aracnide intinge il pennino della stilografica nella
ferita ancora sanguinante che Ida si è procurata poco prima,
mordendosi la lingua. poi le cammina addosso e le disegna dei grossi
punti in giro per il corpo.
La bibliotecaria si specchia nel vetro di un’anta del grosso mobile a sei
ante. Nel riflesso, la Pimpa le fa l’occhiolino.
‒ Sei piena di cose.
‒ Di…?
‒ Di cose, non vedi? Sei tutta piena di cose come me.
Ida studia interdetta le macchie rosse. La Pimpa rincara.
‒ L’Armando s’arrabbierà.
‒ L-l’Armando?
‒ Sì, e ti farà fare la doccia col sapone, per lavare via le cose.
‒ Non capisco… è come… come se non sapessi le cose.
‒ Eh, lo diceva pure Kant: né la parola né la conoscenza umana
corrispondono alle cose come sono in se stesse.
‒ Oddio, detto da un cartone animato suona strano…
La Pimpa non sembra curarsi del commento di Ida.
206
‒ Sai che ‒ uggiola felice ‒ sai che anche io spesso parlo con le cose, sì
tipo il tappeto, la lampada e a volte entro nei quadri. Può capitare
pure che la poltrona mi legga una favola.
‒ Lo so. Ti guardavo sempre alla tv, da bambina.
‒ In fondo la coscienza e la parola sono solo distorsioni arbitrarie della
realtà. Come se avessimo le parole “occhiali deformanti” calate sugli
occhi.
‒ Bah… ma come parli? Non sei una cosa per bambini?
‒ E tu, allora, eh? Tu come parli? Cosa pensi di cosare, eheheheh… Ma
soprattutto, tu cosa sei?
‒ Io sono Ida.
‒ Diff’Ida delle apparenze. La realtà è inconoscibile come oggetto del
pensiero.
‒ Beh, vorrà dire che almeno non sono una donna oggetto.
‒ La cosa è il pensiero del verbo mai pronunciato, chiuso nella scatola
cranica, non vocalizzabile. Tu invece sei un fenomeno.
‒ Grazie, ehm… ma non esageriamo. Sì, sono piuttosto dotata, però…
‒ Non hai capito un cazzo, bella.
‒ PIMPA!
‒ Tu sei soltanto un fenomeno, un segno grafico del caso. Puoi
scopare, venire a contatto con ciò che appare, puoi rifarti il seno,
cancellare le righe col butulino, ma non lambirai mai la “cosa in sé”.
‒ Eppure non sono il tipo di persona che ama prendere le cose alla
leggera.
‒ Per l’appunto. Cara mia, tu con l’amore per la parola ci vai giù
pesante: i libri spesso e volentieri te li porti a letto e fai tutto senza
precauzioni
‒ Eh, magari rimanessi incinta. Ho sempre desiderato avere una cosa.
‒ Non è poi così difficile: si sa che da cosa nasce cosa…
‒ Vuoi farmi passare per una che la dà via facile, sì, insomma, una che
pensa sempre a quella cosa? Non è vero. Ragno, diglielo tu che non è
vero.
Ida è sempre più confusa. Invece del ragno, arriva Spinoza.
‒ Deus sive natura! ‒ declama il filosofo.
‒ Cioè?
‒ La sostanza è cosa stupefacente! ‒ spiega Spinoza con gli occhi
spiritati, in piena crisi d’astinenza.
207
Trema come un anziano scosso da tremori parkinsoniani ed in effetti
Ida ricorda di aver letto qualcosa circa la substantia nigra, nota anche
come sostanza nera, che sta nel cervello, tra mesencefalo e diencefalo,
e che degenera in chi è affetto dalla malattia di Parkinson. Che la
sostanza nera, rimugina Ida, incarni la nostra riserva endogena di
inchiostro? Una sorta di calamaio cerebrale da cui attingiamo le
parole?
‒ Ipotesi interessante ‒ la schernisce Spinoza ‒ è probabile che in
libera associazione di idee ti abbia dato la chiave di volta il cervello.
La donna fatica a decifrare il senso della cosa e la mimica del tossico,
pertanto non riesce a decidersi se la stia elogiando o prendendo per il
culo. Così pensa di chiedere consiglio al ragno, che però nel frattempo
è cresciuto di dimensioni, avendo accuratamente spolpato la reiterata
sarabanda di parole che infesta l’ambiente.
‒ Non sembri neanche più un ragno: sei diventato una cosa enorme,
nera, turgida…
Ida arretra, intimorita. I libri le danno man forte, facendo quadrato e
muro, come tanti mattoni. Dovrebbe essere al sicuro, sul proprio
terreno, ma per la prima volta si sente addosso il peso di tutta quella
sicumera e la cosa le toglie il fiato. Anche perché il ragno ha
cominciato a invischiarla nella tela.
‒ Cosa enorme, perché mi fai questo?
‒ Hai fianchi illeggibili, seni impronunciabili e orifizi fasulli. Ovvio
che la realtà, organizzata a tuo unico astruso e consumo, smarrisca
ogni senso, lasciando il tuo pensiero cieco, muto e sordo. Affacciati
alla finestra, cosa vedi?
‒ Ooohhh…
Ida osserva incantata il giardino della biblioteca, dove la parola amore
corre felice tra il sostantivo d’una siepe e l’avverbio d’un
semplicemente. Scivola su un verso sdrucciolo, ma prontamente si
rialza.
Il ragno enorme approfitta del momento di distrazione della donna
per balzarle sopra e spingerla contro la parete, cercando di violentarla
con la parola sesso sguainata. Ida però non si rassegna alla cosa e
contrattacca: scalcia e grida e artiglia e sputa parole a raffica. Non ha
intenzione di subire carnalmente l’incomunicabilità del gesto, o
almeno, non senza dire la sua. E la cosa enorme, oramai del tutto
208
simile a un muscolosissimo negrone superdotato, viene ricacciata
indietro.
L’aracnide, pentito per la tentata violenza, chiede cosa.
‒ Ti chiedo cosa. Perdonami, Ida.
La donna, che ha tutta l’intenzione, invece, di adire le vie legali,
minaccia inevitabili risvolti futuri.
‒ Torna pure sotto l’armadio, ma la cosa non finisce qui.
Ed in effetti, anche se tutto ciò che andava detto è stato ormai detto, le
cose continuano ad accadere sul foglio. La cosa parrebbe configurare
un palese conflitto logico, sì, insomma, un controsenso, visto che Ida
ha appena detto che non lascerà cadere la cosa, ma tant’è. Il fatto è che
steso sul pavimento della biblioteca c’è un corpus femminile: sta
rannicchiato immobile, stringendo una marea di termini generici
rimasti ad indicare qualsiasi cosa concreta o astratta, come alludendo
a ciò che non si può o non si vuole dire chiaramente. E intorno c’è un
capannello di persone agitate.
‒ Ti prego, Ida, rispondimi ‒ frigna Diana per la milionesima volta col
volto rigato delle cose, accucciata accanto all’amica mentre le
accarezza una mano.
L’ambulanza arriva ululante, a cose spiegate, e gli infermieri fanno
allontanare tutti. Il medico si china sulla donna per una visita
sommaria: il polso è regolare, ma il paziente non pare risvegliabile dal
coma. In un attimo Ida viene intubata e collegata alla flebo grazie al
pronto posizionamento di un accesso venoso. Diana osserva il liquido
trasparente scendere piano nel deflussore, cosa a cosa, neanche
scimmiottasse il precipitare rotondo delle sue lacrime sconsolate. Si
avvicina al medico del 118.
‒ Dottore… mioddio… cosa sta succedendo?
‒ E’ una parente?
‒ No, un’amica.
‒ Allora la cosa non la riguarda ‒ replica in tono secco e professionale.
‒ La prego mi dica qualcosa…
‒ Cosa vuole che le dica, quasi certamente è un’emorragia cerebrale…
ha avuto mal di cosa, prima?
‒ Sì… parlava di emicrania.
‒ Ecco… cazzo, è il secondo aneurisma cerebrale in una giovane,
questo mese, durante un mio turno.
209
‒ Si salverà?
‒ Non è in pericolo di vita, almeno non adesso, però…
Il medico alza le mani. Pare scontroso, ma in realtà anche lui è
sconvolto dalla cosa. L’idea che in pieno benessere, nel breve volgere
di pochi attimi… no è davvero troppo anche per il suo cinismo
difensivo. Quasi barcollante, si allontana stranito col suo codazzo di
infermieri restituendo alla biblioteca il suo silenzio surreale.
Diana si sente mancare e si siede in terra. “Ida se n’è andata” è l’unico
pensiero di senso compiuto che riesce a prendere cosa nella sua
mente. La donna giurerebbe sul fatto che non sarà in grado di pensare
ad altro per tutto il tempo che le resta da vivere. Invece di lì a poco
inizia a domandarsi se andandosene, Ida abbia visto un tunnel di luce
calda, invitante, come spesso racconta sui rotocalchi chi è sfuggito alla
morte per un soffio. “No, probabilmente no” conclude Diana
“probabile che Ida veda un tunnel nero, nero come l’inchiostro.”
210
L’incontro sciroccato
di
Villa Dominica Balbinot
https://villadominicabalbinot.wordpress.com/
Da quella sera, non poté fare a meno di pensarci e ripensarci su.
Sembra impossibile che esistano persone così, si disse, eppure…
eppure quel tale è l’assurdità fatta persona, l’incarnazione di un
incredibile miscuglio di follia e di razionalità: le sembrò di sentirsi
ancora addosso il suo sguardo da entomologo, incline a spegnere ogni
calore umano annegandolo in una visione fredda della realtà, a
vivisezionare le persone come fossero oggetti, per poi meglio
impagliarle e appenderle quali reperti catalogati, ormai innocui. Per
dare una spiegazione plausibile di un tale modus agendi, del tutto
privo di empatia, concluse che l’uomo fosse stato vittima di chissà
211
quale trauma infantile, un trauma che l’aveva poi spinto ad assumere
quell’atteggiamento da scientista amante degli esperimenti in corpore
vili, come già lasciavano presagire le torture che certamente aveva
inflitto fin da bambino alle lucertole: non era difficile figurarselo negli
interminabili pomeriggi assolati mentre mozzava la coda alle povere
lucertole, per verificare se dopo l’amputazione continuassero a
scattare fulminee e a nascondersi sotto le pietre con frenetici zig-zag
da animali impauriti dall’ombra umana che incombeva minacciosa su
di loro. Chissà se fin da allora covava rancori alimentati da fallaci e
pasticciate ipotesi nelle quali prendeva corpo una grande cospirazione
ordita ai suoi danni da vari personaggi non del tutto specificati, quasi
che emergessero da una nebulosa che tutto avvolgeva e travolgeva,
con l’unico intento di rovinare la sua vita misera e fraudolenta,
s’intende.
Nei primi momenti dell’incontro, in verità, lo straparare un po’ vacuo
dell’uomo l’aveva abbagliata per il piglio perentorio e definitivo che
accompagnava ogni sua parola: gesti insistiti, precisi e efficaci, oliati
come quelli di un prefetto ingranaggio meccanico, poiché sempre si
ripetevano uguali, giudizi che non ammettevano repliche, stringenti
quanto una morsa idraulica a segnare l’irrefutabilità di ciò che man
mano affermava. Tuttavia, col passare dei minuti, la dialettica del suo
interlocutore aveva iniziato a smarrire le proprie connessioni interne
per risultare più scoordinata ed anche un po’ saltabeccante, di palo in
frasca, quasi parlasse soltanto a se stesso. Era così passata da un vago
interesse per un individuo che si dimostrava, o almeno così pareva,
amante della conoscenza e di esperienze diversificate, poliedrico
insomma, e vitale anche, al montare accentuato di un disagio
insopprimibile, allorché i suoi interventi elocutori avevano cominciato
a perdere colpi, sprofondando in una melassa indistinta. Senza
soluzione di continuità, le risposte a tono avevano preso un abbrivio
straniante, ed anche un po’ pericoloso, aprendo voragini di mancanza
di senso e di logica, come se quell’essere si fosse artatamente rifugiato
di nuovo nella teca da cui era sgusciato fuori in un ansito di libertà,
spiccandosi dagli spilloni che lo inchiodavano alla sua ossessione
mentale, nella sua visione del mondo vetrificata e impagliata.
212
Cominciò tutto così, in una limpida giornata di fine maggio
accarezzata dallo scirocco, lì sul lungofiume, durante l’annuale festa
popolare dedicata alla mostra di equini e bovini di razze pregiate,
eppur resistenti all’agra fatica della vita rurale.
Sfilate di uomini rozzi e squadrati, dalle carni massicce e non rifinite,
con sguardi sornioni e quasi maneschi, sguardi da intenditori e
valutatori di carni, sguardi e mani che si insinuavano nell’apparato
masticatorio dei quadrupedi per verificare l’efficienza della
squadratura dentale, che misuravano l’altezza al garrese o la
mungibilità, per decretare poi i campioni della razza, sempre attenti
alle cifre e alla valutazione meramente biologica delle povere bestie in
mostra.
Uomini e bestie sfilavano, e perfino a lei sembrava di essere in
mostra, lì, sul lungofiume, seduta dietro ad un tavolo oblungo,
accanto al quale, su una serie di cavalletti in equilibrio precario ad
ogni soffio di vento proveniente dall’ansa del fiume, erano esposti i
suoi quadri.
Alcune persone si erano già fermate, le avevano fatto i complimenti,
avevano iniziato un abbozzo di conversazione, per poi ri-immettersi
nella fiumana che procedeva inarrestabile verso il punto di ristoro, o
verso i recinti appositi dei cavalli e delle mucche.
Lui non lo si sarebbe potuto non notare, bardato com’era.
Un cappellone da cow-boy dal quale fuoriusciva una lunga coda
attorcigliata, sinistramente simile alla coda di un cavallo, una lunga
coda di capelli dalle sbavature color platino che ormai stingevano
sull’originario colore nero, una magliettina attillata adolescenziale sul
cui bianco era impressa ‒ pantografata ‒ una testa di toro, pantaloni
color verdino, anch’essi stretti, come se anche le sue specifiche merci
fossero in mostra. Merci da poco, peraltro, visto che a lei parve solo un
uomo attempato, che riluttava ad arrendersi all’avanzare impietoso
del tempo.
Camminava volitivo, menando passi accentuati, aderendo con i suoi
stivaletti da vaquero alla pietraia non asfaltata del lungo fiume, quasi
a dire: ” Eccomi son qui, anch’io in mostra, e voi non potrete far altro
che ammirarmi.”
E in effetti, lei non poté fare a meno di notarlo, così l’uomo si piantò a
gambe larghe davanti alla sua esposizione, e da lì non si schiodò, non
213
subito almeno, non prima di aver suggerito chissà quale
intendimento implicito lampeggiando quello che doveva poi essere
nelle sue intenzioni un sorrisetto carico di sottintesi, che a lei parve
unicamente un sogghigno senza ragione alcuna.
Stette lì un poco, in attesa, ciondoloni, sogguardandola in tralice,
squadrando i suoi quadri senza proferire parola alcuna.
Poi se ne andò, ma ritornò qualche attimo dopo.
Sempre con quella specie di ghigno che voleva essere misterioso, e che
lei inserì ben presto nella serie dei tic nervosi, tanto le parve
inconcludente, finanche estorto, un’impalcatura teatrale a nascondere
un’esondante vacuità, una vacuità totale.
Lo percepiva, cioè percepiva la presenza di quell’uomo, come si
trattasse di un tafano pronto ad accanirsi sugli animali delle stalle
fino a farli sanguinare, tedioso, pervicace, di una caparbietà morbosa.
Forse, dopotutto, non era così. E comunque lei non era un animale.
Si sentì in colpa per aver giudicato l’uomo solo dalla mimica e
dell’aspetto esteriore: non era per nulla rispettoso pensare a lui in quei
termini, si disse.
No, no, ripeté mentalmente sforzandosi di amare il prossimo suo
come se stessa: in fondo anche lui era un essere umano, uno dei tanti
esseri umani condannati a sopravvivere, quantunque così diverso da
lei. Forse era un valutatore, un giudice di cavalli, o un inserviente, o
magari un allevatore.
Ad un tratto, senza che lei potesse trovare un espediente per evitare
che ciò avvenisse, lui si mise a parlare.
Il sole incombeva verticale, il suo calore penetrava nei pori, e lui
parlava, parlava, parlava…
Senza chiederle permesso, si accostò con una specie di seggiolino.
Lei lo osservava stranita: il suo volto pareva avere solo un’enorme
bocca che vomitava parole su parole, il suo sguardo adesso era celato
dagli occhiali da sole e dalla tesa del cappello da cow-boy.
Spiattellò subito, assai crudamente a dire il vero, la notizia che alcuni
anni prima si era separato dalla moglie dopo vent’anni di matrimonio.
Subito dopo, disse esattamente così.
‒ “Sai, non ti sembrerà possibile, ma non faccio l’amore da cinque
anni… Voglio dire, voglio dire cioè, non faccio tecnicamente la
214
penetrazione” ‒ ripeté la parola ‘penetrazione’ più volte, quasi a
volerla incistare ben bene nel cervello di lei, poi proseguì ‒ “per il
resto a dire il vero, la masturbazione la consigliano anche gli stessi
dottori per evitare possibili malattie alla prostata, e allora io mi
masturbo giornalmente, altrimenti, venendo a mancare un adeguato
sfogo biologico, ci sarebbe un intasamento, e questo non va bene, non
va bene. Fa ammalare, fa ammalare…”
Lei non diede segno di stare ad ascoltarlo, non rispose alcunché,
sperando che l’allucinato discorso appena iniziato, subito si
interrompesse per la mancanza stessa di un interlocutore.
Macché, il suo silenzio sembrò a lui un implicito consenso, e dunque
continuò, proprio come un tafano succhiatore di sangue dalla viva
pelle delle sue vittime.
‒ “Sai” ‒ continuò ‒ “mia moglie mi ha lasciato ed io non posso più
vedere le mie due figlie. Avere dei figli è una cosa veramente
importante, ma la penetrazione, oh, la penetrazione è una cosa
delicata, non è cosa da poco. Bisogna farla in un certo modo, è un
qualcosa che può essere sconvolgente. Sai, una volta, ho voluto far
l’amore con mia moglie incinta, e quella volta mi è sembrato che i miei
colpi, sì, i miei colpi” ‒ a quella cruda reiterazione, a lei parve di
udire la ricaduta metallica di qualcosa di contundente che cercava di
farsi spazio nei suoi nervi, nervi scossi dal discorso stralunato da
paranoico ossessivo ‒ “i miei colpi fossero una rovina per il bambino.
E quella volta, quella volta che lei era incinta, preferii smettere. Mah,
come ti dico, bisogna stare attenti, nella penetrazione, intendo.”
Fece una breve pausa, poi riprese.
‒ “Tu non credi a quello che ti dico, vero? Ma io sono uno specialista
addetto all’inseminazione artificiale delle mucche, conosco tutto ciò
che riguarda la biologia della procreazione animale, ho studiato da
tecnico raccoglitore dello sperma dei tori e da…” ‒ l’allucinato
specialista di tecniche riproduttive usò un termine, un termine da
addetto ai lavori che lei non aveva mai udito prima, e che più tardi
non riuscì a rintracciare su nessun vocabolario ‒ “Sai, devo dire che ho
imparato molto, da questa mansione, ho imparato davvero molto,
anche per ciò che riguarda l’atto della inseminazione in sé e della
procreazione degli esseri umani… una cosa e l’altra, io so tutto, so
tutto quello che c’è da sapere… ihmm.. a volte penso addirittura che
215
potrei essere pericoloso, intendo, so di sapere troppo. Ti potrei dire
un’infinità di cose davvero a questo proposito, ma non qui, non
adesso, magari un’altra volta, eh.”
Il suo sogghigno a quel punto sembrò quasi deformargli la parte del
viso non coperta dagli schermi occlusivi ‒ gli occhiali da sole e la
visiera del cappello spostata in giù ‒ e lei lo immaginò coperto da una
maschera metallica atta a mettere l’eventuale interlocutore, lei stessa
in questo caso, in una posizione soccombente, lei senza paraventi, e
quindi indifesa davanti al suo sguardo da zoologo.
‒ “Voglio però aggiungere anche questo” ‒ riprese mosso da quella
logorrea micidiale, spinto in avanti da un potente desiderio di
abbondare delle sue immagini brutali, che subito si incistavano nella
mente di lei come zecche somiglianti a quelle che potevano procurare
perfino la meningite con il loro rostro affondato nelle carni a mo’ di
fiocina ‒ “io ho assistito al parto di mia moglie… data la sua esile
corporatura sarebbe stato necessario un parto cesareo, l’avevo pensato
e lo avevo detto subito, invece il suo ginecologo non ha voluto sentire
ragioni, continuava a dire che bisognava seguire la natura, e infatti si è
poi visto come è andata a finire. E’ andata a finire che ha dovuto usare
la ventosa e il forcipe: avresti dovuto vedere che orribile forma aveva
la testa di mia figlia, avresti dovuto, io ho assistito a tutto, io ho visto,
io ormai so. Io… io avrei spiaccicato volentieri la testa al ginecologo
fino a ridurla come quella di mia figlia, e sono contento che, a distanza
di tempo beninteso, lui si sia impiccato mentre era solo nella sua casa
di campagna, un carnefice in meno, un carnefice.”
Senza soluzione di continuità, d’improvviso, come accorgendosi solo
in quell’esatto momento che si era fermato davanti ad una esposizione
di quadri, indossò l’aria da intenditore, non diede giudizi, quello no,
riportò l’intero campo della pittura sotto il suo sguardo che voleva
dare ad intendere una conoscenza millimetrica anche in quel settore
specifico, o una sua qualche abilità quanto mai misteriosa e comunque
superiore a quella di qualsiasi altro.
‒ “Per meglio dirti cosa penso dei tuoi quadri, avrei bisogno di
studiarmeli ben bene, con un procedimento speciale, sai io ho
l’abitudine di guardare i quadri con una particolare lente, e non solo
216
con la lente di ingrandimento, il quadro deve essere sotto una piena
luce alogena, solo così vedo tutto e capisco se uno è bravo o no.”
Lei immaginò, in un breve flash visivo, una luce cruda e accecante che
corrodesse i suoi bei colori sfumati, certo era un cialtrone, tutti
sapevano che i quadri avevano bisogno di una luce particolare, non
certo di luce cruda, anche nelle apposite mostre, i quadri vengono
collocati con perizia, cercando l’inclinazione giusta della luce, non
certo nel modo che diceva quel tale.
‒ “E poi” ‒ riprese ‒ “poi, ne vedo tanti di imbrattatele, io invece ho
inventato una tecnica particolare, e sono riuscito a creare un quadro
eccezionale, un’opera unica, insuperabile. Eh… lo sai che nel toro di
Lidia, una razza bovina spagnola, il maschio è provvisto di un
caratteristico ciuffo all’estremità del prepuzio, detto *pennello*? Una
pittrice di un certo livello dovrebbe saperlo.”
Il solito sogghigno che avrebbe voluto essere un sorriso ricco di
sottintesi accompagnava ogni sua considerazione, quasi fosse un
rictus determinato dal germinare di una malattia mentale misteriosa e
pervasiva.
Intuendo in un attimo di resipiscenza di trovarsi di fronte ad
un’estranea che lo considerava con disprezzo e che faceva quindi la
tara ad ogni sua singola parola, tolse lestamente da uno scomparto dei
suoi pantaloni verdini, stile simil-militare, pieni di tasche e taschini,
una foto con lui che teneva in mano un quadro.
Glielo porse come se la sfidasse, con tracotanza, o addirittura con
impudicizia.
Lei osservò la foto del quadro.
Si trattava certamente di una figurazione con un che di straniante,
forse anche di morboso, non sapeva come meglio definirlo. Non si
riusciva a capire neppure se si trattasse di un quadro ad olio, oppure
di un fotomontaggio.
Era la rappresentazione di una cerimonia matrimoniale, con quattro
personaggi, il marito, il testimone, l’officiante, e infine quella che
doveva essere la sposa, o almeno avrebbe dovuto essere la sposa visto
l’abito bianco. Di primo acchito, la solita ripresa di qualsiasi
matrimonio se non fosse stato che ogni persona aveva il viso
dell’attempato cow-boy, come se lui recitasse ogni parte in commedia,
in un’orgia identificativa e totalizzante, che dava da pensare, dava da
217
pensare se non si trattasse per caso di un delirio di onnipotenza. Di
certo, oltre che un delirante zoologo, era un megalomane, chissà poi se
del tutto innocuo… probabilmente la sua attività di inseminatore
artificiale di bestiame lo aveva rovinato, gli faceva ormai pensare agli
uomini in termini di animali, ma c’era un particolare, di cui lei
s’accorse solo in un secondo momento, e solo dopo uno specifico
invito da parte di lui.
‒ “Ma non ti sei accorta della sposa? Guardala bene, dai.”
Lei non poté che sorprendersi: al posto della testa della donna, non
c’era il volto del cow-boy, no no.
C’era l’immagine rimpicciolita, quasi lillipuziana ‒ a questo punto lei
iniziava a propendere per un fotomontaggio, anche se non era ancora
del tutto sicura ‒ di un cow-boy inginocchiato che con una mano
accarezzava il pelame di un asino.
Non c’è che dire: una cerimonia matrimoniale davvero particolare,
rimuginò tra sé. Un quadro che pareva riprodurre, in effetti, l’esatta
prospettiva in grandangolo della mente contorta di quell’essere, che
peraltro era sicuramente dotato di superpoteri in fatto di logorrea. E
per l’appunto, l’uomo subito riprese a gesticolare la lingua e mulinare
le labbra, come fossero afflitte dalla sindrome del moto perpetuo.
Parole su parole, frasi su frasi, vomitate da quella mente fibrillante,
guidata dalla ferrea volontà di sfiancare fino al tracollo mentale chi,
per azzardo fortuito, fosse stato morbosamente irretito da lui e dal suo
vasto repertorio di fallimenti e disgrazie, o dalla sequenza ottusa di
tarature di ogni genere e natura così abilmente rendicontate: in un
assurdo gioco di specchi, le parve di essere finita in un quadro di
Bosch, o di Grosz, proprio lì, davanti ai suoi dipinti esposti sul
lungofiume.
Voleva fuggire, voleva scappare, allontanarsi da quel tale che ormai si
mostrava sinistramente fiducioso della presa che i suoi disarticolati
discorsi dovevano senz’altro avere su di lei.
Intanto il sole picchiava impietoso e lei si sentiva in balia degli eventi,
della crudezza del sole e di quel blaterare senza fine: doveva farlo
smettere in qualche modo, doveva riuscire a interromperlo, a
contenere quello tsunami di acredini ancestrali e di manie che
parevano voler travolgere prima lei e poi l’intero universo.
218
Quell’essere non poteva continuare impunemente a torturarla con le
sue maniacali deiezioni, deiezioni che nascondevano ciò che in realtà
un occhio clinico avrebbe riconosciuto come un sublimato killeraggio,
un vendicarsi mediante parole e immagini di coloro verso i quali
covava rancori, a cominciare dalla moglie.
Ma come poteva sperare di fermarlo? Da un punto di vista dialettico
lo scontro era impari e al momento nelle vicinanze non c’era nessuno
che potesse venirle in aiuto per affrancarla dal Torquemada che stava
facendo scempio della sua psiche, deciso a straziarla nel profondo.
Infatti l’uomo, come se niente fosse, riprese la sua litania degli orrori.
‒ “Ah, a proposito, ci tengo a dirti che in questo momento ho in ballo
tutta una serie di cause legali, che attendo si risolvano a mio favore.
Naturalmente, sono in causa anche con mia moglie” ‒ e qui,
implacabile, ancora una volta ribadì ‒ “non doveva permettersi di
andarsene, di andarsene portando via con sé le mie due figlie, che non
vedo più da anni. Ma sono in causa anche con altre persone…
Naturalmente vincerò io, si ricrederanno, si ricrederanno tutti, sono
sicuro... farò rimpiangere a quei maledetti porci di avermi rovinato la
vita…”
Nel cervello di lei ormai le parole sbarcavano come astronavi di una
razza aliena venuta per sterminare l’umanità, non lo seguiva più,
fissava un punto vuoto, morto, a metà tra il mento e il petto di lui.
Forse per tale motivo l’uomo ebbe l’impressione che la donna avesse
l’aria di guardare con interesse la sua massiccia collana dorata, che
brillava sulla maglietta bianca su cui era pantografato il muso taurino.
‒ “Bella eh? Sai, sono molto legato a questa collana e anche a questo
anello” ‒ le mostrò un anello quadrato e stranamente arzigogolato,
infilato sul mignolo della mano destra, dito sormontato da un’unghia
inenarrabilmente lunga e giallastra, l’unghia tagliente di un animale
carnivoro.
Non fece in tempo a produrre un cenno d’assenso che lui era già
ripartito.
‒ “Li vedi? Li vedi, no, questo anello e questa catena?” ‒ insistette non
troppo convinto dallo sguardo vitreo di lei ‒ “sono un ricordo dei miei
genitori, e non me ne stacco mai. Perfino quando per un anno intero
mi sono messo volontariamente a fare il barbone, sai, non l’ho fatto
per necessità, io sono ricco di famiglia, perfino in quei momenti mai e
219
poi mai li avrei portati al monte di pietà, sono troppo importanti per
me, non li venderò mai... Del resto, io abito in una casa del settecento,
e sto benissimo, sto.”
Sembrò aver terminato, forse aveva completato il racconto del suo
universo-mondo e la donna cominciò a respirare più normalmente,
nell’attesa di rinascere a nuova vita dopo che lui, così come era
comparso, fosse svanito, al pari di un’allucinazione ottica e uditiva
scatenata dall’inarrestabile vampa del crudo sole a picco.
Tuffò gli occhi nel giallo penetrante del sole, privo di pietà, che
inondava di luce l’arida pietraia sconnessa davanti all’insenatura del
fiume.
No, non aveva smesso: si era fermato, sadicamente, solo per
concedersi una pausa a effetto, così da assestare meglio il colpo finale,
portando l’affondo in linea con la sua visione della realtà tutta
poggiante su bisogni primordiali, su formule brute, sulla chimica di
istinti predatori pronti a sterminare ogni forma di vita intelligente
facendone un verminaio asperso da una polluzione senza fine in vece
d’acqua santa.
‒ “Lo sai tu, che tra pochi anni non ci sarà più la morte, e diventeremo
immortali?” ‒ asserì avvolgendo le parole in un ghigno spregevole ‒
“ci sarà la procreazione artificiale per tutti, i geni difettosi verranno
eliminati, saremo sempre giovani, una razza umana perfetta, uomini
superiori, simili a stalloni o tori da monta, e donne come vacche da
latte…”
La pittrice sentì un morso profondo straziarle il ventre sterile e si
accasciò al suolo, adagiandosi sul suo sproloquiare. L’uomo, col volto
sempre più arrossato, non smise di decantare con parole impastate le
virtù del seme sessato, gli allevamenti di razza bruna, gli uomini ad
alte prestazioni riproduttive, i nuovi indici genetici Interbull… un
clone in minore dello scrittore Houllebecq, in un mondo delirante di
non più umani, di mutanti geneticamente modificati.
Dopo qualche tempo si radunò un piccolo capannello e una signora di
mezza età che era venuta alla fiera per esporre su un apposito
banchetto la produzione della propria fattoria, riconobbe nella donna
svenuta la sua vicina di casa. La fecero portare subito a casa,
abbandonando sul lungofiume i sette quadri montati su altrettanti
cavalletti che componevano l’estemporanea esposizione.
220
La notte fu lunga, attraversata da incubi soffocanti che non riusciva a
decifrare.
Il più terribile la fece urlare: se lo sarebbe ricordato per parecchi anni,
e forse sarebbe tornato a perseguitarla in punto di morte.
Nel sogno, arrivava il tale, ma non era bardato da cavalleggero rurale.
Era vestito come gli infermieri e gli addetti di una camera operatoria
sterilizzata, forse una sala parto, con protezioni monouso su ogni
parte del suo corpo, tranne in un punto: un dito. Un dito dalla mano
destra, non si ricordava quale, era sormontato da un’unghia di
lunghezza spropositata e dalla tonalità giallastra, mentre il resto delle
mani era imbrigliato in candidi guanti di lattice.
Il ginecologo alieno recava con sé un grosso apparato di specchi
rotanti e di lenti d’ingrandimento di varie dimensioni, un’attrezzatura
tecnica simile a quella necessaria per la creazione di uno specchio
ustorio, il sistema ideato da Archimede per fare convergere i raggi del
sole e provocare un incendio sulla flottiglia dei nemici.
Ne ebbe immediata consapevolezza: quell’essere si sarebbe servito di
quel sistema come di un raggio laser per studiare meglio i reconditi
sostrati interni di lei, compreso il suo apparato scheletrico, arrivando
a dissezionarla in nuce, a introdursi dentro la sua anima fino a isolare
ogni singola molecola di ciò che la rendeva umana. Avrebbe messo a
nudo il suo ventre sterile e le avrebbe puntato contro una lente di
ingrandimento fino ad esporre ogni piega del suo corpo in piena luce
per riservarle lo stesso trattamento toccato agli insetti o agli animali di
piccola taglia. Poi, una volta padroneggiata ogni cosa di lei, forse
avrebbe riprogrammato i suoi meccanismi esistenziali, dipingendo un
nuovo quadro della situazione a proprio piacimento.
L’ultimo frammentato ricordo relativo a quell’incubo notturno, prima
dell’urlo che la fece svegliare, fu la visione estremamente nitida ‒
un’immagine ingrandita mille volte a riempirle il diaframma della
pupilla, a ingravidarle lo sguardo ‒ la visione di un’unghia oblunga e
affilata come un bisturi metallico, che la penetrava, sì la penetrava da
sotto fino ad arrivare su su su lungo il midollo. La attraversava
completamente riempiendola di vuoto, lasciava scie di sangue sulle
membrane e una poltiglia infetta nel liquor cerebro-spinale, a
propagare il germe di una razza umana perfetta fin dentro il cervello,
fin dentro.
221
Sisifo e il sifone
di
Enzo Cofani (Barcaiolo)
– “Dove vai? Esci anche stasera?”
– “Sì, non rompermi i coglioni, ho lavorato una vita e faccio quel
cazzo che voglio.”
– “Lo sai che non devi bere, hai il diabete alto, l’avrai sentita la
dottoressa, o senti solo quel che vuoi?” ‒ frignò Daniela.
– “Cazzo! Sempre le stesse cose, lasciami perdere o giuro che ti do i
calci in culo che non t’ho dato l’altra sera! Sempre con quella faccia lì a
dirmi non devo… ma hai visto come sei diventata gonfia? Fai cagare!
Preoccupati delle tue cose una buona volta… ma cosa prendi?
Saranno tutti quei flaconi che nascondi nel cassettone? Sei un cesso…
parola mia.”
222
– “Cerca almeno di non esagerare, è solo martedì. E poi pensavo che
stasera avresti sistemato una buona volta il sifone del lavello. Te l’ho
detto che ho comprato le guarnizioni nuove? Devi solo avvitarlo.”
– “Eh, il sifone, il sifone, per quello che mi frega, aggiustatelo tu, sarai
capace di avvitarlo, noh? Non vali proprio un cazzo a trecentosessanta
gradi! A letto ho perso le speranze, però speravo che almeno per
avvitare una merda di tubo… ma lo so io qual è il problema… Sei una
ritardata mentecatta! Talmente stordita da non riuscire neanche a
pulire la lettiera del gatto. Guarda qua, che schifo! Che puzza! Questa
casa è un letamaio. T’ho raccomandato mille volte, deficiente, che la
lettiera dei gatti devi lavarla e risciacquarla con cura, minimo una
volta al giorno!”
– “Ma Sisifo, non posso avvitare io il sifone perché la schiena mi fa
ancora tanto male. Se tu me lo sistemi, poi finalmente potrò usare il
lavello senza andare sempre a lavare i piatti in bagno. Dai, stai qua
per stasera, vado giù io a prenderti la cassetta degli attrezzi.”
– “Blah, quante storie con quella schiena, e stai sicura che non morirai
se continui a lavare i piatti in bagno. Ma chiama un idraulico e falla
finita! Magari è anche così pietoso che ti dà una botta e via, così ti
calmi per una volta senza riempirti di gocce e pastiglie e Dio sa quali
altre diavolerie ti ha prescritto quella troietta della dottoressa.”
– “Stasera c’è anche Mente Criminale quella serie tv che ti piace…”
– “Ah, già! E’ martedì, oggi. Registramela.”
– “Se mi prometti che domani sistemi il sifone, te la registro, altrimenti
no.”
– “Io stanotte torno, controllo, e se non mi hai registrato la puntata,
quant’è vero Iddio prendo la scopa e te la schianto sulla gobba, razza
di grassona.”
– “Dai, però domani cerca di sistemarlo…”
– “Vai a cagare.”
Sisifo era un uomo maledetto. Maledetto e alcolizzato. Tutta la sua
vita, sin dalla nascita, era stata, a ben vedere, un cupo sortilegio, una
trappola lacrimevole, un blasfemo incantamento. Facciamo a capirci:
nessuna scusante per Sisifo, anzi, io sono uno che crede fermamente
che anche con una cattiva mano di briscola ci si possa portare con
onore fino alla fine della partita. Certo, ci vuole energia, un costante
sforzo di perseveranza, non solo per notare l’esistenza degli altri, ma
223
anche per provare a modificare gli aspetti meno gradevoli del proprio
carattere. Il fatto è che spesso i lati indesiderabili di una personalità di
solito hanno un retrogusto coatto, si vivono in apnea, senza pensare. E
tutta la vita di Sisifo, infatti, si era svolta in apnea: come gli fosse
sfuggita all’un tempo la capacità di galleggiare, ma anche quella di
affondare. Un’apnea sotto il pelo dell’acqua, con una riserva di fiato
potenziata da mostruose quantità d’alcool. Eggià, perché l’apnea
esistenziale è mica roba da tutti, oddio non da tutti se si è lucidi. Anzi,
se si fa voto di lucidità l’apnea prima o poi diventa qualcos’altro: o
franca pazzia, una sparata di sé fuori dal consesso umano, come un
fuoco d’artificio in alto sul barcone in certe feste sulla spiaggia,
oppure capita che qualcosa condensi e illividisca e allora… ehhh,
allora si comincia a diventare uomini. Ma è difficile. Invece,
ottenebrandosi la mente nell’alcool, può capitare di trascinare
indefinitamente una vita che ha il sapore quieto di chi attenda la
morte, in cui le rimostranze si fanno flebili, la rabbia si palesa forte
solo in rarissimi momenti di astinenza, ma mai, dico mai, potrà avere
un effetto che incida minimamente sulla realtà, rimanendo di solito
conchiusa in sgraziati starnazzi. Quante volte credete che Sisifo abbia
picchiato la moglie? Neanche una volta! Ma questo, lungi dall’essere
un fatto meritorio, dimostra per filo e per segno il gravissimo male che
attanaglia chi pratichi l’apnea esistenziale: la vigliaccheria. Certo, in
un momento storico in cui la psicanalisi, a ben guardare, ti dà una
pacca teoretica sulla spalla, bonaria, per ogni porcheria che alberghi
nel tuo asfissiato cuoricino, parlare di vigliaccheria non è certo di
moda. Già immagino ergersi tronfi millanta doppiopetti dotati di ogni
genere di pipe, o maglioncini rassicuranti, pronti a mistificare la verità
su Sisifo con una serqua di “Sì, ma…” “Si deve tener conto del fatto
che Sisifo da piccolo…” “Lo scarso sviluppo adolescenziale di qualità
introspettive ha determinato un successivo vulnus di autocoscienza”.
Ah-ha ha! Come se l’autocoscienza fosse una piantina che germoglia
in un barattolo e poi te la porti in giro per il resto del tuo dannato
tempo. Ma no, certo che no, non è così, tutti lo sanno. Non si può
imparare dallo psicologo l’autocoscienza, essa è naturale conseguenza
di un esercizio di totale e costante attenzione. Non si può prendere il
fenomeno, intendo l’atteggiamento mentale, la reazione alle relazioni
e all’ambiente, annotarlo, e differirne l’analisi sul comodo sofà di un
224
qualche simpatico barbogio. L’attenzione è vita, ed è istantanea.
Nessuna dilazione è ammessa. Non hai l’energia necessaria per essere
costantemente attento a te stesso? Cazzi tuoi, tant’è. Non te la darà
certo uno svaporato geometra della psiche che si fa pagare lautamente
per ascoltare le tue amenità. Sai perché? Perché per essere attento hai
bisogno di energia: proprio quella che ti fa muovere le gambe, quella
che trai dall’aria, dall’acqua, dal cibo, e dalle suggestioni che si
producono nel tuo cervello. Devi guardarti intorno e camminare da
solo. Devi essere curioso e non frettoloso. Devi essere paziente e
vigile. Così, pian piano, se perseveri, aumenta l’energia, e con essa,
l’attenzione. Mi rendo conto che questo discorso ci porterebbe molto
lontano e mi domando se abbia senso accennarne così per sommi capi.
Ci penso un attimo e mi rispondo di sì, o pretendete che tutto vi sia
servito su un piatto d’argento da un cameriere in livrea? Certo che no!
Se vi va, pensate alle poche suggestioni che vi ho dato, viceversa, a me
non importa punto, visto che sono qui per parlarvi di Sisifo. Siamo
dunque arrivati ad accertare come il problema principale di Sisifo sia
la vigliaccheria, senza meno. Naturalmente, il termine “vigliacco” ci
infastidisce anche perché, oltre a ricondurci a una piena responsabilità, senza sofismi, riguardo alla nostra condotta, è stato in questi
ultimi decenni particolarmente abusato per rinfocolare certo
sentimentalismo patriottico, deteriore e compensatorio, falso infine, o
per accendere i cuori dei poveri soldati ad una mistica che rendesse
più sopportabile l’insensato massacro di cui erano, di volta in volta,
gli attori più carnali. Ma, è pur vero che, secondo la legge di analogia,
ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso. Di più: ciò che è
deteriore ha le stesse dinamiche di ciò che è sopraffino, per cui la
guerra è certamente un’opera meritoria solo che la si intenda nel suo
senso spirituale e cioè guerra contro le proprie tendenze caratteriali
indesiderabili. Non chiedetemi come si faccia a determinare quali
siano: ognuno conosce le proprie, per quanto le dissimuli. Se avete
avuto occasione di sentire uno di questi personaggi, cinturati di
esplosivo ed intabarrati che neanche una mummia, molto di moda di
questi tempi, inneggiare alla Jihad o all’Isis, cioè alla guerra santa,
avrete un esempio perfetto di ciò che volevo dire. Il concetto di guerra
santa, per come è espresso nel Corano, ma anche in altri testi sacri
come la Bhagavad-Gita, di tradizione Indù, è da intendersi
225
ovviamente in senso interiore; va da sé che ogni strumentalizzazione
in senso terragno e omicida è una delle colossali contraffazioni di
alcune verità oggettive, così in voga in questi ultimi tempi. Sisifo è
dunque un vigliacco perché non ha mai combattuto contro i lati
peggiori del suo carattere. Per assurdo, anzi no, proprio per vero,
sarebbe stato meglio per lui e anche per quella povera infelice della
moglie Daniela, che Sisifo avesse allungato i suoi scarponi
sull’abbondante culaccio dell’oramai sfatta consorte: almeno un
calcione ogni dieci promessi sarebbe stato sufficiente. In questo modo,
ci sarebbe stata la possibilità, per entrambi, di subire uno o più shock
in grado di deviare la rifrazione discendente, involvente, del raggio di
luce che li animò alla nascita. Ma, anche qui, cerchiamo di contenere le
considerazioni generali, e parliamo un po’ di questo essere schifoso, di
Sisifo. A cominciare dal nome: non che sia brutto, per carità, forse un
po’ sibilante, magari me lo figurerei attribuito ad un vecchio
sganasciato, con le labbra a culo di gallina e il mento pronunciato.
Diciamo che un nome come Sisifo, come minimo, andrebbe bene solo
da una certa età in poi. Invece, suo padre, che per sua fortuna, durante
l’ultima guerra, rimase “solamente”(e qui le virgolette sono d’obbligo)
cinque mesi in quei campi di lavoro elettrificati in cui si frollavano e
scioglievano carni su carni, conobbe proprio in quel contesto un
maestro elementare che, pare, fosse in qualche modo ossessionato dal
mito di Sisifo, che la fece in barba prima a Zeus e poi alla Morte stessa.
Va detto che, da parte dell’esile maestro, ricordare continuamente la
scaltrezza di Sisifo, che tenne in iscacco persino la morte, sebbene solo
finché Ares, il dio della guerra, non la liberò, poteva essere senz’altro
utile a rappresentarsi la possibilità di uscire vivi da quell’immenso,
vorticante, cieco frullatore. E, si sa, si può fare un uso molto proficuo
dell’immaginazione. Un’immaginazione disciplinata produce forza,
anche fisica. Il padre di Sisifo, fornaio, viveva, nel campo di
concentramento, alla perenne ombra del maestro di scuola. Ne
ammirava l’autodisciplina, la meticolosità aggraziata con cui
raschiava fino all’ultima incrostazione di patata dalla gamella, e
ascoltava le sue storie. E il tono di voce, mai chioccio né disperato. Un
esempio di dignità umana, che però soccombette all’ultima barbara
selezione per le camere a gas prima della liberazione. Il padre di
Sisifo, perdonate, ma pur essendo stato per anni un suo vicino di casa,
226
al momento non ne ricordo il nome, intese rendere omaggio al
professorino chiamando il suo primogenito come ormai sapete. Ma,
ahimè, per necessità, non certo per malanimo, il maestro aveva celato
a Bruno… ecco! Bruno! Il papà di Sisifo si chiamava Bruno, e uso
l’imperfetto perché è morto se non ricordo male sette anni fa, proprio
il giorno della mia partenza per la Spagna. Dicevamo, il maestro
elementare aveva tralasciato di raccontare la fine che poi questo
furbastro avrebbe fatto, sprofondato nel più profondo degli inferni a
sospingere per un’erta un grosso sasso, per poi vederlo precipitare a
valle, e risospingerlo a monte, per poi vederlo rotolare a valle,
indefinitamente. Un lavoro estenuante, continuo, e perfettamente
inutile. Vi lascio immaginare quale parte del mito abbia incarnato il
nostro Sisifo vivente e, ve lo confesso, non oso immaginare cosa lo
attenda nel più profondo degli inferni, giacché, quantomeno, l’altro in
vita ne aveva combinate delle belle. Ma smettiamola una buona volta
di versare nulla nel vuoto, o di trar burro dall’aria, come si dice in
Armenia, e precisiamo decisamente che Bruno non era certo uno
stinco di santo. Costui aveva concepito il figlio sulla scorta
dell’irrefrenabile entusiasmo che la fine della guerra aveva prodotto
sugli uomini. Erano momenti in cui ogni alba rischiarava di promesse
e stillava di rugiadose possibilità le macerie, fino a renderle quasi
belle. Il suo forno non era stato toccato dai bombardamenti: certo il
rischio c’era stato, dopotutto il quartiere era a ridosso della città e pur
qualche bomba fuori rotta aveva dilaniato qua una strada e là perfino
una canonica, fortunatamente disabitata. E poi a quei tempi fare figli
era una religione. Saranno pochi quelli che vi confideranno che, se
non facevi figli, lo stigma sociale si precisava in illazioni sulla tua
dirittura morale o perfino sulla tua capacità di compiere un normale
atto sessuale. Erano maglie stringenti, allora, e metafisica per schiavi.
Esattamente come adesso. Per cui saremo franchi nel dire che a Bruno
di suo figlio Sisifo non importava un bel nulla. Sisifo lo capì e, per
reazione, si mise a fare il tappezziere. Fantastico. Incominciò a bere,
anche, che aveva tredici anni. Sui venti, nel corso di quelle festicciole
in cui si rabbrividiva di rock ‘n roll e pane e salame, le sedie accostate
al muro e le mattonelle lisce per le acrobazie, conobbe Daniela, timida
che non ballava mai. Tre anni pro-forma e si sposarono, andando a
vivere nell’appartamento che il padre di Daniela aveva approntato per
227
la figlia. Perfetto. In breve, Sisifo divenne una sorta di appendice del
quartiere, una specie di nume tutelare. Immancabile la sua presenza in
qualsivoglia celebrazione. Cantava, previo gasolio nello stomaco. E
nemmeno male. Tutti suoi erano i matrimoni, i funerali, tutto quanto
il calendario liturgico cattolico. Le iniziative di qualche inquieto
curato trovavano il suo entusiasta, vinoso, assenso. E il giro rituale di
tutti e quattro i bar, fino a notte fonda, col barbiere, un vero sfigato
immusonito, e il meccanico delle biciclette. Fino ai giorni nostri, in cui
possiamo osservare che, ovviamente, il fisico non regge più come una
volta e comincia a presentare conti salati: un diabete spesso e
volentieri scompensato, tanto da finire due volte in coma durante il
tragitto che da casa lo conduceva all’agognato bar, il bar prediletto, il
bar “Belloni”. Con il primo coma finì con la macchina in mezzo a due
cassonetti e poi contro un muro, fortunatamente a bassa velocità. Con
il secondo rovinò in una roggia piena d’acqua e fu fortunato perché
un vecchio, trovandosi a passare di lì in piena notte, avvertì
l’ambulanza scorgendo la sagoma umana nell’automobile riversa.
Quello che non può sapere Sisifo è che questa è la sera del suo terzo
coma.
Ma procediamo con ordine e torniamo al punto in cui Sisifo, dopo
aver imperiosamente messo a tacere, come si conviene, la moglie,
raggiunge il bar Belloni, dove trova senz’altro il suo amico barbiere
corrucciato ad attenderlo.
– “Ciao a tutti, il freddo non se ne va, eh?”
– “Piove ancora?”
– “Qualche goccia. Cosa bevi?”
– “Un amaro, Daniela riesce a rendermi indigesta perfino quella dieta
del cazzo che mi ha dato la troietta.”
– “La figlia di Gianni?”
– “Lei. Adesso è il nostro medico di famiglia, ma quelle lì, le conosco,
io, eh, quelle lì starebbero bene a gambe aperte sotto le lenzuola, altro
che medico!”
– “Allora doveva fare l’infermiera, no? Ah ha haha ah!”
– “Certo! Quelle lì devono darsi da fare, ma in un altro senso, noh, che
dici tu, Armando?”
Armando asciugava bicchierini in velocità, dietro il bancone, e
assentiva. Di indole taciturna, doveva in qualche modo piegarsi alle
228
smargiassate dei tre che, ogni giorno, con il loro bianco di Custoza, o
le grappe e gli amari, per finire con la birra che lui provvedeva ad
annacquare in maniera direttamente proporzionale all’ebetudine del
trio. Non avevano mai notato, Sisifo, Otello il barbiere e Costantino il
meccanico delle biciclette, una cosa curiosa: Armando, pur
disponendo di due spine per la birra, e relativo sottostante bidoncino,
spillava sempre da una stessa spina la birra loro riservata.
Conoscendo di questi tre l’abitudine a concludere le nullificanti
sbronze quotidiane con qualche boccale di doppio malto, Armando
“preparava” appositamente per loro uno speciale bidoncino, in cui la
birra era annacquata al 60%, di modo che i tre costituivano, in quel
dannato quartiere dormitorio, una parte imprescindibile dei magri
incassi del bar.
– “Dovresti darle ascolto, però, con il diabete non si scherza.”
– “Cosa vuoi che sia, e poi, ormai, faccio l’insulina. Sei sempre così
serio, Armando, guarda che di vita ce n’è una sola, vieni a farti una
briscola con i tuoi affezionati clienti.”
Dopo il primo amaro, in Sisifo nasceva una forza principiale in grado
di sostenerlo contro e oltre ogni malanno, alta sulle minuzie della vita,
alata d’ideali eterni, senza nessuna concessione alle quisquilie che,
senza rinnovare il bicchiere ogni quarto d’ora, si sarebbero presto
deformate e accresciute in oscure e incontrollabili fiere in cerca di
sazietà. Nondimeno ora era il momento dell’invasamento del demone:
di lì a poco Sisifo, che per una curiosa abitudine disdegnava di
starsene seduto, preferendo piuttosto di stare al centro del bar, in
modo da poter letteralmente dominare i suoi compagni di naufragio,
un Nelson al timone del bar Belloni, un Virgilio in piroga nello Stige
del quartiere. Dicevo, di lì a poco il nostro Sisifo, mimando di volta in
volta compunzione sentimentalistica e moraleggiante, o esaltazione da
condottiero alla volta di Roma sprezzante ogni compromesso, si
sarebbe prodotto in uno dei suoi quattro monologhi preferiti (durante
la recita a soggetto provava come una sorta di brivido dovuto alla
sensazione di possedere una cultura così profonda e… perfino…
pericolosa, sovversiva, una cosa da iniziati… da carbonari, da fargli
perdere quasi i sensi per la vertigine. Naturalmente, la vertigine era
dovuta alla sempre meno sopportabile ebbrezza alcolica.) che i suoi
due amici, e anche qualche sparso avventore, più che ascoltare, non
229
potevano fare a meno di sentire. Eventuali commenti o illazioni erano
ignorati o severamente censurati con un divincolìo stizzito nella voce,
con la significativa eccezione di Ugo il manovale, l’unico cui Sisifo
riservava un trattamento meno impetuoso. Difatti, nonostante l’età,
Ugo non si faceva certo pregare per ammollare qualche sbracciata sul
collo di chi contestasse o irridesse le sue poche bausciate. Negli ultimi
mesi, tuttavia, il manovale s’era dato una calmata: dopo l’infarto, non
salutava più nessuno a voce, ma con un cenno, e si metteva in un
tavolino a fare il solitario. Per vostra curiosità elencheremo i quattro
granitici argomenti, a rotazione o a capriccio sciorinati dal nostro
Sisifo. Dunque:
1) L’importanza della figura del barone De Coubertin.
2) I rapporti tra governo e sindacati.
3) Carreras o Domingo.
4) Il doping nel ciclismo.
Ora, come chiunque abbia preso almeno un’ubriacatura una volta
nella vita sa, si può paragonare una serata da bevitori ad un’ascesa
lungo il crinale della piramide di Cheope. L’entusiasmo e le membra
quasi instancabili scalano agili la vetta, pregustando il piacere
dell’orizzonte abbracciato dallo sguardo tutto a tondo. Si arriva sulla
sommità e non si sa più se si è un Dio disceso sulla punta della
piramide o un uomo salito fino in cima. Ecco il top dell’ebbrezza: dura
niente, poi ci si risponde che si era uomini e non dei, e si deve
scendere. Questa volta, scendendo, ci si accorge di due fatti oltremodo
sgradevoli: il primo è che le membra dolgono e rendono incerto il
passo, le giunture rigide tendono a farti sporgere troppo in avanti. Il
secondo è che, stranamente, questa maledetta piramide i cui massi, in
salita, erano così perfettamente giustapposti a mò di gradino, ora sono
malamente accostati, talvolta mancano addirittura. Spesso te ne scendi
non senza aver sperimentato qualche scivolone e parecchie schioccanti
culate. Dimodoché la vis retorica del nostro eroe, dopo aver toccato
culmini d’intensità che neanche Hitler quando arringava la
Wehrmacht, digradava serpeggiando, con qualche penoso tentativo di
ripresa, come un aeroplanino di carta che spera in una corrente
favorevole, e magari pur ottiene un refolo, ma poi si consegna
invariabilmente al suolo. O come certe acque montane, che in altura
sono impetuose cascate, e a valle quieti e utili canali irrigui. Così
230
sempre si spegneva, dopo un tempo variabile, il nostro beniamino,
fino a sbracare sulla sedia, immobile e vinto.
– “Non stasera, non ho ancora letto il giornale.”
– “Ma lascia perdere, tanto col giornale non si sa più la verità, ormai.
E poi, come dice la mia signora, bisogna prima occuparsi dei propri
problemi personali, altro che società, economia o politica. Proprio così,
dice.”
– “E tu cosa le rispondi?” – domandava maliziosamente Costantino il
meccanico delle biciclette, pregustando il colpo di teatro.
– “Di andare a fare in culo!”
– “Ahahahahahahha!”
A questo punto la risata era generale. Tranne Ugo, che dopo l’infarto
era davvero uno zombie.
Armando offriva ogni tanto qualche pastasciutta, niente di
complicato, per tamponare i bollori di stomaci spesso digiuni e
infiammati di petrolio, e a mezzogiorno preparava panini o
scongelava in un microonde primi piatti precotti. Qualche volta, da un
disimpegno che dava nella cucina del bar, si intravedeva o veniva a
bere un caffè la convivente di Armando, una ragazzona ucraina
conosciuta al Zibì Folies. Allora Sisifo dava il meglio di sé
profondendosi in complicatissimi salamelecchi e battute fulminanti
della durata di un quarto d’ora, non riuscendo a realizzare che la
suddetta, se comprendeva l’italiano, ancora non riusciva a capire il
complicato dialetto del luogo, lingua d’elezione del nostro, specie
quando l’emozione lo obbligava a cercare nel vernacolo suoni più
“machi” per occultare l’imbarazzo; e questo sia perché le donne gli
avevano sempre fatto un po’ paura, sia perché l’alcolismo l’aveva
ridotto all’impotenza – quanti soldi spesi per strada sperando che la
colpa fosse della moglie, mostruosa d’adipe sin dal terzo o quarto
anno dopo il matrimonio – e sia perché nello sguardo delle donne
aveva sempre intravisto, anche nelle più miti, quella speciale lucidità,
quella particolare capacità di penetrazione che avrebbe potuto… eh,
avrebbe potuto vedere fin là in fondo, in quel posto nascostissimo in
cui lui desiderava un cazzo tra le chiappe. Ma che non si sapesse:
nessuno doveva saperlo, né Sisifo stesso né tantomeno gli altri. Non
aveva mai preso piena coscienza del suo desiderio, era una nebbia
sfocata e intermittente, come un flash dai contorni non troppo nitidi. E
231
le donne erano pericolose perché erano le sole dotate di un intuito
fendinebbia. Non avrebbe mai accettato che la nebbia si alzasse,
turgida, alle sue spalle, mai e poi mai! Neanche in un’altra città,
neanche in un altro stato, neanche in un’altra vita. L’alcool era
insuperabile nel rendere sempre meno invitanti quelle immagini che
sorgevano ormai con sempre meno frequenza. Ne conseguiva un
atteggiamento a volte timoroso e a volte aggressivo, ma sempre nel
complesso sgradevole, nei confronti delle donne. La bassa statura, la
giacchetta a quadrettini grigia, la panza gonfia e l’immancabile
cravatta, lo rendevano nulla più che una fastidiosa macchietta di cui le
poche donne, quasi tutte mogli di amici, che transitavano nel bar, si
liberavano con un solo sorriso, spesso a labbra strette, nella speranza
di levarselo più in fretta si torno.
– “Armando, tu sì che sei fortunato con quel pezzo di figa che ti sei
andato a prendere. Io non ho i tuoi soldi, ma piacerebbe anche a me
fare un affare così.”
– “Quella lì ti molla, Armando, stalle sotto, non farla uscire. Adesso
che è qua, li vede anche lei gli uomini giovani. Cazzo c’avrà... Quanti
anni ha?”
– “Ventisette.”
– “Ellallà. Lasciatelo dire da uno che nella vita ha fatto solo due cose:
riparare biciclette e scopare puttane: quella lì la devi tenere a bada, se
no ti scappa. E controllale i soldi.”
– “Costantino, tu di cose ne hai fatte almeno tre, hai dimenticato di
aggiungere il bere.”
– “Vaah...”
Il barbiere Otello quella sera era un convitato di pietra, ritto nella sua
longilinea magrezza, sguardo serissimo, compunto. Era una di quelle
persone così contorte e ignoranti, così impresentabili, che, raggiuntane
la coscienza in virtù di chissà quale choc, si industriano ad occultare la
loro pochezza. E mettono su uno sguardo severo, una postura ieratica,
gli angoli della bocca all’ingiù e il portamento di chi è testimone
silenzioso di un senso di più alta moralità, impassibile e fiero in un
mondo di corruzione di costumi inaccettabile. Otello pensava, quando
le mamme portavano i loro figlioletti a rapare, che poteva senz’altro
non rispettare l’ordine e dar la precedenza agli adulti. Infatti per
potere, poteva, ma le fionde dei ragazzini non attendevano altro per
232
vendicarsi e fare scempio della sua insegna. Del resto, a Costantino
non andava meglio: i pargoli lo depredavano di ogni genere di viti,
rondelle, bulloni, copertoni, più per il gusto della sottrazione che per
reale utilità. Va detto, ad onor del vero, che io stesso ho visto più d’un
coetaneo girare per il quartiere con un volante d’auto montato al
posto del manubrio della bicicletta. Costantino si vendicava delle
grassazioni imponendo una sorta di sovrattassa, del tutto arbitraria.
Mi spiego: se andavi per sostituire una camera d’aria, lui te le
sostituiva tutt’e due. Un problema al freno posteriore? Cambio di tutti
e due i fili e relative leve. Per pagare, si pagava, ma i furti
raggiungevano il parossismo.
– “Sì, lo spremerà come un limone e poi lo lascerà, la bonazza, questo
è sicuro… però intanto oggi, e tu sai che di doman non v’è certezza,
quello scopa e io ho a casa la Daniela che ormai è un barcone. E fosse
solo quello! In realtà non c’ha mai voglia, sempre lì a dipingere… che
poi… dipingere… ricopiare!!”
– “E rompere i coglioni!”
– “Giusto! Riempilo di grappa, almeno!”
Armando si girò a prendere la grappa, una grappaccia scadente che
Sisifo ingollava senza alcuna remora a copiosi sorsi, e quando si voltò,
Sisifo, che gli stava davanti, appoggiato al bancone, non c’era più.
– “Dov’è?”
– “Orcocane è andato giù!”
– “Sisifo, sù, ohi! Svegliati! Porco cane l’è propis nat! Toca ciamà
l’ambulansa.”2
– “Tiralo sù, Armando.”
– “Sarà morto?”
Ugo continuava il solitario là nell’angolo. Non si poteva pretendere,
dopo l’infarto.
– “Bisogna portarlo dalla Daniela, che gli fa l’insulina. Dai mettiamolo
sul furgone. Otello, vieni anche tu?”
– “No, domani devo andare a caccia, vai tu, Costantino”.
– “Non bisogna bere così, ma lui…”
– “E’ una testa di cazzo. E’ sempre stato una testa di cazzo.”
2
Trad: Porco cane è proprio andato, tocca chiamare l’ambulanza.
233
– “Ehh, un brutto vivere, la Daniela. Lo dico sempre io, hai voglia? Vai
da una troia, così nessuno patisce.”
– “Mettiamolo dietro, sul cartone. Così se si riprende e vomita non mi
sporca i sedili.”
– “Portiamolo all’ospedale, mi sembra freddo.”
– “Macché, dai, solleviamolo.”
– “Chi è?”
– “Daniela, sono l’Armando, abbiamo riaccompagnato Sisifo… si è
sentito male. Lo portiamo su.”
– “Vi apro.”
– “E’ caduto tutt’a un tratto, dove lo mettiamo?”
– “Devo fargli l’insulina, ce la fate e metterlo sul letto?”
– “Certo…”
– “Di là, vado a preparare l’iniezione, volete rimanere per un caffè?”
– “No, grazie, è già tardi e non ho chiuso il bar. Fammi un colpo di
telefono quando si riprende.”
– “Chiama anche l’ospedale, così siamo più sicuri.”
– “Intanto gli faccio l’iniezione e poi chiamo. Ecco, vi ringrazio tanto.
Chissà quando la smetterà di fare così.”
– “Son cose difficili, signora.”
– “La vita di tutti è difficile, Costantino.”
– “Certo, buonanotte.”
– “Buonanotte.”
Chiusa la porta, tornò in cucina e buttò via la siringa d’insulina vuota.
Poi, caricato il marito sulle spalle, lo depose nella vasca da bagno e gli
abbassò i pantaloni. Sisifo non si riprendeva. Percorrendo il corridoio
verso la cucina, le sembrò inusitatamente luminoso, e ampio. E
cresceva. Era proprio un bell’appartamento, il suo. Tornò da Sisifo
reggendo il tubo del sifone e una mazza. Si inginocchiò accanto alla
vasca, e con forza gli infilò tre dita nell’ano, poi strappò di lato finché
non riuscì a inserire anche tre dita dell’altra mano. Poi strappò di lato,
con forza, si sentiva come lo strepitìo della lacerazione. Sisifo era
impassibile, i lineamenti premuti contro lo smalto delle mattonelle.
Poi, appoggiato il sifone, lo spinse con una gran martellata. Il donnone
fece risuonare il metallo con un rimbombo quasi da campana. Era
forte, Daniela. Un’altra martellata e il sifone entrò per molti
centimetri. E non ricopiava, Daniela. Un’altra martellata e il tubo
234
incontrò un ostacolo solido. Il coccige o una vertebra. Ma non sarebbe
stato uno stupido osso, adesso, a inibirla. Una martellata e un’altra
ancora, che muscoli. Non era grassa, Daniela. Quando finì, tutto il
tubo era dentro, chissà dove. Sisifo, all’ultima martellata, quella che
spinse fuori un frammento di vertebra, ebbe un tremito. Daniela lo
contemplò: sembrava uno strano aggeggio. E quanta luce le invadeva
gli occhi.
235
Il tè
di
Rebecca Lena
https://rebeccalenastories.wordpress.com/
Per un istante decisamente breve, tra l’inconfondibile gusto caldo e
ferroso del sangue, riconobbe sulla punta della lingua l’incredibile
gusto del tè.
Con evidente curiosità, leccò di nuovo la piccola fessura che si era
aperta sul polpastrello del dito, ma nessun sapore inaspettato riuscì
ad accendere di nuovo la sua bocca.
Era stata una di quelle piccole e rare epifanie che adorava e che
celebravano al meglio il suo innato – perverso – desiderio di stupore.
Le considerava quasi come violenti “pizzicotti”, scosse sussultanti,
236
capaci di aprire molteplici fessure sopra la scorza dura della sua pelle;
piccole serrature attraverso le quali poteva spiare frettolosamente la
vera natura delle cose. La natura delle cose al di là.
In realtà dubitava che esistesse una sola vera natura delle cose: quella
di attribuire alla parola astratta “Verità” un valore assoluto era una
tendenza innata degli esseri umani cui da sempre si era opposta con
tutte le sue forze. Gli strati del reale, oltre quei fori, erano tanti,
immensi e spessi. La natura dello spazio tempo si mostrava sempre
così magnificamente caotica, illusoria, complessa, entropica,
scompagnata, asimmetrica nonché oltremodo embricata, o meglio,
avvoltolata se non spiraliforme.
A volte, quasi per nobile otium, si cimentava in un’accurata ricerca a
ritroso di tutte le scelte, personali e altrui, che l’avevano indirizzata
così abilmente verso l’istante esatto in cui si trovava. Come se la sua
esistenza rotolasse uniformemente lungo un piano obliquo, sopra il
quale chiunque ‒ vivo, morto o inconsistente ‒ potesse infilare a
proprio piacimento le proprie dita, mani, braccia, ma anche saporite
pedate, finendo per deviare il suo percorso esistenziale. E non era
affatto male come teoria, visto che più che una caduta la considerava
un’ascesa tormentata (con una gravità al contrario molto favorevole),
nella quale sofferenze o preoccupazioni infiltrate, così poco
apprezzate dal resto dell’umanità, apparivano ai suoi occhi come
necessari trampolini attraenti e necessari per una salita molto più…
stimolante.
Erano proprio quei “mali” catartici del mondo ‒ contro i quali urtava
ogni giorno ‒ a percuoterla con forza sulla pelle, a spogliarla di tutta
la pesantezza della carne con cui l’avevano costretta a vivere; e spesso,
forse per sconsideratezza, forse per volontà inconscia, sbatteva contro
le cose ‒ stipiti delle porte, maniglie ‒ ferendosi lievemente. Ciò le
provocava uno strano e intenso godimento.
Nel frattempo, durante quello stesso giochino a ritroso, si esaltava
ancor più quando riusciva ad individuare, o immaginare, i veri attori
della sua storia, abilmente travestiti da comparse insulse e fulminee,
che invece non erano affatto ininfluenti, come poteva sembrare ad una
prima osservazione. Il campo da gioco su cui si compiva il suo
cammino di biglia rotolante era una prateria di dita, mani e braccia
237
simili a fili d’erba sferzati dagli eventi: erano quei minuscoli e
impalpabili fili a dirigere i suoi movimenti secondo un meccanismo di
azione e reazione che a sua volta favoriva o forse costringeva le dita
altrui a sfiorarsi quel tanto che era sufficiente per determinare precisi
passi complementari in un percorso reciproco di naturale depistaggio.
E questi veri attori, anzi registi, dell’immenso film di esistenze non
erano altro che i dettagli improvvisi, minuziosamente posizionati
nello spazio e nel tempo, a cui nessuno faceva mai caso, oppure i
pensieri morti un attimo prima di giungere a un livello di coscienza, o
infine ‒ e magari ben prima in ordine di gerarchia ‒ i fattori climatici, i
raggi cosmici, le reazioni chimiche, le energie oscure, le impronte
genetiche.
– “Adesso però ho voglia di tè.”
Fuori il cielo era umido e pesante, le nuvole imbevute di un fitto velo
ambrato. L’aria era talmente calda che pareva fatta solo d’aliti umani,
quasi fosse stata già tutta respirata fino all’ultima molecola esistente
all’interno della sfera di nuvole che sigillava il mondo. Era teso e
ansimante quell’ammasso d’aria, lo sentiva fremere fra i suoi capelli,
guardarsi alle spalle con sospetto.
Povero Marte, brutalmente ferito da una cometa giunta dall’infinito.
Tutti lo sapevano, nessuno ne parlava. Anche perché da qualche
settimana non si poteva più comunicare, ascoltare la radio, o guardare
la televisione. Era chiaro che prima o poi qualche pezzo martoriato
delle sue carni avrebbe investito anche la Terra. In quei giorni già
qualche folta chioma luminosa accarezzava le sue atmosfere,
inquinando inevitabilmente il clima del pianeta.
Ma chi poteva dire se e dove sarebbero caduti i frammenti più grandi,
o se erano già caduti. Forse sì, forse no, magari nell’oceano, forse in
Siberia.
E non c’era niente di meglio che guardare gli umani camminare, per
svago, nelle vie cittadine del centro. I volti stranamente pacati e
distesi, gli occhi profondi, molto dilatati, forse perché non v’erano più
schermi luminosi da fissare, a farli rimpicciolire.
Una signora portava i bambini e il cane dentro il carrello per la spesa.
Tre uomini di mezza età giocavano per strada con una pallina di carta.
Qualcuno strisciava i piedi sull’asfalto con un grosso tronco secco
238
sulle spalle. Concerti acustici sulle panchine. Fiumi di ragazzi sudati
davanti ad una gelateria. Era Dicembre.
Rimase qualche minuto ad osservare la grande piazza affollata, col
corpo semi-sdraiato sopra una grossa televisione orfana. Non c’era
motivo di affrettarsi: il negozio del tè era proprio là davanti, sul lato
opposto della strada. “Dal 1890!” declamava la sua vecchia insegna.
Era incredibilmente piacevole godere della propria solitudine in
mezzo a quella compagnia.
In alto, davanti a lei prese a girovagare una grossa foglia arancione,
l’unica prova che forse il tempo e le stagioni ancora esistevano. Si
lanciò subito al suo inseguimento per provare a catturarla, ma la
foglia se la svignava agile come un ratto su un bastimento che
affonda. Da sinistra sopraggiunse un ragazzino cinese che di buon
passo trasportava un grosso fagotto stracci; non fece in tempo a
scansarlo.
Esplose una piccola bomba di colori, di pezze polverose e tessuti.
”.
‒“
Si alzò dopo poco barcollando e sorrise al ragazzino, non capitava
tutti i giorni di poter ammirare una strada trasformarsi in un plaid. Lo
aiutò a raccogliere le sue pezze. La foglia, poco più in là, aveva toccato
terra inosservata.
Giunse all’entrata del negozio coperta da un sottile strato di polvere.
Intanto, a qualche migliaio di chilometri sopra la sua testa, una palla
rovente, invitata a prendere il tè dalla forza gravitazionale, si
affacciava alla sfera atmosferica della Terra.
‒ “Buonase…” ‒ ma il suo saluto fu interrotto da un fragoroso,
avvolgente e violento starnuto. La testa urtò la maniglia dell’entrata e
da capo a piedi il corpo sussultò intensamente. Dovette rimanere con
la testa abbassata per un po’, mentre apriva la porta del negozio. La
vista era rimasta annebbiata, una strana pressione la schiacciava con
vigore verso terra. Intravide qualche tavola scura del pavimento e in
un attimo vi cadde sopra.
Fu destata dolcemente dalla calura piacevole e aromatica che
avvolgeva la stanza. Due uomini eleganti la accudivano con
preoccupazione, avevano baffi folti e curati, e i capelli lisciati sulla
testa con cura quasi maniacale. Quello più giovane doveva essere
figlio del più vecchio, aveva una grossa macchia bianca sotto la
对不起,保存自己
239
mascella destra. Pareva muschio chiaro, adagiato sopra un tronco
delicato.
‒ “Vado a cercare un po’ di coperte, torno subito.”
L’uomo vecchio sparì dietro a una porta accanto al bancone. I lumini
accesi sfolgoravano sui grossi contenitori da tè. Cominciava a fare
buio.
‒ “Fuori si gela, perché vi siete vestita così? E perché siete vestita da
uomo? Come vi chiamate?”
Anna rimase un attimo interdetta, osservò la sua maglia viola di
cotone leggero e i leggings bordeaux. Effettivamente le piaceva
sperimentare nuovi accostamenti di colori, ma non le pareva proprio
di essere vestita tanto male.
‒ “Perché fa così freddo qua dentro?”
‒ “Perché è Dicembre.”
‒ “Mi chiamo Anna. Anna Mannelli. E puoi darmi del tu.”
‒ “Asciugatevi quella ferita con questo, adesso vi preparo del tè.”
Anna rimase a osservarlo con gli occhi aggrottati, d’altronde chiunque
aveva il diritto di comportarsi in modo strano ultimamente. La società
intorno era rapidamente regredita ad uno stato di socialità primitiva
istintività, e tutto funzionava bene. Chi voleva poteva continuare il
suo lavoro, oppure mangiare ciò che gli veniva donato e vivere alla
giornata con la massima libertà.
Perché stupirsi allora di un tale posto? L’unica cosa veramente
inspiegabile era il freddo che le pietrificava i vestiti.
L’uomo giovane posò un vassoio sopra il tavolino più vicino. Le
pareva un cigno leggero mentre sistemava con rispetto i suoi arnesi;
poco dopo alzò il becco elegante e invitò Anna con un sorrisetto
d’orgoglio.
‒ “Ce la fate signorina Anna ad alzarvi? Non vi ho mai visto in paese,
venite per caso dal circo?”
Anna si alzò in piedi e scoppiò a ridere.
‒ “No, no. Sono venuta da casa mia.”
– “Sedetevi, ecco vi sposto la sedia. Vi ho preparato questo prezioso tè
bianco per confortarvi dalla vostra disavventura, è davvero pregiato, i
suoi germogli sono raccolti solamente durante giorni particolari di
primavera.”
240
Anna sporse il viso sopra la tazza fumante e fece un lungo respiro.
Quell’uomo antico aveva lo splendido portamento di un fiore raro.
‒ “Cosa fa nella vita signorina Anna?”
‒ “Beh, io… ultimamente esploro e celebro l’intensità delle cose. E
dico *intensità* al posto di *bellezza*, perché non vorrei che
fraintendessi il concetto di intensità.”
‒ “Interessante. Quindi in che modo celebrate siffatta intensità?”
‒ “Ma è semplice! Solamente scoprendola.”
L’uomo antico non parlò più. Rimase a fissarla per un’eternità di
secondi. Aveva gli occhi disegnati da curve slanciate. Nemmeno Anna
interruppe il flusso di sguardi mentre sorseggiava il suo tè. Ognuno
scorreva nella bocca dell’altro con un’impetuosità bollente e un aroma
tanto meraviglioso quanto tenue.
‒ “Signor Dei! Buonasera!”
Un uomo largo e imbottito si era precipitato con euforia nel negozio
‒ “Questa ve la devo proprio dire, guardate un po’ il giornale qui:
Gigantesca esplosione in Siberia. La luce investe anche Londra!”
‒ “Buonasera Dini, fatemi vedere un po’.”
‒ “Legga anche qui, dicono di testimoni che hanno visto cadere una
stella. In Inghilterra ci vedevano pure di notte!”
‒ “Incredibile, davvero.”
Anna balzò in piedi.
‒ “Mi scusi, ma di quand’è questo giornale?”
‒ “È di stamani.”
‒ “Impossibile, non stampano più giornali da settimane.”
Dini squadrò la ragazza da capo a piedi, senza nascondere una chiara
smorfia di sdegno.
‒ “Dei ma in dove l’avete pescata questa?”
‒ “Suvvia signor Dini, torni dopo eh, ho da fare, adesso non posso
proprio stare dietro a queste storielle. Arrivederci!
Il giovane signor Dei chiuse la porta frettolosamente, tentando di
nascondere l’incredibile imbarazzo.
Anna rimase immobile, non fece caso a quella scena, notò invece il
soffio gelido che si era insinuato sotto la porta, sul pavimento ne era
rimasta una lieve scia di ghiaia, rametti, piccole foglie e forse… forse
anche un po’ di neve. Neve? Come era possibile?
241
‒ “Vi chiedo civilmente perdono per la maleducazione del signore
Anna.”
‒ “Figurati! Stai tranquillo. Adesso però devo proprio andare, non si
sa mai che comincino a schiantarsi stelle anche qui. Nel caso mi
piacerebbe starmene distesa sulla riva del Bisenzio. Non so ancora il
tuo nome signor… Dei?”
‒ “Mi chiamo Ugo. Aspettate solo un altro secondo, voglio darvi un
po’ di questo tè. Dovete promettermi di berlo quando tornerete a casa,
e magari sarete invogliata a tornare qui.
‒ “Lo farò, sicuramente. Allora ti ringrazio Ugo, a presto.”
Ugo Dei rimase in piedi qualche minuto ad osservare la porta. Dentro
la sua testa si accavallavano rapidi barlumi di quel viso, del suo corpo
a terra, dei suoi occhi ingordi, l’uno contro l’altro, fra mille scintille
elettriche e nubi bordeaux. Era passato tutto così rapidamente, una
comparsa così fugace e, per questo, incredibilmente intensa.
‒ “Ho trovato delle coperte. Ma dov’è la signorina, Ugo?”
‒ “Se ne è andata.”
Massimo Dei, il proprietario del negozio “Germogli di Tè. Dal 1890!”
riprese ad affaccendarsi con fragore sopra il suo bancone.
Ugo notò il fazzoletto rimasto a terra: tutto ciò che era rimasto di lei
era quella piccola macchia di sangue intrappolata nel tessuto. Pareva
una piccola foglia stampata. Vi avvicinò piano il naso e d’un tratto, in
mezzo ai vapori intensi dei suoi tè, riconobbe l’aroma ferrigno del
sangue.
Anna se ne era andata con un insolito turbamento addosso. Avrebbe
voluto voltarsi e scavare ancora negli occhi di Ugo, ma non lo fece. Era
stato il primo fallimento nella sua carriera di celebratrice d’intensità.
Chiuse sbadatamente la porta con un grande botto.
Fuori un gelido sospiro la aspettava, il viso s’impietrì. Non fece in
tempo a distinguere che pochi lumi lontani, quando il buio d’un tratto
cominciò inspiegabilmente a disfarsi, come fango scintillante. Anche il
suolo divenne morbido, sfibrato, cremoso; e il suo corpo precipitò.
Atterrò pochi secondi dopo, con innaturale lentezza, sopra ciò che
rimaneva della piazza. Proprio quel luogo afoso e affollato che si era
lasciata alle spalle entrando nel negozio. Dove era stata davvero in
quell’ultima mezz’ora? Della piazza non rimaneva null’altro che una
242
conca sconfinata di cenere e pietre bollenti. Nessun accenno di mura,
tetti, alberi, persone. Tutto era stato spianato in una frazione di
secondo con un atto di forza incredibilmente crudele.
Camminò per ore in cerca di qualcosa di vivo, di qualcosa che fosse
rimasto in piedi. A tratti brandelli di case, cumuli di pietre, muraglie
di ferro, ombre cinesi di persone annerite e spente che si trascinavano
nel buio. Nessun suono, solo la Luna urlava immobile, paralizzata dal
terrore.
In lontananza le parve di riconoscere un profilo familiare, le mura del
cimitero; era quasi completamente intatto. Si sdraiò sopra una tomba,
fra i cespugli di fiori secchi.
Ugo Dei quella mattina decise di deviare dalla strada che solitamente
percorreva. Non avrebbe saputo ben spiegarne il motivo, ma si ritrovò
a girovagare a lungo fra i platani arrugginiti del viale; affrancati dalle
abituali mansioni, i suoi occhi impiegarono il tempo scrutando il
declinare umido dell’erba sugli argini del fiume.
All’improvviso, nell’aria gelida, giunse l’eco fioco d’un grido.
Qualcosa si agitava e urlava fra il ribollio del canale. Il giovane si
lanciò nel fiume senza pensare.
Il fragore delle foglie sotto ai suoi piedi, l’adrenalina, il freddo nelle
ossa, il dolore: furono le ultime cose intense che riuscì a celebrare della
sua vita.
Anna Mannelli quella mattina trovò nel cielo solo fumo sporco e
dorato.
L’odore dell’aria era insopportabile, così avvicinò al volto un angolo
del suo pacchetto prezioso e vi immerse tutto il naso. Si alzò dalla sua
culla di terra, ma d’un tratto, nel voltarsi il suo cuore trasalì.
Era Ugo Dei, scolorito nel suo ovale in ceramica, che si ergeva in
mezzo alla lapide.
16 Dicembre 1908
Il paese e i cari salutano l’uomo che, al fiume, donò la sua vita
per restituirne un’altra.
Riconobbe il suo volto da cigno. Forse stava morendo, in quel preciso
istante. Centosei anni fa. E chi era stato salvato? Magari era andato al
243
fiume per cercare lei e invece aveva dovuto lanciarsi in quel fulmineo
salvataggio.
Forse non lo avevano mai trovato, e il letto impetuoso del fiume era
sempre stato il suo giaciglio.
Il segreto di un germoglio pregiato: l’aroma tenue, il muschio chiaro,
il tronco delicato.
[foto di Rebecca Lena; nell’ovale ceramico il mio caro amico e vero Ugo Dei,
realmente esistito e morto il 12 Ottobre 1893 a 24 anni.]
244
Miocardio
di
Roberto Miano
https://www.facebook.com/roberto.miano.9
Dal balcone le luci dei lampioni sembrano sfaldarsi, passando da un
giallo opaco ad un arancione periferia, fino a diventare ‒ in
lontananza ‒ albicocca scura.
Profumo di caffè.
Elio si stropiccia gli occhi, la cosa lo turba. Niente da fare: attaccate ai
lampioni rimangono le albicocche (e sono così mature che dovrebbero
245
cadere con un tonfo molle sui parabrezza delle macchine che vanno e
vengono dal formicaio di cemento).
Davvero strano. Gli occhi non sembrano riuscire a mettere a fuoco e,
improvvisa, una fitta lo percuote all’altezza del torace. Il caffè nella
tazzina ‒ ostaggio del pugno ‒ vacilla. Un poco ne cade a terra, ne
conta tre gocce. Poi la tazzina cade, come il ginocchio destro e così
come tutto il mondo. Il pavimento è ora parallelo allo sguardo: sotto il
vaso c’è quel tappo di sughero che ha cercato insistentemente ieri.
La casa nasconde, ma non ruba. Vero. E dal balcone di fronte la
signora che stende i panni non si accorge di nulla, tantomeno di Elio,
apparentemente nascosto (ossimorituro), a terra.
Ad un sorso dalla tazzina, in una macchia Rorschach di caffè, c’è il
cellulare. Elio lo afferra, compone tre numeri e poi dice qualcosa.
‒ “Aiuto… le albicocche non cadono… ma io muoio…”
Poi il nulla.
C’è qualcosa oltre o dopo il nulla?
Forse sì. Elio riapre gli occhi e vede delle luci abbaglianti. Nessun
tunnel, però. Poi un volto con una mascherina verde. Quindi un altro
volto. Sente delle voci e percepisce nitido un suono, come quello delle
posate vecchie di nonna, quando apparecchia senza mettere la
tovaglia.
‒ “Come va? Hai avuto un infarto. Non ti preoccupare, ti abbiamo
preso in tempo. Ora ci pensiamo noi a te...”
Elio non risponde. Anche perché ha la mascherina sul viso.
(Un infarto? Il cuore? Che infarto?)
Il medico con gli occhi azzurri sembra leggere il suo pensiero.
‒ “In-farto, in-farto del mio-cardio. Mi senti? Capisci? Mio-cardio. Infarto…”
Elio ha pensieri divertenti, anche quando ci sarebbe poco da ridere.
(Un infarto del tuocardio? E quindi perché sdraiato ci sono io?)
‒ “Dove sono?” ‒ domanda muto Elio sillabando lo smarrimento con
gli occhi sbarrati.
Il medico sembra avere un gran bisogno di parlare, magari lo fa per
scaricare la tensione, fatto si è che parla, parla, parla…
246
‒ “Sei qui perché il muscolo cardiaco, il miocardio, ha smesso di
funzionare in modo corretto. Succede e le cause sono molteplici. Stai
tranquillo, comunque, l’importante è che ora sistemiamo il tutto. Il
miocardio in fondo è solo un muscolo. Sarà anche un muscolo
speciale, sì intendo, una peculiare via di mezzo tra un muscolo liscio
involontario (che agisce involontariamente, come la muscolatura dello
stomaco) e un muscolo striato volontario (che agisce in maniera
volontaria, come i muscoli degli arti superiori ed inferiori), ma è
indubbio che sia e resti sempre e soltanto un muscolo.”
Elio è sconvolto, soprattutto dalle parentesi che spuntano inarcate a
fior di labbra sulle labbra del dottore. Il medico, pur essendo medico,
non se ne cura e seguita imperterrito a parlare.
‒ “Questo, detto tecnicamente, in soldi spicci vuol dire che il tuo cuore
agisce un poco con raziocinio e un poco con istinto, a volte ascolta se
stesso, a volte dà retta al cervello, a volte mette i numeri su un foglio
di excel, altre volte li scrive per esteso su un foglio di word. In ogni
caso ci sono volte in cui il sangue non sa che pista seguire, l’ossigeno
non arriva ai tessuti e nell’eterna attesa di un attimo tu rischi di
morire. Un cuore regge al massimo tre attimi, dopo tre sopraggiunge
l’infarto. Cosa ti è successo? Secondo me hai sfidato il cervello a
ragionare di amore. Non puoi e non devi farlo. La vita ha le sue
ragioni. Il cuore ne ha altre. In ogni caso ne uscirai ferito. Devi capire
che il cuore non può ragionare. Pompa e basta. Ma il cervello può
amare. Si tratta semplicemente di un’equazione. Sia chiaro, mica
un’equa azione, semplicemente una formula. Qualcosa tipo: “amore
uguale radice cubica di vita per illusione al quadrato”.
Elio sta perdendo il filo del discorso. Prova afferrarlo, scattando in
alto con la mano, ma trova solo l’aria. Il medico trattiene il braccio del
malato e lo ricolloca disteso lungo la barella, prima che la flebo esca di
vena.
‒ “Calmo, stai calmo, andrà tutto bene, se riesci a cogliere la
differenza. Il cervello prende le foto migliori, le moltiplica per i giorni
di vita e ti illude che tutto sarà perfetto. Il cuore invece vive l’attimo.
Tump. Una foto. Tump un’altra foto. Se lo fermi le foto si
sovrappongono e la vicenda vita… sentimento, amore, empatia…
scegli tu, si blocca. Si inceppa, come una fotocopiatrice. Infarta. Ora
noi siamo qui a togliere i fogli delle foto che il tuo cuore ha
247
spiegazzato. Purtroppo quelle foto non possiamo recuperarle, né
potrai farlo tu. E ogni volta ne sentirai la mancanza. Il cervello
ovviamente se ne frega ampiamente. Lui pretende ossigeno per
elaborare equazioni, il resto, comprese le emozioni, è solo
trasmissione wi-fi. Semplice cablaggio senza fili, o senza feeling (in
effetti).”
Il medico sospira, poi rincara.
‒ “E così eccoci qui a cercare di tirar fuori quei fogli che si sono
incastrati tra le pieghe del tuo cuore. Ci si può morire. O peggio ci si
può vivere senza aver più la possibilità di contemplare quello che ami.
Una vita, o quello che ne rimane, spesa a cercare ovunque le foto degli
attimi rimorsi dal meccanismo sentimentale. Bah, infarto del
miocardio: uno stupido guasto tecnico. Si può morire per un guasto
tecnico? No. Conviene prendere un cuore a leasing. Si soffre di meno.
Si vive meglio e se si rovina ne chiedi indietro uno nuovo. Il cervello
non rompe il cazzo ed il sesso non chiede documenti al cuore.”
Entrano in sala operatoria.
‒ “Ora però devi chiudere gli occhi. Dobbiamo fare un bypass a cuore
battente. Sai cos’è? L'intervento di by-pass a cuore battente, in breve, è
una procedura chirurgica eseguita sul tuo cuore mentre continua a
battere. Il tuo cuore non verrà fermato durante l'operazione e quindi
tu non dovrai essere collegato a una macchina cuore-polmone, poiché
il tuo cuore e i tuoi polmoni continueranno a funzionare
normalmente. Si tratta di un intervento off-pump. Ti piacciono gli
Aerosmith? Figo quell’album, eh? Un intervento, dicevo, che ci
consentirà di ripristinare il flusso ematico in direzione del cuore. Si
tratta di riossigenare il muscolo, o per usare la metafora di prima si
tratta di oliare il meccanismo per evitare inceppamenti. Ora dormi,
però.”
Elio ha ascoltato tutto. Ha capito quasi tutto. Poi ha sentito un tepore
come quando da bambino la mamma gli asciugava i capelli col phon.
Gli è venuta voglia di dormire. E infatti ha chiuso gli occhi. E adesso
dorme.
Il dottore con gli occhi azzurri (sulla targhetta del suo ufficio c’è
scritto “cardiochirurgo”) effettuerà un’incisione longitudinale sul
248
torace attraverso lo sterno, ovvero una sternotomia mediana. Grazie a
tale incisione, il chirurgo potrà accedere al cuore ed all’aorta. A valle
del restringimento suturerà un tratto di vena safena grande, poi
collegherà l’altra estremità a monte del restringimento o
dell’occlusione. In questo modo il sangue avrà a sua disposizione un
passaggio per aggirare l’ostacolo.
Il dottore afferra il bisturi. L’incisione cutanea inizia in
corrispondenza del giugulo e prosegue fino al processo xifoideo. Poi
seziona lo sterno lungo la linea mediana con l’aiuto di una sega
oscillante, i margini vengono divaricati. Eccolo: il cuore.
Ha una consistenza strana, il dottore con gli occhi azzurri lo tocca con
un dito, poi con due. Gli assistenti e gli altri medici dello staff sono
decisamente sorpresi. A turno toccano quel cuore, è liscio al tatto, non
ha nervature ed è leggerissimo. Il cardiochirurgo lo afferra, con
delicatezza, sembra incastrato nel petto, fatica ad uscire, ma alla fine
cede. Occhiazzurri lo tiene in mano, c’è solo una vena che lo tiene
ancora legato al petto del paziente. Una vena, molto lunga ed
arrotolata su se stessa, il dottore tira ed il vaso sanguigno si allunga,
srotolandosi. Il cuore appare rosso traslucido, ovoidale, teso, appena
molle e leggero. Il cardiochirurgo lo porta su stendendo il braccio,
quindi apre la mano che lo tiene con cura. Il cuore indugia un poco sul
palmo poi ‒ quando la mano si ritira ‒ rimane lì, sospeso in aria. Lo fa
per un tempo breve, poi inizia a sollevarsi, lievemente, oscillando.
Chiama la vena a sé, un centimetro, poi un metro e poi ancora,
cercando con insistenza una via di fuga. I dottori lo seguono con lo
sguardo. Entra l’anestesista (che era uscito), il cuore approfitta del
varco e fugge, tirando il guinzaglio a sé. Nella stanza vicina c’è una
finestra aperta, il cuore la individua, la raggiunge quasi, ad un metro
circa dal varco, la vena finisce di srotolarsi, strozzando la fuga. Tira
ancora, per un attimo, tump, poi un altro, tump, ed infine un terzo
attimo, tump. Al quarto attimo strappa. Il cuore di Elio infarta, vola
via e lib(e)randosi in cielo raggiunge prima i tetti delle case di fronte
all’ospedale, quindi le nuvole, fino a perdersi all’orizzonte tra le
pieghe che accolgono i pasticci grigiorosa di cielo. Altrove si
abbasserà, planando esausto sulle foglie di un melograno.
Un bimbo lo vede.
‒ “Mamma, un palloncino.”
249
‒ “Non è un palloncino, amore mio. È il cuore di un uomo che non ha
sopportato il dolore di una ragione di troppo. A volte succede. Si
gonfia di sospiri. I sospiri sono leggerissimi, ma troppi fanno lievitare
il cuore al punto che il petto sembra esplodere. Allora i dottori lo
liberano e quello vola via. Così un’anima vola, per la prima e l’ultima
volta, prima di morire, raggiungendo le nuvole più belle, salvo poi
tornar giù, sulla terra, dove si adagerà, a caso, abbandonato come il
sipario di un teatro che non fa più repliche.”
250
Recidivo
di
Michele Caponi
https://ilviziogiornaleletterario.wordpress.com
Appallottolata sul fondo della sua gabbietta, Priscilla dava inizio al
suo terzo giorno di quasi totale immobilità. Chi l’avesse vista per la
prima volta avrebbe probabilmente ipotizzato che si trattasse di una
palla da tennis, o di qualche altro giocattolo di quel luna-park in
miniatura. Niente affatto.
Fino alla settimana precedente, infatti, Priscilla era stata la cricetina
più vispa che Samuele avesse mai visto; per mesi aveva ammorbato le
sue nottate, zampettando fino ad ore improbe sulla piccola ruota
panoramica e squittendo senza sosta mentre correva su e giù per i
vorticosi tunnel di plastica.
251
Finché, nel giro di qualche giorno, cominciò a rallentare, a impigrirsi;
fino a fermarsi del tutto. Niente più corse folli, niente più notti in
bianco: tre giorni fa Priscilla si era rannicchiata accanto alla sua
ciotola, e lì stava ancora adesso.
Cioè, in realtà non proprio nello stesso punto. Samuele infatti,
preoccupatissimo, l’aveva spostata per portala dal veterinario il
giorno prima. Quindi adesso Priscilla si trovava un paio di centimetri
più a sinistra.
Resta il fatto che, ad eccezione degli interventi di Samuele, gli unici
spostamenti di Priscilla ormai erano quelli dei suoi occhietti verdi. Le
pupille, che continuavano a saltellare di qua e di là, erano la sola
prova che quella palla di pelo non fosse effettivamente una palla da
tennis.
Un tumore maligno allo stomaco, grosso sì e no quanto un pistacchio:
ecco cosa aveva diagnosticato il veterinario. E siccome una palla da
tennis con dentro un pistacchio che si fosse messa a correre su una
ruota sarebbe diventata una maracas, Priscilla se ne stava immobile.
Tatiana
Poco prima delle sei, la luce del mattino iniziò a filtrare nella stanza
dalla finestra senza tende. Gli occhi di Tatiana, stropicciati dal sole, si
aprirono poco dopo.
‒ «Cazzo Samu… tu e le tue stupide manie! Tira le tende!»
‒ «Aspe, sto dando la medicina a Priscilla. Ora le chiudo…»
La ragazza biascicò un insulto sonnolento e si riarrotolò nelle coperte.
Ma chi diavolo gliel’aveva fatto fare? Ci mancava anche questa
trovata delle tende! Di tutti i deficienti che poteva trovare…
‒ «Ecco, ecco. Buio pesto, contenta? Io metto su un tè, lo vuoi?»
Tatiana, senza rispondere, gettò energicamente una mano fuori dalle
coperte per arrivare ad afferrare il suo cellulare. Arrancando a tastoni
sul pavimento, scandagliò i vestiti abbandonati in disordine. Quando
finalmente lo trovò e lesse l’ora sullo schermo luminoso, benché non si
trattasse un gesto molto elegante, bestemmiò.
‒ «Ma che cazzo di ore sono? Che cazzo stai facendo, ma sei
rincoglionito? Che cazzo me ne faccio di un tè a quest’ora?»
252
Di nuovo, Tatiana si strinse nelle coperte. In realtà avrebbe voluto
alzarsi e andarsene subito, ma non sapeva dire se la facesse incazzare
di più la compagnia di quel cretino o l’idea di uscire dal letto dopo
neanche due ore che ci era entrata. Perciò, nell’attesa di decidere, ci
rimase dentro.
Merda. Come le era venuto in mente di venire a casa di Samuele? Va
bene farselo alla festa, visto quanto le moriva dietro, ma cazzo, a tutto
c’è un limite!
‒ «Ehi, ehi… non ti scaldare! Ho capito, ti faccio un caffè.»
Idiota. Eppure Tatiana avrebbe dovuto capirlo subito che Samuele era
uno fuori di testa, quando le aveva raccontato quella fesseria dell’aver
rinunciato per sempre al cellulare e a internet. Merda, se solo non
fosse stata così ubriaca…
‒ «Ah, comunque… volevo dirti…» ‒ annunciò a un tratto Samuele
dalla stanza accanto, interrompendo i pensieri di Tatiana ‒ «… che
stanotte… beh, mi è piaciuto tantissimo!»
Già, lo avevano anche fatto. Ma com’è che Tatiana gliel’aveva data
subito, a ‘sto sfigato? No, dai, non era ubriaca fino a questo punto!
Ah no, ecco perché! La risposta balenò d’un tratto nella testa della
ragazza: una stupida ripicca per la storia di Alessia. Cazzo, quando
l’aveva vista alla festa insieme a Daniele, tutti mielosi, proprio una
coppietta… le avevano quasi fatto venire voglia di non salutarli
nemmeno! E poi, Dio santo, quando aveva saputo che avevano deciso
di tenersi il bambino…
‒ «…e a te? Ti è piaciuto?» ‒ insisteva intanto la voce di Samuele.
Di colpo Tatiana si sentì uno schifo.
Ebbe voglia di piangere. Cosa ci faceva in casa di questo scemo? A
cos’era servito sedurlo davanti ad Alessia, e farsi vedere da tutti
mentre si faceva portare a casa? Come se avesse avuto da dimostrare
che, strafiga com’era, poteva avere tutti i ragazzi che le pareva; grazie
al cazzo, questo era ovvio! Il problema è che quella cicciona sfigata si
era presa l’unico che le piaceva.
‒ «Poi volevo chiederti… ma… tu sei venuta due volte?»
Bestemmiare di nuovo non sarebbe stato affatto femminile da parte di
Tatiana, perciò evitò di farlo. Quanto a quello che invece decise di
fare, beh, non so quanto fosse femminile. Quello che so è che
l’orgasmo l’aveva finto anche stavolta. E che, quando più tardi salutò
253
Samuele, dicendo che gli avrebbe telefonato, si ricordava benissimo
che Samuele il telefono non lo aveva più.
Bruno
‒ «Bella Samu! Figa, che ci fai già qui?»
‒ «Bella Bruno, com’è? Ahah, super-strano, vero? Da quando non ho
più neanche la sveglia, oh, non ci crederai, ma sono sempre in orario»
‒ «Seee, figurati! E a me chi mi ci tira giù dal letto senza sveglia?»
‒ «No, fidati. Basta lasciare le tende aperte. Ti sveglia il sole. Stranaturale, stra-rilassante.»
‒ «No, che, ma tu sei fuori… il sole! Ma scusa… e quando piove?»
‒ «Be’, cazzo mene? Tanto quando piove chi ce l’ha lo sbatti di
uscire?»
‒ «Ah, vero che adesso hai ripreso l’uni, quindi non c’hai mai un
cazzo da fare…»
‒ «Eh già, bella vita! Dai, ordiniamo che ho fame»
‒ «Solito panozzo?»
‒ «No, io vado di insalata. Te l’ho detto che voglio diventare
vegetariano?»
‒ «Pure! Samu, cioè, hai solo smesso di usare facebook, mica sei
diventato buddista!»
‒ «Cazzo vuol dire? Per me è una cosa super-importante. Mi fa sentire
stra-meglio»
‒ «Ecco! E pure ‘sti tuoi super-questo e stra-quello! Figa, sembri la mia
tipa… voglio dire, parli come una ragazza»
‒ «E smettila coglione. Piuttosto, come va con lei? Sempre a scazzare?»
‒ «Oh, aspe’! Cioè, ti rendi conto che è la prima volta che me lo chiedi?
Di solito stavi sempre attaccato al telefono… nemmeno ero sicuro che
mi ascoltassi certe volte. Oh, non è che sei diventato frocio davvero?»
‒ «Ah ah, fottiti! E invece sai che ti dico? Ti ricordi ieri alla festa, con
Tatiana?»
‒ «Sì, che l’hai riaccompagnata a casa. Ma fidati, Samu, quella è una
stronza, lo fa solo per fartelo tirare.»
‒ «E invece indovina un po’: l’ho portata a casa, sì… ma casa mia,
mica sua!»
‒ «Cosa? Cioè, cazzo dici?»
254
‒ «Secondo te?»
‒ «No! Non ci credo… avete bombato?»
‒ «Due volte!»
‒ «Porco… cioè, ti sei schiacciato la Tatiana?»
‒ «Due volte»
‒ «Dio… sei un mito. Ma… e lei?»
‒ «Dice che è stata stra-bene. Ma ci credo, tu non sai… voglio dire, l’ho
fatta venire…»
‒ «Due volte?»
‒ «Due volte.»
‒ «Figa… e come siete rimasti?»
‒ «Ha detto mi telefona.»
‒ «Ma… Samu…»
‒ «Che?»
‒ «Samu… ma tu non ce l’hai più il telefono!»
Samuele
Uscito dal Bar Zelletta, Samuele era molto irrequieto. Bruno aveva
ragione: come avrebbe fatto Tatiana a chiamarlo se lui non aveva il
telefono? Ah, fermi tutti, dov’è il problema? Poteva benissimo usare
faceb… ah, no. Samuele non aveva più nemmeno internet.
Beh, comunque lei ormai sapeva dove abitava lui: avrebbe potuto
venire direttamente a casa sua, no? No, macché! Una ragazza per bene
non piomba così dal nulla a casa di qualcuno senza un invito
specifico… e poi anche nel caso, metti che lui fosse stato fuori!? Voglio
dire, mica poteva tombarsi in casa per mesi nel dubbio che lei
arrivasse da un momento all’altro.
Samuele, appoggiato alla pensilina del tram, tamburellava
nervosamente con le dita sulla propria coscia. Mentre lo faceva, senza
pensarci, infilò la mano in tasca, come a tirarne fuori qualcosa; e
trovandola vuota, gli venne spontaneo tastarsi anche la tasca della
giacchetta. Solo dopo qualche secondo si rese conto che, da quando
non ci teneva più il cellulare, era sempre vuota.
Che stupido, si disse mentre saliva veloce sul tram. Certo però che
stavolta gli sarebbe piaciuto trovarcelo, il cellulare. Anche se da
quando la tasca era vuota lui stava davvero meglio. Era un’altra
255
persona, anche Bruno se n’era accorto. Come no, era frocio! Ah ah, che
coglione che era Bruno!
Col cavolo, pensò, e oltre che a tamburellare si mise anche a
mordicchiarsi le labbra. Dio, Tatiana… e se stesse già cercando di
chiamarlo? O magari lo ha contattato su facebook. Un internet point…
giusto cinque minuti, per dare un’occhiata.
No, un momento: e rimangiarsi così tutti i propositi degli ultimi mesi,
tutti i cambiamenti? Mai. Non si torna indietro: senza internet, senza
cellulare, la vita è migliore. Non avrebbe senso tornare indietro. Per
cosa poi? Per una f…
Le dita tamburellavano sempre più veloci. Samuele si morse forte il
labbro. Il tram si fermò, e lo sportello si aprì proprio davanti a un
internet point.
Giusto cinque minuti… per dare un’occhiata: in fondo non era ancora
ora di pranzo.
Maracas
La medicina, aveva detto il veterinario, Priscilla doveva prenderla
dopo colazione, dopo pranzo e anche dopo cena. Dopo pranzo, però,
Samuele non era tornato.
Verso l’ora di merenda gli occhietti verdi di Priscilla cominciarono a
scuotersi in su e in giù. Entro l’ora dell’aperitivo si sentì un tac e
l’occhietto destro sì fermò di colpo.
Quando poi Samuele tornò, per l’ora di cena, anche il sinistro si era
fermato.
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In parole povere
di
Fabrizio Romano
https://www.facebook.com/fattenamanicadecazzitua
«Se c’è una cosa che non riesco a capire e a giustificare è questa
smania forzata di conoscenza, di andare oltre, che abbiamo noi esseri
umani» ‒ disse Danilo Merenda, mentre teneva banco in attesa del suo
turno dal barbiere.
«Quello che ci hanno insegnato a scuola andava bene per vivere, alla
grande. È vero o no?»
257
«Verissimo» ‒ si affrettò a rispondere Giulio Maldi, annuendo così
vigorosamente con il capo mentre il barbiere gli stava rifinendo una
basetta da procurarsi un taglio all’orecchio.
«Non c’è problema» ‒ disse Giulio Maldi. Era titolare di un negozio di
formaggi nel centro città, e si preoccupava di non dare mai torto a
nessuno per paura di perdere potenziali clienti.
Danilo Merenda continuò.
«Avete letto l’ultimo libro di Giorgio Grungo?»
Nel negozio si levò un coro di “No!”. Giorgio Grungo era uno scrittore
che vendeva più o meno trenta copie di ogni libro che si autoproduceva e stampava, ma secondo Danilo Merenda era un genio
assoluto degno del nobel per la letteratura.
«Ma lo conoscete, spero!»
Tutti tacquero imbarazzati, ognuno riflettendo sulle proprie lacune in
campo letterario. Solo Giulio Maldi, che pure non aveva mai sentito
nominare lo scrittore, non perse occasione di dire ‒ «Certamente!» ‒
per dare un po’ di soddisfazione al Merenda. Così facendo annuì di
nuovo in modo esagerato, facendosi rasare a zero una parte dei capelli
dal barbiere, che in quel momento gli stava aggiustando il retro del
collo.
«Ma stia un po’ fermo!» ‒ esclamò quest’ultimo.
«Oh, mi scusi»
«Adesso cosa facciamo?» ‒ chiese il barbiere ‒ «Credo resti solo il
taglio da Moicano, per aggiustare questa situazione»
«Ottimo, facciamolo» ‒ disse Giulio Maldi, felice che la discussione si
fosse spostata sui suoi capelli, evitandogli così domande imbarazzanti
sulla bibliografia di Giorgio Grungo.
Non aveva idea di cosa fosse il taglio da Moicano.
«Ad ogni modo» ‒ proseguì Danilo Merenda ‒ «il libro parla di un
paese in cui gli abitanti fanno tutti o il contadino o l’allevatore. Sono
tutti felici per millenni, scambiandosi gli ortaggi con le carni e i
formaggi, tutti sono ben nutriti e hanno figli che crescono sani e
robusti. Finché un giorno un ragazzo decide che vuole fare
l’imbianchino, perché le case sono tutte di legno scuro e lui vuole
renderle più colorate. Va in città e compera la pittura bianca. Il primo
lavoro gli viene commissionato da un allevatore che ha la casa
esattamente in mezzo al paese, e lui la dipinge tutta di bianco,
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compreso il tetto. Sfortuna vuole che dopo un giorno passi di lì un
caccia alieno di addestramento il cui pilota scambia il paese scuro con
la casa bianca in mezzo per uno dei bersagli su cui si doveva allenare
e gli spara contro una bomba nucleare. Addio paese!»
Danilo Merenda si fermò, guardò tutti negli occhi uno per uno, e
chiese ‒ «Bene signori, qual è la morale?»
Un signore grasso disse ‒ «Io ho sentito dire che ci sono delle cliniche
dove fanno lo sbiancamento anale. Ci sono vicino? Ho indovinato?»
Lasciamo stare temporaneamente questi signori e cerchiamo di capire
cosa stava succedendo: riporterò parte di un discorso fatto con
Andrea Forni, del comitato nazionale anti-traduzione (CNAT). Si
lamentava dell’hybris umana, con i suoi toni paventava la fine del
mondo ormai prossima. Il problema era che alcuni ricercatori
dell’Università di Pavia pareva avessero inventato una macchinetta
che, applicata sul collare di un cane, lo rendeva in grado di conversare
con gli uomini, traducendo il suo abbaiare in parole e rendendo a lui
comprensibile il linguaggio umano. Il lancio sul mercato era previsto
per il lunedì successivo. Naturalmente questa notizia aveva scatenato
ogni genere di reazione in tutto il mondo. Per esempio c’era chi si
domandava se, acquisita la parola, i cani dovessero anche avere diritto
al voto, o a essere candidati alle elezioni. In certi ambienti di destra
correva voce che i comunisti volessero far parlare i cani per
accaparrarsi così le loro preferenze elettorali.
Andrea Forni diceva ‒ «Siamo andati troppo in là. Ma le leggete le
notizie? C’è quel pazzo che vuole creare addirittura Tele Cane, un
canale digitale con trasmissioni condotte da cani e con in sala pubblico
a quattro zampe. Poi diamogli anche le armi, già che ci siamo. È tutta
colpa degli americani, date retta a me».
Se qualcuno gli faceva notare che la scoperta era tutta di marca
italiana si irritava, replicava ‒ «Sì, e gli asini volano».
Il sindaco di Pavia, l’avvocato Maltagliati, gongolava. Aveva pagato
un’agenzia giapponese per organizzare l’evento di presentazione
ufficiale, stavano trasformando piazza della Vittoria in un enorme
giardino zen con terra e alberi portati direttamente dalle campagne di
Hokkaido. Per raccogliere i fondi il sindaco aveva aumentato del
trecento per cento gli ausiliari del traffico, che ora giravano in branchi
di quindici o venti, appioppando multe come se non ci fosse un
259
domani. Aveva ricevuto offerte dalle maggiori televisioni del globo
per trasmettere l’evento in mondovisione, ma aveva deciso di dare
l’esclusiva a Rete Pavia Sud, un’emittente locale di sua proprietà.
Ogni città era tappezzata di pubblicità: “Vocal-dog, e il cane sarà
davvero il migliore amico dell’uomo”, recitava lo slogan. Vocal-dog
era il nome del portentoso aggeggio. Se il fatto che fosse il sindaco a
decidere su questi argomenti vi sembra che non abbia senso, ricordate
che state leggendo un racconto su una macchina che fa parlare i cani, e
che comunque decido io quindi faccio come mi pare.
L’assistente del sindaco, la signora De Luca, si trovava in una
situazione assai scomoda. Non solo doveva tenere le fila del
coordinamento di tutta la manifestazione, ma aveva una situazione
spinosa da affrontare in famiglia. Tutto aveva avuto origine un paio
d’anni prima, quando era inciampata sulle scale, un giorno, tornando
a casa con molte borse cariche di acquisti. Nel tentativo di salvare la
spesa era finita con la faccia contro la maniglia di una porta e le erano
saltati due denti. Il dentista le aveva detto che sarebbero stati necessari
due impianti. L’impianto è una vite in titanio che serve a sorreggere
una capsula, che non è altro che un dente finto. Una soluzione di
grande affidabilità, ma dal costo spropositato. La signora De Luca
aveva pensato bene di cercare di ridurre i costi dell’operazione
concedendo le sue grazie al dentista, che era uno scapolo incallito noto
per essere un mezzo maniaco sessuale. Per una curiosa coincidenza il
dentista era il signore grasso che dal barbiere parlava con Danilo
Merenda di libri e sbiancamenti anali. La signora De Luca aveva
approfittato del fatto che il marito fosse spesso via di casa per lavoro,
per intere settimane, e aveva quindi copulato allegramente con il
dentista in salotto davanti a Tobia, il Beagle del signor De Luca. Il
fatto che il nome di questa razza di cani in italiano si pronunci bigol
non deve farvi pensare a stupidi doppi sensi, se succede sappiate che
non approvo. La signora De Luca aveva ricevuto uno sconto
eccezionale, e ancor peggio l’esperienza le era piaciuta parecchio, per
cui Tobia si era visto entrare in casa, nei mesi successivi, avvocati,
idraulici, elettricisti, giardinieri, commessi viaggiatori, pittori,
imbianchini, estetiste e persino Giulio Maldi. Questi si era anche
affezionato a Tobia e gli portava sempre un bel pezzettone di
gorgonzola per distrarlo mentre lui copulava con la signora. Bisogna
260
ammettere che il sistema era piuttosto efficace. Altri “visitatori” erano
stati meno furbi e fortunati: un imbianchino era stato anche morso a
una chiappa e aveva dovuto essere medicato.
Ne aveva da raccontare il piccolo Tobia!
Nei giorni precedenti la grande cerimonia la signora De Luca, che di
nome faceva Alessia, era preoccupatissima e intenta a studiare un
sistema per salvare il suo matrimonio.
Di uccidere Tobia per metterlo per sempre a tacere, non se ne parlava
nemmeno. Alessia non era certo un’assassina. Aveva pensato di
abbandonarlo sull’autostrada, ma non le era parsa una grande idea.
Tanto più che con l’avvento del maledetto Vocal-dog il buon Tobia
avrebbe potuto chiedere informazioni per tornare a casa e forse anche
denunciarla per abbandono. Si trovava in una situazione disperata.
Mercoledì sera fu invitata a cena da un’ex collega, Alda. Si trattava di
una cena tra donne, tutte ex colleghe che avevano lavorato in un
ufficio di una fabbrica di maglieria. Alessia si era presentata in
anticipo perché il signor De Luca come al solito era via per lavoro, e
lei non riusciva a stare in casa un minuto di più: continuava a girare a
vuoto tra una stanza e l’altra senza fare niente, continuava a pensare a
come avrebbe potuto risolvere la situazione. E mancavano solo cinque
giorni alla presentazione in mondovisione del Vocal-dog!
Alda era zitella, non usciva molto spesso, anzi quasi mai. Trascorreva
le serate davanti al televisore, lavorando a maglia. A tavola iniziò a
lamentarsi delle ultime edizioni del festival di Sanremo.
«Non mi piace più, ci sono troppi ospiti stranieri» ‒ disse.
Gianna, una biondina secca secca disse ‒ «A me piaceva quando lo
presentava Pippo Baudo»
Alessia chiese ‒ «Chi ha vinto quest’anno?»
Gianna disse ‒ «Marconi. È tanto un bel ragazzo!»
«Io preferivo Al Bano» ‒ disse Matilde, una donnona di origini
pugliesi.
Alessia disse ‒ «Io mi sono stufata di guardare la televisione,
comunque. Fanno sempre vedere quei film dove c’è troppa violenza.
Preferisco leggere un bel libro»
Alda disse ‒ «Io ne ho appena finito uno molto bello. È di Giorgio
Grungo. Lo conoscete?»
Ovviamente nessuna di loro lo conosceva.
261
«È un saggio, un manuale con tanti cenni storici, molto interessante» ‒
continuò ‒ «parla della memoria. Suggerisce anche alcuni sistemi su
come cancellare eventi dalla memoria. Per esempio, se volete
cancellare il ricordo di una brutta figura dovete preparare una
bevanda con degli ingredienti che adesso non mi ricordo più e
insieme va tritato un pezzettino di stoffa, preso da un indumento
della persona con cui avete fatto la figuraccia. Ma lo sapevate che
Napoleone non si ricordava mai il nome del suo cavallo? Doveva
sempre chiederlo a uno dei suoi generali»
«Pazzesco» ‒ disse Gianna.
«Insomma, io ho provato a dimenticare una cosa, facendo una di
queste bevande» ‒ proseguì Alda.
«Cosa volevi dimenticare?» ‒ chiese Matilde.
«Non lo so, non mi ricordo» ‒ rispose Alda.
«Ma allora funziona! Me lo presti?» ‒ esclamò Alessia, esaltatissima,
mentre già si vedeva impegnata a preparare beveroni per il cane
Tobia.
In realtà il ricordo di Alda era stato cancellato dall’arteriosclerosi.
Nessuna delle ricette di quel libro funzionava, infatti Giorgio Grungo
le aveva inventate a casaccio. Aveva un paio di mesi di arretrato
dell’affitto da pagare, quindi nel tentativo di vendere qualcosa in più
del solito aveva temporaneamente abbandonato i romanzi per scrivere
quell’improbabile manuale, farcito di notizie inventate sul momento
senza nessun riferimento e senza nessuna fonte. Vi erano citati esempi
di persone famose che avevano avuto problemi di memoria, ma erano
tutti morti e sepolti da secoli quindi nessuno si sarebbe lamentato se
non era vero. Le basi teoriche erano descritte come non meglio
specificati “studi delle università americane”, insomma il libro era il
risultato di un delirio dell’autore scritto per di più al freddo perché gli
avevano staccato il gas e sotto l’effetto dell’alcol bevuto per scaldarsi,
a forza di bicchieri di vodka da discount.
Il giorno della presentazione ufficiale del Vocal-dog, piazza della
Vittoria era invasa da persone provenienti da ogni parte del mondo. Il
sindaco Maltagliati, in piedi su un palco costruito a forma di pagoda
dalla ditta giapponese apposta per l’occasione, dispensava sorrisi
come se l’apparecchio l’avesse inventato lui, offrendo il profilo
migliore ai giornalisti e ai fotografi e facendosi ritrarre abbracciato al
262
capo dello stato, giunto da Roma per l’occasione. Molti erano accorsi
con i loro cani, sperando di essere sorteggiati tra i fortunati che
avrebbero potuto provare il Vocal-dog quello stesso giorno. Tutti
avevano lasciato i loro dati a una serie di impiegate posizionate in un
chiosco vicino a un ruscello, entrambi realizzati per l’occasione dalla
ditta giapponese. Le impiegate avevano inserito i dati in un computer,
e presto sarebbe stato il momento dell’estrazione. Giulio Maldi era
riuscito a trovare un posto in seconda fila. Seduto con in braccio il suo
Puki, un bassotto vecchissimo, sperava di sentirlo parlare almeno una
volta e voleva chiedergli qual era il suo formaggio preferito. Per
l’emozione si era anche dimenticato a casa il cappello, dal quale non si
separava mai dopo avere scoperto sulla propria testa cosa fosse il
taglio da Moicano.
Il sindaco iniziò il suo discorso dicendo ‒ «Oggi è un grande giorno
per l’umanità e per la caninità», quindi mi sento di risparmiarvi il
resto dell’orazione senza problemi, arrivando direttamente a quando
lesse i nomi dei sorteggiati da uno schermo gigante.
«Il primo estratto è Marco Pisani, di Ferrara, con il suo cane Zimba.»
Ci fu un grande applauso, Marco Pisani salì sul palco con il cane
Zimba.
La seconda estratta è Amelie Lefebvre, di Bordeaux, con il cane Ziggy.
Anche loro salirono sul palco, seguiti da Luigi Gargiulo con il cane
Igor e da Manuela Sacchi con il cane Pink Floyd. Mancava solo
l’ultimo estratto. Giulio Maldi incrociò le dita, ma non fu fortunato.
Venne sorteggiato Piermario De Luca, con il cane Tobia. Alessia, che
non si era nemmeno accorta che suo marito avesse portato il cane alla
manifestazione, ebbe un tuffo al cuore. Se il beverone realizzato
secondo le istruzioni del libro di Giorgio Grungo non aveva
funzionato, era una donna morta. Il momento di scoprirlo era arrivato
più in fretta del previsto. Quando tutti i cinque sorteggiati furono sul
palco con i loro amici a quattro zampe, alcuni addetti iniziarono a
montare i Vocal-dog, applicandoli ai collari.
Poi il sindaco iniziò a parlare con i cani. «Avvicinatevi, cari amici
cani», disse. I cani si avvicinarono. La gente in piazza diceva «oooh»,
con meraviglia e stupore. Fu Zimba a parlare per primo. Disse «Bau.
Senti sindaco, prima che riprendi a dire altre cazzate, io parlo credo a
nome di tutti noi. Sei un coglione, tu e tutti voi in piazza. Noi non
263
abbiamo voglia di capire quello che dite. Quindi toglieteci queste
cazzo di macchinette dal collo. Che oltretutto mi sta venendo un mal
di testa assurdo da quando me l’avete messa. Voi non avete mal di
testa?» ‒ chiese agli altri cani. «Dio uomo» ‒ disse Igor ‒ «di brutto!»
Tobia disse ‒ «Sì anch’io. Però prima di togliere la macchinetta volevo
dire che la moglie del mio padrone è una troia e se la fa con tutti
anche con quel tizio lì in seconda fila con i capelli assurdi che però
ringrazio per il gorgonzola. Porca miseria fa troppo male la testa».
Dopodiché tutte le teste dei cinque cani scoppiarono all’unisono
distribuendo materia grigia e ossa e denti e sangue e occhi addosso a
tutti i presenti.
Era stato un difetto di fabbricazione, un modello difettoso, un
incidente. Non sarebbe mai più accaduto, assicurarono i ricercatori.
Tuttavia, i soldi per completare il progetto con un modello nuovo non
vennero mai stanziati e il Vocal-dog venne abbandonato. Alessia De
Luca divorziò dal marito e iniziò a recitare in film pornografici. Sì,
anche con i cani, lo so che qualcuno se lo stava chiedendo. Il sindaco
Maltagliati perse un occhio perché un dente di Pink Floyd gli si fiondò
nella cornea come un missile. Giorgio Grungo, che era presente anche
se non aveva un cane, scrisse un romanzo sugli eventi di quel giorno.
Vendette quarantaquattro copie, il suo record. Giulio Maldi, ancora
oggi, si domanda se il suo bassotto preferisca il gorgonzola o il
provolone o chissà, forse la mozzarella.
Il panerone?
Il primo sale?
Il taleggio, sì, può essere.
Però mangia volentieri anche lo sbrinz.
E il pecorino.
264
Vita, dolcezza e speranza nostra
di
Antonio Sofia
http://antoniosofia.info/
– Se non la smetti di lasciare le mutande nel pigiama un giorno o
l’altro te le faccio trovare nel piatto.
– Oh, sì, ho capito. Cazzo è tardi…
– Che fai, vai tu al supermercato dopo?
– Dopo? Dopo quando? Oggi ho una riunione alle cinque.
– C’è da comprare il pane, manca il detersivo per i piatti e non
prendere quello che puzza d’aceto.
– Era in offerta.
265
– Non prenderlo, li lavo io i piatti.
– Abbiamo una lavastoviglie, forse sarebbe ora di usarla.
– Per due piatti la sera a cena? Per favore. Poi non so neanche se
funziona, questa casa è bella ma ogni giorno ne scopro una.
– Arrivo in ufficio in dieci minuti, non ci sputerei sopra. Dammi un
bacio.
– Muoviti che fai tardi. Ricordati di spedire il contratto del gas e della
corrente. Per favore.
– Dammi un bacio. Cerco di ricordarmi.
– E il pane e…
– Ciao.
*
– Gliel’hai detto?
– Non gliel’ho ancora detto.
– Quindi che fai? Esci lo stesso per andare al lavoro?
– Sì. Non so che altro fare, non riesco a dirglielo. Abbiamo ancora soldi per
un po’. Licenziato dopo aver cambiato casa per avvicinarmi all’ufficio,
assurdo.
– Sto mondo è sbagliato.
– Ah, ho smesso di pensarla così. Tu piuttosto, sai che non sono dell’umore.
Smettila di toccarmi la testa.
– Va bene. Ma se non è sbagliato sto mondo allora sei tu a sbagliare qualcosa.
– Sono un perdente. Anche grazie a te.
– Dici che sono le mie carezze a indebolirti?
– Forse.
– Sei così da quando eri bambino. Dici queste cose ma non le pensi.
– Ne sei sicura?
– Sì.
*
La sala d’attesa della stazione di Firenze è verde di luce fioca e muffa.
Da qualche mese devo sorvegliare e rispondere ai primi quesiti della
clientela. Prima mi occupavo di altre cose: mi piace il servizio sui
treni, ma ho avuto un infarto e, secondo il dottore, devo evitare lo
stress. Così passo le giornate raccattando giornali e buste vuote della
266
ristorazione, controllo ogni tanto che chi entra abbia un biglietto. E
sono ingrassato, non è una buona cosa. Non mi piace guardare la
gente. Per niente. Certo se si tratta di una bella turista spagnola, allora
non mi faccio pregare. Ma in generale le persone non mi interessano,
almeno finché non devo necessariamente notarle. Questo tizio per
esempio: viene qua ogni giorno, da due settimane. Dopo i primi
cinque giorni gli ho chiesto di mostrarmi il biglietto ed effettivamente
ha un ticket per il regionale: ma non parte, almeno non nelle ore in cui
io presto servizio. Non è un barbone, non puzza, non beve, non chiede
soldi in giro. Sta seduto, cambia posto ogni tanto, non legge, non parla
al telefono, capita che si alzi ed esca, e mi dico: – Via, è andato e non
torna più. Invece passano venti minuti e rientra, mi saluta, con un
cenno, discreto, quando entra.
*
– Oh.
– Che è.
– Sembri stanco.
– Lo sono. Solite rotture di cazzo.
– Mi dispiace. Prima o poi ti dovranno promuovere col culo che ti fai.
– Sì, come no.
– Non essere pessimista, sono sicura che sanno quanto vali.
– Sarà.
– Senti, pensavo che dovremmo fare un figlio.
– Eh?
– Ehi, mica ti ho detto che dovremmo farlo a tre col vicino!
– No…
– Ma forse dovremmo almeno parlarne.
– Forse no.
– E’ perché sono così?
– Le tue gambe non c’entrano.
– C’entrano sempre le mie gambe, lascia perdere.
– Ti prego non parlare in questo modo, non ho la testa di sentirti.
Solo… No.
– Tu con me non puoi parlare così… Dove vai?
– Esco, vado a fare un giro.
267
*
– Un figlio. Un figlio ti rendi conto?
– Ah, bell’idea.
– Pazza.
– Io, lei?
– Pazza lei, tu… Porca troia come faccio a trovare un po’ di pace se non mi
lasci mai solo.
– Cosa?
– Va bene. Errore mio. Che devo fare? Sono stanco.
– Dille che l’ami.
– No, devo dirle che ho perso il lavoro.
– Dille che l’ami.
– Hai ragione, le dico che l’amo e che per questo non voglio fare un figlio con
lei. Magari le preciso che è per colpa della carrozzella.
– No, le dici che l’ami e che vuoi fare un figlio con lei.
– Ma non… Non ora, come cazzo faccio. Tu, tu che ne sai.
– Dille che l’ami e che vuoi fare un figlio con lei. Poi la sollevi, la porti sul
letto, la spogli delicatamente, la baci, le stringi i fianchi, fai un figlio con lei.
– Ah, ah, ah… Di’ un po’. Non è che per caso ti piace guardare?
– Sono cose belle.
– Lo sapevo, lo sapevo!!!
– Non hai capito, sciocco.
– No, sei tu a non capire. Tu un figlio te lo sei ritrovato o sbaglio? E niente
meno era il figlio di Dio.
*
L’odore del caffè che servo non è invitante, ma serviamo centinaia di
tazzine ogni giorno. La stazione è un gran cesso. Penso che da tempo
le macchine lascino in ogni tazzina un cenno di disprezzo per chi va e
per chi viene. E non importa che siano caffè lunghi o corti, o che
qualcuno aggiunga il latte o esageri con lo zucchero, sembra che la
macchina ci sputi dentro. Comunque la gente se ne frega. Se ne
accorge, arriccia gli occhi per il disgusto e va a visitare Firenze,
oppure parte maledicendola per qualche ragione. Le persone si
lamentano di tutto ma non si accorgono di bere piscio. C’è un minimo
268
numero di clienti che né partono né arrivano: sono quelli che abitano
qui raccattando elemosine, perdendo tempo o lavorando in qualche
ufficio delle ferrovie. Questo tizio qui, per esempio: è un mese che
viene tutti i giorni, prende un caffè normale e lo carica di due bustine
di zucchero. Una volta gli sorriso, so bene che fa schifo il nostro caffè.
E lui ha ricambiato. Non credo di piacergli, però vorrei conoscerlo: in
fin dei conti sembra distinto, non so perché abiti qui alla stazione,
perché non parta mai. Ha la fede, questo è certo, è sposato. Starò
buona, non voglio ricascarci.
*
– Mi fa male la schiena.
– Vuoi che chiami il dottore?
– No, è normale. A stare sempre seduta capita che un nervo si
infiammi, non posso farci nulla.
– Prendi un antidolorifico se è insopportabile.
– Sì, se continua così… Vediamo qualcosa?
– Un film?
– No, poi mi addormento.
– Tanto ti addormenti comunque.
– Lo so ma non importa. Un film non mi va. Hai scaricato niente?
– Sì, ma devi dirmi precisamente che vuoi vedere, ho cinquecento giga
di roba.
– Non rispondermi male. Decidi tu.
– Allora vorrei vedere un film.
– Tranne un film.
– E allora decidi tu, cazzo.
– Non ti arrabbiare! Va bene guardiamo un film allora.
– No, non mi va adesso. Dimmi che devo mettere.
– Ti ho detto decidi tu…
– Senti, domani devo alzarmi presto, vediamo se c’è qualche
trasmissione idiota.
– Va bene, come vuoi.
*
269
– Dorme?
– Sì, dorme, l’ho portata ora a letto.
– Sei nervoso.
– Non posso mai fare quello che voglio.
– No, non puoi.
– Tu sì invece. O devo pensare che una dea non abbia niente di meglio da fare
che stare qui, con me?
– Non sono una dea, lo sai. Non bestemmiare.
– Ah, permalosa. Ma sei o non sei la madre di Dio?
– Sì, ma…
– Lo so, so tutto. So la tua storia. Però per me dovresti essere una dea. Non
sei manco morta.
– Sì. Ma non sono una dea.
– E’ un problema di parole. Cosa sei?
– Lascia stare, vuoi solo litigare.
– Può essere. Dovresti lasciarmi solo, ho intenzione di farmi una sega stasera.
– Ti piace?
– Mi piace? Farmi una sega? Che ne so, almeno quella è roba mia. Decido io
se finire subito o dopo un’ora… Tutto qui, nelle mie mani.
– Con chi ti immagini?
– Un’orgia. Stasera sarà una successione di orge sullo schermo. Vuoi proprio
restare?
– Se volessi farlo?
– Penso che non sarebbe la stessa cosa, penso che non avrebbe senso toccarmi
l’uccello allora, penso che non ne posso più. Manco una sega in pace posso
farmi?
– Vado, ti lascio solo. Ma sta’ calmo.
– Brava, vai, e sarò calmissimo.
*
Mi sono chiesto se quella testa di cazzo ha qualcosa da vendere qui in
stazione. Secondo me spaccia roba alle fighette straniere. Lo tengo
sott’occhio, è il mio territorio, se prova a fottermi lo fotto. Lo faccio
piangere, quel bastardo. Da quanto bazzica qua intorno? E’ più di un
mese. Entra in sala d’attesa e sta fermo là per non so quanto. Non
penso venda lì dentro, è il modo migliore per esser ripresi dalle
videocamere. L’ho seguito quando lascia la sala: prende un caffè e poi
270
cammina lungo i binari. Si ferma e aspetta la partenza di un treno
qualsiasi. L’ho visto aiutare una vecchia una volta, per un attimo ho
pensato che anche lui si levasse dai coglioni. Ma niente. Ha aspettato
la partenza del treno ed è tornato indietro. Forse è un pazzo, un
rincoglionito, ce n’è da queste parti di gente che si piscia addosso, che
non si lava mai, gente a cui non venderei mai una dose, sono già
morti. Eppure qualcosa non mi convince. Lo sento. Quello stronzo in
qualche modo me lo sta mettendo in culo, lo so. Devo solo capire
come. E poi lo faccio piangere, giuro.
*
– Ha chiamato il padrone di casa.
– Che vuole?
– Dice che siamo in ritardo, com’è possibile? Ti sei dimenticato di
pagare sto mese?
– Sì, è tutto a posto, l’ho già sentito. Troppi casini in ufficio.
– Ah, va bene. E hanno chiamato quelli del gas per il contratto. Sono
passate settimane, dovrebbe essere arrivato.
– Lo ristampo e glielo rimando. Si sarà persa la lettera.
– Fa freddo eh.
– Sì, accendi il riscaldamento.
– Acceso. Ci mette un po’ a scaldare questa casa. Ti manca mai l’altra?
– No, è solo questione di abitudine. Dovremmo uscire, ti va?
– Fa freddo!!
– Sì ma ci possiamo coprire. Andiamo a prendere una cosa calda.
– Lo sai che faccio fatica, anche un pezzo di torta se no non mi muovo.
– Va bene.
– Tutto ok?
– E certo. Ho solo un mal di testa atroce, devo trovare il vecchio
berretto di lana.
– La mattina quando esci c’è un gelo, lo vedo… Ci sono tutti i vetri
appannati.
*
– Va meglio oggi?
271
– Ah, meglio! Meglio sì… Va tutto bene.
– Perché non provi a trovare una soluzione?
– Dimmi, da lassù come ti sembrava questo mondo? Sbagliato no? E io devo
metterlo a posto?
– Devi sistemare le tue cose.
– Devo. Dici. Tu, che non sei una dea ma non sei neanche morta, potresti
spiegarmi come farlo?
– Ce l’hai con me, lo sento.
– Bene. Niente risposte allora?
– Prova a chiedere aiuto. A tua moglie, per esempio. Che non sa nulla ma
presto saprà tutto.
– Io non posso far nulla, mia moglie può fare ancor meno. Non hai gli occhi?
Quella poveraccia non cammina. Anni ci ho messo per avere quella posizione,
anni a fare un lavoro di merda, che mi faceva schifo! Ma almeno pagavano, e
allora zitto. Poi, un giorno, mi trovo chiuso dentro un armadio. Qualcuno mi
spinge, mi trascina via. Faccio fatica a restare in piedi mentre mi spostano.
Niente da aggiungere, fine della storia, sono nell’armadio e non so dove mi
stanno portando.
– Non puoi chiedere che ti facciano uscire?
– Sì che posso. Apri bene le orecchie: mi fai uscire tu, mater misericordiae?
Mi vuoi salvare? O devo veramente morire?
– Questa cosa della morte. Non dovresti pensarci così tanto.
– Tu non ci pensi mai, eh.
– Io ti ho visto nascere. Anche prima che nascessi io ti amavo. E vorrei fare
qualcosa.
– Allora cazzo… Falla! Fa’ qualcosa! Brucia tutto con un dito! Stacca la testa
ai figli di puttana che mi hanno inculato, falli piangere. Sì, falli piangere.
– Non posso.
– Chiaramente. Ma puoi chiedere a Dio no? O a Cristo? E’ tuo figlio! Fa’
finire il mondo!
– Quando urli e bestemmi mi dimentico tutto.
*
Dovevamo occupare i binari. Non eravamo tanti, ma bastavamo per
fermare almeno uno dei rapidi per la capitale, la cosa non sarebbe
passata inosservata. Ho cercato le carrozze di prima classe e ho
sbirciato nei finestrini. Niente di che, pensavo di trovare qualche
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maledetto pezzo grosso, qualche potente, invece solo molti portatili
aperti, ma anche quelli oramai li hanno tutti. Insomma abbiamo
risalito il treno prima lentamente, poi di corsa, facendo sempre più
casino. E ci siamo piantati davanti: alcuni si sono stesi, altri
stendevano in terra gli striscioni. Non mi piace tenere il viso coperto,
ma ho imparato che se oggi gli sbirri non hanno voglia di rompermi il
cazzo ché siamo tanti, poi la faccia se la ricordano. E te la fanno
pagare. I cristiani hanno iniziato a scendere dal treno. Finisce sempre
che se la prendono con noi, non capiscono che siamo dalla loro parte.
Pecore di merda, che facce di cazzo. Un fascio sui sessant’anni agitava
il braccio dal basso verso l’alto, manco bastasse a farci volar via. Ho
iniziato a scimmiottarlo. Qualche passeggero rideva, altri cercavano il
conducente temendo chissà che cazzo potessimo fare. Poi è arrivato
sto tizio. Si è avvicinato con una faccia assurda, allucinata. Piangeva e
chiedeva di lasciar partire il treno. Ha detto proprio: “vi prego”. Ho
subito pensato fosse uno dei tossici della stazione, ma a guardar bene
non era ridotto una merda. Se non per la faccia: sembrava un
sacchetto di spazzatura gonfio di roba da mangiare quella faccia. Mi
ha spaventato. Ho provato a parlargli, a spiegargli che era una
dimostrazione contro cristi e madonne, ma lui non ne voleva sapere:
non poteva smettere di dire “Ti prego”. Non era un passeggero,
voleva solo vedere il treno partire.
*
– Oh.
– Che c’è.
– Non ti alzi oggi?
– No.
– Ferie?
– No.
– Che vuol dire? Stai poco bene?
– No. Mi hanno cacciato.
– Eh?
– Mi hanno cacciato.
– Oh! Alzati, girati, spiega!
273
– Non abbiamo più soldi. Non posso pagare sta casa di merda. C’è
solo il tuo sussidio per mangiare.
– Mio dio. Quando è successo? Ieri? No, che cazzo dico. Abbiamo
finito i soldi, eppure qualcosa c’era rimasto. Da quando lo sai? Cazzo,
parla!
– Due mesi.
– Tu… Non mi hai detto niente per due mesi?
– Sono stato in giro.
– In giro? In giro dove?
– Per lo più in stazione, Santa Maria Novella.
– Volevi andartene?
– No. Non lo so. Non me ne sono andato.
– E ora? Ora che cazzo dobbiamo fare? Me lo dici?
– Io non lo so. Piango.
– Che?
– Mi hanno fatto piangere.
– Dio…
*
– E’ stato bello guardarvi.
– Sei perversa, non so come fai a stare in cielo.
– Ecco, ora stai scherzando persino.
– Scherzando?
– E’ stato bello guardarvi abbracciati e poi insieme così stretti. Sembravate
forti, intoccabili, invincibili.
– Stavamo scopando.
– Lo so.
– E tu guardavi?
– Eravate giganteschi, vi si vedeva dal cielo.
– Buon per te allora. E ci han guardato pure Dio e compagnia bella?
– Impossibile non vedervi.
– Mah.
– Non ti ha fatto bene?
– Tu credi?
– Pensavo.
– E allora se lo pensi tu, perché non dovrebbe essere così?
– Lei come sta?
274
– Lo sai.
– Te lo sto chiedendo, quindi non lo so.
– E’ morta. Non vedi? Non respira.
– Allora è così che si muore?
– Non sempre. Se ti riferisci alla scopata di prima.
– Ma sei stato tu?
– Cosa c’è, ora vuoi che ti spieghi punto per punto cosa è successo?
– Che farai ora?
– Ora mi ammazzo io. Ma non vado a scegliere un treno. Faccio esplodere la
casa.
– Aspetta.
– Cosa?
– Non ti dispiace per lei?
– Tu non sei morta vero? Tu. Non. Sei. Morta! Quindi che ne sai, magari
mia moglie ora è in un posto bellissimo. Magari tu, Dio e Cristo là non potete
andarci. Perché voi non potete morire. Almeno non definitivamente.
– Tu credi? Ma se ci fosse questo posto meraviglioso… Dio mi avrebbe
privato della morte… perché?
– Forse non voleva che neanche tu ci andassi.
– Non lo so.
– Faccio esplodere questa casa. Rimani pure. A te non succederà niente.
– No, penso che andrò via. Non ho capito molte cose di queste ultime
settimane. Pensavo… Pensavo ce l’avresti fatta.
– Vado in un mondo migliore. E tu faresti bene a tornartene in cielo. Con me
non puoi proprio venire.
– Ti mancherò?
– Non credo. Non credo più.
– Hai paura?
– L’unica paura che ho è quella di restare qui.
– E…
– Ciao.
275
Il quasi corpo
di
Livio Borriello
http://livioborriello.blogspot.it
la vulva è un numero.
la pornostar, a differenza della femmina, sacrifica l’ano, e preserva la
sacralità del numero.
la pornostar ha capito due cose: che l’eros è sacrificio; che dio è
numero.
la pornostar non divide il numero, l’unità, la vulva.
276
(peraltro, la telecamera non distingue fra vedere e vedere il vero, fra
valentina-nappi-viva e valentina-nappi-morta, fra valentina-nappi-felice e
valentina-nappi-in-lacrime)
v.n. alle prese con un negro fuori campo dice:
ah... aahh...
valentina nappi ha occhi acqua e sapone.
agnello sacrificale, immola l’ano innocente, lo espone.
l’eros in modalità occidentale
il suo ano martire salva l’occidente
il martirio in modalità occidentale
(il negro si imbatte nell’ano di v.n. e, senza pensarci 2 volte, lo viola. ma in
realtà è v.n. che si offre, che ne subisce attivamente la violenza)
le natiche di v.n. come metafisica influente. la loro algebra produce
gonfiore, turgore, incremento (non c’è sacrificio senza forma integra
da violare.)
un corpo giovane è un insieme di numeri. nel corpo umano, bilaterale,
quello che manca è l’unità.
funzione esponenziale soggiacente a v.n.
277
(i suoi piedi dalla pelle flessibile, i suoi filamenti di peli, la sua saliva fluente,
la congerie di organi interni, le sue pieghe grinze pliche...le sue ossa nel
coito... pensare al regolare molleggio, al ritmo coordinato di valentina-nappistruttura)
l’abbandono. la perdita di controllo. la bava bagna, inonda, annega il
membro.
nell’abbandono, nel soccombere, v. afferra la tensione fra il fluire del
mondo e la sua possibile determinazione.
la nube, l’alone v.n. si è imbattuta nel suo corpo, nel suo essere. la
quasi-valentina-nappi, il suo fascio di eventi, si è definita in un corpo
esatto.
ecco che il suo culo scintilla. ecco che le sue delimitazioni, i suoi
spigoli, si vanno a disporre precisamente nella loro equazione. la sua
carne per un attimo si sospende dal suo essere carne biologica, e si
espone quale carne in sé, apofantica, ontologica. è tutta valentina, è
tutta la cosa per cui *valentina* sta, è ciò che accadde. prima che la sua
carne fosse, valentina è.
ha l’aria da svanita e il corpo esatto
bisogna prestare il proprio corpo al mondo
un piccione che volava all’esterno durante
l’orgasmo
(propriamente, valentina nappi è un cadavere che gode, anche se “a suo
tempo”, nell’invisibilità, ha viventemente goduto. il poeta peraltro anche
anagraficamente morto sciar bodler sostiene, pur nella sua condizione di
morto, che proprio lo statuto di cadavere di v.n. interessa all’osservatore del
278
film. d’altronde l’altro morto attivo edmund husserl si chiede che cosa ci
autorizza ad asserire che la v.n. sorridente e intabarrata all’inizio del film sia
la stessa protagonista delle successive audaci acrobazie, potendo trattarsi
invece di due diverse valentine nappe che la nostra percezione ha
successivamente identificato )
alcune sue cellule, sono divine. alcune sue cellule, sono aritmetiche.
alcune sue cellule, sono di bestia. alcune sue cellule, sono perforate (la
pupilla).
lei è sempre nello stesso posto (nel film), nel 60x30. le luci fossili del
film, si permutano incessantemente (le luci degli sfinteri che fasciano
le luci del membro). a volte dice: ah, ahhaa. le sue luci godono (nella
realtà immanente gode il masturbatore).
punto di sdrucitura nella superficie di v.n
(infine - posta la veridicità della riproduzione e l’obiettività della percezione in che modo quest’anima o psiche o io - dotata di potere decisionale - si
sarebbe potuta spostare dal divano insieme al corpo, per andare a amare il
negro nell’ultima scena? è ovvio che questa sospensione a forma di fumarola o
vapore, o forse a forma esatta del corpo, o comunque questa complessione
immateriale di volizioni intenzioni sentimenti informazioni ecc. per poter
continuare a restare la psiche di v.n. e non ad esempio di un tizio che si
trovava a passare e si sedeva sul divano al suo posto, deve avere un sistema di
agganci o appigli alla carne che la renda solidale in tutti gli spostamenti
sobbalzi capovolgimenti ecc., oppure una specie di adesività o che so qualcosa
come una condensa un madore che ricopre un po’ tutti gli organi
interni/esterni, oppure la stessa velocità, intenzione, e tragitto - che si
acquista alla nascita e si perde alla morte e nei casi agiografici di bilocazione.
così come se questa psiche è propria di v.n. ed è dunque avvolta nella sua
tunica epidermica, come possiamo escludere che essa sfiati dalle sue numerose
discontinuità, perforazioni e lesioni?)
279
il liscio, il levigato, il fluido, il bianco, lo sferico, il numero
il suo corpo è inaggirabile. nel suo fiorire, dilatarsi, sfiatare come una
spugna, come un organismo primitivo, rappresenta il centro della
raggiera
grazie a una sofisticata apparecchiatura a
scansione eidetica, quest’immagine ha catturato
l’ano trascendentale della star. quest’ano si
manifesta nel visibile solo per un milionesimo
di spazio-tempo, e solo se l’operatore ha un
tasso di feniletilamina > di 13,08 mg/dl
280
Il risveglio
di
Giovanna Rotondo Stuart
https://giovannarotondo.wordpress.com/
L’odore che emanava era terribile. Non si respirava quasi. Pensò al
medioevo, ai miasmi di allora: a quei tempi esseri umani, animali,
rifiuti di ogni tipo e quant’altro vivevano in piena promiscuità.
– “Ma cosa avete portato? Un pezzo di fogna?” – disse la dottoressa
Donata Rosci e abbozzò un sorriso mentre entrava nell’ambulatorio
dove era stata da poco portata la barella.
281
Tuttavia, bastò un’occhiata da lontano al paziente riverso sul lettino
per rendersi conto che si trattava di una cosa seria. Due poliziotti
controllavano le operazioni di soccorso.
– “E’ morto?” – chiese arrestando ogni scampolo d’ironia.
– “Sembra di no. Ma lo sarà a breve se non fate qualcosa subito.”
La dottoressa Rosci indugiò ancora qualche attimo osservando
l’uomo rannicchiato in posizione fetale, immerso nei suoi escrementi
da chissà quanti giorni. Gli occhi sigillati da secrezioni crostose,
capelli e barba incolti, ogni centimetro quadro di pelle coperto da uno
stato di sporcizia totale. Denutrito se non cachettico. Sembrava un
cadavere che stesse già iniziando a decomporsi. Si stupì di non trovare
vermi che facessero capolino attraverso l’addome teso…
Bisognava idratarlo, ancor prima di pulirlo, rischiava di morire nel
frattempo: c’era pericolo di un blocco renale. Gli disinfettò lei stessa le
braccia per le flebo e inserì gli aghi. Preparò ogni cosa con estrema
cura, avvertendo tutta la responsabilità delle sue azioni. Provò a
liberare gli occhi per controllare i riflessi pupillari: le croste erano
spesse, purulente. Ed era pieno di piaghe, dovevano fare attenzione
alle infezioni. Inserì degli antibiotici nelle flebo. Fece una prima serie
di prelievi ematici da girare in urgenza al laboratorio analisi e
proseguì con una prima, accurata disinfezione e pulizia degli occhi. Se
avesse superato le prossime ore, avrebbero potuto pulirlo e cambiarlo,
sarebbe stato difficile curarlo, altrimenti. Era la seconda volta che
pensava “se”. Non le capitava spesso, durante i turni di guardia di
abbandonarsi a ipotesi e riflessioni: nonostante fosse la dottoressa più
giovane dell’equipe, in cinque anni di pronto soccorso ne aveva viste
di cotte e di crude.
Eppure quella notte fu presa dalla nausea e dovette uscire. “Per
fortuna è una notte tranquilla”, rimuginò tra sé. Accadeva di rado.
“Chissà chi è e come ha fatto a ridursi così o chi l’ha ridotto così”, si
domandò, ma preferì non chiedere ulteriori informazioni ai due
carabinieri. Non ancora. Era tempo di consultare il collega neurologo
di guardia e di sentire la sua opinione in proposito: le prime ore di
cura sarebbero state fondamentali. La dottoresa parlò personalmente
con i medici di guardia in nefrologia e in medicina, presenti per il
turno di notte, chiese loro di venire al più presto alla rianimazione del
PS per un codice rosso. Il gruppo, dopo essersi consultato, decise che
282
bisognava continuare a reidratare il paziente con le flebo, verificando
spesso le funzioni renali già parzialmente compromesse. Visti i valori
piuttosto bassi di saturazione, poi, decisero anche di intubarlo seduta
stante. Stabilizzato il quadro clinico, si poteva procedere a disinfettare
e medicare le piaghe dell’uomo, prima di spostarlo in un altro reparto.
La dottoressa Rosci guardò l’ora, erano le due di notte: bisognava
rapargli barba e capelli il più possibile, erano infestati da parassiti. Si
fece assistere dagli infermieri nel tagliare gli indumenti che aveva
indosso per rimuoverli cercando di non strappargli via brani di pelle.
Per il resto, non si poteva fare altro che insistere con la terapia
antibiotica via flebo, la reidratazione e la nutrizione sempre per via
parenterale e… sperare! Donata, insieme al personale ausiliario, si
prodigò al massimo: passò la soluzione disinfettante sulle piaghe più
e più volte, per aiutarsi a staccare un po’ alla volta gli indumenti dalla
cute. Con delicatezza. L’uomo era pelle e ossa, non c’era più niente,
solo organi e pelle. Lo girarono pian piano sull’altro lato e rifecero le
stesse operazioni. Albeggiava, Donata era sfinita, ma contenta: si era
affezionata a quel povero essere umano che giaceva indifeso come un
infante. Aveva eseguito con scrupolo tutto quanto era possibile per
tentare di salvargli la vita. Di positivo c’era che l’uomo era ancora
vivo: era stato bonificato, coperto da un lenzuolo pulito e presto
sarebbe stato trasferito in reparto. Il tanfo della putrefazione ancora
stagnava negli ambienti del pronto soccorso, ma il paziente non
puzzava più… Si ripromise di tornare a trovarlo in reparto al ritorno
in servizio, una cosa che non aveva mai fatto per nessun altro malato,
anche grave. Si chinò a guardarlo con attenzione, quasi volesse
ricordarsi del suo viso, memorizzare i suoi lineamenti e fu allora che
lo udì mugolare un breve lamento che alle orecchie di Donata assunse
la forma articolata di un linguaggio arcaico ormai dimenticato: ebbe la
sensazione di indovinare nell’ululato il nome di una donna… o era
solo la sua immaginazione? Il mormorio non era chiaro e non aveva
senso logico immaginare che un uomo intubato potesse parlare.
La dottoressa approfittò dell’apparente risveglio del paziente per
provare a comunicare.
– “Se mi sente, provi ad aprire e chiudere gli occhi. Mi senti?”
283
Nulla. Prima di staccare dal turno, volle chiedere qualche notizia in
più ad un funzionario di polizia che nel frattempo era venuto a
domandarle se l’uomo se la sarebbe cavata.
– “Difficile dirlo… sono ottimista, forse sta lentamente uscendo dal
coma, ha anche mugolato qualcosa di incomprensibile, ma non ha
ancora ripreso conoscenza: è presto per sciogliere la prognosi. Le
prossime ore saranno decisive. Posso sapere qualcosa di lui?”
Il funzionario raccontò che l’avevano trovato per caso nell’Interland
Milanese. Erano all’inseguimento di alcuni spacciatori. Cercavano una
consistente partita di droga e setacciavano qualsiasi nascondiglio:
siepi, sassi tutto ciò che potesse servire allo scopo. Uno dei cani,
raspando il terreno, aveva mosso un piccolo oggetto luccicante: un
gemello da polso, molto bello, con delle iniziali, un oggetto strano per
quei luoghi! Avevano cominciato a battere il territorio intorno palmo a
palmo: ogni siepe, arbusto, finché, sempre per caso, si erano trovati
nei pressi di un casupola bassa resa invisibile dalla sterpaglia, senza
finestre, solo una grata, per l’aria. Ideale per nascondere della merce.
Avevano chiesto rinforzi e tirato giù una pesante porta di legno,
chiusa da due robusti catenacci: uno in alto e uno in basso. E lì la
scena indescrivibile, il resto lo sapeva. Avevano molti indizi e pochi
dubbi sull’identità dell’uomo. Si trattava di un imprenditore
sequestrato un paio di mesi prima e di cui si era perso il contatto. La
famiglia era già stata allertata.
Donata era giunta alla fine del suo turno. Più che un turno era stato
un viaggio, ma non voleva andar via. Aveva davanti agli occhi il viso
dell’uomo, un cenno di sorriso agli angoli della bocca, quasi sognasse.
Chiese al collega di tenerla informata sugli sviluppi della situazione
del malato e di comunicarle un suo eventuale trasferimento presso
altri ospedali.
Percepiva una sensazione di benessere totale, si sentiva avvolto in una
luce bianca che avvertiva filtrare da sotto le palpebre: leggero, pulito,
in pace con se stesso. Accade, qualche volta, tra il risveglio e il sonno,
se si è dormito bene. E Il desiderio di bere una tazza di tè… una tazza
di tè forte e nero, fare una passeggiata, com’era il nome di quei fiori
profumati? Non aveva ancora aperto gli occhi. Ma era da tempo che
sentiva la vita intorno a sé. Aveva avvertito lacrime, bisbigli, parole,
284
carezze. Voci ovattate, sussurrate, tenere. Prima o poi avrebbe dovuto
arrendersi al mondo là fuori, guardarlo… guardarsi. Sapeva chi era,
cosa gli era accaduto e immaginava di sapere dov’era, ma non voleva
parlare, non ora, non ancora: non voleva rispondere a domande,
raccontare. Aveva bisogno di solitudine, doveva capire tutte le
sensazioni che avvertiva dentro di sé, confrontarsi con quella persona
nuova, sconosciuta, diversa, che era in lui. Qualcuno gli toccò la
mano, il polso, lievemente. Lui socchiuse gli occhi appena, appena.
Vide un camice bianco. Lei gli sorrise.
– “Buongiorno. Vedo che sta meglio. Sono Donata Rosci. Ero di
guardia al Pronto Soccorso quando l’hanno portata qualche giorno fa.
So che è vigile da qualche tempo, non si preoccupi di parlare. Sono
entrata un momento per vedere come sta…”
Aveva un timbro di voce che avrebbe voluto ascoltare a lungo, il suo
primo contatto dopo tanti giorni terribili, ne rimase avvolto,
conquistato. Se ne stette con gli occhi socchiusi a guardarla.
– “Non vada via, La prego” – sussurrò.
– “Non si affatichi a parlare. Lo faccia piano. Potrebbe causarle molta
sofferenza.”
– “Sì, ma non per gli ultimi avvenimenti. Non sono quelli i più
terribili. Quelli potrò raccontarli...”
Chiuse gli occhi, un’espressione di dolore sul volto. I suoi pensieri
erano lucidi. Donata gli strinse la mano, gliel’accarezzò. Capiva le sue
parole, il desiderio di manifestare a qualcuno, e a se stesso, il suo
tormento per ciò che era stato ma, soprattutto, la persona nuova che
era in lui. Stava meglio, non era più in pericolo di vita, aveva davanti
una lunga convalescenza, nel corpo e nello spirito.
– “Vieni ancora a trovarmi, ti prego.”
E tacque. La dottoressa gli accarezzò la mano e gli sfiorò, il viso. Si
vive una vita con gli altri, si parla con loro per abitudine, senza
comprendersi poi, un giorno, avviene che s’incontra uno sconosciuto
di cui si sa tutto, senza parlare. Indugiò qualche istante prima di
lasciarlo.
– “A volte, gli istanti, valgono una vita intera.”
Antonio, sempre con gli occhi socchiusi, ripercorreva la storia della
sua vita, l’antro buio e maleodorante in cui l’avevano tenuto
285
prigioniero. Giorno dopo giorno aveva ricostruito momenti, ore, interi
anni della sua vita passata, incominciando da quando era bambino
fino agli ultimi istanti di coscienza. Ogni volta che ritornava indietro
nel tempo, ritrovava nuovi episodi, era stato come scrivere un libro
nella sua mente. La visione della sua vita, in quelle lunghe ore di
passione e di intensa solitudine, l’incontro con se stesso, un se stesso
che non conosceva, l’aveva addolorato. Il rimpianto di non aver
vissuto con tenerezza, di non avere amato, la scoperta di essere
vissuto per affermare le sue ambizioni, oltre ogni ragionevole
principio, gli procurava sofferenza. Soprattutto a causa di Cristina,
sua figlia. Cristina aveva sentito il peso della sua lontananza affettiva,
era cresciuta con un padre che faceva scelte socialmente apprezzabili e
di successo, ma certo non aiutavano un bimba a formarsi, a diventare
adulta, ad avere fiducia. La sua vita di oggi, inquieta e infelice, lo
testimoniava. La ricordava corrergli incontro molto piccola, felice di
vederlo, lui l’accarezzava distratto, come si fa con un cagnolino, senza
quasi rendersi conto di lei, preso com’era dalle sue aspirazioni. Ed era
sempre stato così! Ripensò a Sara, sua moglie, e a Dario, suo collega e
amico. Dario amava sua moglie… da una vita aspettava il momento
per stare con lei. Antonio non se n’era mai reso conto, ne aveva la
certezza oggi, rivedendo immagini ed episodi del passato. Ma Sara? Si
assopì, pensando a una Sara che non conosceva, il suo rapporto con lei
era stato sempre alquanto formale. Lei entrò in quel momento, si
avvicinò, sperando di trovarlo sveglio. Sapeva che era fuori pericolo,
non sapeva quali conseguenze avrebbe avuto il sequestro che aveva
subito sulla sua psiche e sul suo fisico. Poco dopo entrò Dario.
– “Novità? Ha ripreso conoscenza?”
– “Non in mia presenza. Il medico assicura che ha momenti di
lucidità. Presto lo aiuteranno ad alzarsi e ad alimentarsi da solo.
Dovrà andare in dialisi, ma non è detto che ci debba rimanere tutta la
vita. Ho parlato con il funzionario di polizia, mi ha fatto vedere un
gemello con le iniziali: era il suo. L’hanno trovato nei pressi di una
casupola del milanese, per pura coincidenza; deve averlo smarrito
mentre lo trasportavano.”
Sara si concesse una pausa e un sospiro, poi riprese.
286
– “Se non avessero trovato il bottone e passato al setaccio la zona, non
l’avremmo più rivisto vivo. I carabinieri ipotizzano che i sequestratori
l’avessero abbandonato o fossero fuggiti.”
L’avevo tolto mentre mi trasportavano, non ero del tutto cosciente e non
speravo che ce l’avrei fatta a farlo cadere. Dal suo sonno-veglia, Antonio
seguiva brani di conversazione, era ancora molto debole e non
riusciva a rimanere presente a lungo.
– “Ho bisogno di parlarti, Sara” – disse Dario sottovoce, con tono
incrinato, stanco, quasi disperato – “Ho bisogno di parlare con te una
volta per tutte, dobbiamo decidere. Sono contento che l’abbiano
trovato, il pensiero di lui mi torturava giorno e notte.”
– “Non adesso, non qui. Potrebbe aprire gli occhi da un momento
all’altro. Lo faremo nei termini che vorrai appena lui si sarà ristabilito
del tutto. Ricorda che io non ti ho mai promesso nulla...”
Il tono di lei non ammetteva repliche. Proseguì sempre più nervosa.
– “Mi hanno anche chiesto che cosa so del suo sequestro e le ragioni
per cui abbiamo aspettato più giorni… prima di denunciare la sua
scomparsa. Ho risposto che non so nulla più di quanto dichiarato e mi
sono affidata a te per qualsiasi decisione…”
Dario non commentò. Sara si era sempre adeguata alle situazioni, non
aveva mai tentato di discutere: bella e all’apparenza fredda! Chissà se avesse
mai avuto il desiderio di un’altra vita. Si era appisolato di nuovo e
svegliato, non sapeva quanto tempo fosse intercorso tra prima e
adesso. C’era qualcuno nella stanza, non era Dario. Sentì una voce
maschile che diceva.
– “E’ tempo che incominci a muoversi. E’ necessario capire il suo
stato. Tra oggi e domani l’aiuteremo ad alzarsi e tenteremo di parlare
con lui”.
Chissà se Cristina è stata qui… non importa se non viene. Spero di stare con
lei quando sarò ritornato a casa… A casa? Ma è ancora la mia casa? No, non
tornerò… devo ricominciare da zero, come se incontrassi per la prima volta
le persone intorno a me. E si riassopì.
La sensazione di benessere totale ormai lo avvolgeva sempre più
spesso, insieme alla luce bianca che filtrava da sotto le palpebre
chiuse. Qualcuno gli toccò la mano e il polso, lievemente, un gesto che
287
Antonio riconobbe d’istinto. Il bianco si specchiò nel camice della
dottoressa Rosci e crebbe d’intensità.
– “Buongiorno, mi riconosce? Sono la dottoressa del Pronto Soccorso.
Mi hanno detto che sta meglio, anche se non vuole alzarsi…”
Antonio sorrise mentalmente, come un lattante tra le braccia delle
madre.
– “Coraggio, in fondo non è così difficile” – lo esortò la donna.
E’ vero, in fondo non è difficile, basta ricominciare a raccontarsi la storia
della propria vita dall’inizio, tornare indietro, parola per parola, camminare a
ritroso fino a inciampare i passi, fino a procedere gattoni su un foglio
completamente bianco, ancora tutto da scrivere. Sorrise anche col volto.
– “Ecco, così: riuscire a sorridere è già una buona cosa. Non vuole
dirmi neanche una parola stavolta?”
– “A volte, una vita intera è fatta di istanti” – sussurrò, giocando con
la frase pronunciata dalla dottoressa nell’atto di accomiatarsi dopo il
loro ultimo incontro.
Donata restò sorpresa dal tono con cui erano state pronunciate le
parole, talmente fragile e lontano da poter essere la voce di un
bambino. Antonio approfittò del silenzio per guardarla di sbieco e
immaginare un’eco.
– “Di istanti… distanti… distanti.”
Proprio così, non è difficile, basta smarrirsi all’orizzonte, rimpicciolire la
figura in prospettiva allontanandosi, fino a diventare un punto, un punto e a
capo. Chissà se sono arrivato abbastanza distante per impugnare un
pennarello a tutta mano, per scarabocchiare lo sguardo e imparare a scrivere
di nuovo. Ci vorrebbe che qualcuno guardasse in questa direzione e mi dicesse
se sono abbastanza distante.
– “C’è qualcosa che posso fare?” – chiese la dottoressa.
Antonio le fece cenno di chinarsi su di lui e il bianco lo avvolse.
Ecco, ci siamo, lo sento: ora potrei impugnare una penna e imparare di nuovo
a scrivere. Potrei scrivere qualcosa sul camice della dottoressa, tipo “l’odore
che emanavo era terribile. non si respirava quasi”. Guardami Sara, adesso ne
sono certo, sono abbastanza distante per ricominciare da zero, di nuovo.
Donata aveva creduto che l’uomo volesse sussurrarle qualcosa
all’orecchio, invece non le disse nulla. Così lo salutò con dolcezza e
uscì dalla stanza numero sette del reparto di Medicina.
Percorse di buon passo il corridoio e salì sull’ascensore riservato al
personale. Spinse il bottone del piano a terra e si mise in attesa,
288
osservando la sua immagine riflessa nello specchio dell’ascensore.
Probabilmente doveva aver strusciato contro qualcosa di sporco
perché un lembo del camice in basso era macchiato di nero. Guardò
meglio e per una frazione di secondo ebbe l’impressione di vedere un
sole stilizzato, schizzi verdi, un quadrato con sopra un tetto rosso, sì
insomma, il disegno tracciato con matite colorate dalla mano incerta
di un bambino.
289
Un racconto che ci rappresenti
di
malos mannaja
https://malosmannaja.wordpress.com/
Marianna era di fronte a un bivio. Rimase per un po’ di tempo ferma,
con l’indice posato sul mento e l’espressione indecisa. Arricciò il naso
e guardò prima a destra, poi a sinistra, dove la gelateria l’attendeva
oltre l’angolo. Si leccò le labbra mentre Lelly e Kelly, le sue scarpette
preferite, già scalpitavano pronte a lanciarsi in un galoppo rosa e
luccicante. Invece esitò. Tornò a guardare a destra e pensò all’altalena,
al fruscio dei vestiti nell’aria: s’immedesimò a tal punto da udire nei
timpani il cigolio degli snodi metallici. Al solo rievocare l’emozione di
sfiorare gli alberi, anche Lelly e Kelly tradirono un evidente trasporto
lanciandosi in una breve teoria di piroette e saltelli sul posto.
290
Tormentata dal dubbio di un imperdonabile errore, Marianna iniziò a
camminare in cerchio al centro del viale alberato, quasi imbronciata. Si
trattava di un vero e proprio scontro tra titani: da un lato il gelato, re
incontrastato dei pomeriggi estivi, con la sua inevitabile corona di
panna montata, dell’altro l’altalena, coi suoi spericolati volteggi nel
vuoto. Aggrottò la fronte e sbuffò, sedendosi sconfitta sull’orlo del
marciapiede, a gambe incrociate. Consultò alcuni brandelli di cielo
arsi dal sole di Luglio, poi volse di nuovo il pensiero ai piaceri che la
attendevano dietro l’angolo: la gelateria a sinistra e l’altalena a destra,
la gola o il brivido, il gusto o l’emozione… eh, quella sì che era la
scelta più importantissima dell’universo! A quale delle due opzioni
doveva dare la precedenza? Quale era meglio posticipare, correndo il
rischio che un imprevisto le impedisse di metterla in pratica? E se
fosse crollato il ponticello? Poteva restare per sempre confinata a
destra o a sinistra! E se di ritorno dal parco o dalla gelateria avesse
incontrato un drago, un’astronave aliena o un serial killer? Nella
mente bambina di Marianna, tutto appariva ugualmente razionale e
plausibile.
O meglio, tutto tranne andare in altalena mangiando un gelato:
equilibrismo rischioso, foriero di panna e pistacchio tuffati a
squagliarsi nell’erba, come aveva purtroppo imparato a sue spese.
Ohi, quella sì che sarebbe stata una tragedia, altro che draghi o dubbi
amletici!
Il senso pratico della bambina fece piazza pulita d’ogni sofisma
letterario e Lelly e Kelly zampettarono allegre oltre il ponticello, in
direzione del parchetto dietro l’angolo. Giunta all’apertura dello
steccato, si guardò intorno, ma stranamente il prato la salutò in
silenzio: lo spazio giochi era deserto. Le scarpette restarono per
qualche attimo immobili osservando perplesse l’altalena, finché
Marianna non s’avvicinò con gli occhi sbarrati per toccare con mano
l’orrore. Chi poteva aver straziato a quel modo il passatempo più
amato dai bambini?!? L’altalena oscillava appena, senza vita, con
l’asse per sedersi appeso in verticale ad una sola catena. Marianna tirò
su col naso, toccò la catena superstite e s’incantò a studiare il gancio
vuoto sul travetto orizzontale: accarezzò l’assenza degli anelli
metallici e rabbrividì trovandola fredda quanto il marmo della tomba
di zio Michele. Malgrado ciò, si rincuorò in un batter d’occhio: restava
291
comunque in piedi l’opzione successiva, la “fase due”, ovvero che per
magia la moneta da due euro si trasformasse in un cono panna e
pistacchio…
Con un’agile piroetta s’incamminò saltellante verso il gelataio.
In meno di tre minuti raggiunse la piazzetta su cui s’affacciava la
gelateria I Scream, gelati da urlo, trovandola piena di gente esagitata e
lampeggianti blu. Marianna seguì il moto delle grida stridule che
salivano al cielo e a tre metri e mezzo da terra incappò nel corpo
penzolante di Piero, il gelataio, appeso al cono gigante in 3D
dell’insegna. Era la prima volta che vedeva il gelataio per intero,
essendo troppo bassa per l’universo celato dal bancone, e la scoperta
che l’enorme pancione fosse sorretto da gambe lunghe e sottili come
cannucce da granita la lasciò a bocca aperta. Tale rivelazione fu però
subito eclissata da un’altra verità ben più inquietante: ciò che girava
attorno al collo dell’uomo per appenderlo all’insegna era una fila di
anelli metallici. Ecco dov’era finita la catena dell’altalena! La bambina
si divertì a sfocare lo sguardo, finché Piero non divenne una grossa
goccia di panna, colata giù dal cono gelato gigante.
Qualche attimo dopo, però, si riscosse: basta baloccarsi con discorsi da
adulti, quello era il momento di giocare al suo cartone animato
preferito, al Detective Conan!
S’intrufolò nella ressa sbucando in prima fila accanto al maresciallo
Fenzi, così da analizzare da vicino la scena del delitto.
‒ “Mmmm… il cattivo deve avere approfittato della controra, quando
la piazza è tutta vuota per il caldo, ma davvero nessuno ha visto
niente?” ‒ chiese al carabiniere.
‒ “Non ci sono testimoni” ‒ rispose d’istinto il gendarme, poi abbassò
lo sguardo e vide Marianna ‒ “e tu che ci fai qui? Via via, circolare,
non è posto per bambini questo.”
‒ “Chissà come avrà fatto il cattivo a fare tutto così in fretta? Forse con
la cesta di un camion-gru, tipo quello di Franco, l’uomo dei pali del
telefono.”
Il carabiniere si lisciò i baffi pensieroso. Marianna proseguì nelle sue
riflessioni ad alta voce.
‒ “E gli zoccoli bianchi? Sono verdi d’erba in punta e c’è della terra
sotto… ma Piero non li usava solo qui in gelateria?”
292
‒ “Mpff… lascia stare bambina, eh, non vorrai rubare il lavoro alla
scientifica.”
‒ “E soprattutto, cos’è quel giallo che ha macchiato i pantaloni bianchi
di Piero dal ginocchio in giù? Gelato alla crema?” ‒ si fece seria, poi
s’illuminò ‒ “mmm, no no… io credo che lo so!”
‒ “Insomma bimba, via, sparisci!” ‒ stizzì il maresciallo, che come tutti
gli adulti non amava sentirsi porre domande cui non era in grado di
rispondere.
Decisa a seguire la sua pista, Marianna tornò verso il parchetto. Il cielo
si era mezzo rannuvolato e nella luce fattasi opaca, i brandelli di cielo
dell’incipit iniziavano a cadere come foglie azzurre in autunno.
Proseguì fino al pioppeto dietro la discarica, zona di ritrovo dei tossici
del paese, dove scovò Andrea, vent’annni, seduto di sbieco su un
muretto diroccato.
‒ “Ciao” ‒ esordì la bimba ‒ “è morto Piero, il gelataio.”
Per tutta risposta il ragazzo si strinse nella giacca di pelle nera
‒ “Un porco in meno…”
Per un attimo, nella testa di Marianna, il gelataio assunse le sembianze
di un maiale albino. Lo immaginò intento a rivoltarsi nel trogolo, ma
la scena nel complesso non la convinse.
‒ “Stai facendo il tuo solito gioco? Sembri tutto sudato…” ‒ proseguì
perplessa, riflettendo che comunque il tanfo dei rifiuti oltre i pannelli
di cemento copriva ogni altra cosa.
‒ “E’ l’unico che mi piace.”
E detto fatto le mostrò un cerambicide grassottello, lo depose sul
muretto e lo spiaccicò sotto il palmo d’una mano. Un liquido giallastro
colò viscoso sul mattone.
‒ “Vedi” ‒ chiosò Andrea ‒ “gli insetti sono animali onesti. Quando li
schiacci tirano fuori ogni cosa, anche l’anima, mica si tengono tutto
dentro come le persone…”
Marianna inorridì fissando il cadavere estroverso del coleottero.
‒ “Poverino…”
‒ “La quercia ne è piena.”
‒ “Devi essere salito fino in cima se ne hai raccolti così tanti. Sai che
non ti ho mai visto arrampicarti?” ‒ notò la bambina indicando il
barattolo di vetro pieno di cerambidici.
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Andrea non rispose. Dal coleottero schiacciato continuava ad uscire
linfa giallastra, tanto che attorno al muretto si era già formata una
pozzanghera e in breve il liquido iniziò a ruscellare in strada.
Marianna balzò indietro e corse via. Si diresse verso la periferia, svoltò
in via Roma e dopo aver raggiunto il civico 48, suonò il campanello
con su scritto Manfrin.
‒ “Marianna! Cosa ci fai in giro da sola?” ‒ chiese la signora Manfrin.
‒ “Oh, niente, sto giocando al detective Conan con Andrea. Devo farle
una domanda signora. Suo marito è ammalato?”
‒ “Sì bela, è a letto: s’è preso la bronchite.”
Tombola, pensò la bimba.
‒ “E lei signora è stata in casa oggi?” ‒ domandò ancora la bambina.
‒ “Avevo il turno di guardia, sono appena rientrata.”
L’onda di piena formata dal liquido giallo avanzava lungo il viale.
Marianna si guardò intorno: la campagna in larghi tratti era già
allagata e il livello della marea dorata continuava a salire; quando si
congedò dalla signora Manfrin, già le arrivava alle caviglie.
I conti tornano, detective Conan, disse tra sé, poggiando di nuovo
l’indice sul mento, Franco è ammalato.
Si avviò verso casa, ma ancora prima di raggiungere il parchetto,
l’inondazione s’era gonfiata fino a lambirle la gola, tanto che la
bambina dovette proseguire a nuoto. Il liquido giallo era tiepido,
gradevole al tatto, e scorreva sulla pelle accarezzandola in modo più
scivoloso di quanto non fosse solita fare l’acqua del mare. Forse per
questo Marianna mise un piede in fallo e cadde a capofitto in quello
strano brodo primordiale fatto di pensieri così immersi da togliere il
fiato.
In fondo a tutte queste parole, ragionò, in fondo a tutta questa marea di
pensieri deve pur esserci un fondale su cui poggiare i piedi per spingersi dal
basso verso l’alto e risalire… anche sotto gli oceani, eh, anche sotto gli oceani
per quanto siano immensi c’è una piana abissale su cui poggia l’infinito
contenuto.
‒ “Ma se non affiora mai, il fondale, come fai a dirlo? L’hai mai visto
coi tuoi occhi?” ‒ sussurrò una voce materna nella testa della bimba.
‒ “Beh, per davvero non lo so. Forse immagino soltanto le parole e… e
poi le dico” ‒ gorgogliò Marianna continuando ad affogare ‒ “Non so
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nemmeno cosa sia un infinito contenuto… perché me lo hai suggerito?
In fondo, sono soltanto una bambina!”
‒ “In fondo” ‒ fece eco la voce, con un sussurro.
‒ “In fondo…” ‒ ripeté ancora Marianna sentendo i pensieri spegnersi
in un sorriso.
Il corpo della bimba si fece molle e continuò ad inabissarsi, sempre
più giù, sempre più giù, con lentezza esasperante. Solo qualche riga
dopo, nel buio nero come l’inchiostro degli abissi oceanici, toccò il
fondale e si adagiò delicatamente su di esso. Se fosse stata ancora
cosciente e avesse avuto a disposizione un faro di profondità,
Marianna si sarebbe sorpresa a notare che il fondale era così liscio e
bianco da sembrare un foglio.
Soddisfatta, aprii la tendina File e cliccai Stampa. La mia fidata
stampante a forma di batiscafo sputò quattro campioni di fondale
oceanico ed io ne ricomposi i continenti alla deriva, impaziente di far
leggere il nuovo racconto a mio marito.
‒ “Allora, che ne pensi?” ‒ chiesi qualche minuto dopo.
‒ “Bello, ma non capisco il titolo” ‒ disse Stefano.
‒ “Perché non l’hai ancora letto fino in fondo.”
‒ “Sì che l’ho letto tutto.”
‒ “No. Non lo vedi che continua?”
‒ “Lo sai che non mi piacciono questi giochetti” ‒ sbuffò Stefano ‒ “e
resta il fatto che non vedo perché questo racconto ci rappresenti in
modo particolare.”
‒ “Mi rappresenta: l’ho scritto io… e poi Marianna sono io da
bambina.”
‒ “Ma il pronome era *ci*, mica ti. E allora, se devo pensare a una
narrazione che ci rappresenti, mi sovviene qualcosa di più
intersoggettivo, un logos che riesca ad accomunare le tensioni
psichiche di tutti noi, intesi sia come esseri umani che come
personaggi di racconti. Qualcosa di più vivo, un soggetto più tangibile
e attuale.”
D’istinto mi chiesi come potevo amare un uomo così odioso, sempre
pronto a salire in cattedra a pontificare dall’alto del suo PhD in
Psicologia e Scienze Cognitive. Tagliai corto, troppo frustrata per aver
voglia di discutere. Inoltre, dovetti ammettere tra me e me, che le
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trame riecheggianti nel racconto, non erano in effetti così appropriate
come m’erano sembrate mentre le scrivevo. Così provai a rileggermi,
restando inceppata in alcune forzature un po’ barocche ed ebbi
l’impressione che il liquido giallo continuasse a fluire tra le righe
annacquando la scrittura, davvero esondante rispetto alla pochezza
della storia narrata. Non solo il racconto non ci rappresentava, ma
neanche io mi sentivo più rappresentata dalle sue parole. Sospirai…
ecco, avevo messo il dito nella piaga: sue parole, ovvero, non mie, non
più.
Resistetti a stento all’impulso di accartocciare i fogli A4 che tanto mi
avevano delusa e mi rifugiai in bagno per farmi una maschera viso
anti-age rilassante all’argilla. Stesa la crema, mi accoccolai sullo
sgabello e chiusi gli occhi, svuotando la mente. Dopo qualche minuto,
sentii la pelle del volto fremere d’eccitazione e levigarsi tutta fino a
affrancarsi da stress, rughe, anni e impurità. Quando mi riscossi, il
mio riflesso nello specchio mi sorprese: potevo avere sette o otto anni.
‒ “Ciao” ‒ disse Marianna.
‒ “Ciao” ‒ mi risposi.
‒ “Mi dispiace che non sono riuscita a finire di scoprire il colpevole.
Era Andrea vero?”
‒ “Fa lo stesso” ‒ mi sorrisi rassicurante ‒ “tanto, secondo Stefano, il
racconto è fuori tema o comunque non ci rappresenta.”
‒ “Ma non è vero! Ci stiamo somigliando così… così benissimo che
quasi non si capisce più chi sono io e chi sono io!”
‒ “Hai ragione, ma proprio per questo Stefano ha colto nel segno:
moltiplicando più volte lo stesso io non si ottiene un noi. Non hai
studiato le tabelline?”
‒ “Uno per uno, uno. Uno per uno, uno. Uno per uno, uno…” ‒
convenne la bambina, il cui tono s’incupiva gradualmente parola per
parola, finché gli occhi iniziarono ad inumidirsi.
Mi si spezzava il cuore a vedermi così triste, ma che potevo fare?
Avevo avuto un’infanzia difficile, senza amiche, costretta a giochi e
letture solitarie dalle oggettive circostanze della vita a Traviate, un
paesino della pianura lombarda dove da decenni non nascevano
bambini. Chissà… forse le esalazioni del Kong, il termovalorizzatore
che svettava accanto al paese e vaporizzava i rifiuti di mezza Italia,
avevano reso sterili le coppie, o forse, come farneticavo da bambina,
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in tempi di recessione nessuno voleva più figli e i neonati venivano
gettati come combustibile nell’inceneritore, quando scarseggiavano le
favole o le ecoballe da raccontare. Restava il fatto che a Traviate ero
una sorta di creatura marziana, un piccolo scherzo della natura nella
grande messinscena di alienazione collettiva recitata dagli adulti. E,
fatalmente, alla fine anch’io ero stata contaminata. Che possibilità di
scampo potevo avere quando il destino mi veniva additato addirittura
dal nome del paese? La realtà è il luogo in cui si coagulano le parole e
non può essere altrimenti visto che se esistiamo dobbiamo occupare
uno spazio e ciò implica il nostro coincidere con un corpo e un luogo.
Le mie carni e il mio paese: è così che il cerchio si chiude. E’ così che le
fantasie della mia infanzia erano state traviate e pian piano, senza
accorgermene, ero diventata una donna adulta.
‒ “Mi spiace, Marianna” ‒ dissi con la voce umida di colpa.
‒ “Perché?”
‒ “Tu non lo sai. Io non lo so. Noi non lo sappiamo. E non potrebbe
essere altrimenti: nessuno sa perché parliamo, perché scriviamo,
perché viviamo. Ecco, forse è proprio questo non sapere fatto di
parole, spalmato sopra una fetta di panegirico per addolcire la pillola,
che ci rappresenta, tutti.”
Marianna mi squadrò specchiandosi nella mia espressione perplessa,
poi si strinse nelle spalle.
‒ “Dici troppe cose che non capisco… cose campate per aria che
volano via, tipo quando soffi un dente di leone” ‒ la bimba chiuse gli
occhi e tacque per una manciata di secondi ‒ “Cose che spariscono
subito senza lasciare traccia, proprio come un suono.”
‒ “E’ per quello che le scrivo: verba volant, scripta manent” ‒ replicai,
addolcendo le parole con un sorriso materno.
‒ “Dev’essere divertente!”
‒ “Cosa?”
‒ “Scrivere cose campate per aria…” ‒ impugnò il gesto di una penna
che traccia nel vuoto le arcate di un ponte ‒ “però è più divertente
andare in altalena.”
‒ “Già…”
‒ “E anche se mi piace starti ad ascoltare quando parli strano che
sembri quell’amico giapponese di papà, il gelato mi piace di più.
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Vorrei tanto un cono panna e pistacchio… non me l’hai mica fatto
mangiare nella storia, ma ho ancora la moneta!”
Ma quanto ero stronza?
Presi sottobraccio Marianna e uscii dal bagno, in pieno fermento
creativo. Forse potevo prendere spunto dalla Bibbia: esiste qualcosa
che possa rappresentarci meglio del libro più letto al mondo, di cui
sono state stampate e vendute 4 miliardi di copie negli ultimi 50 anni?
Saccheggiando l’immaginario biblico, nella pianura inondata dalla
marea gialla, un’arca avrebbe potuto apparire all’orizzonte e venire in
salvataggio di Marianna. Avrei potuto riempirla di personaggi, invece
che di animali: il signor Piumini che si accinge a vivere un’altra bella
giornata, Badr col suo veliero di legno, Luisa e Paolo di ritorno dalla
gita a Bismantova, la donna-violoncello rimasta vedova, l’uomo che
dorme su un lettino da spiaggia, Matteo e la sua nutria divina, il
fotografo di asfalti che non progetta una mostra, Attilio Savinio che
ritrova la poesia, Jan il saltimbanco, Angela, l’Angelo e il nulla che è
già qui, Massimo e la sua vescica, i tre astro-martiti da reality, il poeta
che scrive e posta poesie su Facebook, Enrica e Antonia che aspettano
invano il nipote, Dante toccato sull’onore, Jack in un letto di cartoni,
Francesca gelosa della casa di Lei, il gimmefive che guarisce, Orazio e
l’uomo che dice, Ida col suo ictus giovanile, il cowboy esperto
d’inseminazione, Sisifo adeguatamente sifonato, Ugo Dei e il suo tè
d’altri tempi, Elio con il suocardio, Samu e la sua cricetina Priscilla,
Igor e Tobia col Vocal dog, la Madonna e chi ha paura di restare qui, il
negrone fuori campo, il camice bianco della dottoressa Rosci, e così
via, fino a stipare l’arca di esistenze possibili, di molteplici ed infiniti
riflessi di noi.
Voglio vedere se Stefano avrà ancora il coraggio di criticarmi dicendo
che questo non è un racconto che ci rappresenti, ghignai fiduciosa e
mi diressi alla postazione computer per ritoccare il brano.
Eppure mi bloccai alle prime righe: stavo di nuovo rischiando di
smarrirmi in un ozioso divertissement letterario… Già sentivo
riecheggiare nelle orecchie la voce di mio marito, pronto a reiterare le
sue critiche impietose sulla scarsa rilevanza umana e sociale del tutto.
D’istinto, decisi di rimaneggiare in modo più esteso il racconto:
Stefano pretendeva che rimestassi nell’attualità, che sviluppassi un
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soggetto più tangibile e concreto? Ebbene, la storia scritta fin qui mi
offriva l’occasione ideale per accontentarlo. Lasciai che la marea gialla
allagasse la pianura in ogni direzione, fino all’orizzonte. Poi calai in
mare il barcone.
Afa d’agosto. Navighiamo da giorni verso un ignoto rotondo, privo di
appigli. Inizio a pensare che abbia ragione tu, cioè che spesso si cerchi
ciò che non abbiamo perso. Ecco perché la rotta si richiude su se stessa
ed è probabile che se potessimo tracciarla sopra una cartina,
otterremmo solo e sempre cerchi. Eppure trovo legittimo il nostro
desiderio di toccare con mano qualcosa di completamente diverso da
questa vita, anche perché l’esperienza diretta mi ha insegnato che
possiamo imparare solo per esperienza diretta. Quindi studiare storia
non serve, meglio guardarsi intorno: l’acqua copre il 71% per cento
della superficie terrestre, chi è nato in riva al mare bene o male sa
nuotare, ma non potrà mai farsi crescere le branchie. Probabile che ci
attenda una sfilza di eterni ritorni…
Digito sul tablet la parola “mare” e affido il mio vagare ad un motore
di ricerca. Le immagini che ottengo m’appaiono irritanti e patinate:
acque cristalline, sabbia che luccica e mare profumato di salsedine
rassicurante. Sussurri, flussi e riflussi vacanzieri che riflettono
sull’oggi e sul domani vite migliori in offerta speciale.
‒ “Non c’è limite al futuro, finché non è presente” ‒ dico, e ammicco
fuori bordo all’acqua torbida e oleosa: una petroliera s’è fatta i
gargarismi in mare e l’alito stagna a mezz’aria nella calma piatta.
‒ “Piantala di sparare cazzate” ‒ berci tu.
Hai ragione anche stavolta, ma sono troppo ostinata per non mettermi
in competizione col silenzio quando ha un tono così saccente. Sfioro il
tuo volto pensieroso e avverto un tremore sottopelle mentre stringi al
petto con più forza il fagotto di stracci che avvolge nostra figlia
Marianna. Il sole sta accostandosi al limite dell’orizzonte
‒ “Cos’hai?” ‒ chiedo al tuo sguardo atterrito.
Temo che tu possieda un sesto senso, ereditato da antenati marinai, o
forse una crepa nel legno marcio t’ha graffiato a sangue i piedi nudi,
piantati sulla barca. Fatto sta che sai già tutto.
Il sole si accovaccia sopra l’orizzonte e smuove l’acqua: ho l’illusione
di vedere onde semicircolari venirci incontro, ma in realtà la barca
299
inciampa da sola, s’inclina a tribordo e il peso dei corpi ammassati
preme con più forza su di noi. Qualche attimo dopo il sogno
scricchiola in tre quarti e il legno dell’imbarcazione canta il suo strazio
con voce spezzata.
‒ “Sull’altro lato! Spostatevi sull’altro lato!!” ‒ è il ritornello asfittico,
gridato da un coro di bocche sformate. La calca mi schiaccia contro un
uomo la cui pelle copre a stento le ossa. Sento gli spigoli cercare
spazio nel mio corpo e posso solo specchiarmi nel suo imbuto di
labbra spalancate per succhiare brandelli d’aria. Attimi frenetici. Del
liquido mi scorre sulle gambe e mi convinco che l’uomo si sia pisciato
addosso: non ho il coraggio di ammettere che potrei essere stata io. Il
groviglio di carni si deforma, sembriamo plastilina nella mani di un
bambino capriccioso e la spinta un po’ alla volta mi allontana da te.
Un metro. Due. Tre. Il tanfo di secrezioni incrostate, cui ci eravamo
assuefatti, viene lubrificato dal sudore freddo di terrore e spremuto
fuori a forza dall’ammasso di corpi. E’ l’unica cosa che si muove: per il
resto sembriamo il fermo immagine di un rompicapo fisico in precario
equilibrio sul vuoto. Dura all’infinito.
‒ “Stefano! Marianna!” ‒ provo a sillabare con gli occhi.
‒ “Anna!” ‒ gridi con le palpebre.
Vorrei urlare il tuo nome e quello di nostra figlia, ma non ho più aria
in petto: il lamento resta muto e stagna come saliva troppo densa
sull’orlo dell’imbuto. Sto per svenire quando il fianco dell’imbarcazione bacia l’acqua e tutti insieme, con la compattezza di un gomitolo
d’arti, schiantiamo in mare. Non faccio in tempo a tirare il fiato che la
barca si capovolge su di noi e andiamo giù. Sguscio di lato, tengo a
bada l’orrore con boccate rabbiose d’acqua salata e qualche sorso
d’aria. Una calma sfinita mi appesantisce le gambe, ma il mio corpo
conosce le leggi della fisica e pretende d’essere spinto verso l’alto.
Così riemergo.
Non ci siete. Di oltre duecento che eravamo, conto soltanto una decina
di teste. Dovete essere stati trascinati giù dal relitto insieme a quasi
tutti gli altri. Caccio la testa sotto e spingo verso il basso, ma non
riesco a immergermi: il resto del tronco vuole galleggiare. Il mare è
gelatina torbida, in cui la luce tangente non riesce più ad entrare.
Intravedo un game-boy che oscilla sospeso poco sotto il pelo
dell’acqua. Lo schermo nero si confonde con il resto, l’esile cornice
300
bianca non ha ancora deciso cosa fare. Il sole scompare, tra poco sarà
buio.
Intorno ai superstiti c’è mare e mare in ogni direzione. Non siamo
stati fortunati come il barcone di qualche mese fa, quello che è
affondato quando era già in vista dalle coste africane. Senza una
direzione verso cui nuotare, resto aggrappata a un pezzo di legno
sputato dal mare, forse perché davvero troppo marcio. L’odore di
salmastro entra nelle narici, brucia la gola. Il mare è piatto, né caldo né
freddo, totalmente silenzioso: sono costretta ad ascoltare i miei respiri,
così ingenui da somigliare a gemiti di Marianna. Quando tutto ormai
si confonde nella penombra, un iPhone fluttuante in una custodia
impermeabile s’illumina e trilla ovattato: la suoneria è un vecchio
successo dei Fab Four Fun ai tempi della grande recessione. Infesta il
nulla per circa un minuto, ma nessuna delle teste galleggianti ha
voglia di allungare un braccio. Poi, per una sorta di amnesia collettiva
riusciamo a dimenticarci di esistere.
All’alba un peschereccio tunisino ci riporta in vita e quando
avvistiamo terra, il sole del primo pomeriggio mi ha asciugato
addosso lacrime e stracci. E’ allora che ho la certezza che avevi
ragione tu: cerchiamo ciò che non abbiamo ancora perso. Giunti in
porto, non trovo la forza di scendere dall’imbarcazione. Barcollo verso
poppa e spingo lo sguardo indietro frugando il mare aperto. Ho
l’impressione di vederti camminare sopra l’orizzonte con Marianna in
braccio: sembri un’equilibrista sul filo teso al limite tra cielo e mare.
Nonostante le mani restino saldamente ancorate al parapetto del
peschereccio, sogno di cadere in acqua e non riesco a non pensare che,
in fondo, ora abbiamo tutti e tre qualcosa di completamente diverso
da questa vita. Già, in fondo…
Mezz’ora dopo ero di nuovo pronta a sottoporre lo scritto alle critiche
spietate di Stefano: stampai, gli porsi il malloppo e rimasi in attesa in
silenzio. Riuscii a resistere dieci minuti, poi chiesi ansiosa.
‒ “Allora? Così è meglio no?”
‒ “Mmmm… si vede lontano un chilometro che è racconto tutto
raffazzonato.”
‒ “Perché?”
‒ “E’ scritto andando a caso. Presente, passato…”
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‒ “Non è vero, ma anche se fosse, allora rispecchia in modo fedele i
casini della vita e di conseguenza non può che rappresentarci bene.”
‒ “Mah… sai che ti dico? Primo, che questi trastulli letterari lasciano il
tempo che trovano: la vita vera è per le strade, tra la gente… Secondo
che comunque stai cercando l’araba fenice: non può esistere qualcosa
che ci rappresenti tutti, semplicemente perché siamo tutti unici e
irripetibili, quindi troppo diversi gli uni dagli altri.”
Decisi che stava dandomi contro per punto preso e che stavolta non
gliel’avrei data vinta senza lottare.
‒ “Non so, Stefano… mi pare che esageri. E comunque l’essere troppo
diversi è relativo: a ben vedere, non è escluso che si possano trovare
più somiglianze che differenze addirittura tra un uomo e un asino.”
Mi guardò stranito al limite dell’offeso, aggiustandosi gli occhiali sul
naso, un gesto che tradiva una palese irritazione. Replicò con tono
professorale, che non ammetteva repliche.
‒ “Una rappresentazione mentale è un simbolo cognitivo interno con
proprietà semantiche che astrae la realtà esterna e istituisce di per sé
uno scarto rispetto alla realtà stessa. Per questo motivo, se da un lato
produciamo un sistema di norme e simbologie, costruendo realtà,
dall’altro dobbiamo fare i conti con l’inverso, ovvero che nel
contempo non siano piuttosto le norme e le simbologie, che nella
società assumono connotazioni strutturate e sistematiche, a plasmare
lo sviluppo dei soggetti a loro immagine e somiglianza.”
Accusai il colpo, ma per fortuna il silenzio calato sulle parole di
Stefano fu addolcito dal pigolare del mio smatphone.
‒ “Scusa un attimo” ‒ dissi, felice che Giulia avesse risposto proprio in
quel momento a un mio precedente messaggio. Lessi l’sms, salivando
di piacere: la cena per l’indomani all’agriturismo Prelibatezze Arcane
era confermata.
‒ “Allora? Non mi…” ‒ iniziò a protestare Stefano con tono sarcastico,
ma per fortuna anche il suo i-Phone vibrò e trillò proprio in quel
momento.
‒ “Fai pure, così rispondo anch’io” ‒ convenni accomodante.
Rimbalzai il messaggio a Giulia e, con l’occasione, diedi pure
un’occhiata ai like in calce al selfie che avevo postato all’ora di pranzo,
al centro commerciale, durante il massaggio ayurvedico del giovedì.
Stefano ci mise di più per espletare le incombenze, così rimasi per un
302
po’ a guardarlo: il sole era calato e la stanza si era velata di penombra.
Dovetti ammettere che il suo volto, illuminato a male pena dai cristalli
del touch-screen, sfoggiava lineamenti maschi e sensuali. Sospirai
sentendo un piacevole senso di calore salirmi dall’interno e guadai
con più coraggio oltre i vetri della finestra: l’ultima neve, caduta
lunedì, pian piano stava ormai sciogliendosi, benché non fosse
difficile prevedere che anche stanotte saremmo andati sotto zero.
‒ “Hai ancora molto?” ‒ chiesi con voce muschiata ed arrendevole,
dopo una decina di minuti.
‒ “Scusami… è Rutineau, ci sono novità per il paper sul JCS. Uno dei
referee ha risposto in modo favorevole, ma ha chiesto una serie di
modifiche” ‒ posò l’i-Phone e tornò a guardarmi ‒ “…cosa stavamo
dicendo?”
‒ “Niente di importante… ti va se accendo il camino, per il dopo
cena?” ‒ suggerii ammiccante, cinguettando il nostro segnale in
codice.
Sorrise.
‒ “Sono già tutto un fremito, signora…”
Disposi a capanna alcuni tronchetti pressati e preparai la diavolina. In
cerca di carta che attizzasse il fuoco più velocemente, appallottolai le
pagine del racconto che avevo stampato e le sistemai alla base del
tutto. Quando la carta prese fuoco, per un attimo mi parve di udire la
mia voce bambina urlare spaventata. Povera Marianna, pensai, ma
subito mi consolai pensando che l’inondazione di liquido giallo
l’avrebbe protetta dalle fiamme, nel racconto, e che pertanto la piccola
non correva alcun rischio di essere arsa viva.
Restai incantata a guardare i fogli trasformarsi in lingue di fuoco
danzanti, con tonalità che sfumavamo dal giallo al rosso. Il calore mi
si proiettò luminoso sul volto e nel rincorrersi dei chiaro-scuri dentro
il camino immaginai di intravedere i fotogrammi del mio ultimo
racconto, deludente sotto ogni aspetto. Mossa da uno slancio
autocritico sincero, dovetti rassegnarmi e ammettere che non solo non
avevo convinto Stefano, ma neanch’io ero davvero soddisfatta del mio
operato. Il richiamo alle carrette del mare, poi, argomento d’attualità
fin troppo abusato nei salotti buoni, su cui avevo ripiegato a posteriori
nell’illusione di poter arricchire il racconto, pareva un corpo estraneo,
303
un inserto pubblicitario avulso dal resto della trama… eh, della serie,
è proprio vero che spesso il rimedio è peggiore del male!
Solo quando il fuoco consumò le ultime righe dell’ultimo foglio
compresi la verità. Folgorata dall’intuizione, restai con lo sguardo
vitreo e la bocca semiaperta, nonché con la mano sospesa in un gesto
interrotto a mezz’aria. Come avevo potuto non rendermene conto? Il
racconto era perfettamente riuscito e il mio stupore fu tale che
continuai a fissare la base del camino per una decina di minuti. Nella
cenere. Nella cenere polverosa era scritto il racconto che ci
rappresenta tutti.
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Indice
Premessa della tredazione...……………………………….. pag. 4
“Bene” di Lorenzo Carbone……………………………….. pag. 5
“Zohor filistin (Fiori di Palestina)” di Jihan …………….. pag. 12
“La pietra di Bismantova” di Luigi Tuveri………………. pag. 18
“Al palasport” di Scrittorucolo……………………………. pag. 34
“Un vuoto di rosso al giorno” di Ottavio Taranto………. pag. 39
“Riflessi condizionati” di effeffe…………………………... pag. 50
“I sommersi e i salvati” di Autore Ics…………………….. pag. 56
“Alla ricerca di Dio” di Franco Libus (Uomo Pallido)….. pag. 61
“Un silenzio sociale” di Andrea Inglese……………..…… pag. 73
“Incroci” di Sara Ricci…………………………………….… pag. 79
“La Paz dell’angelo” di Alessandro Gabriele………….…. pag. 87
“Il saltimbanco” di Stefano Antonio Bugannannna….….. pag. 98
“Il profumo” di Maddalena Signori (mari mari)……….... pag. 111
“Una morte, un desiderio” di Angelo Tozzi……………... pag. 115
“In inverno c’è sempre un poeta che scrive una poesia
chiamata neve” di Alessandro Ansuini………………..… pag. 127
“La visita” di Barbara Ferraris Di Celle………………….. pag. 132
“Il papa” di Francesco Smaldino (taughtbythirst)………. pag. 137
“Senza dimora” di Baricco Sfondato……………………… pag. 142
“Compenetrazione” di Emanuele Mandelli……………… pag. 151
“Gimmefive” di Paolo Gera………………………………... pag. 175
“Moet” di Giorgio Brunelli………………………………… pag. 186
“Ida e la cosa” di Margherita Eallaigamma……………… pag. 194
“L’incontro sciroccato” di Villa Dominica Balbinot……... pag. 211
“Sisifo e il sifone” di Enzo Cofani (Barcaiolo)……………. pag. 222
“Il tè” di Rebecca Lena……………………………………… pag. 236
“Miocardio” di Roberto Miano…………………………….. pag. 245
“Recidivo” di Michele Caponi……………………………... pag. 251
“In parole povere” di Fabrizio Romano…………………... pag. 257
“Vita, dolcezza e speranza nostra” di Antonio Sofia……. pag. 265
“Il quasi corpo” di Livio Borriello…………………………. pag. 276
“Il risveglio” di Giovanna Rotondo Stuart………………... pag. 281
“Un racconto che ci rappresenti” di malos mannaja……... pag. 290
Indice………………………………………………………….. pag. 305
305
306