Velo islamico: simbolo religioso o “messaggio”
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Velo islamico: simbolo religioso o “messaggio”
(Settembre 2012) Velo islamico: simbolo religioso o “messaggio” politico? di Nicoletta Parisi 1. Il 2 settembre di quest’anno, per la prima volta dopo cinquant’anni, una conduttrice della televisione pubblica egiziana si è presentata con il “velo”, in particolare con lo hijad, un fazzoletto che copre il capo nella sua interezza lasciando libero il volto. L’evento non può che essere messo in relazione con le recentissime vicende politiche che hanno portato alla presidenza Mohammed Morsi, segretario del partito Libertà e giustizia, esponente dei "Fratelli mussulmani". Si è voluta così abbandonare una prassi che voleva dare della società egiziana un’immagine di “modernità”. Alle donne il “velo” era infatti vietato nello occasioni in cui l’Egitto veniva a contatto con il mondo esterno: in televisione, sui mezzi di trasporto internazionali, negli hotels, nelle relazioni diplomatiche. L’evento è stato immediatamente valutato dai media dei Paesi occidentali come una conquista in termini di libertà e rispetto dei diritti della persona: il divieto del regime di Mubarak era stato finalmente bandito e le donne potevano (o dovevano?) tornare ad usare un simbolo che risponde alla fede religiosa di loro appartenenza. Noi donne occidentali saremmo tentate di concludere che ciascuna di noi dovrebbe poter godere della libertà di pensiero e di religione, e dunque utilizzare il simbolo a propria discrezione. In verità la questione non è così semplice come appare. E a chi scrive non sembrano proponibili soluzioni univoche. 2. Una prima questione è se il “velo” sia un precetto richiesto a chi professa il culto islamico. Vi sono voci assai autorevoli che dichiarano il contrario. Lo studioso islamico Mohammad Sayyd Tantawi, nell’occasione della controversia sorta in Francia nel 2008 sull’uso del “velo” da parte di studentesse islamiche, aveva dichiarato che esso è un simbolo religioso, ma che si può non utilizzarlo: la questione riguardava il divieto di indossare il “velo” durante l’ora di educazione fisica fatto dalle autorità francesi a due studentesse sulla base di esigenze di salute. Ne era conseguita l’espulsione dalla scuola delle due giovani donne. Peraltro non pochi sono i precetti del Corano che sembrano evocare l’uso del “velo” per la donna. Si discute se i passi impongano l’obbligo del suo uso o se solo lo consiglino. E si dibatte sulle varianti di esso utilizzate nei diversi Paesi di tradizione islamica: dalla veste che copre interamente la persona celando persino gli occhi con una rete (il burqa, praticato in Afghanistan), al niqab (che lascia evidenti gli occhi, in uso in Arabia saudita,), al chador (sorta di mantello che lascia libero il viso, diffuso in Iran), alla hijab, appunto, tanto indossato in Europa e ora reintrodotto in Egitto. L’estate scorsa Sheikh Mustapha Mahamed Rashed, dell’Università Al Azhar de Il Cairo, ha scritto che l’obbligo del velo è frutto di un’interpretazione decontestualizzata di questi passi del Corano e che esso è oggi un portato di tradizioni storiche tribali che vogliono la donna sottomessa all’uomo. 3. Una seconda questione attiene alla valenza simbolica del “velo”: in Egitto e, qui, in Europa. Le prime reazioni delle donne di fede islamica impegnate politicamente per l’affermazione di una società democratica nel proprio Paese hanno vissuto la “rivoluzione” mediatica egiziana come una violazione della propria libertà di scelta: è vero che prima di allora l’uso del “velo” era vietato nelle occasioni pubbliche, ma ora è imposto e sembra legato a un messaggio ideologico di cui potrebbe farsi portatore il nuovo sistema politico egiziano, che sembra avere come obiettivo l’islamizzazione della società egiziana. Lo scrittore franco-algerino Sifaouni sostiene che il “velo” sia simbolo di una rivoluzione politica, non di un credo religioso. Ovvero ci si interroga su quali sarebbero le conseguenze per una donna che oggi lì (ma anche in Europa, se inserita in una comunità, anche solo familiare, islamica) non voglia portare il “velo”? Irrilevanti oppure suscettibili di introdurre discriminazioni ai suoi danni? Occorre al proposito valutare il peso di un messaggio mediatico come quello che è stato impartito il 2 settembre. 4. In Europa, abbiamo l’esigenza intellettuale di affrancarci dal sillogismo – così diffuso – che lega il “velo” all’islamismo, dunque al fondamentalismo, infine al terrorismo. Dovremmo poter accettare che il “velo” usato nelle nostre vie, nelle scuole, nei luoghi di lavoro sia manifestazione di una fede religiosa scevra da implicazioni politiche. Se vogliamo essere concettualmente coerenti dovremmo condividere l’assunto che la nostra cultura, la nostra società, dunque il nostro ordinamento giuridico – che si dichiarano “laici” - devono accettare l’esistenza di tutti i possibili contenuti culturali (anche religiosi) di cui sono portatrici le persone che vivono in Europa. Questo approccio purtroppo si rivela assai semplicistico. E’ infatti proprio la valenza simbolica del “velo” a complicare la situazione: ogni simbolo ha un significato polisemico, se non altro quello della persona che lo usa e quello della persona che lo percepisce, ovvero quello del contesto sociale in cui esso è diffuso. La Corte europea dei diritti dell’uomo – che siede a Strasburgo e che giudica se negli Stati europei parti contraenti della Convenzione siano stati violati diritti e libertà della persona che la Convenzione stessa dichiara fondamentali – ha in diverse occasioni dovuto occuparsi del rispetto del credo religioso a fronte di provvedimenti nazionali indirizzati a limitarne l’esplicazione. Poiché essa giudica il caso sottoposto alla sua attenzione e non dà criteri di soluzione dei conflitti di portata astratta, possiamo avere indicazioni soltanto concrete circa la portata dell’art. 9 della Convenzione europea che tutela la libertà religiosa. Si ricava da questa giurisprudenza che il velo è un simbolo religioso “forte” (caso Lucia Dahlab c. Svizzera, 2001), ma che il diritto a manifestare la propria religione in pubblico tramite questo simbolo può subire limitazioni, poiché esso deve essere bilanciato con altri interessi, quali per esempio la sicurezza pubblica che esige verifiche di identità (caso Fatma El Morsli c. Francia, 2008), o la salute umana (caso Dogru e Kervaci c. Francia, 2008). E’ un periodo difficile: siamo nella condizione di dover accettare tante diverse identità; ciò significa pluralismo, dunque democrazia. Tuttavia questi tempi si connotano per una condizione di continua fragilità e insicurezza, indotta dalle minacce alla sicurezza individuale e collettiva. A proposito del “velo”, come per altri simboli religiosi “forti”, non vi è una “ricetta” che valga universalmente e per ogni situazione concreta, anche se in molti di noi vi è l’aspirazione a un assetto meno fluido, meno “liquido” per dirla con Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), che risponda a principi di civiltà diffusamente condivisi.