Alexandre Hmine - Associazione Dialogare Incontri

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Alexandre Hmine - Associazione Dialogare Incontri
Premio Dialogare 2004
Riflessione
Per conoscere meglio Alexandre Hmine ....
Il suo itinerario.
Per quanto riguarda il periodo di tempo compreso fra l’1 a. H. e i
primi anni della mia vita per la verità non saprei raccontarle molto.
Il mio passaporto dice che sono nato a Lugano il 3 febbraio del
’76 e che nei tratti del viso somiglio molto a mia madre. I fatti
dicono che mia madre ha lasciato il Marocco incinta e mio padre
è invece rimasto nel suo paese. Sul resto non ho mai indagato
con scrupolo. Dopo pochi mesi mi hanno (o mi ha?) spedito a
Vezio, un piccolo paese del Malcantone, presso una signora
anziana che si è occupata di me con grande sacrificio e affetto.
Nel momento in cui è venuta a mancare ho lasciato Vezio e mi
sono riavvicinato a mia madre. Qualche anno a Gravesano. Poi,
Lugano. Nel frattempo avevo terminato la scuola dell’obbligo e mi
ero iscritto al liceo.
Mia madre si è poi sposata con un marocchino e da questo
matrimonio nel ‘93 è nata Sara.
Ultimati gli studi liceali mi sono iscritto alla facoltà di lettere
dell’Università di Pavia e nel 2002 mi sono laureato con una tesi
sull’espressionismo nella letteratura italiana del Novecento.
Vivo ancora a Lugano con la mia famiglia, collaboro con la RSI,
con il settimanale “Azione” e svolgo occasionalmente delle
supplenze di italiano nelle scuole del Cantone.
Quali ostacoli ha incontrato sulla sua strada?
Molti, ma se devo scegliere i più significativi: sedermi a un tavolo
con venti marocchini che urlano e ridono per ore e non capire una
frase, non poter parlare come vorrei con mia nonna quando vado
a trovarla, spiegare ripetutamente i motivi per i quali non parlo
l’arabo senza dover raccontare la storia della mia vita. C’è
dell’altro, però. La lingua è solo una parte del problema. C’è la
religione. Ci sono le tradizioni. C’è un mondo intero del quale
percepisco la presenza, ma che non riesco a toccare. Come una
melodia che risuona e poi si disperde. Una melodia di fronte alla
quale ho ripetutamente chiuso le orecchie.
Che cosa la spinge a scrivere?
All’età di tre anni mi hanno regalato delle piccole letterine di
plastica. Dicono che fossi particolarmente entusiasta per il regalo
e che avessi subito chiesto e ottenuto altre letterine. Dopo pochi
mesi il pavimento della mia camera era completamente coperto
da letterine colorate. La signora si arrabbiava, gridava: “Togli
queste maledette ipsilon; qui non si riesce a camminare!”. È
cominciata così. Allineavo casualmente le lettere e chiedevo alla
signora che cosa avessi scritto:
-xcgin, hai scritto.
-E che significa?
-Niente.
-Ah.
Mi piace pensare che sia una vocazione. Tutti abbiamo bisogno
di comunicare. A me piace farlo in questo modo. In silenzio e
soppesando adeguatamente la scelta delle parole.
Una domanda d’attualità: lei -se fosse una donna- porterebbe
il velo?
La sua domanda, formulata in questo modo, mi perdoni, non mi
piace. Non sono donna e non sono musulmano. Se le interessa le
posso più semplicemente dire che cosa pensi del velo.
Ritengo che una risposta soddisfacente alle vivaci discussioni
suscitate da questo tema negli ultimi tempi non vada ricercata nei
testi sacri. Inoltre penso che il vero nodo da sciogliere non sia
nemmeno quello di stabilire se il velo mortifichi o meno la dignità
della donna. La dignità della donna è mortificata solo in ragione
del fatto che non le si concede la facoltà di decidere liberamente
(che si tratti del velo o di andare a bere un caffè).
A me sembra che l’analisi debba essere invece ricondotta ai
seguenti quesiti, nessuno dei quali di carattere prettamente
religioso:
1. L’uomo (uomini e donne), per piacere a se stesso e agli altri,
per conquistare e sedurre, fa bene o fa male a esibire la propria
esteriorità, relegando in secondo piano o mettendo addirittura a
tacere tutte le altre sue “dimensioni”?
2. Ci sono donne che portano il velo ma si truccano vistosamente
e ci sono visi che un velo può anche esaltare. Pertanto chiedo:
non può essere che la scelta di portare il velo sia semplicemente
un modo come tanti altri per affermare ed esibire la propria fede
religiosa? E se è così, come giustificare questo bisogno?
Non vorrà mica le risposte da me?
Un sogno nel cassetto.
Nella mia camera c’è un solo cassetto. Lì dentro ci sono poesie,
racconti, aforismi, idee. La maggior parte di esse finirà nella
spazzatura. Altre, forse, resteranno lì per molti anni. La speranza
è che da questo cassetto prima o poi esca qualcosa destinato ai
comodini della gente. Di oggi o di domani poco importa.
(a cura di Claire Fischer)