scoprire e ri scoprire
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M. D’AURIA EDITORE scoprire e riscoprire 01 A Don Giuseppe Rassello, testimone di Cristo. Egli amò e fece amare il Rione Sanità, anche così amando e facendo amare la gente della Sanità. Regalate ai bambini profonde radici. Da grandi avranno le ali. (Rabindranath Tagore) Se chi spera nella condizione umana è un folle, chi dispera è un vile. (Albert Camus) Siamo poveri e facciamo ricchi molti. Siamo uccisi e continuiamo a vivere. (Diogneto) SCOPRIRE,RISCOPRIRE: L’“EUTOPIA” DI UNA CHIESA-MADRE Donatella Trotta La Sanità ha un’anima antichissima. Intrisa di sangue e di speranza. Un’anima femminile e materna, come la sua Basilica seicentesca: cuore pulsante del quartiere, rifugio monumentale, accogliente e silenzioso - che dona pace e ordine al caos dell’esistenza quotidiana - e scrigno carico di senso che irradia bellezza, sempre salvifica. Una chiesa, casa di Dio e della sua gente, protetta dall’icona benefica della Madonna della Sanità, Santa Maria della Salute di anime e corpi - raffigurata in pietra da Michelangelo Naccherino e in pittura da artisti paleocristiani o a noi contemporanei – che qui si trasforma anche in luogo di aggregazione, progettazione e compassione. Ben oltre il sacro. E ben oltre il ponte murattiano che, anziché unire come tutti i ponti, ha diviso, separato, emarginato in un mondo a parte un popoloso microcosmo sociale e ambientale ricchissimo - come la vita - di chiaroscuri e contraddizioni, ma anche di tesori storicoartistici, architettonici, artigianali e di risorse umane nel segno fecondo della creatività. Tutti valori - simbolici e concreti, materiali e umani, laici e religiosi - che possono diventare, come i beni culturali del patrimonio italiano, potenzialità trasformanti per il presente e per il futuro di questa zona di Napoli. A patto però di (ri)conoscerne, custodirne, tutelarne e valorizzarne promuovendole - le radici profonde di un’identità corposa. Che alla Sanità si dirama, da un passato bimillenario, in rami contemporanei i quali, se adeguatamente nutriti, possono svettare come ali nell’orizzonte dell’avvenire. È da queste premesse che nasce il libro che avete tra le mani: una guida alla Basilica di Santa Maria della Sanità che non a caso apre una nuova collana editoriale dall’eloquente titolo «Scoprire e riscoprire», pubblicata con il prestigioso marchio del Pontificio Editore D’Auria. Il suo intento è raccontare a tappe - con testimonianze via via fotografiche, artistiche, teologiche, narrative, antropologiche, architettoniche, religiose e sociali, in costante dialogo tra passato e presente - l’identità poliedrica prismatica e plurima di un quartiere troppo a lungo mortificato da un destino (non ineluttabile) di degrado, causato dall’incuria e dall’indifferenza - malattia mortale che Raoul Follereau definiva «lebbra del nostro tempo» - di molti, ignari che tutti siamo responsabili di tutto, come ricordava don Primo Mazzolari, o dimentichi che «non c’è un bene di cui io non sia partecipe, né un male di cui io non sia responsabile», secondo la convinzione di Teresa d’Avila. Questo libro, come gli altri già in cantiere che verranno, è la prima tappa di un progetto di divulgazione/promozione culturale, di cittadinanza attiva, di fede e di servizio pastorale e sociale che nasce da un lungo, paziente e appassionato percorso iniziato oltre vent’anni fa dal parroco Giuseppe Rassello, aiutato negli ultimi anni di vita dalla sapienza d’amore del teologoPastore Bruno Forte, prima che il testimone passasse, nel 2001, all’attuale vulcanico parroco, padre Antonio Loffredo, che ha fortemente voluto questa (ennesima) iniziativa di (ri)lancio del quartiere. Di Rassello e Forte, cuori pensanti generati dalla Chiesa di Napoli (e fermamente convinti, con Paolo VI, che la rottura tra il Vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca), potete qui leggere le testimonianze “paradisiache”, tra agiografia e simbolica ecclesiale, in un catalogo che invita a scoprire la Basilica della Sanità anche con i testi della storica dell’arte Maria Grazia Gargiulo. Altre testimonianze si uniranno a questa, sulla via della speranza progettuale che si sta pian piano allargando, alla Sanità, con il moltiplicarsi di pellegrini e cercatori di verità in cammino verso l’utopia concreta (l’eutopia di don Tonino Bello) di un riscatto collettivo che possa, finalmente, far più rumore di un albero che cade nel silenzio di una foresta che - malgrado l’inquinamento e l’ostacolo dei pregiudizi, dell’ubiquità e della banalità del male - continua a crescere. E accanto a preti coraggiosi e sognatori, con la testa fra le nuvole e i piedi per terra, si sono così affiancati negli anni, alla Sanità, volontari, amici, estimatori, benefattori, residenti o esterni al quartiere: una piccola grande comunità consapevole, con il poeta Hölderlin, che laddove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva, e che senza rischio non c’è fedeltà (secondo il magistero di don Tonino Bello). Perciò questa comunità ha accettato la sfida di un impegno corale e condiviso declinando lo scrivere, il fotografare, il dipingere, il progettare, l’educare, l’ascoltare in altrettante voci del verbo “amare”. In quest’ottica, nello sguardo dell’intelligenza delle emozioni e di passioni forti che intendono “schiaffeggiare la Provvidenza” perché essa ricompensi con l’abbondanza (come prometteva San Gaetano Thiene), questo piccolo libro, primo di una lunga serie, è qualcosa di più di una guida a un monumento «affascinante palinsesto artistico». È un invito, certo, a scoprire (e riscoprire) la Basilica di Santa Maria della Sanità, ma anche ad andare oltre la sua soglia, simbolo per Bruno Forte - oggi amato Arcivescovo della Diocesi di ChietiVasto - «di una frontiera fra il tempo e l’eterno, fra il pellegrinaggio della fede e la promessa e sperata bellezza della visione verso cui si tende e ci si eleva», magari in compagnia dei tanti angeli e santi di casa alla Sanità, intermediari fra il divino e l’umano. DALL’UNIVERSO FINITO ALLO STUPORE DEL SACRO. Maria Grazia Gargiulo Malgrado si collochi in posizione marginale rispetto al tessuto urbanistico napoletano di età moderna, in pratica fuori delle mura, nella periferia nord-occidentale che si estendeva verso Capodimonte, quasi al fondo di quel borgo dei Vergini che si stava sviluppando all’esterno di Porta San Gennaro per i vincoli edilizi della legislazione vicereale, la chiesa di Santa Maria della Sanità si presenta come un affascinante palinsesto artistico, che va dalle preesistenze cimiteriali di età paleocristiana alle prime significative affermazioni monumentali su pianta circolare dell’architettura controriformistica, allo sviluppo artistico d’età moderna, all’artigianato plastico ottocentesco, fino alle recenti acquisizioni di opere di artisti contemporanei. In questo articolato susseguirsi di stili e di gusti vanno letti sia l’importanza del sito, caro con continuità alla religiosità cittadina, sia il dipanarsi delle forme di vita consacrata succedutesi nella gestione del bel complesso conventuale. LA PRIMA COMMITTENZA ECCLESIASTICA La notevole stratificazione artistica che ben riesce a cogliere l’occhio avvezzo nella chiesa di Santa Maria della Sanità è segno di una vita religiosa vissuta intensamente, e a lungo. Ma documenta pure la capacità di rinnovarsi culturalmente e di saper conservare i segni del proprio passato da parte di domenicani e francescani qui succedutisi nel tempo. Ovviamente una considerazione del genere potrebbe essere fatta per molte altre chiese e sarebbe giustificata da una serie di motivi, spesso concomitanti, ma qui sembra di riuscire a leggerli meglio e tutti con sufficiente chiarezza. La stratificazione è determinata in primo luogo dal fatto che raramente una grande chiesa – e la basilica della Sanità presenta misure davvero rilevanti, certo proporzionate all’ampio retrostante convento, poi scomparso per l’intervento demolitore del piccone dopo l’incameramento ottocentesco dell’asse ecclesiastico – poteva essere condotta a termine in tutte le sue parti nel giro di pochi anni. Le rifiniture architettoniche e le opere d’arte di arredo, infatti, erano particolarmente onerose per le comunità locali (anche per i religiosi, i quali pure erano senz’altro più abili nel reperimento di benefattori e mecenati legati alla spiritualità dell’ordine, alle opere pastorali promosse dai singoli o alla buona fama di qualche venerando religioso). Perciò, una volta fondato il convento per dare stabilità alla comunità e inaugurata la chiesa per garantire il culto a servizio dei fedeli, il resto veniva scaglionato nel tempo. Il tempo, tuttavia, non trascorreva invano, nel bene e nel male. Le risorse finanziarie non avevano incrementi stabili. Il gusto mutava. Le esigenze spirituali della comunità si modificavano, come pure mutavano le richieste dei benefattori committenti. La lista di nuovi santi e beati si allungava, specie per le rinnovate procedure canoniche approvate agli inizi del Seicento da papa Urbano VIII Barberini. Per non tacere delle calamità naturali, che con il loro impeto e la loro frequenza, costringevano rovinosamente (per le finanze e per l’unitarietà del progetto artistico) a ritornare su opere già compiute o ad adeguare quelle a farsi, e così le riparazioni comportavano un rinnovamento di stucchi, altari, statue e dipinti. E ciò purtroppo avveniva spesso, essendo la chiesa collocata nel cuore di quella via alluvionale per la quale si canalizzavano le torrentizie acque pluviali, che hanno reso noto il quartiere proprio per le cosiddette “lave” dei Vergini. D’altra parte, già proprio alle origini della chiesa c’era stata, poco dopo la metà del XVI secolo, una disastrosa alluvione, come narra, non molti anni dopo, nella sua informata e articolata memoria, Cesare d’Engenio Caracciolo: «È dunque da sapersi, che avanti di questa chiesa [la basilichetta paleocristiana di San Gaudioso] era un giardino di Clemente Panarello, il quale da’ suoi eredi fu poi alienato a mastro Cesare, che esercitava l’arte di spadaio, il quale teneva la chiesa profanata e se ne serviva per cantina; sopra del giardino erano alcune camere attaccate alla ripa del monte dove sta cavata la chiesa, e quella soleva llogare a diverse persone, e fra gli altri l’haveva allogate ad un nominato Giesuè, il quale si serviva della medesima chiesa per stalla. Nell’anno 1569, a’ 19 di novembre, fu in Napoli una grandissima pioggia, la quale rovinò quasi tutte le case e palazzi del borgo delle Vergini, e fracassò una parte del muro del giardino, che richiudeva questa chiesa, e si riempirono le grotte e chiesa d’acqua e di terreno, cascò la ripa, la qual fracassò dette camere e ammazzò maestro Cesare con la moglie, successe al dominio del luogo un suo nipote, il qual, seguendo l’orme del zio, teneva la detta chiesa profanata, perciò Iddio gli mandò infirmità tale, che si svelleva le dita de’ piedi et in breve tempo poi morì. Indi, nell’anno 1570, l’herede di costui fece una picciola via, dalla quale facilmente si poteva intrar nella chiesa, dove ne’ giorni di festa nella pubblica strada chiedeva limosine da coloro che di là passavano, con le quali faceva celebrar messe; il che intendendo [l’arcivescovo] Mario Carafa, mandò alcuni de’ suoi canonici a veder la chiesa, li quali avendola molto ben considerata, riferirono all’arcivescovo che la chiesa era consacrata, perché in molte parti di quella erano dipinte le croci, che si sogliono fare quando si consacrano le chiese, perciò la concedé ai padri di San Domenico, li quali per all’hora non ci fecero cosa alcuna. L’anno poi del Signore 1577, il cardinal [Paolo Burali] d’Arezzo, successor del Carrafa, di nuovo la concedé a maestro Antonio Camerata del medesim’ordine et ad altri domenicani, con che ciascun’anno dovessero riconoscerlo con torchio e palma, altrimenti dal presente luogo fussero cacciati». LA STAGIONE DEL MANIERISMO I domenicani della riforma lombarda, dunque, per mandato arcivescovile costruirono sull’antico nucleo cimiteriale ipogeo il convento, che avrebbe poi dato nome alla congregazione riformata che da lì si estese anche altrove, e la grandiosa chiesa, su progetto di fra Giuseppe Nuvolo, alla quale fu dato l’originale titolo di Santa Maria della Sanità, da un suggerimento dell’affermato medico napoletano Antonio Pisano. E all’epoca del grande sforzo progettuale e costruttivo fa data il più antico nucleo di opere d’arte presente in chiesa. Si tratta di un gruppo omogeneo comprendenti dipinti del siciliano Giovan Bernardo Azzolino (c. 1572-1645), del toscano Giovanni Balducci (1560-1631), del molisano Giovan Vincenzo Forli (attivo a Napoli tra il 1592 e il 1639), del coro e della statua della Madonna dell’altro toscano Michelangelo Naccherino (1590-1647). Per quanto differenti siano gli stili dei vari autori, un fattore accomuna questi manufatti, cioè la matrice culturale tardo-cinquecentesca d’ambito tosco-romano. Le opere, commissionate subito dopo la fine dei lavori di fabbrica, documentano la preferenza accordata dai domenicani e dai patroni delle cappelle a questa corrente; l’adesione, aperta nel 1610 con la Circoncisione, di Forli, fu lunga e convinta, tanto che, ancora nel 1626, quando ormai il caravaggismo si era pienamente affermato, si commissionava l’Annunciazione ad Azzolino, lo stesso artista che nel 1612-1614 aveva già dipinto il grande telone della Madonna del Rosario, racchiuso in un’articolata cona di legno intagliato e dorato, e poco prima erano stati composti da Balducci due altri dipinti: una tavola, raffigurante San Domenico che diffonde il Rosario (1623), e gli affreschi con vergini e martiri dell’ordine domenicano nella sala del Tesoro (1625 circa), che completavano il programma di questo artista, qui inaugurato, nel 1610, con Il martirio di San Pietro da Verona (alla chiesa della Sanità, peraltro, Balducci, giunto a Napoli nel 1596 al seguito del cardinale Alfonso Gesualdo, fu sempre legato, tanto da elevarla a sede della sua sepoltura, nella sottostante catacomba). Perché tanto interesse, ancora negli anni venti del Seicento, per questi pittori che forse già agli occhi degli intenditori del tempo dovevano apparire, se non sorpassati, certamente meno brillanti degli artisti emergenti collocati sulla scia di un metabolizzato caravaggismo? Si può rispondere solo per congetture. Essi, forse, rispondevano bene alle esigenze devozionali di fedeli non particolarmente robusti sul piano intellettuale, che avevano bisogno di essere attratti con figure semplici, devote, talora di un naturalismo idealizzato, che andasse incontro all’esigenza di verità senza arrivare al realismo troppo franco di Caravaggio. E si tratta di un pubblico abbastanza numeroso anche in città, non solo nelle province, per cui l’attività di questi artisti fu lunga e fortunata, ben sintonizzata con gli effettivi bisogni della proposta devozionale post-tridentina e con le aspettative delle frange più semplici del popolo dei devoti. Artisti come Azzolino e Balducci, ma pure Bellisario Corenzio o Fabrizio Santafede, operarono con successo fino agli anni trenta e quaranta del Seicento, non solo perché longevi, ma anche perché capaci di soddisfare una specifica committenza, che aveva il suo migliore aggancio con gli ordini religiosi di maggior presa popolare, e coerenti con le esigenze di una rigorosa osservanza delle iconografie post-conciliari. Né va dimenticata, nel caso della chiesa della Sanità, la scelta di semplicità a cui si ispiravano le consuetudini della congregazione della Sanità, che promuoveva la riforma dell’ordine domenicano con un forte richiamo alle regole e al clima delle origini. In effetti, se si osservano le opere dei tre pittori menzionati, si nota che si differenziano per stile e qualità, ma che sono accomunate dalla medesima volontà di muovere a devozione attraverso figure eleganti, dal timbro sentimentale edulcorato, dalla composizione chiaramente percepibile. Al raggiungimento di questi effetti collabora efficacemente il colore, che rende più piacevole l’immagine e rappresenta il contributo della pittura veneziana all’ambiente manieristico toscano. La carica devota insita in questa pittura ha fatto sorgere luoghi comuni privi di fondamento, capaci di alterare radicalmente le biografie di alcuni artisti. Basti pensare a quanto Bernardo De Dominici scrisse su Azzolino un secolo dopo la sua morte, trasformandolo in una specie di casto monaco di casa, rimasto celibe per amore della Madonna e occupato in preghiere e atti di contrizione, quando non era occupato a dipingere la Vergine, naturalmente stando in ginocchio; insomma, dallo stile è stata ricavata la biografia. Tuttavia, si sa abbastanza dell’artista per ricondurlo a dimensioni più terrene, padre di quindici figli e buon amministratore delle sue sostanze. Come Giovanni Balducci, anche Michelangelo Naccherino era emigrato da Firenze portandovi uno stile derivato dal suo maestro, Giambologna, e un intenso pittoricismo, come si evidenzia nella marmorea Madonna nell’abside, già finita nel 1612, all’interno di una decorazione in stucco e cartapesta. Questa scultura partecipa alla medesima corrente, animata da un forte spirito devoto, tanto che anche per Naccherino le fonti più tarde narrano che prendeva gli scalpelli dopo essersi confessato e comunicato, e soltanto il sabato, nel giorno sacro a Maria. Tuttavia, non si deve credere che il gusto della committenza fosse orientato in un verso senza possibilità di interferenze. In effetti, al committente interessava il modo in cui veniva trasmesso il messaggio, senza però trascurare la fama degli artisti. E nei primi del Seicento a Napoli Azzolino, Forli o Balducci erano famosi, ma una meteora ben più famosa, stavolta a livello internazionale, era passata in città, Michelangelo da Caravaggio. A lui fa riferimento un documento, che attesta come nel 1612 si sarebbero dovuti versare cento ducati per un’icona iniziata negli anni precedenti, cioè quella della Circoncisione. Va considerato, però, che l’artista era morto fin dal luglio del 1610 e che nel novembre di quell’anno alla tela attendeva già Giovan Vincenzo Forli, il quale per essa riceveva allora il secondo pagamento. Nell’impossibilità di stabilire se il redattore del documento abbia commesso qualche errore di trascrizione e non potendo spostare la data di morte del Caravaggio, sufficientemente documentata, si può soltanto ipotizzare che i domenicani della Sanità, in omaggio alla sua fama e in segno di apprezzamento per il suo naturalismo severo, potrebbero essersi rivolti a lui nel corso di uno dei suoi soggiorni napoletani, avergli versato un acconto, e non aver mai visto l’opera, a causa delle note vicende che costrinsero l’artista a un continuo fuggire e peregrinare fra il 1606 e il 1610. L’ELEGANZA E LA RAFFINATEZZA DEGLI STANZIONESCHI L’IMPRONTA DI LUCA GIORDANO Al primo e compatto nucleo di opere di gusto tardo-manieristico fa riscontro un altro corposo gruppo, databile intorno agli anni cinquanta del Seicento. Si tratta di una ricca produzione, che documenta peraltro la ripresa dei lavori di arredo della chiesa, in concomitanza con le fortune della riformata congregazione della Sanità, che proprio in quel torno di tempo suscitava intorno a sé ampi consensi popolari e simpatie pubbliche, tanto da riuscire in poco tempo ad aprire vari nuovi conventi a Napoli e fuori (Barra, Monte di Dio, Santa Maria della Libera al Vomero, Ferrandina, Volturara, Paiano ecc), e all’interno dell’ordine riceveva l’incarico della formazione dei novizi per tutta la provincia. Come in una ideale scansione storica del gusto devoto dei domenicani e della contemporanea sensibilità artistica della città, nella basilica della Sanità, anche all’interno di questo gusto post-stanzionesco, si coglie il dinamismo dello sviluppo e della evoluzione, e lo marca in maniera singolare Luca Giordano (1634-1705), autore dell’ultima fase di questa nuova concezione della rappresentazione sacra. Nel 1652 è firmata la tela con San Tommaso d’Aquino che riceve il cingolo della castità, di Pacecco De Rosa (1607-1656), che sul modello stanzionesco è qui alla ricerca di toni cromatici lucenti e pone un’attenzione minuziosa nella resa dei particolari secondo un gusto popolare, che doveva essere caro ai fedeli della chiesa domenicana. Del 1654-1656 è il San Biagio con Sant’Antonino e San Raimondo, di Agostino Beltrano (1607-1656), ultima opera dell’artista, commissionata da Antonio Lantaro. Sono del 1659 i due dipinti di Andrea Vaccaro (1604-1670), raffiguranti Le nozze mistiche di Santa Caterina d’Alessandria e Santa Caterina da Siena che riceve le stimmate, presenti nelle due affiancate cappelle della navata destra; essi rappresentano la perdurante tradizione controriformistica che rendeva l’artista gradito in città per la serenità delle forme dei personaggi che popolano le sue tele. Degli stessi anni è la Santa Lucia di Girolamo dello Mastro, meglio noto come De Magistris, collocata nei pressi dell’antesacrestia. Si tratta di un numero consistente di opere e tutte, ad eccezione forse dell’ultima, di un alto livello qualitativo, pur nella devozionalità popolare dei temi. Anche in questo momento, come era accaduto per la stagione manieristica, gli elementi culturali, fatte salve peculiarità stilistiche e differenze qualitative, sono affini, perché corrispondono alla scelta della committenza, di artisti che partono tutti dalla conoscenza dell’opera di Massimo Stanzione, su cui poi immettono altri motivi di gusto classicheggiante, sulla scia di pittori emiliani come Reni o Domenichino, ben noti a Napoli attraverso le loro opere e per i loro produttivi soggiorni. I dipinti della Sanità di questa stagione dicono in maniera molto esplicita che la fase eroica del caravaggismo è finita: non più figure realistiche e potenti sormontano gli altari, bensì personaggi che conservano soltanto una vaga impronta realistica; non più incisive rappresentazioni cariche di drammaticità, bensì raffigurazioni fattesi, per così dire, liquide e sensibili, proiettate verso una eleganza e una raffinatezza da teatro (che evidentemente in Pacecco De Rosa o in Andrea Vaccaro conservano un tono di alta dignità stilistica, mentre in De Magistris si sciolgono in fredda rappresentazione esteriore). In questi pittori, insomma, come pure nell’ultimo Beltrano, l’antico devozionalismo di Balducci o di Azzolino si scioglie in una narrazione più scenografica. È di questo artista, infatti, un gruppo di opere di poco posteriori, omogenee per stile. Al 1667 è documentata La Vergine con i Santi Giacinto e Rosa, nella quarta cappella di sinistra. Nella terza cappella della navata destra campeggia la luminosa tela di San Vincenzo Ferrer, realizzata tra il 1667 e 1672, ancora oggi cara alla devozione popolare, sebbene il santo predicatore spagnolo sia più popolarmente noto per la statua che di lui qui si conserva, giunta molto più tardi nella Sanità dall’altra chiesa domenicana della città, Santo Spirito di Palazzo, come ricorda, su una parete, una lapide del 1886. È del 1671-1672 La gloria di San Pio V, in cui papa Ghislieri è circondato da santi e beati dell’ordine domenicano (Sant’Alberto Magno, il Beato Ambrogio Sansedoni, San Consalvo di Amarante, la Beata Margherita di Savoia-Acaia); verosimilmente l’opera fu commissionata per celebrare il centenario della vittoria di Lepanto (1571) e della istituzione della festa della Beata Vergine del Rosario. Dello stesso periodo sono L’estasi della Maddalena nella cappella del Crocifisso, a sinistra, nei pressi dell’altare maggiore, e il San Nicola della prima cappella della navata destra, raffigurato glorioso tra i santi domenicani Ceslao di Cracovia e Luis Bertrán, commissionato forse proprio in occasione della canonizzazione di quest’ultimo (1671), perciò raffigurato con l’aureola. Seppure è vero – come rilevato già da Bernardo De Dominici – che la produzione giordanesca di questo periodo non è di alta qualità a causa della «prestezza» con cui l’autore soddisfaceva le richieste, non si può negare che in questa fase, cioè dopo le esperienze maturate a Firenze e a Venezia, l’opera di Luca Giordano presenta tratti tipologici propri della pittura di Pietro da Cortona. Si tratta di un complesso di tele, che mostrano come anche i precedenti canoni rappresentativi fossero superati e come il modo di comunicare fra artista e fedele/spettatore fosse diventato molto più raffinato e coinvolgente. Tutta la composizione nel suo insieme, il modo di gestire, i colori vivaci, i larghi gorghi spaziali di cieli infiniti e densi di luce erano per il fedele una vera e propria attrazione: lo rendevano partecipe del fatto, lo introducevano in una dimensione superiore non tramite la ragione, ma coinvolgendone le emozioni. Colori e spazi illusori e sensazioni irrazionali provenienti dal quadro o, in genere, dalla raffigurazione artistica sollecitavano il sentimento, insieme a tutto il complesso degli apparati: le musiche, gli odori di fiori e d’incensi. GLI ALTRI MANUFATTI ARTISTICI Il barocco non era vuota esteriorità, sebbene potesse anche diventarlo per i limiti dei suoi protagonisti, ma era piuttosto capacità di afferrare gli spiriti, di trascinarli in una dimensione diversa e spirituale con raffinati artifici psicologici, rivolgendosi indifferentemente agli uomini colti e agli illetterati. Ed è questa una delle cause del successo dello stile e della insistenza, su tempi medio-lunghi, della committenza domenicana nei confronti di artisti che questo clima facevano perdurare ad arte. Nel corso del XVII secolo il colore e l’artificio tecnico-scenografico giocarono un grande ruolo e, per quanto consentito dallo stile del tempio, anche nella basilica della Sanità il barocco si mostrò sotto questo suo aspetto. Se teatrali e dense di colore sono le tele di Giordano, non lo sono da meno, e in maniera più facilmente percepibile, alcuni manufatti in marmo che connotano potentemente alcuni punti dell’edificio. Fu Dionisio Lazzari (1617-1689) a inserire, nel 1677, nell’enorme spazio centrale il nuovo pulpito marmoreo, elemento d’arredo raffinatissimo per tecnica e invenzione, dove le forme si sviluppano in continua metamorfosi e il colore si afferma prepotentemente. Meglio che in qualche altare, è in questo pulpito che si verifica con maggior impeto l’affermazione dell’ornato barocco, metamorfico, sensuale e ricco di figurazioni vegetali; quell’ornato che di solito si lega al nome di Cosimo Fanzago, che effettivamente ne fu il principale ideatore e divulgatore nel mezzogiorno d’Italia, ma che ebbe in Lazzari uno dei più originali interpreti. Affermazione del colore e di materie pregiate, dunque, che riesce a convivere col gusto ben più severo di Fra Nuvolo e che altererà una delle parti più originali del suo progetto, quella scala d’accesso all’altar maggiore, concepito dal frate in alto, col risultato di creare una sorta di palcoscenico e di salvare il naturale accesso alla sottostante catacomba. In origine la scalinata era in fabbrica, ma, in omaggio alla modernità, fu rifatta in marmi policromi da un marmorario, Vincenzo Pampinella, e da uno scultore, Pietro Ferreri; di essi si sa ben poco, ma i documenti che ne hanno tramandato i nomi rivelano pure la data d’esecuzione della scalinata, cioè il 1678. Quel che manca è il nome dell’architetto che ideò lo scenografico accesso all’altare, che certo non fu creato da Pampinella. Ma il colpo di teatro finale al già scenografico complesso rappresentato da ingresso della catacomba–scala–altare maggiore fu compiuto più tardi, nel 1708, da Arcangelo Guglielmelli (1674-1722) e Cristoforo Schorr (per quest’ultimo i documenti parlano di un Cristoforo Scanes o Scordes, evidente corruzione del cognome Schorr). b Guglielmelli architetto e Schorr scenografo furono entrambi portatori di un linguaggio maturato a Roma nell’ambito di Gian Lorenzo Bernini. E se Guglielmelli aveva già applicato la sua competenza architettonica nell’ammodernamento di antiche strutture napoletane all’imperante gusto barocco (a cominciare dall’arco absidale della basilica di Santa Restituta nel duomo, rimaneggiato dopo il terremoto del 1688), Schorr, in particolare, era uno dei grandi maestri di apparati effimeri, capace di trasformare gli spazi con un eccezionale senso scenografico. In ciò, unitamente al fratello Filippo e al padre Johann Paul, può essere considerato uno dei più importanti interpreti del berninismo. I tre, infatti, avevano lavorato a Roma per il marchese del Carpio, don Gasparo de Haro, appassionato ed esperto collezionista d’arte, che continuò a impegnare i due fratelli a Napoli, una volta trasferitovisi come vicerè (1682-1687). A Schorr si sono voluti attribuire i teatrali tendaggi in stucco che schiudono la visione del succorpo della Sanità e il fastigio della nicchia absidale, dove un gruppo di angioletti tira su un tendaggio rivelando la presenza della Vergine. Sul finire del secolo XVII, l’ardito adeguamento barocco, non da tutti accolto favorevolmente, faceva rilevare a Carlo Celano «la stravaganza dell’altare maggiore che sta situato in alto, ed in esso vi si sale per due stravaganti scale, che dall’architetto [Fra Nuvolo] furono fatte in fabbrica, ma avendole ultimamente i frati volute farle di marmo, non l’hanno potuto accertare di quella perfetione e bellezza delle prime». È ancora sull’alto presbiterio che si è manifestato l’impegno ammodernatore dei frati, che tra fine Seicento e inizio Settecento gli diedero l’aspetto che ancora oggi si può considerare in linea con quel gusto del fantasioso e insieme del meravigliosodevoto. Così si comprende la pianta leggermente concava della mensa e l’abbondanza di marmi policromi e cartocci, tipiche espressioni del gusto rococò. Dell’antico, i frati conservarono l’originario ciborio di Fra Azaria (Celano ricordava: «vi è una custodia grande e meravigliosa tutta di cristallo di monte e rame dorato, e dentro mostra un piccolo tabernacolo delicatamente lavorato, sostenuto da quattro statue che figurano angeli di rame dorato») e il bel coro di gusto ancora cinquecentesco in legno intagliato, disegnato da Giovan Battista De Nubila e lavorato agli inizi del XVII secolo da Leonardo Bozzaotra e Michelangelo Cecere. Il completamento della decorazione del catino absidale, affidato al demuriano Crescenzio Gamba, s’ispirava al disegno di Arcangelo Guglielmelli e aveva l’ambizione di durare nel tempo come un capolavoro, ma non aveva più quel vigore fantastico del barocco e perdeva il fasto e la sollecitazione emotiva che erano stati propri della primavera decorativa della basilica di Santa Maria della Sanità tra fine Cinquecento e Seicento maturo; la decadenza dell’ispirazione committente metteva in evidenza la fine di una stagione di intensa religiosità e anticipava la crisi del secolo successivo sfociata nelle lunga e dolorosa stagione delle soppressioni. BASILICA OF SANTA MARIA DELLA SANITÀ The Basilica of Santa Maria della Sanità is a fascinating artistic palimpsest, that goes from the Christian arts of the catacombs to the first important monumental works on circular plan of the Counter- Reformation architecture, to the artistic development of the modern period, to the 19 century craftsmanship ending with the recent acquisition of contemporary works. th THE ELEGANCE AND REFINEMENT OF THE “STANZIONESCHI” Pendant to the first compact nucleus of late manneristic style is another group dating back to the fifties of the 17th century. It is a rich collection which documents the resumption of the furnishing works of the church. The canvas St Thomas Aquinas was painted in 1625 by Pacecco De Rosa (1607-1650) following the “stanzionesco” model, it searches for bright chromatic tones. The painting has bright colours that overflow with light, that are extremely modern (such as the electric steely blue of the materials that recall and anticipate solutions of Mondrian and Kandinskij-Pacelli) and has a meticulous attention to details following a popular taste which must have been dear to the faithful of the Dominican Church. St. Blaize by Agostino Beltra (1607-1650) last work of the artist, is dated 1654-1656. The two paintings by A. Vaccaro (1604-1670), which portray The mystic wedding of St. Catherine of Alessandria and St. Catherine of Siena receiving stigmata. They represent the continuing CounterReformation tradition that made the artist appreciated in town for the serenity of the forms of the characters who peopled his canvases. The painting St Lucy by Girolamo De Magistris belongs to the same period. Apart from different styles and quality they are similar because they both know and have been influenced by the work of Massimo Stanzione to which they add other elements of a classical style following the lead of Emilian painters such as Reni or Domenichino, well known in Naples through their work and for their productive stays. THE MANNERISTIC PERIOD OTHER ARTISTIC CRAFTWORK The Dominican friars of the Lombard Reformation, built the friary, that later on gave the name to the reformed congregation, and the great church designed by Fr. Giuseppe Nuvolo (1602), to which the original name of Santa Maria della Sanità was given, over the catacombs. The oldest group of works of art in the church can be dated back to the period of the great planning and building effort. It is an homogeneous group that includes paintings by G.B. Azzolino from Sicily (1572-1645) The Virgin of the Rosary and the Annunciation, by G. Balducci form Tuscany (1560-1631) The Martyrdom of St. Pietro da Verona and St. Dominic distributing rosaries, the painting of the Circumcision by G. V. Forli from Molise (he worked in Naples between 1592 and 1639) and of the choir and the statue of Our Lady by Michelangelo Naccherino, also from Tuscany (1590-1647). No matter how different the styles of these artists are, they have one thing in common, that is the Tuscan-Roman motherculture of the late 16th century. Worthy of note is the painting The Circumcision of Jesus which has interested scholars and visitors for a long time because it is associated with the name of Michelangelo Merisi da Caravaggio. D. Lazzari, in 1677 inserted in the enormous central space a new marble pulpit, an extremely refined decorative innovative element, where the shapes develop in a continual metamorphosis and the colour declares itself overbearingly. In the beginning the steps were of stone, but in 1678, as a homage to modern styles they were remade in polychromatic marble by V. Pampinella e P. Ferreri. The final act to the already spectacular complex represented by the entrance to the catacomb, steps, main altar was carried out much later in 1708 by A. Guglielmi and C. Schorr. To Schorr are attributed the theatrical curtains in stucco which open to show the crypt of the Sanità and the fastigium of the apsidal niche, where a group of cherubs hold up the curtain to reveal the presence of the Virgin Mary. On the main altar is the ciborium of Bro. Azaria. The choir is in engraved wood and still in sixteenth century style. The decoration of the apsidal basin was completed by the demurian C. Gamba. The crystal altar “The Angel’s Table” (2005) is by the master R. Dalisi, who is also the author of the “Palestina” Crucifix (2000). The ante-sacristy was decorated with “graffiti art” by G.B. Di Pino 1625 showing the descent of the Holy Spirit amongst the preacher friars is grotesque in the vault. In the ante-sacristy the “ex voto” (offerings) of San Vincenzo Ferrer, affectionately called “Il Monacone” by the people of the area, are conserved along with vintage photos of his feast day. In the sacristy, the altar, made of polychromatic marble, dates back to 1728. At the moment the great painting that portrays the “Madonna della Sanità” (2003) is hung above the altar. From the ante-sacristy you go into the nearby elliptical cloister, where scenes representing the history of the Dominican order painted by G.B. Di Pino can be found on the lunette. THE STAMP OF LUCA GIORDANO In the basilica of the Sanità, even within this “post-stanzionesco” style, the dynamic development, evolution and mark of Luca Giordano (1634- 1705), author of the last part of this new conception of representing the sacred, can be felt. A group of works carried out a little later and homogeneous in style are by this artist. The Virgin Mary with St Hyacinth and St Rose is dated 1667. The luminous canvas of San Vincenzo Ferrer, painted between 1667 and 1672, still dear today to the faithful even if the Spanish preacher and Saint is better known for his statue which arrived here much later from the other local Dominican Church, Santo Spirito di Palazzo. The Glory of St Pio V, in which Pope Ghislieri is surrounded by saints and blessed of the Dominican order, is dated 1671-1672. Of the same period are The ecstasy of Mary Magdalene and St. Nicholas, portrayed glorified amongst the Dominican Saints. Small ovals by artists who succeeded Giordano can be found in some of the chapels, like the ovals by Gaspare Traversi, Francesco Solimena and Vincenzo Siola. IL PARADISO PITTORICO Giuseppe Rassello C’era una volta il luogo sacro, tremendum fascinans; sacro, non meramente religioso. Del tanto di sacro che negli edifici religiosi si è perduto, mi duole, soprattutto, l’assenza dei santi. Zelanti e malintenzionati hanno sfrattato dalle chiese, con le loro vetuste (leggi: inservibili) masserizie, gli antichi, legittimi inquilini, esibendo, nei casi men volgari, la carta bollata della storicità! Eppure, quando la storia non era stata scritta, c’era sempre una storia da raccontare. Nel 393, il concilio d’Ippona, la città di Agostino, volle che, in mancanza dei già scarni e deludenti atti dei martiri, si leggessero ai fedeli le passioni, belle, commoventi alle lacrime e alla poesia. Haec sunt legenda, questo c’è da leggere: la Leggenda. Per secoli, la Leggenda dei santi, giustamente aurea, compilata dal beato domenicano Giacomo da Varazze, ha nutrito l’arte sacra e la sacra devozione. Quando, al cospetto di una folla eterogenea e strabocchevole, un nuovo santo ascendeva nei fulgori della Gloria di Bernini, quell’arazzo esposto in San Pietro, moltiplicato e fatto maneggevole in devote litografie e incantevoli santini, da mille bocche baciati, entrava nelle case, nelle botteghe, nelle celle dei conventi, viaggiava nelle cabine dei galeoni, e ispirava nelle chiese i pittori. La gente vi riconosceva uno di loro, condotto ai Cieli, e divenuto amico e avvocato; e, per un mistico momento, tutti si sentivano non iam hospites et advenae, sed cives sanctorum et domestici Dei (Ef. 2,19). A Napoli s’individuava (picturae litterae laicorum!) san Giuseppe dalla mazzarella, sant’Onofrio come ’o piluso, san Sebastiano come ’o spertusato. S’invocava, luce degli occhi, Lucia. Da san Lazzaro nasceva lazzarià; e la sua immagine udiva le urla dei lazzaroni, nei lazzaretti il rantolo dei contaminati. Nell’ancora imperturbata pace dei conventi, il religioso ripassava il fatterello, la morale, per il panegirico dell’indomani, rovistando in Lorenzo Surio, nei Bollandisti, in Paolo Segneri.. Prima di concedere un parco sonno al corpo, rammentante la sua mal gradita esistenza, ammucchiava un po’ di santini per i devoti. Haec sunt legenda, aurea come fu la fanciullezza. Che importa che la nonna confondesse angeli e fate, diavoli e orchi, immaginette e foto consunte del caro bene non più tornato? La Sanità, raro, sacro superstite in una città che, da Cesare d’Engenio Caracciolo a Gennaro Aspreno Galante, fu Napoli sacra, è specchio, immaginifico demiurgo, del paradiso iperuranio: la chiesa, innanzitutto, che è ’nu paraviso, come dicono gli antichi del quartiere; poi, la vetusta biblioteca del convento, che qui prende il luogo di una immaginabilmente infinita bibliografia. È notte, fratello, e tu, numera stellas, si potes... La profezia, secondo cui dal patriarca Abramo sarebbe uscita una discendenza numerosa quanto le stelle, venne addirittura superata, nel 1623, dalla stirpe del patriarca san Domenico: «Circa gli astri del cielo, sappiamo che sta scritto: - Conta le stelle, se puoi. Ebbene, sono 1.022! I beati domenicani sono più numerosi delle stelle del cielo; si calcola che ascendano a più di 2.800, superando di gran lunga il novero delle stelle. Tra loro, come i sette pianeti, i santi canonizzati: Domenico, Pietro, Antonino, Tommaso, Vincenzo, Giacinto, Raimondo. O domenicano ceto, del cielo stesso ben più fulgente!». In quello stesso anno, usciva Il saggiatore di Galileo Galilei. L’ANTENATO DI BABBO NATALE: SAN NICOLA DI MIRA L’UOMO CHE FERMÒ I TARTARI: BEATO CELSAO DI CRACOVIA IL FRATE CON LA PISTOLA: SAN LUIS BERTRÀN Vescovo di Mira (oggi Dembre, in Turchia), sarebbe nato, e poi morto (nel 350 circa) in età veneranda, a Patara di Licia, donde, nel 1097, avvenne la traslazione nella celebre e bella basilica barese a lui dedicata. L’iconografia del dipinto di Luca Giordano non si discosta dai caratteri tradizionali. Nacque a Cracovia, in Polonia, nel 1180 circa. Parente o cortigiano del vescovo della città, Ivo Odrowatz, ma non fratello di san Giacinto, come volle una tradizione. Dopo gli studi, fu a Roma con il suo vescovo, e insieme con Giacinto ricevette l’abito dei predicatori dalle mani dello stesso san Domenico (1228). Trascorso più d’un anno a Bologna, Ceslao e Giacinto furono rinviati in Polonia a fondare conventi. Ceslao si fermò molti anni a Cracovia, per poi passare a Wroclàw, dove fu superiore fino al 1232, quando fu eletto Provinciale della Polonia. Nato a Valencia, nel capodanno del 1526, dal notaio Giovan Luigi e dalla sua seconda moglie Angela Exarch, fu battezzato nella chiesa di Santo Stefano, dove era stato battezzato anche san Vincenzo Ferrer, suo lontano parente e suo fascinoso modello. Fuggì da casa per entrare fra i domenicani e ne ricevette l’abito il 26 agosto 1544. Tre anni dopo veniva ordinato sacerdote. Si attivò per la riforma tridentina nel suo Ordine e, a soli ventitré anni, era già maestro dei novizi. Lo accese di ansia missionaria la conversazione con un indio, giunto a Valencia travestito da domenicano, con documenti falsi, che gli raccontò le miserevoli condizioni della sua gente. L’anno seguente passò ancora a Bologna, per la ricognizione delle spoglie di san Domenico, e poi di nuovo in patria. Dimessosi da provinciale per ragioni di salute, nel 1236 si ritirò a Wroclàw, dove rimase fino alla morte (15 luglio 1242). Un anno prima della sua dipartita, Wroclàw era assediata dai Tartari: si vide allora un globo di luce, emanante dal volto di Ceslao, roteare sul campo degli assalitori e volgerli in fuga. Luca Giordano, che raffigurò Ceslao accanto a san Nicola (prima cappella a destra), pose ai suoi piedi il modellino di Wroclàw. Il culto, resogli ab immemorabili, fu confermato, prima per Wroclàw e per l’ordine (2 agosto 1713), poi per la Chiesa universale (1748). I domenicani lo festeggiano il 17 luglio, gli abitanti di Wroclàw tre giorni dopo. Così, il sabato 14 febbraio 1562, Luis partì avventurosamente, senza soldi e con la bisaccia sulle spalle. Si avviò a piedi, poi s’imbarcò per le Indie Occidentali, che percorse a lungo. C’è qualcosa di misterioso nelle sue improvvise, pressanti richieste di far ritorno in Spagna. A detta sua, si risolse dopo una lettera del confratello Bartolomeo de Las Casas, che gli raccomandava prudenza nell’assolvere gli encomenderos che maltrattavano gli indios. Ciò è confermato da papa Clemente IX che, nella bolla di canonizzazione, così si esprime: nec impedire aut ferre valens angustias, quibus ut plurimum violenter a Praefectis quibusdam etiam vulneribus, et caede Indi opprimebantur. Il santo fece ritorno in patria, malfermo in salute e con una piaga nella gamba, da cui non sarebbe più guarito. Ciononostante, in una notte di Natale, fu visto dormire in una stalla. Santa Teresa la Grande lo ebbe valido consigliere per la sua riforma del Carmelo. Si festeggia nel giorno della sua morte, avvenuta il 9 ottobre 1581. Il santo, a capo scoperto, per far risaltare la canizie, indossa, come in Oriente, l’omophorion bianco sopra il phelonion ricamato a croci (polystaurion), con la sinistra reca il pastorale, benedicendo con la destra. Le tre sfere d’oro ricordano l’offerta della dote «che fece Nicolao alle pulcelle / conducendo ad onor lor giovanezza» (Purg. XX,32). In termini prosaici, per sottrarle al marciapiede, cui, senza dote per sposarsi, erano destinate. Compaiono anche i tre bambini, uccisi e ammanniti in salamoia da un locandiere tiesteo, e che Nicola resuscitò. Compare orante, con una coppa ai piedi, il piccolo Adeodato, preso schiavo dai Saraceni e ceduto come coppiere a un emiro. La preghiera fervorosa dei genitori e del ragazzo stesso fece sì che questi ricomparisse a casa sua, durante il pasto, ancora abbigliato alla saracena e in atto di mescere. Santo delle terre di mare, ebbe intitolati vari “monti” o “casse” comuni per pagare il riscatto di marinai catturati dai Saraceni o per dotare fanciulle bisognose. Nei paesi nordici, poi, piviale e mitria di san Nicola si trasformarono facilmente nel manto e nel cappello a punta di Babbo Natale, cui tutti i bambini sono devoti, e St. Nikolaus divenne agevolmente Santa Klaus, che reca doni nella sua festa, il 6 dicembre. Beatificato il 19 luglio 1608, fu annoverato tra i santi il 12 aprile 1671, con la domenicana Rosa da Lima. In quel periodo, Luca Giordano lo dipinse nella tela di san Nicola, con un rarissimo e inconfondibile attributo iconografico: una pistola mutata in crocifisso. Un signorotto spagnolo, che Luis aveva redarguito per la sua condotta morale, gli puntò contro una pistola. Miracolo: la canna si tramutò in un crocifisso, l’attentatore in un fervente cristiano. Fu di alta statura, viso emaciato, zigomi alquanto sporgenti, naso affilato e aquilino, volto rugoso, capelli brizzolati, occhi vivacissimi. Luca Giordano, San Nicola, 1671 L’ANGELO DELL’APOCALISSE: SAN VINCENZO FERRER Costanza Miguel, prima di dare un altro figlio a Guglielmo Ferrer, il 23 gennaio 1350, avvertì, come donna Juana, la madre di san Domenico, «latrati di cagnoletto» nel grembo: nasceva così a Valencia un altro gran Domini-canis, Vincenzo, il predicatore per antonomasia, che percorse Spagna, Italia, Francia, Inghilterra, seguito da folle oceaniche. Pur col beneficio dell’inventario, le cifre tramandate dagli antichi circa il numero di conversioni, private e pubbliche, sono semplicemente sconcertanti: ci contentiamo di rinviare a una bella pagina dell’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga. In un primo tempo Vincenzo aderì allo scisma di Pietro de Luna, di cui era maestro di palazzo, ma al concilio di Costanza si adoperò per il ristabilimento dell’unità cattolica. Narrano ancora i suoi biografi che, nell’anno 1415, predicando Vincenzo in Bologna sopra un versetto del Salmo 30: Illustra faciem tuam super servum tuum, una splendente fiammella si posò sul suo capo. Simili prodigi non erano infrequenti nell’ordine: si veda, nel vestibolo della sacrestia della basilica della Sanità, l’episodio del capitolo di Montpellier, “narrato” da Giovan Battista di Pino nel 1625. Quando Vincenzo cominciava a predicare, impallidiva in volto, poi, a poco a poco, le sue guance diventavano simili a «rose incarnate, ma così vaghe, che sembrava piuttosto un angelo, che un uomo». Callisto III Borgia, suo concittadino, cui Vincenzo aveva preconizzato l’elezione al pontificato e la propria canonizzazione per mano sua, dopo la morte del santo (Vannes, 5 aprile 1419), lo beatificò (1455) e ne avviò pure la canonizzazione (la bolla fu emanata tre anni dopo, da Pio II). Due ovali di Vincenzo Siola nella cappella del santo (terza da destra) narrano due miracoli più celebri. Il primo consisté nella salvezza di un muratore che stava cadendo da un andito. Il prodigio fu reso ancora più strepitoso, perché san Vincenzo, in attesa del dovuto permesso del suo Superiore, mantenne il giovane sospeso a mezz’aria. L’altro dipinto firmato da Siola narra della resurrezione di una donna, cui Vincenzo ordinò di attestare essere lui l’angelo dell’Apocalisse. Sulla cona dell’altare, invece, Luca Giordano lo raffigura nel suo ruolo principale: il predicatore, che, tra l’autunno del medioevo e l’alba dell’evo moderno, proclama con squillo di tromba, il giudizio di Dio: Et vidi alterum Angelum, volantem per medium caelum, habentem Evangelium aeternum, ...dicens magna voce: Timete Deum et date illi honorem, quia venit hora iudicii eius (Apoc. 14,5-6). Dovunque, ma soprattutto nella Sanità, si festeggia il 5 aprile. Luca Giordano, San Vincenzo Ferrer, 1667-1672 LA PRINCIPESSA FILOSOFA: SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA La patrona dei filosofi e dei teologi, la cui effigie figurava nel sigillo della Sorbona, non poteva non essere particolarmente cara ai Frati Predicatori, votati al pensiero speculativo. Infatti, con santa Maria Maddalena, è patrona dell’ordine. Caterina nacque in Alessandria, capitale del pensiero ellenistico e sede di una fiorente comunità giudaica. Di sangue reale e colta, fu costretta dall’imperatore Massimino Daia (o Massenzio, secondo altri) a disputare con cinquanta filosofi pagani, i quali, convertiti dalle di lei argomentazioni, saranno poi bruciati vivi. Caterina fu condannata alla ruota (in realtà, tremendo ordigno di quattro ruote, fornite di chiodi e di seghe), che miracolosamente si spezzò uccidendo gli aguzzini. Alla fine, venne decapitata. Ad attestare la sua purezza, dalla ferita sgorgò un fiotto di candido latte. Gli angeli ne recarono il corpo sul Sinai. Nel celeberrimo monastero, che ivi le fu intitolato e che diventerà ricco di codici preziosissimi, fu venerata come la “sempre pura” o la “pura” (sancta Ecaterina, nelle catacombe di San Gennaro a Napoli). Il domenicano Pio V elevò la sua festa a rito doppio. Appare spesso associata all’altra Caterina, la grande senese (come i due san Giovanni, battista ed evangelista). Così in due cappelle adiacenti nella chiesa della Sanità, così nel polittico di Azzolino (con la palma e la ruota spezzata, la corona e lo scettro). Nella seguente cappella, Andrea Vaccaro (1659) ne rappresentò le nozze mistiche col Bambino Gesù, accompagnato da Maria e Giuseppe (riconoscibile dal manto giallo e dalla verga fiorita). Il personaggio in primo piano a destra potrebbe essere san Paolo (con spada e libro), prototipo della Sapienza cristiana (è San Pietro il suo pendant nella tela di Caterina da Siena?). Due versi insegnavano ai fedeli la vita della Santa: O Katharina, tyrannum superans, / doctos docens, et rotas lacerans! Andrea Vaccaro, Santa Caterina d’Alessandria, 1659 LE STIGMATE DELLA POLEMICA: SANTA CATERINA DA SIENA Ventitreesima figlia del tintore Iacopo Benincasa e di Lapa Piacenti, nacque a Siena, pare nel 1347. A quindici anni entrò fra le Terziarie Domenicane (o sorelle della penitenza). Trattò con i potenti (contribuì in maniera rilevante al ritorno del papa da Avignone) e con gli umili, assistendo gli ammalati più stomachevoli e convertendo delinquenti inveterati. Morì a Roma nel 1380, il 29 aprile (data della sua festa), ed è ivi sepolta sotto l’altare maggiore di Santa Maria sopra Minerva. Canonizzata nel 1461 con bolla autografa dal senese papa Pio II, fu eletta patrona d’Italia il 18 giugno 1939, e il 4 ottobre 1970 dottore della Chiesa per la profonda pietà e dottrina dei suoi scritti (riconosciuti pure dall’Accademia della Crusca come eccezionali testi di lingua italiana). Della vasta e varia iconografia, segnalo soltanto i tipi presenti nei dipinti della basilica. A) Corona di spine (polittico di Azzolino, affresco di Giovanni Balducci [?] in catacomba): Gesù propose a Caterina la scelta tra una corona di rose e una di spine; la santa prescelse questa. B) Cuore in mano, scambiato con quello di Cristo (Azzolino, Balducci nel Tesoro). C) Stigmate (Azzolino e Balducci, nei dipinti citati sotto B; Andrea Vaccaro, nella sesta cappella a destra). Sulle stigmate di Caterina si aprì una lunga e vivace controversia tra Domenicani e Francescani. Questi ultimi sostenevano che solo Francesco era stato stigmatizzato, in quanto alter Christus, e che i domenicani avessero addirittura posticipata di dieci anni la vera nascita (1337) di Caterina, per far sì che dandola morta a trentatré anni fosse suffragata la sua conformità a Cristo. La polemica culminò con il divieto di papa Sisto IV (francescano) di raffigurare le stigmate, divieto rivisto da Innocenzo VIII e soprattutto da Urbano VIII (1630), che decise a favore delle stigmate luminose e incruente. L’arte, allora, le idealizzò in raggi di luce, oppure si limitò alle semplici cicatrici. Nel quadro di Vaccaro (1659), nel gruppo dei testimoni della stigmatizzazione (avvenuta in Santa Cristina di Pisa, ora Santa Caterina in Lungarno, dinanzi a un Crocifisso di Giunta Pisano, il l0 aprile 1375) emerge un domenicano incappucciato. È il beato Raimondo da Capua, di cui si dirà più avanti. Tre affili prima della tela vaccariana, in un libro conservato nella nostra biblioteca, Paolo Frigerio così propone la testimonianza del beato, che ne udì il resoconto da Caterina: «Io vidi allora il mio Signore, confitto in croce, discendere sopra di me con grandissima luce: e per tale cagione volendo l’anima mia farsi incontro a lui, convenne, che ’l corpo cadesse, e in questo vidi dalle sue sagratissime piaghe discendere alle mie mani; a’ miei piedi, e al mio cuore sanguinolenti raggi, onde io considerando il misterio, subito gridai: - O Signore; io vi prego, che non si veggano cicatrici fuori del mio corpo. E incontanente mutandosi il color sanguigno in color d’oro, vennero alle mie mani, a’ miei piedi, e al cuor mio cinque raggi di purissima luce». E fra Raimondo le replicò: «Adunque non venne alcun raggio al vostro lato destro?». A cui la Vergine: «Non certo, ma si ben al lato sinistro per diretto sopra il mio cuore; peroché quella lucida e splendente linea, che usciva dal destro lato del mio Signore, discese a me per diritta via». Andrea Vaccaro, Santa Caterina da Siena, 1659 IL MAGO DI COLONIA: SANT’ALBERTO MAGNO IL MOSTRO E LA STELLA: BEATO AMBROGIO SANSEDONI L’ULTIMO CROCIATO: SAN PIO V Nacque a Lauingen, in Svevia, verso l’anno 1206. Giovanissimo, passò a studiare in Italia, presumibilmente a Bologna. Entrò nell’ordine dei predicatori nel 1223. Dal 1245 insegnò per tre anni a Parigi, dove ebbe allievi Tommaso d’Aquino e Ambrogio Sansedoni; successivamente a Colonia. Fu vescovo di Ratisbona (1260-1262), ma presto tornò ai suoi studi, fino alla morte, che lo colse il 15 novembre (data, poi, della sua festa) dell’anno 1280, a Colonia, dove è sepolto in Sant’Andrea. A Siena, il 16 aprile 1220, nacque un bimbo, nero come un carbone e spaventosamente deforme, per cui la nobile famiglia Sansedoni reputò bene di abbandonarlo. Accolto da una povera donna, dopo un anno guarì miracolosamente, e così fu riaccettato dai suoi. A diciassette anni diventò domenicano, andò a studiare a Parigi e, infine, a Colonia, dove tornerà professore. Il duecentotrentaduesimo papa, al secolo Michele Antonio Ghislieri, nacque da illustre ma decaduta famiglia in Bosco Marengo (Alessandria), il 17 gennaio 1504. A quindici anni entrò nel convento domenicano di Vigevano, poi insegnò teologia a Genova e Pavia. Superiore di conventi, inquisitore della Lombardia, commissario generale del Sant’Ufficio (1557), cardinale, papa (1566). Applicò severamente la riforma di Trento, proclamò San Tommaso dottore della Chiesa, promulgò il messale e il breviario, animò la crociata contro i Turchi; sfociata nella vittoria di Lepanto (7 ottobre 1571), data da lui solennizzata con l’istituzione della festa del Rosario. Fu autore di una mole sterminata di libri, spazianti dalla botanica alla zoologia, alla geologia, alla chimica e mineralogia, all’astronomia, alla filosofia, alla teologia. Il suo aristotelismo, mediato tramite Averroé e Avicenna, è fortemente influenzato dal neo-platonismo, soprattutto per la visione magico-astrologica dell’universo. Tra i discepoli preferì, pertanto, Ulrico di Strasburgo al più razionale Tommaso d’Aquino. Un giorno che Alberto portò a scuola un robot di sua fabbricazione, dotato di parola e di movimento, l’Aquinate glielo fracassò a bastonate, ravvisandovi un’operazione diabolica. Il suo culto venne approvato nel 1484; beatificato nel 1622, soltanto il 16 dicembre 1931 fu riconosciuto santo e dottore della Chiesa. È protettore degli scienziati naturalisti dal 1942. Dante, però, già lo aveva «canonizzato» (Par. X,97). Nella tela di Luca Giordano (1672), collocata di fronte alla sacrestia, Alberto è raffigurato in abiti vescovili, accanto a papa Pio V e altri domenicani; ma un putto ai suoi piedi, che regge il globo terrestre, ricorda la sua incredibile e varia erudizione, che, prima di tardivi riconoscimenti ufficiali, lo tramanda ai posteri come Doctor universalis. Grande pacificatore in Germania, dopo la condanna di Federico II a Lione, e poi, dal 1265, a Siena tra le fazioni civiche; tentò invano la salvezza di Corradino di Svevia, che in Napoli a lui si era rivolto; stabilì la pace tra Genova e Venezia, Firenze e Pisa; predicò la crociata contro i Saraceni. Gli fu fatale l’ultima invettiva contro i ricchi usurai di Siena: rottasi una vena in petto, morì dissanguato. Era la quaresima del 1286. Dal suo corpo esanime, una fulgida stella fu veduta salire al cielo. Solo un giglio lo distingue nella tela di Luca Giordano con san Pio V, dove Ambrogio compare ai piedi del suo maestro sant’Alberto. Manca il suo più frequente attributo: la colomba di pace che gli parla all’orecchio. Ma sarebbe stata un maldestro doppione, essendoci già nel dipinto la colomba dello Spirito Santo. Fatto ben presto in Siena oggetto di fervido culto, riconosciuto nel 1443, nel 1622 Gregorio XV ne estese la festa ai domenicani, fissandola al 20 marzo, giorno della sua morte. Dei suoi scritti quasi nulla rimane. Morì l’anno seguente, il 1° maggio, per dolorosi calcoli alla vescica, e fu sepolto, col saio domenicano, in Santa Maria Maggiore a Roma. Esattamente un secolo dopo, fu beatificato; il 22 maggio 1712 venne canonizzato. Privo dell’aureola, che invece lo cinge nella già citata tela giordanesca, appare nel polittico di Azzolino e in un pannello del Tesoro: dipinti di molto anteriori al 1672. L’iconografia è realisticamente ingenerosa con la sua non avvenente figura: scarno, zigomi sporgenti, naso adunco, barba bianca. È raffigurato prevalentemente in abiti pontificali (usò quelli del predecessore), in trono (Balducci), ai piedi della Vergine, ricamata anche sul suo piviale (Azzolino), oppure in gloria (Giordano, 1672). Il capo è coperto dal camauro e dal triregno (Balducci, Giordano), oppure quest’ultimo è deposto a terra (Azzolino). Una frase, tra le tante, di buon gusto, che lo resero celebre: «Quand’ero frate, nutrivo buone speranze per la salvezza dell’anima mia; fatto cardinale, ho cominciato a temerne; ora che sono papa, non ci spero quasi più». Luca Giordano, San Pio V in gloria, 1671-1672 COSTRUTTORE DI PONTI: SAN CONSALVO DI AMARANTE Tormentata e, per molti versi, oscura fu la sua vicenda. Venne al mondo in Amarante, Portogallo. Si dubita della data natale (1187), dubita pure qualcuno che fosse domenicano. Eletto a reggere un’abbazia, dopo qualche tempo partì per un lungo pellegrinaggio in Terra Santa, lasciando il nipote a sostituirlo. Costui, non pago di menar vita dissoluta, diffusa la falsa notizia della morte dello zio, si fece nominare abate al suo posto. Consalvo, tra l’universale stupore, fece ritorno dopo quattordici anni. Lo scioperato nipote lo accolse in malo modo, picchiandolo e facendolo assalire dai cani. «Bello di fama e di sventura», Consalvo chiuse gli occhi nel 1259 (o nel 1262, secondo altri). Costruì una chiesa presso il fiume Tamega, sul quale, per celeste ispirazione, lanciò un ponte, lavorandovi con le proprie mani: è proprio questo ponte a distinguerlo, a lato di Pio V in gloria, nella citata opera di Luca Giordano. Un’epigrafe nella chiesa tramanda che proprio nella festa di San Consalvo (10 gennaio), il domenicano cardinale arcivescovo di Benevento, Vincenzo Maria Orsini (poi Papa Benedetto XII), consacrò l’altare maggiore della Basilica. Il culto di san Consalvo era stato concesso ai Domenicani dal 1671. Pare che il mitico ponte sia ancora in piedi, a sfidare le piene del fiume Tamega. LA CUGINA DELL’ANTIPAPA: BEATA MARGHERITA DI SAVOIA-ACAIA Nacque nel castello di Pinerolo, verso il 1382, dal principe Amedeo di Savoia-Acaia e da Caterina di Ginevra. Nell’avito maniero avrà poi un determinante colloquio con san Vincenzo Ferrer. Morto il padre nel 1402, l’anno seguente fu data sposa a Teodoro II Paleologo, marchese del Monferrato, già con due figli e di rude carattere, che la lasciò vedova dopo quindici anni. Si ritirò allora con altre dame in un castello, presso Alba, donatole da un figliastro; castello che la marchesa trasformò in luogo di preghiera e di assistenza agli ammalati, respingendo allettanti matrimoni. Conquistata dall’esempio di Caterina da Siena, indossò con le altre l’abito di terziaria domenicana. Suo cugino Amedeo VIII, che nel frattempo s’era proclamato antipapa col nome di Felice V, fu distolto dal suo proposito per le insistenze di Margherita. Gli ultimi anni della sua vita (morì ad Alba il 23 novembre 1464) furono segnate dalle tre frecce (malattia, persecuzione, calunnia), che ella, in una visione, aveva implorato dal Signore. Fu sepolta ad Alba, nella chiesa della Maddalena. Si commemora il 23 dicembre. Il culto popolare spontaneo, seguito alla sua morte, ottenne una prima conferma nel 1566 da Pio V, che nel monastero di Alba era stato vicario delle monache, e poi da Clemente X. Con la corona marchionale e tre dardi è ritratta da Luca Giordano accanto a Pio V. La presenza del cervo (che contrassegna pure un’altra vedova, la beata Ida) può spiegarsi in base a una credenza risalente ad Aristotele e abbondantemente usata nella parenetica cattolica, non molto favorevole alle seconde nozze: si riteneva, infatti, che il cervo, una volta figliato, non si accoppiasse più. «NIMICA DI CIASCUN CRUDELE»: SANTA LUCIA DI SIRACUSA Anche di questa santa, la cui esistenza è nondimeno suffragata dall’archeologia, la leggenda s’è ben presto impadronita. Sanata sulla tomba di Sant’Agata a Catania, rifiutò le nozze con un pagano. Fu denunciata pertanto come cristiana. Esposta in un bordello, così rispose al giudice Pascasio: «Se anche, per violenza, cadessi carnalmente, spiritualmente rimarrò casta, e così tu mi procurerai la duplice corona della verginità e del martirio». Per non cedere, giunse perfino a cavarsi gli occhi e a gettarli a Pascasio. Alla fine fu decollata, nell’anno 304. È sepolta a Venezia e si ricorda il 13 dicembre, il giorno più corto - con meno luce - dell’anno. Dante, da lei miracolato agli occhi, la elesse a simbolo della grazia illuminante (Lucia, Lux); ne parla in più luoghi (Inf. II, 97-100; Pur. IX, 55 e Par. VI, 41). I pittori amarono raffigurarla, recante un piatto con sopra gli occhi, nell’imponenza e nell’abbigliamento di una matrona, ingemmata come una regina, ponendole accanto la palma del martirio e il serto di rose della Sponsa Christi. La firma di Girolamo de Magistro nella tela rappresentante Lucia (cappellone della circoncisione, altarino di sinistra), è finora l’unico documento di questo poco noto, ma non spregevole, pittore. Girolamo dello Mastro, Santa Lucia, metà XVII sec. L’OSPITE DI CRISTO: SANTA MARIA MADDALENA A parte qualche confusione con santa Maria Egiziaca, a parte la discussa identificazione, che la tradizione consacra, della sorella di Marta e di Lazzaro con l’anonima peccatrice che unse di balsamo Gesù; ancor più accesa fu la controversia sulla venuta della Maddalena in Provenza con Marta, Lazzaro e altri profughi scacciati dalla persecuzione dei Giudei. Comunque, tutti festeggiano l’unica Maddalena il 22 luglio. L’Occidente ne ha privilegiato la bellezza, più o meno sensuale, più o meno spirituale, struggente contrasto tra peccato e redenzione: andrà a ungere il Cristo morto con lo stesso, seducente profumo con cui l’aveva cosparso vivo, nettandolo coi lunghi capelli che, a farne più rara la bellezza orientale, sono sempre biondi. Certamente simboliche le due lepri in fondo a destra nella bella tela di Luca Giordano. Prima testimone della risurrezione, Maddalena, come la lepre (sensualità / ruminazione interiore), è legata alla Pasqua. La dea anglosassone Eostre (Ostern, Easter = Pasqua), dea lunare dal capo leporino, identifica la risurrezione nella luna nuova. D’altronde, ancor oggi così si computa la Pasqua. È la lepre a deporre l’uovo, magico simbolo dell’inizio pasquale. Giunta a Marsiglia, Maddalena si sarebbe ritirata nella Sainte-Baume (Santo Balsamo), un eremo scavatole nella roccia dagli angeli, dove septemque die subiecta per horas, / angelicos audire choros alterna canentes / carmina corporeo de carcere digna fuisti (F. Petrarca, Ecl. I). Una volta la santa apparve a un pio domenicano, descrivendogli il luogo donde contemplava i misteri della passione del Signore. Lì, sulla bocca dell’antro, San Michele aveva collocato una croce che la tutelava dalle incursioni dei diavoli. Le reliquie della Maddalena furono traslate, nel 1280, a Vézelay, dove quindici anni più tardi sorgerà una stupenda basilica, importante tappa penitenziale sul cammino di Santiago. Bonifacio VIII la affidò ai domenicani, che di lì irraggiarono dovunque il culto della Maddalena. Nella chiesa della Sanità, per esempio, a parte il citato dipinto giordanesco, la santa appare, bionda, elegante myrophora tra le sante domenicane nel polittico di Azzolino. Nel 1347, dalla certosa di Montrieux, dove era il fratello Gherardo, Francesco Petrarca venne pellegrino alla SainteBaume: «Come condotta in un altro mondo continuò a nascondersi qui, sino alla fine, ed ebbe a dimora quella nuda,cava rupe, che credo tu abbia visto (infatti non è lontana da qui). Sacro è il luogo, venerazione incute la sua orridezza, e merita d’esser visto, ancorché da lontano. Ricordo d’esservi stato spesso, e di avervi, una volta, trascorso tre giorni e tre notti, gustando una voluttà, diversa da quella che solitamente si gode nelle città. Qui la dolce e fortunata ospite di Cristo fruì, in vita e in morte, non della servitù di adorne fanciulle, ma dell’ossequioso servizio degli angeli» (Vit. sol. II, 0; cfr. Fam. X, 4). Luca Giordano, Estasi di Maria Maddalena, 1667-1672 «LA VITA GLORIOSA»: SAN TOMMASO D’AQUINO Doctor communis per gli antichi, per i posteri Doctor angelicus. Della vita del più famoso domenicano, la cui erudizione superò quella, già prodigiosa, del maestro Alberto, si narreranno soltanto pochi episodi. Visse dal 1225 circa al 1274. La figura corpulenta di Tommaso (Giovan Vincenzo Forli) ha dato origine alla leggenda dello helluo (il ghiottone di Cristo). Ancora infante, mentre la nutrice lo preparava per il bagno, raccolse da terra un pezzo di carta. Inutile ogni tentativo di prenderglielo. Alla fine, tra lacrime e strilli, vi riuscì sua madre. Sul foglietto era scritta l’Ave Maria, ma il bambino pretese piangendo la restituzione di quel tesoro e, riavutolo, ne fece un boccone. Un’altra volta, ormai adulto, alla Sorbona fu prescelto come arbitro di una disputa sull’Eucarestia. Prima di dare il suo responso, Tommaso s’inginocchiò dinanzi al Sacramento, che gli disse: «Bene hai scritto di me, e bene, per quanto è concesso a forze umane, hai risolto la questione». Analoghi elogi gli rivolse un Crocifisso in San Domenico Maggiore, a Napoli. I religiosi che lo stavano spiando lo videro sollevarsi estatico un cubito da terra. Racconta sant’Antonino che Tommaso, dopo la sua morte, apparve a un domenicano di santa vita, Alberto da Brescia, con una corona d’oro gemmata sul capo, due collane, una d’oro e una d’argento, e sul petto una pietra splendente come il sole. Un’altra volta, i suoi fratelli, prevedendo ben altro avvenire per il nipotino della sorella di Federico Barbarossa, lo rinchiusero, sotto custodia armata, nell’avito castello di Roccasecca. Per ostacolarlo ulteriormente nella vocazione, gli introdussero una donna, che il santo, brandendo un tizzone, volse in fuga, mentre due angeli gli legavano saldamente i fianchi (il miracoloso cinto di san Tommaso è tuttora venerato in Vercelli). Tanto racconta in pittura Pacecco de Rosa nella cappella adiacente la sacrestia. Azzolino, nella cona del Rosario, lo distingue non solo con l’ostensorio (attributo, peraltro, comune a S. Giacinto), ma soprattutto col sole fulgente in petto. Tommaso, cantore dell’eucaristia (sua è la stupenda ufficiatura del Corpus Domini), ebbe dal papa il privilegio di recare addosso il Santissimo. Morì nell’abbazia di Fossanova, mentre si recava al concilio di Lione, per trattare la riconciliazione con la Chiesa greca. Fu canonizzato nel 1323. Secondo una fonte non documentata, ma raccolta da Giovanni Villani e da Dante, pare che l’andata al cielo di Tommaso, a soli quarantanove anni, fosse stata accelerata, per oscure manovre politiche, dal veleno angioino. Dante ricorda Tommaso frequentemente (Purg. XX, 69; Par. X, 9088; XII, 110-144; XIII, 32; XIV, 6). Dell’immensa opera, tra cui emerge, come una cattedrale gotica, la Summa theologiae, piace rievocare almeno gli estasiati versi di un inno del Corpus Domini: Adoro Te devote, / latens Deitas, / quae, sub his figuris, / vere latitas: / Tibi se cor meum / totum subicit, / quia, Te contemplans, / totum deficit. Si festeggia il 28 gennaio. Pacecco de Rosa, San Tommaso d’Aquino, 1652 LADRA D’AMORE: SANT’AGNESE DA MONTEPULCIANO L’UOMO CHE SPOSÒ LA VERGINE: SAN GIACINTO ODROWATZ UN FIORE AMERICANO: SANTA ROSA DA LIMA Venne alla luce, probabilmente il 5 maggio 1286, dalla nobile famiglia Segni, a Gracciano Vecchio, vicino a Montepulciano. A nove anni entrò fra le “sacchine”, domenicane di rigida osservanza. Dopo cinque anni, insieme con la sua maestra di noviziato, già fondava un monastero. In seguito, ne costituì ancora un altro, del quale fu superiora fino alla morte, sopravvenuta il 20 aprile (giorno in cui viene festeggiata) del 1317. Il santo del 17 agosto nacque a Kamièn, in Polonia, in un imprecisato anno del XII secolo. Fu dottore in diritto e in teologia. Instancabile apostolo delle terre nordiche, le percorse in lungo e in largo, dalla Stiria alle più settentrionali province della Cina. Fuggendo con l’ostensorio da Kiev, incendiata dai Tartari, fu richiamato indietro dalla Vergine, perché mettesse in salvo anche una sua statua in alabastro. In quel frangente, il santo passò a piedi asciutti un fiume: qualcuno assicura che ancor oggi si scorge su quelle acque «il sentiero di San Giacinto». Il primus flos Americae, sbocciato dalla semina domenicana nel nuovo mondo, vide la luce nel giorno di Pentecoste, la pasqua delle rose, il 20 aprile 1586, a Lima, da un oriundo spagnolo, Gaspare Flores, e da Maria de Oliva. Alla cresima, san Turibio di Mongrovejo, vescovo di Lima, le mutò il nome di battesimo Isabella in Rosa, come ormai già tutti la chiamavano per la sua straordinaria avvenenza. Lei completò, per modestia, il soprannome in Rosa di santa Maria e, quando in una festa la incoronarono di rose, infilò, nascosto sotto il serto, un ago sulla fronte. Divenuta Terziaria Domenicana nella cappella del Rosario, affascinata dall’esempio di Caterina da Siena, visse come in clausura nella casa paterna, tra penitenze inenarrabili. Quando santa Caterina da Siena si recò pellegrina alla sua tomba, Agnese sollevò il piede sinistro al bacio di Caterina. Insieme a Rosa da Lima, esse sono le due sante domenicane che meritano di tenere in braccio Gesù Bambino. Ebbe culto dal 1523 in Montepulciano, e nel suo ordine dal 1601 (la bolla di conferma fu pubblicata, però, nel 1642). Venne canonizzata nel 1726 dal domenicano papa Benedetto XIII. Nel 1672, nella seconda cappella a sinistra di chi entra nella basilica della Sanità, Luca Giordano la raffigurò in una tela che riunisce tre diverse apparizioni della Vergine col Bambino, rispettivamente a sant’Agnese, a Santa Rosa e a San Giacinto. Narra il suo primo biografo, il beato Raimondo da Capua, che la santa priora, durante una visione, letteralmente «scippò» dal collo di Gesù Bambino una crocetta (che tuttora si conserva in Montepulciano): era la vigilia dell’Assunta. In un’altra apparizione, fu la Vergine stessa a offrirle tre piccole gioie, simbolo di una chiesa che la santa avrebbe edificato alla Madre di Dio «sulla roccia della professione di fede nell’eccelsa Trinità». Bianche crocette ornano ancora il suo nero manto, e piovono d’intorno coloriti fiori, che nascono ovunque Agnese s’inginocchi. In un’ennesima visione della Vergine, tra gli angeli cantanti la sequenza Vernans rosa, ella, al dileguarsi del prodigio, si trovò accanto una rosa. Accanto alla peruviana santa Rosa, il polacco san Giacinto appare in una bella pittura di Luca Giordano (1671-1672), narrante un’altra apparizione della Regina degli angeli, accaduta la vigilia dell’Assunta. Lo stesso soggetto è nella pala di Ludovico Carracci per il San Domenico di Bologna (trafugata da Napoleone nel 1796), eseguita in occasione della canonizzazione di Giacinto. La Madonna, apparendogli, disse: Gaude, fili Hyacinthe, quia orationes tuae gratae sunt Filio meo, et ideo, quidquid ab eo per me petieris, impetrabis. Alla sua morte (Cracovia, 15 agosto 1257, festa dell’Assunta), la monaca Branislava vide la Vergine tra gli angeli apparirgli per l’ultima volta, lasciando nel convento una luce abbagliante (da osservare nel dipinto di Giordano). Le parole della Vergine furono quelle della sposa del Cantico dei cantici: «Andrò al monte della mirra, al colle dell’incenso». Il culto di Giacinto si sviluppò solo dopo la sua canonizzazione (17 aprile 1594), energicamente voluta da Sigismondo III di Polonia e da altre monarchie cattoliche a lui legate. Numerose malattie, che lei stessa si cagionò mortificando il corpo in ogni modo, la condussero precocemente alla tomba il 24 agosto 1617 (si festeggia il giorno precedente). Venne sepolta nel duomo di Lima, nella cappella di Santa Caterina da Siena. Fu beatificata il 15 aprile 1668 e proclamata patrona del Perù e, due anni dopo, delle Indie Occidentali e delle Filippine; il 12 aprile 1671 fu canonizzata, insieme al grande apostolo delle Americhe Luis Beltrán. La sua iconografia dipende, compreso il dipinto di Luca Giordano della seconda cappella a sinistra, in buona parte, da un quadro di Carlo Dolci (ora in Palazzo Pitti a Firenze), inaugurato, come avverte un retrostante cartiglio, il 30 agosto 1668, la prima festa della beata Rosa. Il soggetto è ispirato a una visione che la santa ebbe nella cappella del Rosario, di cui era devotissima. Vestita del bianco saio delle terziarie, rivestita di rose, mentre un rivolo di sangue scorre dalla testa cinta di un rosario di spine, riceve da Gesù Bambino l’anello nuziale, con la consolante promessa: Rosa cordis mei, tu mihi sponsa esto. E la Madonna soggiunge: En, Rosa, quali te dignatur honore meus hic Filius! Nascevano fiori ovunque passava, e gli alberi chinavano le chiome. Morta, pareva una rosa fresca al mattino, perché fu vista ricoprirsi di rugiada e, nella notte del 23 agosto, una voce le sussurrò: «Preparati, si appressano le nozze!». Luca Giordano, Matrimonio mistico di Santa Rosa da Lima, 1672 IL SOLE DELLE CASE: SAN BIAGIO IL «BUON HOMO»: SANT’ANTONINO PIEROZZI IL GRAN VEGLIARDO SAN RAIMONDI DI PEÑAFORT Poche e incerte le notizie sul vescovo di Sebaste Blasius («balbuziente»): sarebbe stato martirizzato, con un pettine da cardatore, intorno all’anno 316. Fu veneratissimo nella Chiesa greca, e le sue reliquie vennero portate in Occidente dai crociati. A parte le consuete insegne episcopali (paramenti rossi, come nella liturgia dei martiri), è raffigurato da Agostino Beltrano, tra i santi Antonino e Raimondo, con il pettine. Nato nel 1389 a Firenze, dal notaio Nicola e da Tommasa, fu battezzato col nome di Antonio, presto mutato in Antonino, a motivo della gracile costituzione. Entrò nell’Ordine Domenicano a sedici anni e vi esercitò in seguito cariche di governo. Tra l’altro fu priore del convento di San Marco di Firenze, da lui edificato e nella cui chiesa fu sepolto. Dal 1446 alla morte (Montughi, 2 aprile 1459), fu arcivescovo di Firenze: della nomina ebbe notizia quando si trovava a Napoli, e tentò inutilmente di sottrarsene con una fallita fuga in Sardegna. Il terzo Generale dei Domenicani nacque da una famiglia dell’aristocrazia catalana a Villafranca del Panadés, quasi certamente nel 1175. Insegnò filosofia in patria, ed a Bologna, dove conobbe Pier delle Vigne. Dinanzi a lui è la donna con il bambino dalla cui gola il santo estrasse una lisca di pesce. Fino a pochi anni fa, anche nella basilica della Sanità, nel giorno di san Biagio (3 febbraio) il sacerdote incrociando due candele (sopravanzate dalla candelora del dì precedente) sulla gola dei fedeli, pregava: «Per intercessione di San Biagio, vescovo e martire, ti liberi il Signore dal mal di gola». Nella tarda antichità, il medico Ezio di Amida era in grado di estrarre dalla gola qualsiasi oggetto ingerito, semplicemente invocando San Biagio. Ovviamente lo invocano anche quelli che lavorano la lana e il taffetà. Perciò egli è uno dei quattordici santi cosiddetti “ausiliatori”, i più richiesti nelle difficoltà. Per la cronaca, gli altri tredici sono: Acacio, Egidio, Cristoforo, Giorgio, Ciriaco, Dionigi, Erasmo, Eustachio, Pantaleone, Vito, Barbara, Caterina d’Alessandria e Margherita. A Napoli, infine, si dice: Cannelora, vierno è fora; San Biase, ’o sole pe’ case. Continuò a segnalarsi, oltre che per la dottrina, anche per l’operosa carità: già dal 1442, aveva istituito i “Buonhomini” di San Martino, al fine di soccorrere i nobili decaduti e, in genere, i poveri vergognosi. Compose vari scritti di argomento morale e canonico (così si spiega la sua associazione, nel quadro di Agostino Beltrano, a san Raimondo di Peñafort, che si interessò di analoghi argomenti), ma anche omiletico e storico. Vanno menzionati, almeno, la Cronaca, che si estende, per grandi linee, dalla creazione al 1458; e Lo specchio di coscienza, composto a Napoli. Beltrano (1653), nella prima cappella a sinistra, lo raffigurò con le insegne arcivescovili, nell’atto di elargire una borsa di denaro; Azzolino, nel polittico del Rosario, con la mitra e il volto incartapecorito (quale appare nell’urna in San Marco a Firenze) tra gli altri splendori del cielo domenicano. Fu canonizzato il 31 maggio 1523. Si ricorda il 10 maggio. Entrò nell’Ordine nel 1222. Collaborò con S. Pietro Nolasco e S. Raimondo Nonnato alla fondazione dell’Ordine della Mercede, per il riscatto degli schiavi. Esercitò la carica di Penitenziere. Tra le su opere, andò famosa la Summa casuum conscientiae. Dopo aver ricusato la carica di Arcivescovo di Tarragona, il Nestore domenicano moriva, pressoché centenario, il 6 gennaio 1275. Il suo culto fu autorizzato il 3 giugno 1542, mentre egli verrà canonizzato il 29 aprile 1601. La festa ricorre il 7 gennaio. Accanto a S. Biagio, Agostino Beltrano lo effigiò vecchio venerando, con un libro ed una chiave (simbolo del suo ruolo di Penitenziere). Più frequente altrove è l’iconografia che dal sec. XV s’ispira ad un evento miracoloso: il grande vecchio coprì, in tempo record (solo sei ore!), il tragitto Maiorca-Barcellona, navigando sul suo mantello. Agostino Beltrano, San Biagio, 1654-1656 il paradiso pittorico In gloria Dei Patris Postludio «I padri hanno mangiato uva acerba, e ai figli si sono allegati i denti», sembra dire Titus Burckhardt, il quale, a differenza del più celebre omonimo, accusa il rinascimento prometeico di avere assassinato la sacralità medievale, dando luogo al barocco, che, a sua volta, nulla avrebbe di sacro. Nos vetera instauramus nova non prodimus, risponderebbe Erasmo. Certo, il barocco è figlio del rinascimento, ma pur di una qualche Virginia de Leyva. Ciò che il medioevo aristotelicamente distingue, il barocco alchemicamente fonde nella meraviglia dei contrasti, e più che della sintesi di Tommaso, gode dell’antitesi di Caravaggio. Se il medioevo disprezza il mondo, il barocco lo converte, lo redime, lo consacra. Sacro è il barocco, con buona pace di Burckhardt, anzi cattolico; voluttuoso e galante come suo padre, come sua madre edificante e devoto; drammatico e sensuale, come Torquato Tasso, erudito e gesuita come Daniello Bartoli. Esiste una cima, una punta sottile, come dicono i mistici, dove gigli e rose, verginità e martirio s’intrecciano e la loro fragranza si confonde e si effonde; esiste, da sempre, nella Chiesa, un privilegio del martirio sulla testimonianza incruenta, della verginità sulle nozze. Il martirio fu considerato grazia, massima prova d’amore, e la verginità il suo complemento o il suo equivalente. Vergine fu per Balducci (uno degli artisti divulgatori della Riforma Cattolica), vergine fu san Domenico, accolto con un giglio dalla Regina virginum; martire, altresì, del desiderio, abbracciato a lame e flagelli, tra una pioggia di rose; vergine e martire fu pure Pio V, che preferì la morte a un intervento sui genitali. Le donne, soprattutto. Come per Maddalena, più sono state belle e desiderate, più dura e straziante sarebbe stata la loro penitenza. Belle e desiderate, come Margherita d’Ungheria, Agnese da Montepulciano, Rosa da Lima, la regina tra questi fiori. Il candido giglio delle convalli peruviane s’intreccia con una sanguigna rosa: nomen omen. Come nel celeberrimo Elogio della rosa, cantato da Marino nell’Adone, tutta la vita della santa fu un susseguirsi di barocche variazioni sul “nome della rosa”, impostole come un presago destino. Rosa rorans bonitatem, / stella stillans claritatem, così Rosa, rorida di stille, s’avvia sul cammino delle stelle. Stupiscono inamene boutades nel più documentato degli iconologi, Louis Réau: non ne facciamo neppure cenno. Preme, invece, ricordare che la storia sacra e antica è tutt’altro che la moderna storiografia: l’antico è archetipo del nuovo. Così, Domenico è Mosè legislatore, Abramo prolifico patriarca; Vincenzo Ferrer e Luis Bertràn sono Elia ed Eliseo; forse, Alberto e Tommaso sono Merlino e Parsifal… Occhi sensibili intravvederanno in Consalvo, come in un palinsesto, Odisseo e Riccardo Cuor di leone. Come Cristo nel deserto, Tommaso dopo la tentazione è confortato dagli angeli, e così Maddalena; in Giacinto si adempie la Scrittura: In flumine pertransibunt pede (Sal. 65, 6); in Vincenzo Ferrer il Salmo 30 e, ovviamente, l’Apocalisse; Lucia interpreta, sine glossa, il comando evangelico: «Se i tuoi occhi sono per te occasione di caduta, cavali via da te!» (Mt. 18, 9). Insegna sant’Agostino, sulla scorta del Timeo platonico, essere di tre specie la musica: umana, cioè l’armonia del corpo e dell’anima; strumentale, cioè l’armonia di strumenti diversi; cosmica, perché, come «diverse voci fanno dolci note, / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote» (Par. VI, 124). Volentieri cederemo ai competenti l’ufficio di riconoscere gli strumenti musicali nei nostri dipinti; di rammentarci come nel Seicento la città della sirena desse i natali alla vihuela, al liuto a doppie corde, alla chitarra spagnola, o vi godessero lancio e diffusione la viola bastarda, l’arpa doppia, la tastiera cromatica; come il Domenichino, prima di saggiare il veleno di Napoli, vi gustasse la dolcezza di fabbricare, con le sue mani, un cembalo e un liuto, nonché un’arpa enarmonica, che mai poté far sonare. Checché voglia Burckhardt, ai musici angeli di Balducci, Azzolino e Beltrano affidiamo le Cancianes di san Giovanni della Croce, il più grande mistico dell’evo moderno, per allietare di paradisiaci accenti la cena que recrea y enamora. Giambattista Marino, poeta calunniato come lo fu, a lungo, il barocco, come lo è, da sempre, Napoli, ha scritto, nella seconda delle Dicerie sacre, una pagina struggente: Viene Cristo all’incontro con cetera vile, e questo è il legno della Croce. Se la volete bicorne,ecco i due rami dall’una all’altra parte. Se volete le corde,ecco i nervi. Se volete le chiavette, ecco i chiodi. Se la rosa, ecco l’apertura odorifera del costato (...). Nasconde sotto le spine le rose, sotto il fiele la manna, sotto l’ignominia la gloria, sotto i lamenti la musica (...). Quantunque tutto il progresso dei suoi tormenti altro in effetti non sia ch’una musica amorosa, la musica nondimeno ch’egli in questi ultimi accenti sparge oggi sopra la croce, par che tutto il resto di gran lungo vinca, e superi di dolcezza. LA LINGUA DEL PARADISO Bruno Forte «Il simbolo dà a pensare»: questa tesi di Paul Ricoeur risulta quanto mai fondata per chi visiti con «intelletto d’amore» la basilica di Santa Maria della Sanità a Napoli. Opera di un architetto domenicano, converso dello stesso convento della Sanità, fra Giuseppe Nuvolo, al quale sul finire del Cinquecento fu affidato il compito di «dar principio alla nova chiesa», essa nasce da un preciso progetto non solo architettonico, ma anche teologico e spirituale. Si tratta di una sorta di “teologia simbolica”, di pensiero della fede, cioè, che fa uso specialmente del simbolo per approssimarsi al Mistero. Per comprendere quest’approccio occorre ricordare che in origine il “simbolo” altro non era che una tessera di terracotta, spezzata in due e consegnata ai contraenti d’un patto, affinché ciascuno di essi potesse mostrare la propria parte all’altro e così, dalla corrispondenza delle parti, attestare la forza vincolante del legame liberamente contratto. È da qui che la parola passa a designare l’unità dei due - espressa dalla preposizione syn, indicativa di comunione e di convergenza - nell’autonomia di ciascuno - significata dall’idea del bàllein, verbo che significa “lanciare” ciascuno nella sua direzione. Si spiega allora come sul piano traslato il termine “simbolo” venga a significare ciò che tiene insieme senza costringere, e quindi ciò che relaziona i diversi senza cadere nell’univocità, mantenendo l’unità di senso, anche nell’eccedenza o addirittura nella radicale discontinuità del significato. Mediante il simbolo è superata l’incomunicabilità fra i diversi, perché l’orizzonte di senso - l’arco del “patto” contratto - resta unitario e totalizzante, ma viene anche allontanata la confusione indiscreta, perché i significati non sono appiattiti l’uno sull’altro. È così che nel simbolo si dà una profonda unità di senso nella pur permanente eccedenza del significato. Si comprende allora perché il linguaggio simbolico risulti particolarmente adatto a discipline in apparenza così diverse come l’architettura e la teologia: conviene alla prima, perché la delimitazione degli spazi nel gioco dei pieni e dei vuoti è tesa a creare un ambiente abitabile in maniera non solo funzionale, ma anche significativa in rapporto alla destinazione prescelta per l’opera; è adatto alla seconda, perché esso dice la trascendenza senza ridurla all’immanenza, esprimendo la lontananza nel linguaggio della prossimità e proprio così consentendo di parlare del Dio infinito ed eterno nelle forme circoscritte dello spazio e del tempo senza violarne il mistero. Per chi, come fra Nuvolo, è educato dalla vita di fede e dall’esperienza liturgica al linguaggio del simbolo, l’architettura, di cui è maestro con geniale piglio d’artista, risulta spontaneamente un linguaggio di cifre, un insieme di segni cioè che rinvia all’eccedenza del significato nella necessaria continuità del senso. La sua opera in pietra, che per tanti motivi evoca le forme del paradiso, parla così un linguaggio: è la “lingua del paradiso”, che proveremo ora a decifrare proprio attraverso l’intelligenza del simbolo. UNA CRISTOLOGIA PASQUALE Il primo grande messaggio che il linguaggio architettonico di fra Nuvolo intende esprimere è la centralità del Cristo, Signore della vita e della storia: a rivelarcelo è il simbolo dell’ottagono, che rimanda nella grande tradizione cristiana a quell’ottavo giorno - il primo dopo il sabato degli Ebrei - che è il giorno della risurrezione di Cristo e del nuovo inizio del mondo nella gloria della Sua presenza nello Spirito. A ciascuna delle tredici cupole della basilica corrisponde in basso un quadrato, sì che la congiunzione delle due forme passa in maniera naturale attraverso il configurarsi di un ottagono: questo impianto architettonico ritorna sotto tutte le cupole, anche se risulta in maniera esemplare nello spazio coperto dalla grande cupola centrale, che è per eccellenza simbolo del Cristo fra i dodici apostoli e i dodici segni dello zodiaco, rappresentati dalle rimanenti dodici cupole. La “lingua del paradiso” va letta così: se il quadrato è cifra del mondo, perché delimitato dai quattro lati che evocano i quattro punti cardinali, il cerchio della cupola è simbolo dell’eternità divina, caratterizzata dall’equidistanza di ogni punto dal centro. Il passaggio dal mondo a Dio e dall’Eterno al tempo avviene attraverso l’ottavo giorno, significato appunto dall’ottagono, che innesta la cupola circolare sul sottostante quadrato. Si passa dunque dalla vita terrena a quella divina attraverso il Cristo Risorto, che è a sua volta la rivelazione del Dio sovrano e trascendente nella forma accessibile al linguaggio degli uomini. L’ottagono - e cioè il Cristo della resurrezione - è il passaggio attraverso cui il quadrato - e dunque la vita e la storia dell’uomo e del mondo - passa nel cerchio, metafora dell’eternità beata in Dio. La “cristologia pasquale” di fra Nuvolo è tutta espressa qui, nell’idea a prima vista impossibile della “quadratura del cerchio”: paradosso del Verbo che si è fatto uomo, perché l’uomo divenisse partecipe della natura divina! Questo centro e cuore del messaggio si dilata allo spazio e al tempo nella loro interezza: l’impianto della grande cupola, innestata sul quadrato centrale della basilica attraverso l’ottagono, si propaga mediante la distribuzione delle dodici altre cupole, tre per ciascuno dei lati, in uno schema a raggiera che evoca la stella a otto punte, significativamente riportata in marmo sul pavimento all’ingresso, quasi a offrire subito la chiave per l’intelligenza del simbolo. La gloria del Risorto - via e porta d’eternità per il mondo e per ogni uomo che creda - raggiunge i dodici segni dello zodiaco, si distribuisce cioè secondo lo svolgimento totale del tempo, nel ciclo dei mesi e delle stagioni, del dodici o del quattro moltiplicato per tre. Anche qui, la “lingua del paradiso” esige una traduzione: tre è il numero della divinità, che sola unisce in sé compiutamente l’unità e la dualità, la semplicità e il doppio, l’uno più il due. Quattro - lo si è detto - è il numero del mondo, la cifra dell’umano e dello storico. Sette - somma di tre più quattro - è la totalità, l’insieme del divino e del mondano. Dodici - risultato della moltiplicazione del tre per quattro - è la cifra della perfezione, il simbolo della gloria promessa, l’anticipo dell’eternità nel tempo (nel ciclo, appunto, dei dodici mesi dell’anno). Dilatandosi dal centro alle dodici cupole il simbolismo del Risorto e del suo ottavo giorno raggiunge così non solo l’universo intero in tutte le sue stagioni, ma lega il tempo e l’eterno e fa dello zodiaco l’anticipo e l’icona della gloria celeste. Cristo nel suo mistero pasquale è il vero centro della storia, il cuore pulsante dell’universo, il Signore della Chiesa e del tempo futuro: la “lingua del paradiso”, scritta da fra Nuvolo nell’impianto architettonico della basilica della Sanità, ne canta la gloria in maniera splendida e innamorata. ILLUMINAZIONI COSMOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE È proprio l’irradiarsi della gloria del Risorto nelle forme architettoniche della basilica che induce a cogliere un altro aspetto del messaggio in essa inscritto: in quanto l’edificio è opera umana, innalzata pietra su pietra dal genio e dalle mani degli uomini, esso si offre naturalmente come simbolo dell’uomo artefice e del mondo plasmato dal Creatore e dalla creatura. Lo spazio circoscritto dall’impianto stellare, attraversato dal gioco degli archi e dalla volumetria delle cupole e delle volte a botte, si lascia cogliere come immagine del cosmo, peraltro continuamente evocato dai quadrati corrispondenti in superficie ai cerchi di basamento delle cupole stesse: è il cosmo come theatrum gloriae Dei, ambiente in cui si irradia la gloria del Risorto, che risplende nell’ottavo giorno e raggiunge, illuminandolo di sé, il primo mattino degli esseri. Quanto attesta la fede delle origini riguardo al Cristo, per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato creato (cfr. Col 1,15), è cantato dalla “lingua del paradiso” del simbolismo architettonico concepito da fra Nuvolo in maniera altissima e solenne. La luce che piove copiosa dall’alto attraverso le numerose finestre contribuisce a rendere quest’idea dello spazio architettonico come figura del mondo inondato dalla gloria dell’Eterno, a partire dall’ottavo giorno del Risorto, ma anche - come in una sorta di preparazione e di attesa - a cominciare dal primo inizio, quando tutto fu voluto e chiamato all’essere per accogliere e celebrare le meraviglie del Creatore e Redentore dell’uomo. In questa chiave, anche la vocazione e il compito della creatura umana vengono evidenziati: «la gloria di Dio è l’uomo vivente», affermava Ireneo di Lione (Adversus haereses IV,20,7), e «la vita dell’uomo è la visione di Dio». L’uomo è fatto, cioè, per vivere della luce divina, e l’Eterno pone la sua compiacenza nell’essere l’Amato della sua creatura. Tutto questo è proclamato dalla “lingua del paradiso” della basilica della Sanità: opera dell’uomo che celebra la gloria e la bellezza di Dio, perché è in se stesso “sete del bello”, essa è lo spazio sacro in cui chi entra si sente avvolto dalla luce, accolto dalle forme che celebrano coralmente la centralità del Risorto, del «giorno primo ed ultimo, giorno radioso e splendido» della resurrezione di Cristo, che apre agli uomini la possibilità inaudita di partecipare della stessa vita divina, oggi nel pellegrinaggio della fede, domani nella chiarezza della visione, di cui è già anticipo e pregustazione la liturgia, gioia del cielo sulla terra. È per questa concezione dell’uomo, inscritta nelle forme architettoniche concepite da fra Nuvolo, che le meravigliose opere di pittura contenute nella basilica della Sanità si trovano veramente a casa in essa: Caravaggio, di cui c’è l’impronta nella grande tela della Circoncisione di Gesù, realizzata da Giovan Vincenzo d’Onofrio, e i caravaggeschi (si pensi alle tele di Andrea Vaccaro) avevano tradotto la concezione antropologica della Controriforma in immagine pittorica. Reagendo a quello che veniva considerato il pessimismo protestante sull’uomo e la sua natura corrotta, si voleva veicolare l’idea che la grazia non distrugge, ma perfeziona ed esalta la natura (Gratia non tollit naturam, sed perficit eam). La trasposizione figurativa di questo messaggio fu resa da Caravaggio e dai suoi seguaci mediante la geniale soluzione di far plasmare le forme creaturali dalla luce veniente dall’alto: il Dio della teologia e dell’estetica barocca non è il concorrente dell’uomo, ma il suo alleato. Quello che fra Nuvolo dice nella pietra, la pittura della Controriforma lo dice con la luce e i colori. La gloria divina è veramente l’uomo vivente e la visione di Dio è la vita compiuta degli uomini. SINCRONIE E DIACRONIE ECCLESIASTICHE Nel vasto spazio del mondo e della storia c’è un luogo specifico, che della gloria divina è come il sacramento, il segno cioè e lo strumento vivo ed efficace: questo luogo è la Chiesa. Qui il simbolismo della basilica, dell’ambiente regale dove regna il solo vero re del cielo e della terra, è già di per sé eloquente: ma fra Nuvolo ha saputo aggiungervi alcune sottolineature che, se risentono della ricchezza dei dibattiti teologici connessi al concilio di Trento e alla sua recezione, sono non di meno frutto di una singolare intuizione spirituale e artistica. La Chiesa è vista nella storia come la risultante di un duplice movimento, l’uno diacronico verticale e l’altro sincronico orizzontale. Il movimento orizzontale risulta espresso proprio dalla centralità della grande cupola e dell’ottagono, simboli del Cristo, in rapporto alle altre dodici cupole, significativamente distribuite sui quattro lati a raggiera. L’idea che ne risulta è quella di una ecclesiologia “sincronica”: il Risorto è in mezzo ai Dodici, vivo e presente fra loro come il principio e fondamento di tutto ciò che essi sono e fanno. Ma questa Chiesa apostolica è fatta per estendersi fino ai confini della terra, significati dal simbolismo del quattro, evocativo dei punti cardinali, e perciò fino alla fine del mondo: Cristo è insomma il centro escatologico della comunità ecclesiale, Colui che vive in essa e continua a radunarla nello Spirito come il popolo santo di Dio, agendo in particolare attraverso la sua struttura apostolica, espressa dagli apostoli e dai loro successori. È la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica che viene così significata dalle forme architettoniche della basilica: e se la raggiera della stella è come dilatata verso il polo dell’altare maggiore, che ospita l’altare trono dell’eucaristia, e la simmetria del quadrato centrale è interrotta dallo splendido pulpito marmoreo di Dionisio Lazzari, ciò è per dire che l’annuncio della Parola di Dio e la celebrazione del Sacramento sono l’indispensabile nutrimento che rende il Cristo sempre di nuovo presente in mezzo ai suoi, per radunarli come popolo santo dell’Altissimo. A questo gioco di “sincronie” corrisponde anche un altro movimento: quello verticale, diacronico, che congiunge la Chiesa delle origini e dei martiri, significata dalla catacomba e dalla basilichetta paleocristiana di accesso a essa, alla Chiesa del concilio di Trento, del tempo di fra Nuvolo cioè e di tutti i tempi. È qui che l’architetto teologo ha avuto la sua intuizione forse più geniale: staccandosi deliberatamente dalla concezione che voleva la nuova chiesa edificata sul luogo di una precedente come totalmente sostitutiva di essa, fino al punto da cancellarne perfino le tracce, fra Nuvolo decide con singolare audacia di conservare la preesistente struttura e di inglobarla nella nuova come “succorpo” dell’altare del trionfo dell’eucaristia, coronato in alto dalla bellissima scultura della Madonna della Sanità, opera di Michelangelo Naccherino. Egli congiunge tuttavia i due piani sovrapposti così ottenuti con una scala a forcipe, successivamente arricchita di marmi, bella e di notevole eleganza, in modo da rendere chiaramente l’idea della continuità nello sviluppo, ovvero della fedeltà della Chiesa nel tempo alla sua prima origine. Che garanzia di questa fedeltà sia la tradizione della fede apostolica e in generale la trasmissione del “deposito della fede” assicurata dalla successione degli Apostoli, è espresso precisamente dai due busti dei santi Pietro e Paolo, incastonati nella parete sulla scala. In tal modo risulta chiaro che sincronia e diacronia nel mistero della Chiesa non si oppongono: l’una è anzi garanzia dell’altra, segno e strumento di essa. La tradizione apostolica, garantita dalla successione dei Pastori, e la trasmissione nel tempo della fede delle origini fonda la comunione attuale del popolo di Dio; questa comunione a sua volta esprime nell’oggi l’unità assicurata dall’unico Cristo, dall’unica fede, dagli stessi sacramenti, trasmessi e ricevuti nell’ininterrotta catena della Tradizione. L’unità diacronica e quella sincronica della fede vivono l’una dell’altra: è quanto l’intuito geniale che fra Nuvolo ha saputo esprimere – più e meglio di tanti teologi di professione! – con la “lingua del paradiso” del suo straordinario simbolismo architettonico. MARIA, GLI ANGELI E I SANTI: IN COMPAGNIA VERSO LA GLORIA FINALE Lo sviluppo in profondità della basilica culmina nel trionfo di Maria, rappresentato in alto al centro dell’abside dietro l’altare maggiore con la statua della Vergine Madre di Dio, venerata sotto il titolo della Sanità, opera - come si è detto - dello scultore Michelangelo Naccherino. In realtà, la convergenza verso la figura di Maria è più che giustificata dalla causa prossima che indusse a edificare la chiesa: il ritrovamento nella catacomba dell’affresco del VI secolo - oggi staccato e conservato nella prima cappella a destra - che rappresenta la Vergine seduta, sulle cui gambe come su trono amoroso siede a sua volta il Bambino. La liberazione della città di Napoli da un pericoloso morbo aveva fatto invocare la Madonna così raffigurata come Santa Maria della Sanità, e cioè della “salute”. Fra Nuvolo lo sa bene e vuole rendere onore alla Madre di Dio: tutto deve in qualche modo convergere verso di Lei e verso la presenza reale del Figlio nel tabernacolo dell’altare maggiore, vero trono dell’eucaristia. Il motivo occasionale si colora tuttavia di un ulteriore significato simbolico: atteso quanto ci ha finora rivelato la “lingua del paradiso”, scritta nell’architettura della basilica, non è improprio pensare che nella figura della Vergine madre posta in tale rilievo si volesse far cogliere l’icona densa e fedele della Chiesa intera, di cui Maria è membro eccellente, tipo, modello e madre. Tradotto in linguaggio esistenziale ciò significa che alla scuola di Maria e con l’aiuto della sua intercessione la Chiesa realizza se stessa come popolo dell’ascolto verginale nella fede, della maternità generosa nella carità e dell’alleanza nuziale fra il tempo e l’eterno, sempre di nuovo tenuta viva nella speranza. Nella Madre di Dio è l’intero cosmo - “teatro” della Sua “gloria” - ed è l’intera umanità a riconoscere la propria vocazione e il proprio destino ultimo. La “biografia” totale della Vergine - dall’immacolata concezione all’assunzione in cielo - è simbolo denso dell’itinerario e della meta cui è chiamato ogni discepolo dell’amore nella sequela di Gesù e nella compagnia della fede ecclesiale. La centralità prospettica della figura di Santa Maria della Sanità - in alto e in fondo - assume così anche il significato di un richiamo escatologico, di una memoria cioè viva e presente del destino ultimo dell’uomo e del mondo nella gloria di Dio, tutto in tutti. Lo spazio delineato dalle forme volute da fra Nuvolo - pervaso della luce del Risorto - si dilata così in un movimento orizzontale-verticale nel pellegrinaggio della storia verso ciò che è oltre la storia: la basilica diviene nella sua totalità il simbolo di una frontiera, di una sorta di soglia fra il tempo e l’eterno, fra il pellegrinaggio della fede e la promessa e sperata bellezza della visione verso cui si tende e ci si eleva. A confermare la validità di questa lettura sta la miriade di angeli - in marmo, in stucco, in legno o dipinti - di cui l’edificio è adorno in ogni sua parte: la coralità angelica - conformemente al senso del nome “angelo”, che vuol dire messaggero, araldo e perciò intermediario fra il divino e l’umano - vuol significare la misteriosa contiguità fra l’eterno e il tempo, stabilita nell’alleanza fra la terra e il cielo celebrata in Cristo. Gli angeli sono l’invisibile presenza dell’amore e della provvidenza divini per ciascuna creatura, la compagnia celeste ai pellegrini del tempo, la figura densa della comunione nel Dio tre volte santo, che travalica i limiti del visibile e dell’immediato per entrare nell’invisibile e nell’eterno. Proprio così l’angelo attesta la profondità del Mistero, più nutriente e vivificante di qualsivoglia evidenza razionale o fenomenica: la basilica di Santa Maria della Sanità, scritta com’è nelle sue forme architettoniche col linguaggio del simbolo, è di per sé una dimora angelica, una casa di Dio che ricorda alle contigue case degli uomini e ai loro cammini, penetrati fin nella sua stessa struttura con la violenta inserzione dei pilastri del ponte della Sanità nel chiostro del convento al tempo di Gioacchino Murat - che l’Eterno è vicino, che si è fatto prossimo agli uomini in Cristo morto e risorto per tutti, e che proprio così c’è sempre ragione di credere, di sperare e di amare, al di là e perfino contro ogni smentita dell’evidenza quotidiana della fatica di vivere. In questo stesso dinamismo di compagnia al cammino della Chiesa e di corale celebrazione della Gloria divina nel tempo e per l’eternità si colloca l’altra schiera di figure che popola la basilica: quella dei santi. Le meravigliose raffigurazioni pittoriche, opera - come s’è detto - della scuola di Caravaggio, ma anche e in misura considerevole dell’infaticabile Luca Giordano e di artisti non inferiori, come Giovanni Balducci, Giovan Bernardino Azzolino detto il Siciliano, Pacecco de Rosa, Agostino Beltrano, offrono uno spaccato insigne del popolo del Paradiso: dalla Vergine, più volte rappresentata, a san Nicola, da san Domenico di Guzman a san Tommaso d’Aquino, da san Ceslao a san Luis Beltrán, da san Pio V a santa Rosa da Lima, da santa Caterina al veneratissimo san Vincenzo Ferrer, angelo dell’annuncio, i santi sono anche loro di casa nella basilica della Sanità. E che la loro compagnia non sia generica, ma precisa e fedele, lo mostrano non solo i volti del popolo comune cui ad esempio san Vincenzo si rivolge nella sua predica secondo la bellissima tela di Giordano, ma anche l’altra deliziosa scena in cui i gloriosi abitatori del Cielo, per l’esattezza san Pio V e compagni, fra nuvole e angeli, non hanno altro di meglio da contemplare fra le creature che il golfo di Napoli, quale Luca Giordano poté rappresentarselo dall’alto guardandolo dalla sommità del Monte Somma o del Vesuvio. La dimora terrena della gloria dell’ottavo giorno è anche la naturale abitazione della comunione dei santi: al popolo raccolto per la divina liturgia le loro immagini ricordano quello che tutto nell’architettura del tempio celebra e canta, che l’Eterno cioè si è fatto vicino agli uomini, che in Cristo la gloria ha voluto una volta per sempre abitare nella storia, affinché la storia stessa possa riposare al suo termine nell’eternità di Dio. La “lingua del paradiso” scritta nella pietra da fra Nuvolo lancia così un messaggio di vita e di speranza a chiunque voglia coglierlo con «intelletto d’amore» e sia pronto a entrare nella compagnia degli angeli e dei santi per costruire una città terrena il meno dissimile possibile da quella celeste di giustizia e di pace, promessa e attesa. La basilica della Sanità rivela in tal modo e nella maniera più alta il suo volto di simbolo della Città santa, di quella Gerusalemme che scende dal cielo e verso cui si dirige nel tempo il cammino dei pellegrini di Dio, e ambisce a essere un po’ anch’essa - come il prototipo cui si ispira - l’“ombelico” del mondo, la memoria viva, scritta nella carne recisa, del rapporto originario e destinale di tutto e di tutti con il Signore vivente dell’universo e con la sua gloria. Il Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno rappresenta una delle espressioni più significative delle esperienze storico-culturali succedutesi nel nostro Paese nel corso dei secoli. Si tratta di un patrimonio ricco e variegato, amministrato dall’apposita Direzione Centrale per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto, inserita nel Dipartimento per le Liberta Civili e l’Immigrazione in sede centrale e dalle Prefetture a livello provinciale. Il Fondo Edifici di Culto, che nell’attuale organizzazione ha come legale rappresentante il Ministro dell’Interno, è una realtà del tutto particolare nella Pubblica Amministrazione, sia per la storia e origine del suo patrimonio, proveniente dagli enti religiosi disciolti dalla cosiddetta legislazione eversiva di fine Ottocento, che per i compiti ai quali è preposta. Il Fondo garantisce una gestione attenta, volta alla conservazione, al restauro, alla tutela, alla salvaguardia e alla valorizzazione di oltre settecento edifici sacri aperti al culto e affidati all’Autorità Ecclesiastica mediante appositi atti di concessione in uso gratuito. Tali edifici sacri, di grandissimo pregio storico, artistico e culturale, sono dislocati su tutto il territorio nazionale e custodiscono opere d’arte universalmente conosciute per la loro straordinaria bellezza. Una menzione particolare all’interno del patrimonio storico-artistico del Fondo meritano i siti museali, tra i quali le cosiddette “Case Romane” sottostanti la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo al Celio in Roma, un sontuoso luogo archeologico consistente in una domus romana, unica per la sua ricchezza e per lo stato di conservazione. Nel patrimonio immobiliare del Fondo Edifici di Culto spicca per la sua particolarità la Foresta di Tarvisio, un compendio boschivo dell’estensione di circa ventitremila ettari, in nella provincia di Udine. Il Fondo Edifici di Culto svolge molteplici attività finalizzate a divulgare la conoscenza del suo patrimonio. In particolare promuove prestigiose iniziative culturali, quali mostre, concerti e pubblicazioni d’arte, che vedono protagoniste alcune delle più straordinarie e significative chiese di proprietà del Fondo, come Santa Maria sopra Minerva, Santa Maria del Popolo, Santa Maria della Vittoria e Sant’ Andrea della Valle a Roma; Santa Croce e Santa Maria Novella a Firenze; Santa Chiara con l’annesso monastero, San Domenico Maggiore e Santa Maria della Sanità a Napoli; la Chiesa del Gesù e Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo. Prefetto Lucia Di Maro Direttore Centrale per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto Collana “SCOPRIRE e RISCOPRIRE” a cura di Carlo Avilio foto: Michele Cozzolino Felice De Martino Elisabetta Valentini grafica: VillaggioGlobale Visita “Luci e Suoni” alla Basilica della Sanità con voce narrante del maestro Peppe Barra Luci: Salvatore Sannino Suoni: Quark s.r.l. [email protected] info: www.santamariadellasanita.it tel. +39.081.5441305 ISBN: 978-88-7092-289-9 © 2008 M. D’AURIA EDITORE Palazzo Pignatelli Calata Trinità Maggiore 53-53 80134 Napoli tel. 081.5518963 - fax 081.19577695 www.dauria.it [email protected] www.santamariadellasanita.it