scoprire e ri scoprire

Transcript

scoprire e ri scoprire
M. D’AURIA EDITORE
scoprire e riscoprire
01
A Don Giuseppe Rassello, testimone di Cristo.
Egli amò e fece amare il Rione Sanità,
anche così amando e facendo amare
la gente della Sanità.
Regalate ai bambini profonde radici. Da grandi avranno le ali.
(Rabindranath Tagore)
Se chi spera nella condizione umana è un folle, chi dispera è un vile.
(Albert Camus)
Siamo poveri e facciamo ricchi molti. Siamo uccisi e continuiamo a vivere.
(Diogneto)
SCOPRIRE,RISCOPRIRE:
L’“EUTOPIA” DI UNA CHIESA-MADRE
Donatella Trotta
La Sanità ha un’anima antichissima. Intrisa di sangue e di
speranza. Un’anima femminile e materna, come la sua Basilica
seicentesca: cuore pulsante del quartiere, rifugio monumentale,
accogliente e silenzioso - che dona pace e ordine al caos
dell’esistenza quotidiana - e scrigno carico di senso che irradia
bellezza, sempre salvifica. Una chiesa, casa di Dio e della sua
gente, protetta dall’icona benefica della Madonna della Sanità,
Santa Maria della Salute di anime e corpi - raffigurata in pietra
da Michelangelo Naccherino e in pittura da artisti paleocristiani
o a noi contemporanei – che qui si trasforma anche in luogo di
aggregazione, progettazione e compassione. Ben oltre il sacro.
E ben oltre il ponte murattiano che, anziché unire come tutti i
ponti, ha diviso, separato, emarginato in un mondo a parte un
popoloso microcosmo sociale e ambientale ricchissimo - come
la vita - di chiaroscuri e contraddizioni, ma anche di tesori storicoartistici, architettonici, artigianali e di risorse umane nel segno
fecondo della creatività. Tutti valori - simbolici e concreti,
materiali e umani, laici e religiosi - che possono diventare, come
i beni culturali del patrimonio italiano, potenzialità trasformanti
per il presente e per il futuro di questa zona di Napoli. A patto
però di (ri)conoscerne, custodirne, tutelarne e valorizzarne promuovendole - le radici profonde di un’identità corposa. Che
alla Sanità si dirama, da un passato bimillenario, in rami
contemporanei i quali, se adeguatamente nutriti, possono svettare
come ali nell’orizzonte dell’avvenire.
È da queste premesse che nasce il libro che avete tra le
mani: una guida alla Basilica di Santa Maria della Sanità che
non a caso apre una nuova collana editoriale dall’eloquente
titolo «Scoprire e riscoprire», pubblicata con il prestigioso marchio
del Pontificio Editore D’Auria. Il suo intento è raccontare a
tappe - con testimonianze via via fotografiche, artistiche,
teologiche, narrative, antropologiche, architettoniche, religiose
e sociali, in costante dialogo tra passato e presente - l’identità
poliedrica prismatica e plurima di un quartiere troppo a lungo
mortificato da un destino (non ineluttabile) di degrado, causato
dall’incuria e dall’indifferenza - malattia mortale che Raoul
Follereau definiva «lebbra del nostro tempo» - di molti, ignari
che tutti siamo responsabili di tutto, come ricordava don Primo
Mazzolari, o dimentichi che «non c’è un bene di cui io non sia
partecipe, né un male di cui io non sia responsabile», secondo
la convinzione di Teresa d’Avila.
Questo libro, come gli altri già in cantiere che verranno,
è la prima tappa di un progetto di divulgazione/promozione
culturale, di cittadinanza attiva, di fede e di servizio pastorale
e sociale che nasce da un lungo, paziente e appassionato percorso
iniziato oltre vent’anni fa dal parroco Giuseppe Rassello, aiutato
negli ultimi anni di vita dalla sapienza d’amore del teologoPastore Bruno Forte, prima che il testimone passasse, nel 2001,
all’attuale vulcanico parroco, padre Antonio Loffredo, che ha
fortemente voluto questa (ennesima) iniziativa di (ri)lancio del
quartiere.
Di Rassello e Forte, cuori pensanti generati dalla Chiesa
di Napoli (e fermamente convinti, con Paolo VI, che la rottura
tra il Vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra
epoca), potete qui leggere le testimonianze “paradisiache”, tra
agiografia e simbolica ecclesiale, in un catalogo che invita a
scoprire la Basilica della Sanità anche con i testi della storica
dell’arte Maria Grazia Gargiulo. Altre testimonianze si uniranno
a questa, sulla via della speranza progettuale che si sta pian piano
allargando, alla Sanità, con il moltiplicarsi di pellegrini e cercatori
di verità in cammino verso l’utopia concreta (l’eutopia di don
Tonino Bello) di un riscatto collettivo che possa, finalmente,
far più rumore di un albero che cade nel silenzio di una foresta
che - malgrado l’inquinamento e l’ostacolo dei pregiudizi,
dell’ubiquità e della banalità del male - continua a crescere. E
accanto a preti coraggiosi e sognatori, con la testa fra le nuvole
e i piedi per terra, si sono così affiancati negli anni, alla Sanità,
volontari, amici, estimatori, benefattori, residenti o esterni al
quartiere: una piccola grande comunità consapevole, con il
poeta Hölderlin, che laddove c’è il pericolo, cresce anche ciò
che salva, e che senza rischio non c’è fedeltà (secondo il magistero
di don Tonino Bello). Perciò questa comunità ha accettato la
sfida di un impegno corale e condiviso declinando lo scrivere,
il fotografare, il dipingere, il progettare, l’educare, l’ascoltare in
altrettante voci del verbo “amare”.
In quest’ottica, nello sguardo dell’intelligenza delle
emozioni e di passioni forti che intendono “schiaffeggiare la
Provvidenza” perché essa ricompensi con l’abbondanza (come
prometteva San Gaetano Thiene), questo piccolo libro, primo
di una lunga serie, è qualcosa di più di una guida a un
monumento «affascinante palinsesto artistico». È un invito,
certo, a scoprire (e riscoprire) la Basilica di Santa Maria della
Sanità, ma anche ad andare oltre la sua soglia, simbolo per
Bruno Forte - oggi amato Arcivescovo della Diocesi di ChietiVasto - «di una frontiera fra il tempo e l’eterno, fra il pellegrinaggio
della fede e la promessa e sperata bellezza della visione verso cui
si tende e ci si eleva», magari in compagnia dei tanti angeli e
santi di casa alla Sanità, intermediari fra il divino e l’umano.
DALL’UNIVERSO FINITO
ALLO
STUPORE DEL SACRO.
Maria Grazia Gargiulo
Malgrado si collochi in posizione marginale rispetto al tessuto
urbanistico napoletano di età moderna, in pratica fuori delle
mura, nella periferia nord-occidentale che si estendeva verso
Capodimonte, quasi al fondo di quel borgo dei Vergini che si
stava sviluppando all’esterno di Porta San Gennaro per i vincoli
edilizi della legislazione vicereale, la chiesa di Santa Maria della
Sanità si presenta come un affascinante palinsesto artistico,
che va dalle preesistenze cimiteriali di età paleocristiana alle
prime significative affermazioni monumentali su pianta circolare
dell’architettura controriformistica, allo sviluppo artistico d’età
moderna, all’artigianato plastico ottocentesco, fino alle recenti
acquisizioni di opere di artisti contemporanei. In questo
articolato susseguirsi di stili e di gusti vanno letti sia l’importanza
del sito, caro con continuità alla religiosità cittadina, sia il
dipanarsi delle forme di vita consacrata succedutesi nella
gestione del bel complesso conventuale.
LA PRIMA COMMITTENZA
ECCLESIASTICA
La notevole stratificazione artistica che ben riesce a cogliere
l’occhio avvezzo nella chiesa di Santa Maria della Sanità è
segno di una vita religiosa vissuta intensamente, e a lungo.
Ma documenta pure la capacità di rinnovarsi culturalmente
e di saper conservare i segni del proprio passato da parte di
domenicani e francescani qui succedutisi nel tempo.
Ovviamente una considerazione del genere potrebbe essere
fatta per molte altre chiese e sarebbe giustificata da una serie
di motivi, spesso concomitanti, ma qui sembra di riuscire
a leggerli meglio e tutti con sufficiente chiarezza.
La stratificazione è determinata in primo luogo dal
fatto che raramente una grande chiesa – e la basilica della
Sanità presenta misure davvero rilevanti, certo proporzionate
all’ampio retrostante convento, poi scomparso per l’intervento
demolitore del piccone dopo l’incameramento ottocentesco
dell’asse ecclesiastico – poteva essere condotta a termine in
tutte le sue parti nel giro di pochi anni. Le rifiniture
architettoniche e le opere d’arte di arredo, infatti, erano
particolarmente onerose per le comunità locali (anche per
i religiosi, i quali pure erano senz’altro più abili nel
reperimento di benefattori e mecenati legati alla spiritualità
dell’ordine, alle opere pastorali promosse dai singoli o alla
buona fama di qualche venerando religioso). Perciò, una
volta fondato il convento per dare stabilità alla comunità e
inaugurata la chiesa per garantire il culto a servizio dei fedeli,
il resto veniva scaglionato nel tempo. Il tempo, tuttavia, non
trascorreva invano, nel bene e nel male.
Le risorse finanziarie non avevano incrementi stabili.
Il gusto mutava. Le esigenze spirituali della comunità si
modificavano, come pure mutavano le richieste dei
benefattori committenti. La lista di nuovi santi e beati si
allungava, specie per le rinnovate procedure canoniche
approvate agli inizi del Seicento da papa Urbano VIII
Barberini. Per non tacere delle calamità naturali, che con
il loro impeto e la loro frequenza, costringevano
rovinosamente (per le finanze e per l’unitarietà del progetto
artistico) a ritornare su opere già compiute o ad adeguare
quelle a farsi, e così le riparazioni comportavano un
rinnovamento di stucchi, altari, statue e dipinti.
E ciò purtroppo avveniva spesso, essendo la chiesa
collocata nel cuore di quella via alluvionale per la quale si
canalizzavano le torrentizie acque pluviali, che hanno reso
noto il quartiere proprio per le cosiddette “lave” dei Vergini.
D’altra parte, già proprio alle origini della chiesa c’era stata,
poco dopo la metà del XVI secolo, una disastrosa alluvione,
come narra, non molti anni dopo, nella sua informata e
articolata memoria, Cesare d’Engenio Caracciolo: «È dunque
da sapersi, che avanti di questa chiesa [la basilichetta
paleocristiana di San Gaudioso] era un giardino di Clemente
Panarello, il quale da’ suoi eredi fu poi alienato a mastro
Cesare, che esercitava l’arte di spadaio, il quale teneva la
chiesa profanata e se ne serviva per cantina; sopra del giardino
erano alcune camere attaccate alla ripa del monte dove sta
cavata la chiesa, e quella soleva llogare a diverse persone, e
fra gli altri l’haveva allogate ad un nominato Giesuè, il quale
si serviva della medesima chiesa per stalla.
Nell’anno 1569, a’ 19 di novembre, fu in Napoli
una grandissima pioggia, la quale rovinò quasi tutte le case
e palazzi del borgo delle Vergini, e fracassò una parte del
muro del giardino, che richiudeva questa chiesa, e si
riempirono le grotte e chiesa d’acqua e di terreno, cascò la
ripa, la qual fracassò dette camere e ammazzò maestro Cesare
con la moglie, successe al dominio del luogo un suo nipote,
il qual, seguendo l’orme del zio, teneva la detta chiesa
profanata, perciò Iddio gli mandò infirmità tale, che si svelleva
le dita de’ piedi et in breve tempo poi morì. Indi, nell’anno
1570, l’herede di costui fece una picciola via, dalla quale
facilmente si poteva intrar nella chiesa, dove ne’ giorni di
festa nella pubblica strada chiedeva limosine da coloro che
di là passavano, con le quali faceva celebrar messe; il che
intendendo [l’arcivescovo] Mario Carafa, mandò alcuni de’
suoi canonici a veder la chiesa, li quali avendola molto ben
considerata, riferirono all’arcivescovo che la chiesa era
consacrata, perché in molte parti di quella erano dipinte le
croci, che si sogliono fare quando si consacrano le chiese,
perciò la concedé ai padri di San Domenico, li quali per
all’hora non ci fecero cosa alcuna. L’anno poi del Signore
1577, il cardinal [Paolo Burali] d’Arezzo, successor del Carrafa,
di nuovo la concedé a maestro Antonio Camerata del
medesim’ordine et ad altri domenicani, con che ciascun’anno
dovessero riconoscerlo con torchio e palma, altrimenti dal
presente luogo fussero cacciati».
LA STAGIONE
DEL MANIERISMO
I domenicani della riforma lombarda, dunque, per
mandato arcivescovile costruirono sull’antico nucleo
cimiteriale ipogeo il convento, che avrebbe poi dato nome
alla congregazione riformata che da lì si estese anche
altrove, e la grandiosa chiesa, su progetto di fra Giuseppe
Nuvolo, alla quale fu dato l’originale titolo di Santa
Maria della Sanità, da un suggerimento dell’affermato
medico napoletano Antonio Pisano. E all’epoca del grande
sforzo progettuale e costruttivo fa data il più antico nucleo
di opere d’arte presente in chiesa. Si tratta di un gruppo
omogeneo comprendenti dipinti del siciliano Giovan
Bernardo Azzolino (c. 1572-1645), del toscano Giovanni
Balducci (1560-1631), del molisano Giovan Vincenzo
Forli (attivo a Napoli tra il 1592 e il 1639), del coro e
della statua della Madonna dell’altro toscano Michelangelo
Naccherino (1590-1647). Per quanto differenti siano gli
stili dei vari autori, un fattore accomuna questi manufatti,
cioè la matrice culturale tardo-cinquecentesca d’ambito
tosco-romano.
Le opere, commissionate subito dopo la fine dei
lavori di fabbrica, documentano la preferenza accordata
dai domenicani e dai patroni delle cappelle a questa
corrente; l’adesione, aperta nel 1610 con la Circoncisione,
di Forli, fu lunga e convinta, tanto che, ancora nel 1626,
quando ormai il caravaggismo si era pienamente affermato,
si commissionava l’Annunciazione ad Azzolino, lo stesso
artista che nel 1612-1614 aveva già dipinto il grande telone
della Madonna del Rosario, racchiuso in un’articolata cona
di legno intagliato e dorato, e poco prima erano stati
composti da Balducci due altri dipinti: una tavola,
raffigurante San Domenico che diffonde il Rosario (1623), e
gli affreschi con vergini e martiri dell’ordine domenicano
nella sala del Tesoro (1625 circa), che completavano il
programma di questo artista, qui inaugurato, nel 1610,
con Il martirio di San Pietro da Verona (alla chiesa della
Sanità, peraltro, Balducci, giunto a Napoli nel 1596 al
seguito del cardinale Alfonso Gesualdo, fu sempre legato,
tanto da elevarla a sede della sua sepoltura, nella sottostante
catacomba).
Perché tanto interesse, ancora negli anni venti
del Seicento, per questi pittori che forse già agli occhi
degli intenditori del tempo dovevano apparire, se non
sorpassati, certamente meno brillanti degli artisti emergenti
collocati sulla scia di un metabolizzato caravaggismo? Si
può rispondere solo per congetture. Essi, forse,
rispondevano bene alle esigenze devozionali di fedeli non
particolarmente robusti sul piano intellettuale, che avevano
bisogno di essere attratti con figure semplici, devote,
talora di un naturalismo idealizzato, che andasse incontro
all’esigenza di verità senza arrivare al realismo troppo
franco di Caravaggio. E si tratta di un pubblico abbastanza
numeroso anche in città, non solo nelle province, per cui
l’attività di questi artisti fu lunga e fortunata, ben
sintonizzata con gli effettivi bisogni della proposta
devozionale post-tridentina e con le aspettative delle
frange più semplici del popolo dei devoti. Artisti come
Azzolino e Balducci, ma pure Bellisario Corenzio o
Fabrizio Santafede, operarono con successo fino agli anni
trenta e quaranta del Seicento, non solo perché longevi,
ma anche perché capaci di soddisfare una specifica
committenza, che aveva il suo migliore aggancio con gli
ordini religiosi di maggior presa popolare, e coerenti con
le esigenze di una rigorosa osservanza delle iconografie
post-conciliari. Né va dimenticata, nel caso della chiesa
della Sanità, la scelta di semplicità a cui si ispiravano le
consuetudini della congregazione della Sanità, che
promuoveva la riforma dell’ordine domenicano con un
forte richiamo alle regole e al clima delle origini.
In effetti, se si osservano le opere dei tre pittori
menzionati, si nota che si differenziano per stile e qualità,
ma che sono accomunate dalla medesima volontà di
muovere a devozione attraverso figure eleganti, dal timbro
sentimentale edulcorato, dalla composizione chiaramente
percepibile. Al raggiungimento di questi effetti collabora
efficacemente il colore, che rende più piacevole l’immagine
e rappresenta il contributo della pittura veneziana
all’ambiente manieristico toscano. La carica devota insita
in questa pittura ha fatto sorgere luoghi comuni privi di
fondamento, capaci di alterare radicalmente le biografie
di alcuni artisti. Basti pensare a quanto Bernardo De
Dominici scrisse su Azzolino un secolo dopo la sua morte,
trasformandolo in una specie di casto monaco di casa,
rimasto celibe per amore della Madonna e occupato in
preghiere e atti di contrizione, quando non era occupato
a dipingere la Vergine, naturalmente stando in ginocchio;
insomma, dallo stile è stata ricavata la biografia. Tuttavia,
si sa abbastanza dell’artista per ricondurlo a dimensioni
più terrene, padre di quindici figli e buon amministratore
delle sue sostanze.
Come Giovanni Balducci, anche Michelangelo
Naccherino era emigrato da Firenze portandovi uno stile
derivato dal suo maestro, Giambologna, e un intenso
pittoricismo, come si evidenzia nella marmorea Madonna
nell’abside, già finita nel 1612, all’interno di una
decorazione in stucco e cartapesta. Questa scultura
partecipa alla medesima corrente, animata da un forte
spirito devoto, tanto che anche per Naccherino le fonti
più tarde narrano che prendeva gli scalpelli dopo essersi
confessato e comunicato, e soltanto il sabato, nel giorno
sacro a Maria. Tuttavia, non si deve credere che il gusto
della committenza fosse orientato in un verso senza
possibilità di interferenze. In effetti, al committente
interessava il modo in cui veniva trasmesso il messaggio,
senza però trascurare la fama degli artisti. E nei primi del
Seicento a Napoli Azzolino, Forli o Balducci erano famosi,
ma una meteora ben più famosa, stavolta a livello
internazionale, era passata in città, Michelangelo da
Caravaggio. A lui fa riferimento un documento, che
attesta come nel 1612 si sarebbero dovuti versare cento
ducati per un’icona iniziata negli anni precedenti, cioè
quella della Circoncisione. Va considerato, però, che l’artista
era morto fin dal luglio del 1610 e che nel novembre di
quell’anno alla tela attendeva già Giovan Vincenzo Forli,
il quale per essa riceveva allora il secondo pagamento.
Nell’impossibilità di stabilire se il redattore del
documento abbia commesso qualche errore di trascrizione
e non potendo spostare la data di morte del Caravaggio,
sufficientemente documentata, si può soltanto ipotizzare
che i domenicani della Sanità, in omaggio alla sua fama
e in segno di apprezzamento per il suo naturalismo severo,
potrebbero essersi rivolti a lui nel corso di uno dei suoi
soggiorni napoletani, avergli versato un acconto, e non
aver mai visto l’opera, a causa delle note vicende che
costrinsero l’artista a un continuo fuggire e peregrinare
fra il 1606 e il 1610.
L’ELEGANZA E
LA RAFFINATEZZA
DEGLI STANZIONESCHI
L’IMPRONTA
DI LUCA GIORDANO
Al primo e compatto nucleo di opere di gusto tardo-manieristico fa
riscontro un altro corposo gruppo, databile intorno agli anni cinquanta
del Seicento. Si tratta di una ricca produzione, che documenta
peraltro la ripresa dei lavori di arredo della chiesa, in concomitanza
con le fortune della riformata congregazione della Sanità, che proprio
in quel torno di tempo suscitava intorno a sé ampi consensi popolari
e simpatie pubbliche, tanto da riuscire in poco tempo ad aprire vari
nuovi conventi a Napoli e fuori (Barra, Monte di Dio, Santa Maria
della Libera al Vomero, Ferrandina, Volturara, Paiano ecc), e all’interno
dell’ordine riceveva l’incarico della formazione dei novizi per tutta
la provincia.
Come in una ideale scansione storica del gusto devoto dei domenicani
e della contemporanea sensibilità artistica della città, nella basilica
della Sanità, anche all’interno di questo gusto post-stanzionesco, si
coglie il dinamismo dello sviluppo e della evoluzione, e lo marca in
maniera singolare Luca Giordano (1634-1705), autore dell’ultima
fase di questa nuova concezione della rappresentazione sacra.
Nel 1652 è firmata la tela con San Tommaso d’Aquino che
riceve il cingolo della castità, di Pacecco De Rosa (1607-1656), che sul
modello stanzionesco è qui alla ricerca di toni cromatici lucenti e
pone un’attenzione minuziosa nella resa dei particolari secondo un
gusto popolare, che doveva essere caro ai fedeli della chiesa
domenicana. Del 1654-1656 è il San Biagio con Sant’Antonino e San
Raimondo, di Agostino Beltrano (1607-1656), ultima opera dell’artista,
commissionata da Antonio Lantaro. Sono del 1659 i due dipinti di
Andrea Vaccaro (1604-1670), raffiguranti Le nozze mistiche di Santa
Caterina d’Alessandria e Santa Caterina da Siena che riceve le stimmate,
presenti nelle due affiancate cappelle della navata destra; essi
rappresentano la perdurante tradizione controriformistica che rendeva
l’artista gradito in città per la serenità delle forme dei personaggi
che popolano le sue tele. Degli stessi anni è la Santa Lucia di Girolamo
dello Mastro, meglio noto come De Magistris, collocata nei pressi
dell’antesacrestia. Si tratta di un numero consistente di opere e tutte,
ad eccezione forse dell’ultima, di un alto livello qualitativo, pur nella
devozionalità popolare dei temi. Anche in questo momento, come
era accaduto per la stagione manieristica, gli elementi culturali, fatte
salve peculiarità stilistiche e differenze qualitative, sono affini, perché
corrispondono alla scelta della committenza, di artisti che partono
tutti dalla conoscenza dell’opera di Massimo Stanzione, su cui poi
immettono altri motivi di gusto classicheggiante, sulla scia di pittori
emiliani come Reni o Domenichino, ben noti a Napoli attraverso
le loro opere e per i loro produttivi soggiorni.
I dipinti della Sanità di questa stagione dicono in maniera
molto esplicita che la fase eroica del caravaggismo è finita: non più
figure realistiche e potenti sormontano gli altari, bensì personaggi
che conservano soltanto una vaga impronta realistica; non più incisive
rappresentazioni cariche di drammaticità, bensì raffigurazioni fattesi,
per così dire, liquide e sensibili, proiettate verso una eleganza e una
raffinatezza da teatro (che evidentemente in Pacecco De Rosa o in
Andrea Vaccaro conservano un tono di alta dignità stilistica, mentre
in De Magistris si sciolgono in fredda rappresentazione esteriore).
In questi pittori, insomma, come pure nell’ultimo Beltrano, l’antico
devozionalismo di Balducci o di Azzolino si scioglie in una narrazione
più scenografica.
È di questo artista, infatti, un gruppo di opere di poco
posteriori, omogenee per stile. Al 1667 è documentata La Vergine con
i Santi Giacinto e Rosa, nella quarta cappella di sinistra. Nella terza
cappella della navata destra campeggia la luminosa tela di San Vincenzo
Ferrer, realizzata tra il 1667 e 1672, ancora oggi cara alla devozione
popolare, sebbene il santo predicatore spagnolo sia più popolarmente
noto per la statua che di lui qui si conserva, giunta molto più tardi
nella Sanità dall’altra chiesa domenicana della città, Santo Spirito
di Palazzo, come ricorda, su una parete, una lapide del 1886. È del
1671-1672 La gloria di San Pio V, in cui papa Ghislieri è circondato
da santi e beati dell’ordine domenicano (Sant’Alberto Magno, il
Beato Ambrogio Sansedoni, San Consalvo di Amarante, la Beata
Margherita di Savoia-Acaia); verosimilmente l’opera fu commissionata
per celebrare il centenario della vittoria di Lepanto (1571) e della
istituzione della festa della Beata Vergine del Rosario. Dello stesso
periodo sono L’estasi della Maddalena nella cappella del Crocifisso,
a sinistra, nei pressi dell’altare maggiore, e il San Nicola della prima
cappella della navata destra, raffigurato glorioso tra i santi domenicani
Ceslao di Cracovia e Luis Bertrán, commissionato forse proprio in
occasione della canonizzazione di quest’ultimo (1671), perciò raffigurato
con l’aureola.
Seppure è vero – come rilevato già da Bernardo De Dominici
– che la produzione giordanesca di questo periodo non è di alta
qualità a causa della «prestezza» con cui l’autore soddisfaceva le
richieste, non si può negare che in questa fase, cioè dopo le esperienze
maturate a Firenze e a Venezia, l’opera di Luca Giordano presenta
tratti tipologici propri della pittura di Pietro da Cortona.
Si tratta di un complesso di tele, che mostrano come anche
i precedenti canoni rappresentativi fossero superati e come il modo
di comunicare fra artista e fedele/spettatore fosse diventato molto
più raffinato e coinvolgente. Tutta la composizione nel suo insieme,
il modo di gestire, i colori vivaci, i larghi gorghi spaziali di cieli infiniti
e densi di luce erano per il fedele una vera e propria attrazione: lo
rendevano partecipe del fatto, lo introducevano in una dimensione
superiore non tramite la ragione, ma coinvolgendone le emozioni.
Colori e spazi illusori e sensazioni irrazionali provenienti dal quadro
o, in genere, dalla raffigurazione artistica sollecitavano il sentimento,
insieme a tutto il complesso degli apparati: le musiche, gli odori di
fiori e d’incensi.
GLI ALTRI
MANUFATTI ARTISTICI
Il barocco non era vuota esteriorità, sebbene potesse
anche diventarlo per i limiti dei suoi protagonisti, ma
era piuttosto capacità di afferrare gli spiriti, di trascinarli
in una dimensione diversa e spirituale con raffinati
artifici psicologici, rivolgendosi indifferentemente agli
uomini colti e agli illetterati. Ed è questa una delle
cause del successo dello stile e della insistenza, su
tempi medio-lunghi, della committenza domenicana
nei confronti di artisti che questo clima facevano
perdurare ad arte. Nel corso del XVII secolo il colore
e l’artificio tecnico-scenografico giocarono un grande
ruolo e, per quanto consentito dallo stile del tempio,
anche nella basilica della Sanità il barocco si mostrò
sotto questo suo aspetto. Se teatrali e dense di colore
sono le tele di Giordano, non lo sono da meno, e in
maniera più facilmente percepibile, alcuni manufatti
in marmo che connotano potentemente alcuni punti
dell’edificio.
Fu Dionisio Lazzari (1617-1689) a inserire, nel 1677,
nell’enorme spazio centrale il nuovo pulpito marmoreo, elemento
d’arredo raffinatissimo per tecnica e invenzione, dove le forme si
sviluppano in continua metamorfosi e il colore si afferma
prepotentemente. Meglio che in qualche altare, è in questo pulpito
che si verifica con maggior impeto l’affermazione dell’ornato barocco,
metamorfico, sensuale e ricco di figurazioni vegetali; quell’ornato
che di solito si lega al nome di Cosimo Fanzago, che effettivamente
ne fu il principale ideatore e divulgatore nel mezzogiorno d’Italia,
ma che ebbe in Lazzari uno dei più originali interpreti. Affermazione
del colore e di materie pregiate, dunque, che riesce a convivere col
gusto ben più severo di Fra Nuvolo e che altererà una delle parti più
originali del suo progetto, quella scala d’accesso all’altar maggiore,
concepito dal frate in alto, col risultato di creare una sorta di
palcoscenico e di salvare il naturale accesso alla sottostante catacomba.
In origine la scalinata era in fabbrica, ma, in omaggio alla modernità,
fu rifatta in marmi policromi da un marmorario, Vincenzo Pampinella,
e da uno scultore, Pietro Ferreri; di essi si sa ben poco, ma i documenti
che ne hanno tramandato i nomi rivelano pure la data d’esecuzione
della scalinata, cioè il 1678. Quel che manca è il nome dell’architetto
che ideò lo scenografico accesso all’altare, che certo non fu creato da
Pampinella. Ma il colpo di teatro finale al già scenografico complesso
rappresentato da ingresso della catacomba–scala–altare maggiore fu
compiuto più tardi, nel 1708, da Arcangelo Guglielmelli (1674-1722)
e Cristoforo Schorr (per quest’ultimo i documenti parlano di un
Cristoforo Scanes o Scordes, evidente corruzione del cognome Schorr).
b
Guglielmelli architetto e Schorr scenografo furono
entrambi portatori di un linguaggio maturato a Roma nell’ambito
di Gian Lorenzo Bernini. E se Guglielmelli aveva già applicato la
sua competenza architettonica nell’ammodernamento di antiche
strutture napoletane all’imperante gusto barocco (a cominciare
dall’arco absidale della basilica di Santa Restituta nel duomo,
rimaneggiato dopo il terremoto del 1688), Schorr, in particolare,
era uno dei grandi maestri di apparati effimeri, capace di trasformare
gli spazi con un eccezionale senso scenografico. In ciò, unitamente
al fratello Filippo e al padre Johann Paul, può essere considerato
uno dei più importanti interpreti del berninismo.
I tre, infatti, avevano lavorato a Roma per il marchese del
Carpio, don Gasparo de Haro, appassionato ed esperto collezionista
d’arte, che continuò a impegnare i due fratelli a Napoli, una volta
trasferitovisi come vicerè (1682-1687). A Schorr si sono voluti
attribuire i teatrali tendaggi in stucco che schiudono la visione del
succorpo della Sanità e il fastigio della nicchia absidale, dove un
gruppo di angioletti tira su un tendaggio rivelando la presenza
della Vergine. Sul finire del secolo XVII, l’ardito adeguamento
barocco, non da tutti accolto favorevolmente, faceva rilevare a
Carlo Celano «la stravaganza dell’altare maggiore che sta situato
in alto, ed in esso vi si sale per due stravaganti scale, che
dall’architetto [Fra Nuvolo] furono fatte in fabbrica, ma avendole
ultimamente i frati volute farle di marmo, non l’hanno potuto
accertare di quella perfetione e bellezza delle prime».
È ancora sull’alto presbiterio che si è manifestato
l’impegno ammodernatore dei frati, che tra fine Seicento e inizio
Settecento gli diedero l’aspetto che ancora oggi si può considerare
in linea con quel gusto del fantasioso e insieme del meravigliosodevoto. Così si comprende la pianta leggermente concava della
mensa e l’abbondanza di marmi policromi e cartocci, tipiche
espressioni del gusto rococò. Dell’antico, i frati conservarono
l’originario ciborio di Fra Azaria (Celano ricordava: «vi è una
custodia grande e meravigliosa tutta di cristallo di monte e rame
dorato, e dentro mostra un piccolo tabernacolo delicatamente
lavorato, sostenuto da quattro statue che figurano angeli di rame
dorato») e il bel coro di gusto ancora cinquecentesco in legno
intagliato, disegnato da Giovan Battista De Nubila e lavorato
agli inizi del XVII secolo da Leonardo Bozzaotra e Michelangelo
Cecere.
Il completamento della decorazione del catino absidale,
affidato al demuriano Crescenzio Gamba, s’ispirava al disegno
di Arcangelo Guglielmelli e aveva l’ambizione di durare nel
tempo come un capolavoro, ma non aveva più quel vigore
fantastico del barocco e perdeva il fasto e la sollecitazione emotiva
che erano stati propri della primavera decorativa della basilica
di Santa Maria della Sanità tra fine Cinquecento e Seicento
maturo; la decadenza dell’ispirazione committente metteva in
evidenza la fine di una stagione di intensa religiosità e anticipava
la crisi del secolo successivo sfociata nelle lunga e dolorosa
stagione delle soppressioni.
BASILICA
OF SANTA MARIA
DELLA SANITÀ
The Basilica of Santa Maria della
Sanità is a fascinating artistic
palimpsest, that goes from the
Christian arts of the catacombs
to the first important monumental
works on circular plan of the
Counter- Reformation architecture,
to the artistic development of the
modern period, to the 19 century
craftsmanship ending with the
recent acquisition of contemporary
works.
th
THE ELEGANCE AND REFINEMENT
OF THE “STANZIONESCHI”
Pendant to the first compact nucleus of late manneristic style
is another group dating back to the fifties of the 17th century.
It is a rich collection which documents the resumption of the
furnishing works of the church. The canvas St Thomas Aquinas
was painted in 1625 by Pacecco De Rosa (1607-1650) following
the “stanzionesco” model, it searches for bright chromatic
tones. The painting has bright colours that overflow with light,
that are extremely modern (such as the electric steely blue of
the materials that recall and anticipate solutions of Mondrian
and Kandinskij-Pacelli) and has a meticulous attention to
details following a popular taste which must have been dear
to the faithful of the Dominican Church. St. Blaize by Agostino
Beltra (1607-1650) last work of the artist, is dated 1654-1656.
The two paintings by A. Vaccaro (1604-1670), which portray
The mystic wedding of St. Catherine of Alessandria and St. Catherine
of Siena receiving stigmata. They represent the continuing CounterReformation tradition that made the artist appreciated in town
for the serenity of the forms of the characters who peopled his
canvases. The painting St Lucy by Girolamo De Magistris
belongs to the same period. Apart from different styles and
quality they are similar because they both know and have been
influenced by the work of Massimo Stanzione to which they
add other elements of a classical style following the lead of
Emilian painters such as Reni or Domenichino, well known
in Naples through their work and for their productive stays.
THE MANNERISTIC PERIOD
OTHER ARTISTIC CRAFTWORK
The Dominican friars of the Lombard Reformation, built the
friary, that later on gave the name to the reformed congregation,
and the great church designed by Fr. Giuseppe Nuvolo (1602),
to which the original name of Santa Maria della Sanità was
given, over the catacombs. The oldest group of works of art in
the church can be dated back to the period of the great planning
and building effort. It is an homogeneous group that includes
paintings by G.B. Azzolino from Sicily (1572-1645) The Virgin
of the Rosary and the Annunciation, by G. Balducci form Tuscany
(1560-1631) The Martyrdom of St. Pietro da Verona and St. Dominic
distributing rosaries, the painting of the Circumcision by G. V.
Forli from Molise (he worked in Naples between 1592 and
1639) and of the choir and the statue of Our Lady by
Michelangelo Naccherino, also from Tuscany (1590-1647). No
matter how different the styles of these artists are, they have
one thing in common, that is the Tuscan-Roman motherculture of the late 16th century. Worthy of note is the painting
The Circumcision of Jesus which has interested scholars and
visitors for a long time because it is associated with the name
of Michelangelo Merisi da Caravaggio.
D. Lazzari, in 1677 inserted in the enormous central space
a new marble pulpit, an extremely refined decorative innovative
element, where the shapes develop in a continual
metamorphosis and the colour declares itself overbearingly.
In the beginning the steps were of stone, but in 1678, as a
homage to modern styles they were remade in polychromatic
marble by V. Pampinella e P. Ferreri. The final act to the
already spectacular complex represented by the entrance to
the catacomb, steps, main altar was carried out much later
in 1708 by A. Guglielmi and C. Schorr. To Schorr are attributed
the theatrical curtains in stucco which open to show the crypt
of the Sanità and the fastigium of the apsidal niche, where
a group of cherubs hold up the curtain to reveal the presence
of the Virgin Mary. On the main altar is the ciborium of Bro.
Azaria. The choir is in engraved wood and still in sixteenth
century style. The decoration of the apsidal basin was
completed by the demurian C. Gamba. The crystal altar “The
Angel’s Table” (2005) is by the master R. Dalisi, who is also
the author of the “Palestina” Crucifix (2000). The ante-sacristy
was decorated with “graffiti art” by G.B. Di Pino 1625 showing
the descent of the Holy Spirit amongst the preacher friars is
grotesque in the vault. In the ante-sacristy the “ex voto”
(offerings) of San Vincenzo Ferrer, affectionately called “Il
Monacone” by the people of the area, are conserved along
with vintage photos of his feast day. In the sacristy, the altar,
made of polychromatic marble, dates back to 1728. At the
moment the great painting that portrays the “Madonna della
Sanità” (2003) is hung above the altar. From the ante-sacristy
you go into the nearby elliptical cloister, where scenes
representing the history of the Dominican order painted by
G.B. Di Pino can be found on the lunette.
THE STAMP OF LUCA GIORDANO
In the basilica of the Sanità, even within this “post-stanzionesco”
style, the dynamic development, evolution and mark of Luca
Giordano (1634- 1705), author of the last part of this new
conception of representing the sacred, can be felt. A group of
works carried out a little later and homogeneous in style are
by this artist. The Virgin Mary with St Hyacinth and St Rose is
dated 1667. The luminous canvas of San Vincenzo Ferrer, painted
between 1667 and 1672, still dear today to the faithful even if
the Spanish preacher and Saint is better known for his statue
which arrived here much later from the other local Dominican
Church, Santo Spirito di Palazzo. The Glory of St Pio V, in which
Pope Ghislieri is surrounded by saints and blessed of the
Dominican order, is dated 1671-1672. Of the same period are
The ecstasy of Mary Magdalene and St. Nicholas, portrayed glorified
amongst the Dominican Saints. Small ovals by artists who
succeeded Giordano can be found in some of the chapels, like
the ovals by Gaspare Traversi, Francesco Solimena and Vincenzo
Siola.
IL PARADISO
PITTORICO
Giuseppe Rassello
C’era una volta il luogo sacro, tremendum fascinans; sacro, non meramente religioso.
Del tanto di sacro che negli edifici religiosi si è perduto, mi duole, soprattutto,
l’assenza dei santi. Zelanti e malintenzionati hanno sfrattato dalle chiese, con le
loro vetuste (leggi: inservibili) masserizie, gli antichi, legittimi inquilini, esibendo,
nei casi men volgari, la carta bollata della storicità! Eppure, quando la storia non
era stata scritta, c’era sempre una storia da raccontare. Nel 393, il concilio d’Ippona,
la città di Agostino, volle che, in mancanza dei già scarni e deludenti atti dei martiri,
si leggessero ai fedeli le passioni, belle, commoventi alle lacrime e alla poesia. Haec
sunt legenda, questo c’è da leggere: la Leggenda. Per secoli, la Leggenda dei santi,
giustamente aurea, compilata dal beato domenicano Giacomo da Varazze, ha nutrito
l’arte sacra e la sacra devozione.
Quando, al cospetto di una folla eterogenea e strabocchevole, un nuovo
santo ascendeva nei fulgori della Gloria di Bernini, quell’arazzo esposto in San
Pietro, moltiplicato e fatto maneggevole in devote litografie e incantevoli santini,
da mille bocche baciati, entrava nelle case, nelle botteghe, nelle celle dei conventi,
viaggiava nelle cabine dei galeoni, e ispirava nelle chiese i pittori. La gente vi
riconosceva uno di loro, condotto ai Cieli, e divenuto amico e avvocato; e, per un
mistico momento, tutti si sentivano non iam hospites et advenae, sed cives sanctorum
et domestici Dei (Ef. 2,19). A Napoli s’individuava (picturae litterae laicorum!) san
Giuseppe dalla mazzarella, sant’Onofrio come ’o piluso, san Sebastiano come ’o
spertusato. S’invocava, luce degli occhi, Lucia. Da san Lazzaro nasceva lazzarià; e la
sua immagine udiva le urla dei lazzaroni, nei lazzaretti il rantolo dei contaminati.
Nell’ancora imperturbata pace dei conventi, il religioso ripassava il fatterello,
la morale, per il panegirico dell’indomani, rovistando in Lorenzo Surio, nei
Bollandisti, in Paolo Segneri.. Prima di concedere un parco sonno al corpo,
rammentante la sua mal gradita esistenza, ammucchiava un po’ di santini per i
devoti. Haec sunt legenda, aurea come fu la fanciullezza. Che importa che la nonna
confondesse angeli e fate, diavoli e orchi, immaginette e foto consunte del caro
bene non più tornato? La Sanità, raro, sacro superstite in una città che, da Cesare
d’Engenio Caracciolo a Gennaro Aspreno Galante, fu Napoli sacra, è specchio,
immaginifico demiurgo, del paradiso iperuranio: la chiesa, innanzitutto, che è ’nu
paraviso, come dicono gli antichi del quartiere; poi, la vetusta biblioteca del convento,
che qui prende il luogo di una immaginabilmente infinita bibliografia. È notte,
fratello, e tu, numera stellas, si potes...
La profezia, secondo cui dal patriarca Abramo sarebbe uscita una discendenza
numerosa quanto le stelle, venne addirittura superata, nel 1623, dalla stirpe del
patriarca san Domenico: «Circa gli astri del cielo, sappiamo che sta scritto: - Conta
le stelle, se puoi. Ebbene, sono 1.022! I beati domenicani sono più numerosi delle
stelle del cielo; si calcola che ascendano a più di 2.800, superando di gran lunga
il novero delle stelle. Tra loro, come i sette pianeti, i santi canonizzati: Domenico,
Pietro, Antonino, Tommaso, Vincenzo, Giacinto, Raimondo. O domenicano ceto,
del cielo stesso ben più fulgente!». In quello stesso anno, usciva Il saggiatore di Galileo
Galilei.
L’ANTENATO DI BABBO
NATALE: SAN NICOLA
DI MIRA
L’UOMO CHE FERMÒ I
TARTARI: BEATO CELSAO
DI CRACOVIA
IL FRATE CON LA PISTOLA:
SAN LUIS BERTRÀN
Vescovo di Mira (oggi Dembre, in Turchia), sarebbe
nato, e poi morto (nel 350 circa) in età veneranda,
a Patara di Licia, donde, nel 1097, avvenne la
traslazione nella celebre e bella basilica barese a lui
dedicata. L’iconografia del dipinto di Luca Giordano
non si discosta dai caratteri tradizionali.
Nacque a Cracovia, in Polonia, nel 1180 circa.
Parente o cortigiano del vescovo della città, Ivo
Odrowatz, ma non fratello di san Giacinto, come
volle una tradizione. Dopo gli studi, fu a Roma
con il suo vescovo, e insieme con Giacinto ricevette
l’abito dei predicatori dalle mani dello stesso san
Domenico (1228). Trascorso più d’un anno a
Bologna, Ceslao e Giacinto furono rinviati in
Polonia a fondare conventi. Ceslao si fermò molti
anni a Cracovia, per poi passare a Wroclàw, dove
fu superiore fino al 1232, quando fu eletto
Provinciale della Polonia.
Nato a Valencia, nel capodanno del 1526, dal notaio
Giovan Luigi e dalla sua seconda moglie Angela Exarch,
fu battezzato nella chiesa di Santo Stefano, dove era
stato battezzato anche san Vincenzo Ferrer, suo lontano
parente e suo fascinoso modello. Fuggì da casa per
entrare fra i domenicani e ne ricevette l’abito il 26 agosto
1544. Tre anni dopo veniva ordinato sacerdote. Si attivò
per la riforma tridentina nel suo Ordine e, a soli ventitré
anni, era già maestro dei novizi. Lo accese di ansia
missionaria la conversazione con un indio, giunto a
Valencia travestito da domenicano, con documenti falsi,
che gli raccontò le miserevoli condizioni della sua gente.
L’anno seguente passò ancora a Bologna,
per la ricognizione delle spoglie di san Domenico,
e poi di nuovo in patria. Dimessosi da provinciale
per ragioni di salute, nel 1236 si ritirò a Wroclàw,
dove rimase fino alla morte (15 luglio 1242). Un
anno prima della sua dipartita, Wroclàw era
assediata dai Tartari: si vide allora un globo di luce,
emanante dal volto di Ceslao, roteare sul campo
degli assalitori e volgerli in fuga. Luca Giordano,
che raffigurò Ceslao accanto a san Nicola (prima
cappella a destra), pose ai suoi piedi il modellino
di Wroclàw. Il culto, resogli ab immemorabili, fu
confermato, prima per Wroclàw e per l’ordine (2
agosto 1713), poi per la Chiesa universale (1748).
I domenicani lo festeggiano il 17 luglio, gli abitanti
di Wroclàw tre giorni dopo.
Così, il sabato 14 febbraio 1562, Luis partì
avventurosamente, senza soldi e con la bisaccia sulle
spalle. Si avviò a piedi, poi s’imbarcò per le Indie
Occidentali, che percorse a lungo. C’è qualcosa di
misterioso nelle sue improvvise, pressanti richieste di
far ritorno in Spagna. A detta sua, si risolse dopo una
lettera del confratello Bartolomeo de Las Casas, che gli
raccomandava prudenza nell’assolvere gli encomenderos
che maltrattavano gli indios. Ciò è confermato da papa
Clemente IX che, nella bolla di canonizzazione, così si
esprime: nec impedire aut ferre valens angustias, quibus ut
plurimum violenter a Praefectis quibusdam etiam vulneribus,
et caede Indi opprimebantur. Il santo fece ritorno in patria,
malfermo in salute e con una piaga nella gamba, da cui
non sarebbe più guarito. Ciononostante, in una notte
di Natale, fu visto dormire in una stalla. Santa Teresa
la Grande lo ebbe valido consigliere per la sua riforma
del Carmelo. Si festeggia nel giorno della sua morte,
avvenuta il 9 ottobre 1581.
Il santo, a capo scoperto, per far risaltare
la canizie, indossa, come in Oriente, l’omophorion
bianco sopra il phelonion ricamato a croci
(polystaurion), con la sinistra reca il pastorale,
benedicendo con la destra. Le tre sfere d’oro
ricordano l’offerta della dote «che fece Nicolao alle
pulcelle / conducendo ad onor lor giovanezza»
(Purg. XX,32). In termini prosaici, per sottrarle al
marciapiede, cui, senza dote per sposarsi, erano
destinate. Compaiono anche i tre bambini, uccisi
e ammanniti in salamoia da un locandiere tiesteo,
e che Nicola resuscitò. Compare orante, con una
coppa ai piedi, il piccolo Adeodato, preso schiavo
dai Saraceni e ceduto come coppiere a un emiro.
La preghiera fervorosa dei genitori e del
ragazzo stesso fece sì che questi ricomparisse a casa
sua, durante il pasto, ancora abbigliato alla saracena
e in atto di mescere. Santo delle terre di mare, ebbe
intitolati vari “monti” o “casse” comuni per pagare
il riscatto di marinai catturati dai Saraceni o per
dotare fanciulle bisognose. Nei paesi nordici, poi,
piviale e mitria di san Nicola si trasformarono
facilmente nel manto e nel cappello a punta di
Babbo Natale, cui tutti i bambini sono devoti, e
St. Nikolaus divenne agevolmente Santa Klaus, che
reca doni nella sua festa, il 6 dicembre.
Beatificato il 19 luglio 1608, fu annoverato
tra i santi il 12 aprile 1671, con la domenicana Rosa da
Lima. In quel periodo, Luca Giordano lo dipinse nella
tela di san Nicola, con un rarissimo e inconfondibile
attributo iconografico: una pistola mutata in crocifisso.
Un signorotto spagnolo, che Luis aveva redarguito per
la sua condotta morale, gli puntò contro una pistola.
Miracolo: la canna si tramutò in un crocifisso,
l’attentatore in un fervente cristiano. Fu di alta statura,
viso emaciato, zigomi alquanto sporgenti, naso affilato
e aquilino, volto rugoso, capelli brizzolati, occhi
vivacissimi.
Luca Giordano, San Nicola, 1671
L’ANGELO
DELL’APOCALISSE:
SAN VINCENZO FERRER
Costanza Miguel, prima di dare un altro figlio a
Guglielmo Ferrer, il 23 gennaio 1350, avvertì, come
donna Juana, la madre di san Domenico, «latrati
di cagnoletto» nel grembo: nasceva così a Valencia
un altro gran Domini-canis, Vincenzo, il predicatore
per antonomasia, che percorse Spagna, Italia,
Francia, Inghilterra, seguito da folle oceaniche. Pur
col beneficio dell’inventario, le cifre tramandate
dagli antichi circa il numero di conversioni, private
e pubbliche, sono semplicemente sconcertanti: ci
contentiamo di rinviare a una bella pagina
dell’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga.
In un primo tempo Vincenzo aderì allo
scisma di Pietro de Luna, di cui era maestro di
palazzo, ma al concilio di Costanza si adoperò per
il ristabilimento dell’unità cattolica. Narrano ancora
i suoi biografi che, nell’anno 1415, predicando
Vincenzo in Bologna sopra un versetto del Salmo
30: Illustra faciem tuam super servum tuum, una
splendente fiammella si posò sul suo capo. Simili
prodigi non erano infrequenti nell’ordine: si veda,
nel vestibolo della sacrestia della basilica della
Sanità, l’episodio del capitolo di Montpellier,
“narrato” da Giovan Battista di Pino nel 1625.
Quando Vincenzo cominciava a predicare,
impallidiva in volto, poi, a poco a poco, le sue
guance diventavano simili a «rose incarnate, ma
così vaghe, che sembrava piuttosto un angelo, che
un uomo».
Callisto III Borgia, suo concittadino, cui
Vincenzo aveva preconizzato l’elezione al pontificato
e la propria canonizzazione per mano sua, dopo la
morte del santo (Vannes, 5 aprile 1419), lo beatificò
(1455) e ne avviò pure la canonizzazione (la bolla
fu emanata tre anni dopo, da Pio II). Due ovali di
Vincenzo Siola nella cappella del santo (terza da
destra) narrano due miracoli più celebri. Il primo
consisté nella salvezza di un muratore che stava
cadendo da un andito. Il prodigio fu reso ancora
più strepitoso, perché san Vincenzo, in attesa del
dovuto permesso del suo Superiore, mantenne il
giovane sospeso a mezz’aria.
L’altro dipinto firmato da Siola narra
della resurrezione di una donna, cui Vincenzo
ordinò di attestare essere lui l’angelo dell’Apocalisse.
Sulla cona dell’altare, invece, Luca Giordano lo
raffigura nel suo ruolo principale: il predicatore,
che, tra l’autunno del medioevo e l’alba dell’evo
moderno, proclama con squillo di tromba, il
giudizio di Dio: Et vidi alterum Angelum, volantem
per medium caelum, habentem Evangelium aeternum,
...dicens magna voce: Timete Deum et date illi honorem,
quia venit hora iudicii eius (Apoc. 14,5-6). Dovunque,
ma soprattutto nella Sanità, si festeggia il 5 aprile.
Luca Giordano, San Vincenzo Ferrer, 1667-1672
LA PRINCIPESSA FILOSOFA:
SANTA CATERINA
D’ALESSANDRIA
La patrona dei filosofi e dei teologi, la cui effigie
figurava nel sigillo della Sorbona, non poteva non
essere particolarmente cara ai Frati Predicatori, votati
al pensiero speculativo. Infatti, con santa Maria
Maddalena, è patrona dell’ordine. Caterina nacque
in Alessandria, capitale del pensiero ellenistico e
sede di una fiorente comunità giudaica. Di sangue
reale e colta, fu costretta dall’imperatore Massimino
Daia (o Massenzio, secondo altri) a disputare con
cinquanta filosofi pagani, i quali, convertiti dalle di
lei argomentazioni, saranno poi bruciati vivi. Caterina
fu condannata alla ruota (in realtà, tremendo ordigno
di quattro ruote, fornite di chiodi e di seghe), che
miracolosamente si spezzò uccidendo gli aguzzini.
Alla fine, venne decapitata. Ad attestare la sua purezza,
dalla ferita sgorgò un fiotto di candido latte. Gli
angeli ne recarono il corpo sul Sinai.
Nel celeberrimo monastero, che ivi le fu
intitolato e che diventerà ricco di codici preziosissimi,
fu venerata come la “sempre pura” o la “pura” (sancta
Ecaterina, nelle catacombe di San Gennaro a Napoli).
Il domenicano Pio V elevò la sua festa a rito doppio.
Appare spesso associata all’altra Caterina, la grande
senese (come i due san Giovanni, battista ed
evangelista). Così in due cappelle adiacenti nella
chiesa della Sanità, così nel polittico di Azzolino
(con la palma e la ruota spezzata, la corona e lo
scettro). Nella seguente cappella, Andrea Vaccaro
(1659) ne rappresentò le nozze mistiche col Bambino
Gesù, accompagnato da Maria e Giuseppe
(riconoscibile dal manto giallo e dalla verga fiorita).
Il personaggio in primo piano a destra
potrebbe essere san Paolo (con spada e libro),
prototipo della Sapienza cristiana (è San Pietro il
suo pendant nella tela di Caterina da Siena?). Due
versi insegnavano ai fedeli la vita della Santa: O
Katharina, tyrannum superans, / doctos docens, et rotas
lacerans!
Andrea Vaccaro, Santa Caterina d’Alessandria, 1659
LE STIGMATE DELLA
POLEMICA: SANTA
CATERINA DA SIENA
Ventitreesima figlia del tintore Iacopo Benincasa
e di Lapa Piacenti, nacque a Siena, pare nel 1347.
A quindici anni entrò fra le Terziarie Domenicane
(o sorelle della penitenza). Trattò con i potenti
(contribuì in maniera rilevante al ritorno del papa
da Avignone) e con gli umili, assistendo gli ammalati
più stomachevoli e convertendo delinquenti
inveterati. Morì a Roma nel 1380, il 29 aprile (data
della sua festa), ed è ivi sepolta sotto l’altare maggiore
di Santa Maria sopra Minerva.
Canonizzata nel 1461 con bolla autografa
dal senese papa Pio II, fu eletta patrona d’Italia il
18 giugno 1939, e il 4 ottobre 1970 dottore della
Chiesa per la profonda pietà e dottrina dei suoi
scritti (riconosciuti pure dall’Accademia della
Crusca come eccezionali testi di lingua italiana).
Della vasta e varia iconografia, segnalo soltanto i
tipi presenti nei dipinti della basilica.
A) Corona di spine (polittico di Azzolino, affresco
di Giovanni Balducci [?] in catacomba): Gesù
propose a Caterina la scelta tra una corona di rose
e una di spine; la santa prescelse questa.
B) Cuore in mano, scambiato con quello di Cristo
(Azzolino, Balducci nel Tesoro).
C) Stigmate (Azzolino e Balducci, nei dipinti citati
sotto B; Andrea Vaccaro, nella sesta cappella a
destra).
Sulle stigmate di Caterina si aprì una lunga e vivace
controversia tra Domenicani e Francescani. Questi
ultimi sostenevano che solo Francesco era stato
stigmatizzato, in quanto alter Christus, e che i
domenicani avessero addirittura posticipata di dieci
anni la vera nascita (1337) di Caterina, per far sì
che dandola morta a trentatré anni fosse suffragata
la sua conformità a Cristo.
La polemica culminò con il divieto di
papa Sisto IV (francescano) di raffigurare le stigmate,
divieto rivisto da Innocenzo VIII e soprattutto da
Urbano VIII (1630), che decise a favore delle stigmate
luminose e incruente. L’arte, allora, le idealizzò in
raggi di luce, oppure si limitò alle semplici cicatrici.
Nel quadro di Vaccaro (1659), nel gruppo dei
testimoni della stigmatizzazione (avvenuta in Santa
Cristina di Pisa, ora Santa Caterina in Lungarno,
dinanzi a un Crocifisso di Giunta Pisano, il l0 aprile
1375) emerge un domenicano incappucciato. È il
beato Raimondo da Capua, di cui si dirà più avanti.
Tre affili prima della tela vaccariana, in
un libro conservato nella nostra biblioteca, Paolo
Frigerio così propone la testimonianza del beato,
che ne udì il resoconto da Caterina: «Io vidi allora
il mio Signore, confitto in croce, discendere sopra
di me con grandissima luce: e per tale cagione
volendo l’anima mia farsi incontro a lui, convenne,
che ’l corpo cadesse, e in questo vidi dalle sue
sagratissime piaghe discendere alle mie mani; a’
miei piedi, e al mio cuore sanguinolenti raggi, onde
io considerando il misterio, subito gridai: - O Signore;
io vi prego, che non si veggano cicatrici fuori del
mio corpo. E incontanente mutandosi il color
sanguigno in color d’oro, vennero alle mie mani,
a’ miei piedi, e al cuor mio cinque raggi di purissima
luce». E fra Raimondo le replicò: «Adunque non
venne alcun raggio al vostro lato destro?». A cui la
Vergine: «Non certo, ma si ben al lato sinistro per
diretto sopra il mio cuore; peroché quella lucida e
splendente linea, che usciva dal destro lato del mio
Signore, discese a me per diritta via».
Andrea Vaccaro, Santa Caterina da Siena, 1659
IL MAGO DI COLONIA:
SANT’ALBERTO MAGNO
IL MOSTRO E LA STELLA:
BEATO AMBROGIO
SANSEDONI
L’ULTIMO CROCIATO:
SAN PIO V
Nacque a Lauingen, in Svevia, verso l’anno 1206.
Giovanissimo, passò a studiare in Italia,
presumibilmente a Bologna. Entrò nell’ordine dei
predicatori nel 1223. Dal 1245 insegnò per tre anni
a Parigi, dove ebbe allievi Tommaso d’Aquino e
Ambrogio Sansedoni; successivamente a Colonia.
Fu vescovo di Ratisbona (1260-1262), ma presto
tornò ai suoi studi, fino alla morte, che lo colse il
15 novembre (data, poi, della sua festa) dell’anno
1280, a Colonia, dove è sepolto in Sant’Andrea.
A Siena, il 16 aprile 1220, nacque un bimbo, nero
come un carbone e spaventosamente deforme, per
cui la nobile famiglia Sansedoni reputò bene di
abbandonarlo. Accolto da una povera donna, dopo
un anno guarì miracolosamente, e così fu riaccettato
dai suoi. A diciassette anni diventò domenicano,
andò a studiare a Parigi e, infine, a Colonia, dove
tornerà professore.
Il duecentotrentaduesimo papa, al secolo Michele
Antonio Ghislieri, nacque da illustre ma decaduta
famiglia in Bosco Marengo (Alessandria), il 17
gennaio 1504. A quindici anni entrò nel convento
domenicano di Vigevano, poi insegnò teologia a
Genova e Pavia. Superiore di conventi, inquisitore
della Lombardia, commissario generale del
Sant’Ufficio (1557), cardinale, papa (1566). Applicò
severamente la riforma di Trento, proclamò San
Tommaso dottore della Chiesa, promulgò il messale
e il breviario, animò la crociata contro i Turchi;
sfociata nella vittoria di Lepanto (7 ottobre 1571),
data da lui solennizzata con l’istituzione della festa
del Rosario.
Fu autore di una mole sterminata di
libri, spazianti dalla botanica alla zoologia, alla
geologia, alla chimica e mineralogia, all’astronomia,
alla filosofia, alla teologia. Il suo aristotelismo,
mediato tramite Averroé e Avicenna, è fortemente
influenzato dal neo-platonismo, soprattutto per la
visione magico-astrologica dell’universo. Tra i
discepoli preferì, pertanto, Ulrico di Strasburgo al
più razionale Tommaso d’Aquino. Un giorno che
Alberto portò a scuola un robot di sua fabbricazione,
dotato di parola e di movimento, l’Aquinate glielo
fracassò a bastonate, ravvisandovi un’operazione
diabolica. Il suo culto venne approvato nel 1484;
beatificato nel 1622, soltanto il 16 dicembre 1931
fu riconosciuto santo e dottore della Chiesa.
È protettore degli scienziati naturalisti
dal 1942. Dante, però, già lo aveva «canonizzato»
(Par. X,97). Nella tela di Luca Giordano (1672),
collocata di fronte alla sacrestia, Alberto è raffigurato
in abiti vescovili, accanto a papa Pio V e altri
domenicani; ma un putto ai suoi piedi, che regge
il globo terrestre, ricorda la sua incredibile e varia
erudizione, che, prima di tardivi riconoscimenti
ufficiali, lo tramanda ai posteri come Doctor
universalis.
Grande pacificatore in Germania, dopo
la condanna di Federico II a Lione, e poi, dal 1265,
a Siena tra le fazioni civiche; tentò invano la salvezza
di Corradino di Svevia, che in Napoli a lui si era
rivolto; stabilì la pace tra Genova e Venezia, Firenze
e Pisa; predicò la crociata contro i Saraceni. Gli fu
fatale l’ultima invettiva contro i ricchi usurai di
Siena: rottasi una vena in petto, morì dissanguato.
Era la quaresima del 1286. Dal suo corpo esanime,
una fulgida stella fu veduta salire al cielo.
Solo un giglio lo distingue nella tela di
Luca Giordano con san Pio V, dove Ambrogio
compare ai piedi del suo maestro sant’Alberto.
Manca il suo più frequente attributo: la colomba
di pace che gli parla all’orecchio. Ma sarebbe stata
un maldestro doppione, essendoci già nel dipinto
la colomba dello Spirito Santo. Fatto ben presto
in Siena oggetto di fervido culto, riconosciuto nel
1443, nel 1622 Gregorio XV ne estese la festa ai
domenicani, fissandola al 20 marzo, giorno della
sua morte. Dei suoi scritti quasi nulla rimane.
Morì l’anno seguente, il 1° maggio, per
dolorosi calcoli alla vescica, e fu sepolto, col saio
domenicano, in Santa Maria Maggiore a Roma.
Esattamente un secolo dopo, fu beatificato; il 22
maggio 1712 venne canonizzato. Privo dell’aureola,
che invece lo cinge nella già citata tela giordanesca,
appare nel polittico di Azzolino e in un pannello
del Tesoro: dipinti di molto anteriori al 1672.
L’iconografia è realisticamente ingenerosa con la
sua non avvenente figura: scarno, zigomi sporgenti,
naso adunco, barba bianca.
È raffigurato prevalentemente in abiti
pontificali (usò quelli del predecessore), in trono
(Balducci), ai piedi della Vergine, ricamata anche
sul suo piviale (Azzolino), oppure in gloria
(Giordano, 1672). Il capo è coperto dal camauro
e dal triregno (Balducci, Giordano), oppure
quest’ultimo è deposto a terra (Azzolino). Una
frase, tra le tante, di buon gusto, che lo resero
celebre: «Quand’ero frate, nutrivo buone speranze
per la salvezza dell’anima mia; fatto cardinale, ho
cominciato a temerne; ora che sono papa, non ci
spero quasi più».
Luca Giordano, San Pio V in gloria, 1671-1672
COSTRUTTORE DI PONTI:
SAN CONSALVO
DI AMARANTE
Tormentata e, per molti versi, oscura fu la sua
vicenda. Venne al mondo in Amarante, Portogallo.
Si dubita della data natale (1187), dubita pure
qualcuno che fosse domenicano. Eletto a reggere
un’abbazia, dopo qualche tempo partì per un lungo
pellegrinaggio in Terra Santa, lasciando il nipote
a sostituirlo. Costui, non pago di menar vita
dissoluta, diffusa la falsa notizia della morte dello
zio, si fece nominare abate al suo posto. Consalvo,
tra l’universale stupore, fece ritorno dopo
quattordici anni.
Lo scioperato nipote lo accolse in malo
modo, picchiandolo e facendolo assalire dai cani.
«Bello di fama e di sventura», Consalvo chiuse gli
occhi nel 1259 (o nel 1262, secondo altri). Costruì
una chiesa presso il fiume Tamega, sul quale, per
celeste ispirazione, lanciò un ponte, lavorandovi
con le proprie mani: è proprio questo ponte a
distinguerlo, a lato di Pio V in gloria, nella citata
opera di Luca Giordano. Un’epigrafe nella chiesa
tramanda che proprio nella festa di San Consalvo
(10 gennaio), il domenicano cardinale arcivescovo
di Benevento, Vincenzo Maria Orsini (poi Papa
Benedetto XII), consacrò l’altare maggiore della
Basilica. Il culto di san Consalvo era stato concesso
ai Domenicani dal 1671. Pare che il mitico ponte
sia ancora in piedi, a sfidare le piene del fiume
Tamega.
LA CUGINA
DELL’ANTIPAPA:
BEATA MARGHERITA
DI SAVOIA-ACAIA
Nacque nel castello di Pinerolo, verso il 1382, dal
principe Amedeo di Savoia-Acaia e da Caterina di
Ginevra. Nell’avito maniero avrà poi un
determinante colloquio con san Vincenzo Ferrer.
Morto il padre nel 1402, l’anno seguente fu data
sposa a Teodoro II Paleologo, marchese del
Monferrato, già con due figli e di rude carattere,
che la lasciò vedova dopo quindici anni. Si ritirò
allora con altre dame in un castello, presso Alba,
donatole da un figliastro; castello che la marchesa
trasformò in luogo di preghiera e di assistenza agli
ammalati, respingendo allettanti matrimoni.
Conquistata dall’esempio di Caterina
da Siena, indossò con le altre l’abito di terziaria
domenicana. Suo cugino Amedeo VIII, che nel
frattempo s’era proclamato antipapa col nome di
Felice V, fu distolto dal suo proposito per le
insistenze di Margherita. Gli ultimi anni della sua
vita (morì ad Alba il 23 novembre 1464) furono
segnate dalle tre frecce (malattia, persecuzione,
calunnia), che ella, in una visione, aveva implorato
dal Signore. Fu sepolta ad Alba, nella chiesa della
Maddalena.
Si commemora il 23 dicembre. Il culto
popolare spontaneo, seguito alla sua morte, ottenne
una prima conferma nel 1566 da Pio V, che nel
monastero di Alba era stato vicario delle monache,
e poi da Clemente X. Con la corona marchionale
e tre dardi è ritratta da Luca Giordano accanto a
Pio V. La presenza del cervo (che contrassegna pure
un’altra vedova, la beata Ida) può spiegarsi in base
a una credenza risalente ad Aristotele e
abbondantemente usata nella parenetica cattolica,
non molto favorevole alle seconde nozze: si riteneva,
infatti, che il cervo, una volta figliato, non si
accoppiasse più.
«NIMICA DI CIASCUN
CRUDELE»:
SANTA LUCIA DI SIRACUSA
Anche di questa santa, la cui esistenza è nondimeno
suffragata dall’archeologia, la leggenda s’è ben
presto impadronita. Sanata sulla tomba di
Sant’Agata a Catania, rifiutò le nozze con un
pagano. Fu denunciata pertanto come cristiana.
Esposta in un bordello, così rispose al giudice
Pascasio: «Se anche, per violenza, cadessi
carnalmente, spiritualmente rimarrò casta, e così
tu mi procurerai la duplice corona della verginità
e del martirio».
Per non cedere, giunse perfino a cavarsi
gli occhi e a gettarli a Pascasio. Alla fine fu decollata,
nell’anno 304. È sepolta a Venezia e si ricorda il
13 dicembre, il giorno più corto - con meno luce
- dell’anno. Dante, da lei miracolato agli occhi, la
elesse a simbolo della grazia illuminante (Lucia,
Lux); ne parla in più luoghi (Inf. II, 97-100; Pur.
IX, 55 e Par. VI, 41). I pittori amarono raffigurarla,
recante un piatto con sopra gli occhi,
nell’imponenza e nell’abbigliamento di una
matrona, ingemmata come una regina, ponendole
accanto la palma del martirio e il serto di rose della
Sponsa Christi.
La firma di Girolamo de Magistro nella
tela rappresentante Lucia (cappellone della
circoncisione, altarino di sinistra), è finora l’unico
documento di questo poco noto, ma non spregevole,
pittore.
Girolamo dello Mastro, Santa Lucia, metà XVII sec.
L’OSPITE DI CRISTO:
SANTA MARIA
MADDALENA
A parte qualche confusione con santa Maria
Egiziaca, a parte la discussa identificazione, che la
tradizione consacra, della sorella di Marta e di
Lazzaro con l’anonima peccatrice che unse di
balsamo Gesù; ancor più accesa fu la controversia
sulla venuta della Maddalena in Provenza con
Marta, Lazzaro e altri profughi scacciati dalla
persecuzione dei Giudei. Comunque, tutti
festeggiano l’unica Maddalena il 22 luglio.
L’Occidente ne ha privilegiato la bellezza,
più o meno sensuale, più o meno spirituale,
struggente contrasto tra peccato e redenzione: andrà
a ungere il Cristo morto con lo stesso, seducente
profumo con cui l’aveva cosparso vivo, nettandolo
coi lunghi capelli che, a farne più rara la bellezza
orientale, sono sempre biondi. Certamente
simboliche le due lepri in fondo a destra nella bella
tela di Luca Giordano. Prima testimone della
risurrezione, Maddalena, come la lepre (sensualità
/ ruminazione interiore), è legata alla Pasqua. La
dea anglosassone Eostre (Ostern, Easter = Pasqua),
dea lunare dal capo leporino, identifica la
risurrezione nella luna nuova. D’altronde, ancor
oggi così si computa la Pasqua. È la lepre a deporre
l’uovo, magico simbolo dell’inizio pasquale. Giunta
a Marsiglia, Maddalena si sarebbe ritirata nella
Sainte-Baume (Santo Balsamo), un eremo scavatole
nella roccia dagli angeli, dove septemque die subiecta
per horas, / angelicos audire choros alterna canentes /
carmina corporeo de carcere digna fuisti (F. Petrarca,
Ecl. I).
Una volta la santa apparve a un pio
domenicano, descrivendogli il luogo donde
contemplava i misteri della passione del Signore.
Lì, sulla bocca dell’antro, San Michele aveva
collocato una croce che la tutelava dalle incursioni
dei diavoli. Le reliquie della Maddalena furono
traslate, nel 1280, a Vézelay, dove quindici anni
più tardi sorgerà una stupenda basilica, importante
tappa penitenziale sul cammino di Santiago.
Bonifacio VIII la affidò ai domenicani, che di lì
irraggiarono dovunque il culto della Maddalena.
Nella chiesa della Sanità, per esempio,
a parte il citato dipinto giordanesco, la santa appare,
bionda, elegante myrophora tra le sante domenicane
nel polittico di Azzolino. Nel 1347, dalla certosa
di Montrieux, dove era il fratello Gherardo,
Francesco Petrarca venne pellegrino alla SainteBaume: «Come condotta in un altro mondo
continuò a nascondersi qui, sino alla fine, ed ebbe
a dimora quella nuda,cava rupe, che credo tu abbia
visto (infatti non è lontana da qui). Sacro è il luogo,
venerazione incute la sua orridezza, e merita d’esser
visto, ancorché da lontano. Ricordo d’esservi stato
spesso, e di avervi, una volta, trascorso tre giorni
e tre notti, gustando una voluttà, diversa da quella
che solitamente si gode nelle città.
Qui la dolce e fortunata ospite di Cristo
fruì, in vita e in morte, non della servitù di adorne
fanciulle, ma dell’ossequioso servizio degli angeli»
(Vit. sol. II, 0; cfr. Fam. X, 4).
Luca Giordano, Estasi di Maria Maddalena, 1667-1672
«LA VITA GLORIOSA»:
SAN TOMMASO D’AQUINO
Doctor communis per gli antichi, per i posteri Doctor
angelicus. Della vita del più famoso domenicano,
la cui erudizione superò quella, già prodigiosa, del
maestro Alberto, si narreranno soltanto pochi
episodi. Visse dal 1225 circa al 1274. La figura
corpulenta di Tommaso (Giovan Vincenzo Forli)
ha dato origine alla leggenda dello helluo (il ghiottone
di Cristo). Ancora infante, mentre la nutrice lo
preparava per il bagno, raccolse da terra un pezzo
di carta. Inutile ogni tentativo di prenderglielo.
Alla fine, tra lacrime e strilli, vi riuscì sua madre.
Sul foglietto era scritta l’Ave Maria, ma il bambino
pretese piangendo la restituzione di quel tesoro e,
riavutolo, ne fece un boccone. Un’altra volta, ormai
adulto, alla Sorbona fu prescelto come arbitro di
una disputa sull’Eucarestia. Prima di dare il suo
responso, Tommaso s’inginocchiò dinanzi al
Sacramento, che gli disse: «Bene hai scritto di me,
e bene, per quanto è concesso a forze umane, hai
risolto la questione».
Analoghi elogi gli rivolse un Crocifisso
in San Domenico Maggiore, a Napoli. I religiosi
che lo stavano spiando lo videro sollevarsi estatico
un cubito da terra. Racconta sant’Antonino che
Tommaso, dopo la sua morte, apparve a un
domenicano di santa vita, Alberto da Brescia, con
una corona d’oro gemmata sul capo, due collane,
una d’oro e una d’argento, e sul petto una pietra
splendente come il sole. Un’altra volta, i suoi
fratelli, prevedendo ben altro avvenire per il
nipotino della sorella di Federico Barbarossa, lo
rinchiusero, sotto custodia armata, nell’avito castello
di Roccasecca. Per ostacolarlo ulteriormente nella
vocazione, gli introdussero una donna, che il santo,
brandendo un tizzone, volse in fuga, mentre due
angeli gli legavano saldamente i fianchi (il
miracoloso cinto di san Tommaso è tuttora venerato
in Vercelli). Tanto racconta in pittura Pacecco de
Rosa nella cappella adiacente la sacrestia.
Azzolino, nella cona del Rosario, lo
distingue non solo con l’ostensorio (attributo,
peraltro, comune a S. Giacinto), ma soprattutto
col sole fulgente in petto. Tommaso, cantore
dell’eucaristia (sua è la stupenda ufficiatura del
Corpus Domini), ebbe dal papa il privilegio di recare
addosso il Santissimo. Morì nell’abbazia di
Fossanova, mentre si recava al concilio di Lione,
per trattare la riconciliazione con la Chiesa greca.
Fu canonizzato nel 1323. Secondo una
fonte non documentata, ma raccolta da Giovanni
Villani e da Dante, pare che l’andata al cielo di
Tommaso, a soli quarantanove anni, fosse stata
accelerata, per oscure manovre politiche, dal veleno
angioino. Dante ricorda Tommaso frequentemente
(Purg. XX, 69; Par. X, 9088; XII, 110-144; XIII, 32;
XIV, 6). Dell’immensa opera, tra cui emerge, come
una cattedrale gotica, la Summa theologiae, piace
rievocare almeno gli estasiati versi di un inno del
Corpus Domini: Adoro Te devote, / latens Deitas, /
quae, sub his figuris, / vere latitas: / Tibi se cor meum
/ totum subicit, / quia, Te contemplans, / totum deficit.
Si festeggia il 28 gennaio.
Pacecco de Rosa, San Tommaso d’Aquino, 1652
LADRA D’AMORE:
SANT’AGNESE
DA MONTEPULCIANO
L’UOMO CHE SPOSÒ LA
VERGINE: SAN GIACINTO
ODROWATZ
UN FIORE AMERICANO:
SANTA ROSA DA LIMA
Venne alla luce, probabilmente il 5 maggio 1286,
dalla nobile famiglia Segni, a Gracciano Vecchio,
vicino a Montepulciano. A nove anni entrò fra le
“sacchine”, domenicane di rigida osservanza. Dopo
cinque anni, insieme con la sua maestra di noviziato,
già fondava un monastero. In seguito, ne costituì
ancora un altro, del quale fu superiora fino alla
morte, sopravvenuta il 20 aprile (giorno in cui
viene festeggiata) del 1317.
Il santo del 17 agosto nacque a Kamièn, in Polonia,
in un imprecisato anno del XII secolo. Fu dottore
in diritto e in teologia. Instancabile apostolo delle
terre nordiche, le percorse in lungo e in largo, dalla
Stiria alle più settentrionali province della Cina.
Fuggendo con l’ostensorio da Kiev, incendiata dai
Tartari, fu richiamato indietro dalla Vergine, perché
mettesse in salvo anche una sua statua in alabastro.
In quel frangente, il santo passò a piedi asciutti un
fiume: qualcuno assicura che ancor oggi si scorge
su quelle acque «il sentiero di San Giacinto».
Il primus flos Americae, sbocciato dalla semina
domenicana nel nuovo mondo, vide la luce nel
giorno di Pentecoste, la pasqua delle rose, il 20 aprile
1586, a Lima, da un oriundo spagnolo, Gaspare
Flores, e da Maria de Oliva. Alla cresima, san Turibio
di Mongrovejo, vescovo di Lima, le mutò il nome di
battesimo Isabella in Rosa, come ormai già tutti la
chiamavano per la sua straordinaria avvenenza. Lei
completò, per modestia, il soprannome in Rosa di
santa Maria e, quando in una festa la incoronarono
di rose, infilò, nascosto sotto il serto, un ago sulla
fronte. Divenuta Terziaria Domenicana nella cappella
del Rosario, affascinata dall’esempio di Caterina da
Siena, visse come in clausura nella casa paterna, tra
penitenze inenarrabili.
Quando santa Caterina da Siena si recò
pellegrina alla sua tomba, Agnese sollevò il piede
sinistro al bacio di Caterina. Insieme a Rosa da
Lima, esse sono le due sante domenicane che
meritano di tenere in braccio Gesù Bambino. Ebbe
culto dal 1523 in Montepulciano, e nel suo ordine
dal 1601 (la bolla di conferma fu pubblicata, però,
nel 1642). Venne canonizzata nel 1726 dal
domenicano papa Benedetto XIII. Nel 1672, nella
seconda cappella a sinistra di chi entra nella basilica
della Sanità, Luca Giordano la raffigurò in una
tela che riunisce tre diverse apparizioni della Vergine
col Bambino, rispettivamente a sant’Agnese, a
Santa Rosa e a San Giacinto.
Narra il suo primo biografo, il beato
Raimondo da Capua, che la santa priora, durante
una visione, letteralmente «scippò» dal collo di
Gesù Bambino una crocetta (che tuttora si conserva
in Montepulciano): era la vigilia dell’Assunta. In
un’altra apparizione, fu la Vergine stessa a offrirle
tre piccole gioie, simbolo di una chiesa che la santa
avrebbe edificato alla Madre di Dio «sulla roccia
della professione di fede nell’eccelsa Trinità».
Bianche crocette ornano ancora il suo nero manto,
e piovono d’intorno coloriti fiori, che nascono
ovunque Agnese s’inginocchi. In un’ennesima
visione della Vergine, tra gli angeli cantanti la
sequenza Vernans rosa, ella, al dileguarsi del prodigio,
si trovò accanto una rosa.
Accanto alla peruviana santa Rosa, il
polacco san Giacinto appare in una bella pittura
di Luca Giordano (1671-1672), narrante un’altra
apparizione della Regina degli angeli, accaduta la
vigilia dell’Assunta. Lo stesso soggetto è nella pala
di Ludovico Carracci per il San Domenico di
Bologna (trafugata da Napoleone nel 1796), eseguita
in occasione della canonizzazione di Giacinto. La
Madonna, apparendogli, disse: Gaude, fili Hyacinthe,
quia orationes tuae gratae sunt Filio meo, et ideo,
quidquid ab eo per me petieris, impetrabis. Alla sua
morte (Cracovia, 15 agosto 1257, festa dell’Assunta),
la monaca Branislava vide la Vergine tra gli angeli
apparirgli per l’ultima volta, lasciando nel convento
una luce abbagliante (da osservare nel dipinto di
Giordano).
Le parole della Vergine furono quelle
della sposa del Cantico dei cantici: «Andrò al monte
della mirra, al colle dell’incenso». Il culto di Giacinto
si sviluppò solo dopo la sua canonizzazione (17
aprile 1594), energicamente voluta da Sigismondo
III di Polonia e da altre monarchie cattoliche a lui
legate.
Numerose malattie, che lei stessa si cagionò
mortificando il corpo in ogni modo, la condussero
precocemente alla tomba il 24 agosto 1617 (si festeggia
il giorno precedente). Venne sepolta nel duomo di
Lima, nella cappella di Santa Caterina da Siena. Fu
beatificata il 15 aprile 1668 e proclamata patrona
del Perù e, due anni dopo, delle Indie Occidentali
e delle Filippine; il 12 aprile 1671 fu canonizzata,
insieme al grande apostolo delle Americhe Luis
Beltrán. La sua iconografia dipende, compreso il
dipinto di Luca Giordano della seconda cappella a
sinistra, in buona parte, da un quadro di Carlo Dolci
(ora in Palazzo Pitti a Firenze), inaugurato, come
avverte un retrostante cartiglio, il 30 agosto 1668, la
prima festa della beata Rosa. Il soggetto è ispirato a
una visione che la santa ebbe nella cappella del
Rosario, di cui era devotissima.
Vestita del bianco saio delle terziarie,
rivestita di rose, mentre un rivolo di sangue scorre
dalla testa cinta di un rosario di spine, riceve da
Gesù Bambino l’anello nuziale, con la consolante
promessa: Rosa cordis mei, tu mihi sponsa esto. E
la Madonna soggiunge: En, Rosa, quali te dignatur
honore meus hic Filius! Nascevano fiori ovunque
passava, e gli alberi chinavano le chiome. Morta,
pareva una rosa fresca al mattino, perché fu vista
ricoprirsi di rugiada e, nella notte del 23 agosto, una
voce le sussurrò: «Preparati, si appressano le nozze!».
Luca Giordano, Matrimonio mistico di Santa Rosa da Lima, 1672
IL SOLE DELLE CASE:
SAN BIAGIO
IL «BUON HOMO»:
SANT’ANTONINO PIEROZZI
IL GRAN VEGLIARDO
SAN RAIMONDI
DI PEÑAFORT
Poche e incerte le notizie sul vescovo di Sebaste
Blasius («balbuziente»): sarebbe stato martirizzato,
con un pettine da cardatore, intorno all’anno 316.
Fu veneratissimo nella Chiesa greca, e le sue reliquie
vennero portate in Occidente dai crociati. A parte
le consuete insegne episcopali (paramenti rossi,
come nella liturgia dei martiri), è raffigurato da
Agostino Beltrano, tra i santi Antonino e
Raimondo, con il pettine.
Nato nel 1389 a Firenze, dal notaio Nicola e da
Tommasa, fu battezzato col nome di Antonio,
presto mutato in Antonino, a motivo della gracile
costituzione. Entrò nell’Ordine Domenicano a
sedici anni e vi esercitò in seguito cariche di governo.
Tra l’altro fu priore del convento di San Marco di
Firenze, da lui edificato e nella cui chiesa fu sepolto.
Dal 1446 alla morte (Montughi, 2 aprile 1459), fu
arcivescovo di Firenze: della nomina ebbe notizia
quando si trovava a Napoli, e tentò inutilmente di
sottrarsene con una fallita fuga in Sardegna.
Il terzo Generale dei Domenicani nacque da una
famiglia dell’aristocrazia catalana a Villafranca del
Panadés, quasi certamente nel 1175. Insegnò filosofia
in patria, ed a Bologna, dove conobbe Pier delle
Vigne.
Dinanzi a lui è la donna con il bambino
dalla cui gola il santo estrasse una lisca di pesce.
Fino a pochi anni fa, anche nella basilica della
Sanità, nel giorno di san Biagio (3 febbraio) il
sacerdote incrociando due candele (sopravanzate
dalla candelora del dì precedente) sulla gola dei
fedeli, pregava: «Per intercessione di San Biagio,
vescovo e martire, ti liberi il Signore dal mal di
gola». Nella tarda antichità, il medico Ezio di Amida
era in grado di estrarre dalla gola qualsiasi oggetto
ingerito, semplicemente invocando San Biagio.
Ovviamente lo invocano anche quelli
che lavorano la lana e il taffetà. Perciò egli è uno
dei quattordici santi cosiddetti “ausiliatori”, i più
richiesti nelle difficoltà. Per la cronaca, gli altri
tredici sono: Acacio, Egidio, Cristoforo, Giorgio,
Ciriaco, Dionigi, Erasmo, Eustachio, Pantaleone,
Vito, Barbara, Caterina d’Alessandria e Margherita.
A Napoli, infine, si dice: Cannelora, vierno è fora;
San Biase, ’o sole pe’ case.
Continuò a segnalarsi, oltre che per la
dottrina, anche per l’operosa carità: già dal 1442,
aveva istituito i “Buonhomini” di San Martino, al
fine di soccorrere i nobili decaduti e, in genere, i
poveri vergognosi. Compose vari scritti di argomento
morale e canonico (così si spiega la sua associazione,
nel quadro di Agostino Beltrano, a san Raimondo
di Peñafort, che si interessò di analoghi argomenti),
ma anche omiletico e storico. Vanno menzionati,
almeno, la Cronaca, che si estende, per grandi linee,
dalla creazione al 1458; e Lo specchio di coscienza,
composto a Napoli.
Beltrano (1653), nella prima cappella a sinistra, lo
raffigurò con le insegne arcivescovili, nell’atto di
elargire una borsa di denaro; Azzolino, nel polittico
del Rosario, con la mitra e il volto incartapecorito
(quale appare nell’urna in San Marco a Firenze)
tra gli altri splendori del cielo domenicano. Fu
canonizzato il 31 maggio 1523.
Si ricorda il 10 maggio.
Entrò nell’Ordine nel 1222. Collaborò
con S. Pietro Nolasco e S. Raimondo Nonnato alla
fondazione dell’Ordine della Mercede, per il riscatto
degli schiavi. Esercitò la carica di Penitenziere. Tra
le su opere, andò famosa la Summa casuum conscientiae.
Dopo aver ricusato la carica di Arcivescovo di
Tarragona, il Nestore domenicano moriva, pressoché
centenario, il 6 gennaio 1275.
Il suo culto fu autorizzato il 3 giugno 1542, mentre
egli verrà canonizzato il 29 aprile 1601. La festa
ricorre il 7 gennaio.
Accanto a S. Biagio, Agostino Beltrano
lo effigiò vecchio venerando, con un libro ed una
chiave (simbolo del suo ruolo di Penitenziere). Più
frequente altrove è l’iconografia che dal sec. XV
s’ispira ad un evento miracoloso: il grande vecchio
coprì, in tempo record (solo sei ore!), il tragitto
Maiorca-Barcellona, navigando sul suo mantello.
Agostino Beltrano, San Biagio, 1654-1656
il paradiso pittorico
In gloria Dei Patris
Postludio
«I padri hanno mangiato uva acerba, e ai figli si sono allegati i
denti», sembra dire Titus Burckhardt, il quale, a differenza del
più celebre omonimo, accusa il rinascimento prometeico di avere
assassinato la sacralità medievale, dando luogo al barocco, che,
a sua volta, nulla avrebbe di sacro. Nos vetera instauramus nova non
prodimus, risponderebbe Erasmo. Certo, il barocco è figlio del
rinascimento, ma pur di una qualche Virginia de Leyva. Ciò che
il medioevo aristotelicamente distingue, il barocco alchemicamente
fonde nella meraviglia dei contrasti, e più che della sintesi di
Tommaso, gode dell’antitesi di Caravaggio.
Se il medioevo disprezza il mondo, il barocco lo converte,
lo redime, lo consacra. Sacro è il barocco, con buona pace di
Burckhardt, anzi cattolico; voluttuoso e galante come suo padre,
come sua madre edificante e devoto; drammatico e sensuale,
come Torquato Tasso, erudito e gesuita come Daniello Bartoli.
Esiste una cima, una punta sottile, come dicono i mistici, dove
gigli e rose, verginità e martirio s’intrecciano e la loro fragranza
si confonde e si effonde; esiste, da sempre, nella Chiesa, un
privilegio del martirio sulla testimonianza incruenta, della verginità
sulle nozze. Il martirio fu considerato grazia, massima prova
d’amore, e la verginità il suo complemento o il suo equivalente.
Vergine fu per Balducci (uno degli artisti divulgatori della Riforma
Cattolica), vergine fu san Domenico, accolto con un giglio dalla
Regina virginum; martire, altresì, del desiderio, abbracciato a
lame e flagelli, tra una pioggia di rose; vergine e martire fu pure
Pio V, che preferì la morte a un intervento sui genitali. Le donne,
soprattutto. Come per Maddalena, più sono state belle e desiderate,
più dura e straziante sarebbe stata la loro penitenza.
Belle e desiderate, come Margherita d’Ungheria, Agnese da
Montepulciano, Rosa da Lima, la regina tra questi fiori. Il candido
giglio delle convalli peruviane s’intreccia con una sanguigna rosa:
nomen omen.
Come nel celeberrimo Elogio della rosa, cantato da Marino
nell’Adone, tutta la vita della santa fu un susseguirsi di barocche
variazioni sul “nome della rosa”, impostole come un presago
destino. Rosa rorans bonitatem, / stella stillans claritatem, così Rosa,
rorida di stille, s’avvia sul cammino delle stelle. Stupiscono
inamene boutades nel più documentato degli iconologi, Louis
Réau: non ne facciamo neppure cenno. Preme, invece, ricordare
che la storia sacra e antica è tutt’altro che la moderna storiografia:
l’antico è archetipo del nuovo. Così, Domenico è Mosè legislatore,
Abramo prolifico patriarca; Vincenzo Ferrer e Luis Bertràn sono
Elia ed Eliseo; forse, Alberto e Tommaso sono Merlino e Parsifal…
Occhi sensibili intravvederanno in Consalvo, come in un
palinsesto, Odisseo e Riccardo Cuor di leone.
Come Cristo nel deserto, Tommaso dopo la tentazione
è confortato dagli angeli, e così Maddalena; in Giacinto si adempie
la Scrittura: In flumine pertransibunt pede (Sal. 65, 6); in Vincenzo
Ferrer il Salmo 30 e, ovviamente, l’Apocalisse; Lucia interpreta,
sine glossa, il comando evangelico: «Se i tuoi occhi sono per te
occasione di caduta, cavali via da te!» (Mt. 18, 9). Insegna
sant’Agostino, sulla scorta del Timeo platonico, essere di tre
specie la musica: umana, cioè l’armonia del corpo e dell’anima;
strumentale, cioè l’armonia di strumenti diversi; cosmica, perché,
come «diverse voci fanno dolci note, / così diversi scanni in nostra
vita / rendon dolce armonia tra queste rote» (Par. VI, 124).
Volentieri cederemo ai competenti l’ufficio di riconoscere
gli strumenti musicali nei nostri dipinti; di rammentarci come
nel Seicento la città della sirena desse i natali alla vihuela, al liuto
a doppie corde, alla chitarra spagnola, o vi godessero lancio e
diffusione la viola bastarda, l’arpa doppia, la tastiera cromatica;
come il Domenichino, prima di saggiare il veleno di Napoli, vi
gustasse la dolcezza di fabbricare, con le sue mani, un cembalo
e un liuto, nonché un’arpa enarmonica, che mai poté far sonare.
Checché voglia Burckhardt, ai musici angeli di Balducci, Azzolino
e Beltrano affidiamo le Cancianes di san Giovanni della Croce,
il più grande mistico dell’evo moderno, per allietare di paradisiaci
accenti la cena que recrea y enamora. Giambattista Marino, poeta
calunniato come lo fu, a lungo, il barocco, come lo è, da sempre,
Napoli, ha scritto, nella seconda delle Dicerie sacre, una pagina
struggente:
Viene Cristo all’incontro con cetera vile, e questo è il legno
della Croce. Se la volete bicorne,ecco i due rami dall’una all’altra parte.
Se volete le corde,ecco i nervi. Se volete le chiavette, ecco i chiodi. Se la
rosa, ecco l’apertura odorifera del costato (...). Nasconde sotto le spine
le rose, sotto il fiele la manna, sotto l’ignominia la gloria, sotto i lamenti
la musica (...). Quantunque tutto il progresso dei suoi tormenti altro in
effetti non sia ch’una musica amorosa, la musica nondimeno ch’egli in
questi ultimi accenti sparge oggi sopra la croce, par che tutto il resto di
gran lungo vinca, e superi di dolcezza.
LA LINGUA
DEL
PARADISO
Bruno Forte
«Il simbolo dà a pensare»: questa tesi di Paul
Ricoeur risulta quanto mai fondata per chi visiti
con «intelletto d’amore» la basilica di Santa Maria
della Sanità a Napoli.
Opera di un architetto domenicano, converso dello stesso convento della Sanità, fra Giuseppe Nuvolo, al quale
sul finire del Cinquecento fu affidato il compito di «dar principio alla nova chiesa», essa nasce da un preciso
progetto non solo architettonico, ma anche teologico e spirituale. Si tratta di una sorta di “teologia simbolica”,
di pensiero della fede, cioè, che fa uso specialmente del simbolo per approssimarsi al Mistero.
Per comprendere quest’approccio occorre ricordare che in origine il “simbolo” altro non era che una
tessera di terracotta, spezzata in due e consegnata ai contraenti d’un patto, affinché ciascuno di essi potesse
mostrare la propria parte all’altro e così, dalla corrispondenza delle parti, attestare la forza vincolante del legame
liberamente contratto. È da qui che la parola passa a designare l’unità dei due - espressa dalla preposizione syn,
indicativa di comunione e di convergenza - nell’autonomia di ciascuno - significata dall’idea del bàllein, verbo
che significa “lanciare” ciascuno nella sua direzione. Si spiega allora come sul piano traslato il termine “simbolo”
venga a significare ciò che tiene insieme senza costringere, e quindi ciò che relaziona i diversi senza cadere
nell’univocità, mantenendo l’unità di senso, anche nell’eccedenza o addirittura nella radicale discontinuità del
significato. Mediante il simbolo è superata l’incomunicabilità fra i diversi, perché l’orizzonte di senso - l’arco del
“patto” contratto - resta unitario e totalizzante, ma viene anche allontanata la confusione indiscreta, perché i
significati non sono appiattiti l’uno sull’altro. È così che nel simbolo si dà una profonda unità di senso nella pur
permanente eccedenza del significato.
Si comprende allora perché il linguaggio simbolico risulti particolarmente adatto a discipline
in apparenza così diverse come l’architettura e la teologia: conviene alla prima, perché la delimitazione degli spazi
nel gioco dei pieni e dei vuoti è tesa a creare un ambiente abitabile in maniera non solo funzionale, ma anche
significativa in rapporto alla destinazione prescelta per l’opera; è adatto alla seconda, perché esso dice la trascendenza
senza ridurla all’immanenza, esprimendo la lontananza nel linguaggio della prossimità e proprio così consentendo
di parlare del Dio infinito ed eterno nelle forme circoscritte dello spazio e del tempo senza violarne il mistero.
Per chi, come fra Nuvolo, è educato dalla vita di fede e dall’esperienza liturgica al linguaggio del simbolo,
l’architettura, di cui è maestro con geniale piglio d’artista, risulta spontaneamente un linguaggio di cifre, un
insieme di segni cioè che rinvia all’eccedenza del significato nella necessaria continuità del senso. La sua opera
in pietra, che per tanti motivi evoca le forme del paradiso, parla così un linguaggio: è la “lingua del paradiso”,
che proveremo ora a decifrare proprio attraverso l’intelligenza del simbolo.
UNA CRISTOLOGIA PASQUALE
Il primo grande messaggio che il linguaggio architettonico di fra Nuvolo
intende esprimere è la centralità del Cristo, Signore della vita e della
storia: a rivelarcelo è il simbolo dell’ottagono, che rimanda nella grande
tradizione cristiana a quell’ottavo giorno - il primo dopo il sabato degli
Ebrei - che è il giorno della risurrezione di Cristo e del nuovo inizio
del mondo nella gloria della Sua presenza nello Spirito.
A ciascuna delle tredici cupole della basilica corrisponde in basso un quadrato, sì che la congiunzione delle due
forme passa in maniera naturale attraverso il configurarsi di un ottagono: questo impianto architettonico ritorna
sotto tutte le cupole, anche se risulta in maniera esemplare nello spazio coperto dalla grande cupola centrale,
che è per eccellenza simbolo del Cristo fra i dodici apostoli e i dodici segni dello zodiaco, rappresentati dalle
rimanenti dodici cupole.
La “lingua del paradiso” va letta così: se il quadrato è cifra del mondo, perché delimitato dai quattro
lati che evocano i quattro punti cardinali, il cerchio della cupola è simbolo dell’eternità divina, caratterizzata
dall’equidistanza di ogni punto dal centro. Il passaggio dal mondo a Dio e dall’Eterno al tempo avviene attraverso
l’ottavo giorno, significato appunto dall’ottagono, che innesta la cupola circolare sul sottostante quadrato. Si
passa dunque dalla vita terrena a quella divina attraverso il Cristo Risorto, che è a sua volta la rivelazione del
Dio sovrano e trascendente nella forma accessibile al linguaggio degli uomini. L’ottagono - e cioè il Cristo della
resurrezione - è il passaggio attraverso cui il quadrato - e dunque la vita e la storia dell’uomo e del mondo - passa
nel cerchio, metafora dell’eternità beata in Dio. La “cristologia pasquale” di fra Nuvolo è tutta espressa qui,
nell’idea a prima vista impossibile della “quadratura del cerchio”: paradosso del Verbo che si è fatto uomo,
perché l’uomo divenisse partecipe della natura divina!
Questo centro e cuore del messaggio si dilata allo spazio e al tempo nella loro interezza: l’impianto della
grande cupola, innestata sul quadrato centrale della basilica attraverso l’ottagono, si propaga mediante la
distribuzione delle dodici altre cupole, tre per ciascuno dei lati, in uno schema a raggiera che evoca la stella a
otto punte, significativamente riportata in marmo sul pavimento all’ingresso, quasi a offrire subito la chiave per
l’intelligenza del simbolo. La gloria del Risorto - via e porta d’eternità per il mondo e per ogni uomo che creda
- raggiunge i dodici segni dello zodiaco, si distribuisce cioè secondo lo svolgimento totale del tempo, nel ciclo
dei mesi e delle stagioni, del dodici o del quattro moltiplicato per tre. Anche qui, la “lingua del paradiso” esige
una traduzione: tre è il numero della divinità, che sola unisce in sé compiutamente l’unità e la dualità, la
semplicità e il doppio, l’uno più il due. Quattro - lo si è detto - è il numero del mondo, la cifra dell’umano e
dello storico. Sette - somma di tre più quattro - è la totalità, l’insieme del divino e del mondano. Dodici - risultato
della moltiplicazione del tre per quattro - è la cifra della perfezione, il simbolo della gloria promessa, l’anticipo
dell’eternità nel tempo (nel ciclo, appunto, dei dodici mesi dell’anno). Dilatandosi dal centro alle dodici cupole
il simbolismo del Risorto e del suo ottavo giorno raggiunge così non solo l’universo intero in tutte le sue stagioni,
ma lega il tempo e l’eterno e fa dello zodiaco l’anticipo e l’icona della gloria celeste.
Cristo nel suo mistero pasquale è il vero centro della storia, il cuore pulsante dell’universo, il Signore
della Chiesa e del tempo futuro: la “lingua del paradiso”, scritta da fra Nuvolo nell’impianto architettonico della
basilica della Sanità, ne canta la gloria in maniera splendida e innamorata.
ILLUMINAZIONI COSMOLOGICHE
E ANTROPOLOGICHE
È proprio l’irradiarsi della gloria del Risorto nelle forme architettoniche
della basilica che induce a cogliere un altro aspetto del messaggio in
essa inscritto: in quanto l’edificio è opera umana, innalzata pietra su
pietra dal genio e dalle mani degli uomini, esso si offre naturalmente
come simbolo dell’uomo artefice e del mondo plasmato dal Creatore
e dalla creatura.
Lo spazio circoscritto dall’impianto stellare, attraversato dal gioco degli archi e dalla volumetria delle cupole e
delle volte a botte, si lascia cogliere come immagine del cosmo, peraltro continuamente evocato dai quadrati
corrispondenti in superficie ai cerchi di basamento delle cupole stesse: è il cosmo come theatrum gloriae Dei,
ambiente in cui si irradia la gloria del Risorto, che risplende nell’ottavo giorno e raggiunge, illuminandolo di sé,
il primo mattino degli esseri. Quanto attesta la fede delle origini riguardo al Cristo, per mezzo del quale e in vista
del quale tutto è stato creato (cfr. Col 1,15), è cantato dalla “lingua del paradiso” del simbolismo architettonico
concepito da fra Nuvolo in maniera altissima e solenne.
La luce che piove copiosa dall’alto attraverso le numerose finestre contribuisce a rendere quest’idea dello
spazio architettonico come figura del mondo inondato dalla gloria dell’Eterno, a partire dall’ottavo giorno del
Risorto, ma anche - come in una sorta di preparazione e di attesa - a cominciare dal primo inizio, quando tutto
fu voluto e chiamato all’essere per accogliere e celebrare le meraviglie del Creatore e Redentore dell’uomo. In
questa chiave, anche la vocazione e il compito della creatura umana vengono evidenziati: «la gloria di Dio è l’uomo
vivente», affermava Ireneo di Lione (Adversus haereses IV,20,7), e «la vita dell’uomo è la visione di Dio». L’uomo
è fatto, cioè, per vivere della luce divina, e l’Eterno pone la sua compiacenza nell’essere l’Amato della sua creatura.
Tutto questo è proclamato dalla “lingua del paradiso” della basilica della Sanità: opera dell’uomo che
celebra la gloria e la bellezza di Dio, perché è in se stesso “sete del bello”, essa è lo spazio sacro in cui chi entra si
sente avvolto dalla luce, accolto dalle forme che celebrano coralmente la centralità del Risorto, del «giorno primo
ed ultimo, giorno radioso e splendido» della resurrezione di Cristo, che apre agli uomini la possibilità inaudita
di partecipare della stessa vita divina, oggi nel pellegrinaggio della fede, domani nella chiarezza della visione, di
cui è già anticipo e pregustazione la liturgia, gioia del cielo sulla terra. È per questa concezione dell’uomo, inscritta
nelle forme architettoniche concepite da fra Nuvolo, che le meravigliose opere di pittura contenute nella basilica
della Sanità si trovano veramente a casa in essa: Caravaggio, di cui c’è l’impronta nella grande tela della Circoncisione
di Gesù, realizzata da Giovan Vincenzo d’Onofrio, e i caravaggeschi (si pensi alle tele di Andrea Vaccaro) avevano
tradotto la concezione antropologica della Controriforma in immagine pittorica. Reagendo a quello che veniva
considerato il pessimismo protestante sull’uomo e la sua natura corrotta, si voleva veicolare l’idea che la grazia
non distrugge, ma perfeziona ed esalta la natura (Gratia non tollit naturam, sed perficit eam).
La trasposizione figurativa di questo messaggio fu resa da Caravaggio e dai suoi seguaci mediante la
geniale soluzione di far plasmare le forme creaturali dalla luce veniente dall’alto: il Dio della teologia e dell’estetica
barocca non è il concorrente dell’uomo, ma il suo alleato. Quello che fra Nuvolo dice nella pietra, la pittura della
Controriforma lo dice con la luce e i colori. La gloria divina è veramente l’uomo vivente e la visione di Dio è la
vita compiuta degli uomini.
SINCRONIE E DIACRONIE
ECCLESIASTICHE
Nel vasto spazio del mondo e della storia c’è un luogo specifico,
che della gloria divina è come il sacramento, il segno cioè e
lo strumento vivo ed efficace: questo luogo è la Chiesa.
Qui il simbolismo della basilica, dell’ambiente regale dove regna il solo vero re del cielo e della terra, è già di per sé
eloquente: ma fra Nuvolo ha saputo aggiungervi alcune sottolineature che, se risentono della ricchezza dei dibattiti teologici
connessi al concilio di Trento e alla sua recezione, sono non di meno frutto di una singolare intuizione spirituale e artistica.
La Chiesa è vista nella storia come la risultante di un duplice movimento, l’uno diacronico verticale e l’altro sincronico
orizzontale. Il movimento orizzontale risulta espresso proprio dalla centralità della grande cupola e dell’ottagono, simboli
del Cristo, in rapporto alle altre dodici cupole, significativamente distribuite sui quattro lati a raggiera. L’idea che ne
risulta è quella di una ecclesiologia “sincronica”: il Risorto è in mezzo ai Dodici, vivo e presente fra loro come il principio
e fondamento di tutto ciò che essi sono e fanno. Ma questa Chiesa apostolica è fatta per estendersi fino ai confini della
terra, significati dal simbolismo del quattro, evocativo dei punti cardinali, e perciò fino alla fine del mondo: Cristo è
insomma il centro escatologico della comunità ecclesiale, Colui che vive in essa e continua a radunarla nello Spirito come
il popolo santo di Dio, agendo in particolare attraverso la sua struttura apostolica, espressa dagli apostoli e dai loro
successori. È la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica che viene così significata dalle forme architettoniche della basilica:
e se la raggiera della stella è come dilatata verso il polo dell’altare maggiore, che ospita l’altare trono dell’eucaristia, e la
simmetria del quadrato centrale è interrotta dallo splendido pulpito marmoreo di Dionisio Lazzari, ciò è per dire che
l’annuncio della Parola di Dio e la celebrazione del Sacramento sono l’indispensabile nutrimento che rende il Cristo
sempre di nuovo presente in mezzo ai suoi, per radunarli come popolo santo dell’Altissimo.
A questo gioco di “sincronie” corrisponde anche un altro movimento: quello verticale, diacronico, che congiunge
la Chiesa delle origini e dei martiri, significata dalla catacomba e dalla basilichetta paleocristiana di accesso a essa, alla
Chiesa del concilio di Trento, del tempo di fra Nuvolo cioè e di tutti i tempi. È qui che l’architetto teologo ha avuto la
sua intuizione forse più geniale: staccandosi deliberatamente dalla concezione che voleva la nuova chiesa edificata sul
luogo di una precedente come totalmente sostitutiva di essa, fino al punto da cancellarne perfino le tracce, fra Nuvolo
decide con singolare audacia di conservare la preesistente struttura e di inglobarla nella nuova come “succorpo” dell’altare
del trionfo dell’eucaristia, coronato in alto dalla bellissima scultura della Madonna della Sanità, opera di Michelangelo
Naccherino. Egli congiunge tuttavia i due piani sovrapposti così ottenuti con una scala a forcipe, successivamente arricchita
di marmi, bella e di notevole eleganza, in modo da rendere chiaramente l’idea della continuità nello sviluppo, ovvero della
fedeltà della Chiesa nel tempo alla sua prima origine. Che garanzia di questa fedeltà sia la tradizione della fede apostolica
e in generale la trasmissione del “deposito della fede” assicurata dalla successione degli Apostoli, è espresso precisamente
dai due busti dei santi Pietro e Paolo, incastonati nella parete sulla scala. In tal modo risulta chiaro che sincronia e
diacronia nel mistero della Chiesa non si oppongono: l’una è anzi garanzia dell’altra, segno e strumento di essa.
La tradizione apostolica, garantita dalla successione dei Pastori, e la trasmissione nel tempo della fede delle origini fonda la
comunione attuale del popolo di Dio; questa comunione a sua volta esprime nell’oggi l’unità assicurata dall’unico Cristo, dall’unica
fede, dagli stessi sacramenti, trasmessi e ricevuti nell’ininterrotta catena della Tradizione. L’unità diacronica e quella sincronica della
fede vivono l’una dell’altra: è quanto l’intuito geniale che fra Nuvolo ha saputo esprimere – più e meglio di tanti teologi di professione!
– con la “lingua del paradiso” del suo straordinario simbolismo architettonico.
MARIA, GLI ANGELI E I SANTI:
IN COMPAGNIA VERSO
LA GLORIA FINALE
Lo sviluppo in profondità della basilica culmina nel trionfo di Maria,
rappresentato in alto al centro dell’abside dietro l’altare maggiore con
la statua della Vergine Madre di Dio, venerata sotto il titolo della
Sanità, opera - come si è detto - dello scultore Michelangelo Naccherino.
In realtà, la convergenza verso la figura di Maria è più che giustificata dalla causa prossima che indusse a edificare
la chiesa: il ritrovamento nella catacomba dell’affresco del VI secolo - oggi staccato e conservato nella prima
cappella a destra - che rappresenta la Vergine seduta, sulle cui gambe come su trono amoroso siede a sua volta il
Bambino. La liberazione della città di Napoli da un pericoloso morbo aveva fatto invocare la Madonna così
raffigurata come Santa Maria della Sanità, e cioè della “salute”. Fra Nuvolo lo sa bene e vuole rendere onore alla
Madre di Dio: tutto deve in qualche modo convergere verso di Lei e verso la presenza reale del Figlio nel tabernacolo
dell’altare maggiore, vero trono dell’eucaristia. Il motivo occasionale si colora tuttavia di un ulteriore significato
simbolico: atteso quanto ci ha finora rivelato la “lingua del paradiso”, scritta nell’architettura della basilica, non
è improprio pensare che nella figura della Vergine madre posta in tale rilievo si volesse far cogliere l’icona densa
e fedele della Chiesa intera, di cui Maria è membro eccellente, tipo, modello e madre.
Tradotto in linguaggio esistenziale ciò significa che alla scuola di Maria e con l’aiuto della sua intercessione
la Chiesa realizza se stessa come popolo dell’ascolto verginale nella fede, della maternità generosa nella carità e
dell’alleanza nuziale fra il tempo e l’eterno, sempre di nuovo tenuta viva nella speranza. Nella Madre di Dio è
l’intero cosmo - “teatro” della Sua “gloria” - ed è l’intera umanità a riconoscere la propria vocazione e il proprio
destino ultimo. La “biografia” totale della Vergine - dall’immacolata concezione all’assunzione in cielo - è simbolo
denso dell’itinerario e della meta cui è chiamato ogni discepolo dell’amore nella sequela di Gesù e nella compagnia
della fede ecclesiale. La centralità prospettica della figura di Santa Maria della Sanità - in alto e in fondo - assume
così anche il significato di un richiamo escatologico, di una memoria cioè viva e presente del destino ultimo
dell’uomo e del mondo nella gloria di Dio, tutto in tutti.
Lo spazio delineato dalle forme volute da fra Nuvolo - pervaso della luce del Risorto - si dilata così in
un movimento orizzontale-verticale nel pellegrinaggio della storia verso ciò che è oltre la storia: la basilica diviene
nella sua totalità il simbolo di una frontiera, di una sorta di soglia fra il tempo e l’eterno, fra il pellegrinaggio
della fede e la promessa e sperata bellezza della visione verso cui si tende e ci si eleva. A confermare la validità
di questa lettura sta la miriade di angeli - in marmo, in stucco, in legno o dipinti - di cui l’edificio è adorno in
ogni sua parte: la coralità angelica - conformemente al senso del nome “angelo”, che vuol dire messaggero, araldo
e perciò intermediario fra il divino e l’umano - vuol significare la misteriosa contiguità fra l’eterno e il tempo,
stabilita nell’alleanza fra la terra e il cielo celebrata in Cristo.
Gli angeli sono l’invisibile presenza dell’amore e della provvidenza divini per ciascuna creatura, la compagnia
celeste ai pellegrini del tempo, la figura densa della comunione nel Dio tre volte santo, che travalica i limiti del visibile
e dell’immediato per entrare nell’invisibile e nell’eterno. Proprio così l’angelo attesta la profondità del Mistero, più
nutriente e vivificante di qualsivoglia evidenza razionale o fenomenica: la basilica di Santa Maria della Sanità, scritta
com’è nelle sue forme architettoniche col linguaggio del simbolo, è di per sé una dimora angelica, una casa di Dio che
ricorda alle contigue case degli uomini e ai loro cammini, penetrati fin nella sua stessa struttura con la violenta inserzione
dei pilastri del ponte della Sanità nel chiostro del convento al tempo di Gioacchino Murat - che l’Eterno è vicino, che
si è fatto prossimo agli uomini in Cristo morto e risorto per tutti, e che proprio così c’è sempre ragione di credere, di
sperare e di amare, al di là e perfino contro ogni smentita dell’evidenza quotidiana della fatica di vivere.
In questo stesso dinamismo di compagnia al cammino della Chiesa e di corale celebrazione della Gloria divina
nel tempo e per l’eternità si colloca l’altra schiera di figure che popola la basilica: quella dei santi. Le meravigliose
raffigurazioni pittoriche, opera - come s’è detto - della scuola di Caravaggio, ma anche e in misura considerevole
dell’infaticabile Luca Giordano e di artisti non inferiori, come Giovanni Balducci, Giovan Bernardino Azzolino detto
il Siciliano, Pacecco de Rosa, Agostino Beltrano, offrono uno spaccato insigne del popolo del Paradiso: dalla Vergine,
più volte rappresentata, a san Nicola, da san Domenico di Guzman a san Tommaso d’Aquino, da san Ceslao a san Luis
Beltrán, da san Pio V a santa Rosa da Lima, da santa Caterina al veneratissimo san Vincenzo Ferrer, angelo dell’annuncio,
i santi sono anche loro di casa nella basilica della Sanità. E che la loro compagnia non sia generica, ma precisa e fedele,
lo mostrano non solo i volti del popolo comune cui ad esempio san Vincenzo si rivolge nella sua predica secondo la
bellissima tela di Giordano, ma anche l’altra deliziosa scena in cui i gloriosi abitatori del Cielo, per l’esattezza san Pio
V e compagni, fra nuvole e angeli, non hanno altro di meglio da contemplare fra le creature che il golfo di Napoli, quale
Luca Giordano poté rappresentarselo dall’alto guardandolo dalla sommità del Monte Somma o del Vesuvio. La dimora
terrena della gloria dell’ottavo giorno è anche la naturale abitazione della comunione dei santi: al popolo raccolto per
la divina liturgia le loro immagini ricordano quello che tutto nell’architettura del tempio celebra e canta, che l’Eterno
cioè si è fatto vicino agli uomini, che in Cristo la gloria ha voluto una volta per sempre abitare nella storia, affinché la
storia stessa possa riposare al suo termine nell’eternità di Dio.
La “lingua del paradiso” scritta nella pietra da fra Nuvolo lancia così un messaggio di vita e di speranza a
chiunque voglia coglierlo con «intelletto d’amore» e sia pronto a entrare nella compagnia degli angeli e dei santi per
costruire una città terrena il meno dissimile possibile da quella celeste di giustizia e di pace, promessa e attesa. La basilica
della Sanità rivela in tal modo e nella maniera più alta il suo volto di simbolo della Città santa, di quella Gerusalemme
che scende dal cielo e verso cui si dirige nel tempo il cammino dei pellegrini di Dio, e ambisce a essere un po’ anch’essa
- come il prototipo cui si ispira - l’“ombelico” del mondo, la memoria viva, scritta nella carne recisa, del rapporto originario
e destinale di tutto e di tutti con il Signore vivente dell’universo e con la sua gloria.
Il Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno rappresenta una delle
espressioni più significative delle esperienze storico-culturali succedutesi nel
nostro Paese nel corso dei secoli. Si tratta di un patrimonio ricco e variegato,
amministrato dall’apposita Direzione Centrale per l’Amministrazione del
Fondo Edifici di Culto, inserita nel Dipartimento per le Liberta Civili e
l’Immigrazione in sede centrale e dalle Prefetture a livello provinciale.
Il Fondo Edifici di Culto, che nell’attuale organizzazione ha come
legale rappresentante il Ministro dell’Interno, è una realtà del tutto particolare
nella Pubblica Amministrazione, sia per la storia e origine del suo patrimonio,
proveniente dagli enti religiosi disciolti dalla cosiddetta legislazione eversiva
di fine Ottocento, che per i compiti ai quali è preposta. Il Fondo garantisce
una gestione attenta, volta alla conservazione, al restauro, alla tutela, alla
salvaguardia e alla valorizzazione di oltre settecento edifici sacri aperti al
culto e affidati all’Autorità Ecclesiastica mediante appositi atti di concessione
in uso gratuito.
Tali edifici sacri, di grandissimo pregio storico, artistico e culturale,
sono dislocati su tutto il territorio nazionale e custodiscono opere d’arte
universalmente conosciute per la loro straordinaria bellezza. Una menzione
particolare all’interno del patrimonio storico-artistico del Fondo meritano
i siti museali, tra i quali le cosiddette “Case Romane” sottostanti la Basilica
dei Santi Giovanni e Paolo al Celio in Roma, un sontuoso luogo archeologico
consistente in una domus romana, unica per la sua ricchezza e per lo stato
di conservazione. Nel patrimonio immobiliare del Fondo Edifici di Culto
spicca per la sua particolarità la Foresta di Tarvisio, un compendio boschivo
dell’estensione di circa ventitremila ettari, in nella provincia di Udine.
Il Fondo Edifici di Culto svolge molteplici attività finalizzate a
divulgare la conoscenza del suo patrimonio. In particolare promuove
prestigiose iniziative culturali, quali mostre, concerti e pubblicazioni d’arte,
che vedono protagoniste alcune delle più straordinarie e significative chiese
di proprietà del Fondo, come Santa Maria sopra Minerva, Santa Maria del
Popolo, Santa Maria della Vittoria e Sant’ Andrea della Valle a Roma; Santa
Croce e Santa Maria Novella a Firenze; Santa Chiara con l’annesso monastero,
San Domenico Maggiore e Santa Maria della Sanità a Napoli; la Chiesa
del Gesù e Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo.
Prefetto Lucia Di Maro
Direttore Centrale per l’Amministrazione
del Fondo Edifici di Culto
Collana “SCOPRIRE e RISCOPRIRE”
a cura di Carlo Avilio
foto:
Michele Cozzolino
Felice De Martino
Elisabetta Valentini
grafica:
VillaggioGlobale
Visita “Luci e Suoni” alla Basilica della Sanità
con voce narrante del maestro Peppe Barra
Luci: Salvatore Sannino
Suoni: Quark s.r.l.
[email protected]
info:
www.santamariadellasanita.it
tel. +39.081.5441305
ISBN: 978-88-7092-289-9
© 2008 M. D’AURIA EDITORE
Palazzo Pignatelli
Calata Trinità Maggiore 53-53
80134 Napoli
tel. 081.5518963 - fax 081.19577695
www.dauria.it
[email protected]
www.santamariadellasanita.it