200_25-08-05_INSERTO_1.K (Page 1)
Transcript
200_25-08-05_INSERTO_1.K (Page 1)
ANNO XIII NUMERO 128 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 14 MAGGIO 2008 BARACK ’N ROLL I soliti sospetti Da Jefferson a JFK, l’accusa puntuale di essere al servizio non dell’America ma di potenze esterne in corso una guerra epocale tra l’occidente e le forze oscure dell’antiocciE’ dente, mentre rischia di essere eletto presidente un democratico che non solo ha vissuto a lungo in terra nemica, ma potrebbe essere lui stesso adepto all’ideologia dell’antioccidente. Comunque, si sa già che vorrebbe che gli Stati Uniti uscissero dal grande conflitto in corso, e che taccia di liberticide le leggi di emergenza emanate. Chi salverà l’America? In realtà, l’America si è poi salvata. Lo scenario ricorda quello con cui è oggi alle prese Obama, ma appartiene alla campagna elettorale del 1800. E non della minaccia islamico jihadista, ma di quella giacobinonapoleonica. E non del Patriot Act, ma degli Alien Act e Alien and Sedition Act del 1798, che permettevano al presidente anche in tempo di pace di deportare o imprigionare cittadini stranieri ritenuti pericolosi per la sicurezza del paese. E non di Barack Obama, cresciuto in mezzo ai musulmani e forse allevato nella fede islamica, avversario della Guerra in Iraq; ma di Thomas Jefferson: ambasciatore in Francia negli anni cruciali dal 1784 al 1789; ghost writer di una Dichiarazione dei diritti presentata da Lafayette all’Assemblea Costituente tre giorni prima della Presa della Bastiglia; autore nel 1798 di quelle “Kentucky Resolutions” che oggi sono considerate un documento fondante del moderno federalismo, ma che in origine furono appunto un attacco a Alien Act e Alien and Sedition Act; e avversario dichiarato di un’alleanza con l’Inghilterra contro Napoleone. Oltretutto Obama è un esponente di quel Partito democratico di cui fu Jefferson il fondatore. Inoltre Obama è figlio di un nero e di una bianca; e Jefferson fu padre di sei figli fatti con la schiava nera Sally Hemings. C’è la differenza che allora gli Stati Uniti non erano la maggior superpotenza mondiale. Al dunque, quando Jefferson sarà eletto la sua familiarità con la Francia lungi dal creare guai favorirà addirittura gli States, col permettere di comprare l’intero territorio della Louisiana da Napoleone a prezzo di liquidazione. Ma ancora un secolo dopo il suo successore Theodore Roosevelt rimprovererà a Jefferson la sua francofilia, accusandolo di non essere “un vero americano”: il che non ha impedito ai due di finire scolpiti assieme, sul Monte Rushmore. Passano 128 anni, e candidato democratico è il governatore di New York Al Smith: un nonno irlandese, uno tedesco, uno italiano, uno inglese; e soprattutto cattolico. Il primo “papista” a correre per la Casa Bianca. Per controbattere i timori della maggioranza Wasp che possa “obbedire al Papa prima che alla Costituzione” non troverà di meglio che impostare la sua campagna sulla revoca al proibizionismo degli alcoolici, riconfermando così i pregiudizi popolari sulla scarsa sobrietà di cattolici in generale e irlandesi in particolare. In più, il periodo di vacche grasse favorisce il Partito repubblicano del presidente uscente Calvin Coolidge. Insomma, Smith sarà battuto da “tre P: Proibizionismo, Pregiudizio e Prosperità”. Il vincitore Herbert Hoover peraltro incapperà nella Grande depressione del 1929, aprendo la strada all’elezione di Franklin Delano Roosevelt: proprio il successore di Smith come governatore di New York. Altri 32 anni, e di nuovo un cattolico si candida alla Casa Bianca: John Fitzgerald Kennedy. Subito vince le primarie in Wisconsin, subito fanno notare che ce l’ha fatta grazie al voto cattolico. Comincerà poi a inanellare uno stato protestante dopo l’altro: ma ricorrendo massicciamente alla ricchezza di famiglia, avendo la fortuna di ritrovarsi di fronte un liberal notoriamente squattrinato come Hubert Humphrey. Ma per svoltare definitivamente gli ci vorrà nel settembre del 1960 un famoso discorso a Houston a un meeting di pastori protestanti, dove spiegherà che giurando sulla Bibbia di restare fedele alla Costituzione se poi violerà quel giuramento non rispettando la separazione tra stato e Chiesa o favorendo i suoi correligionari “farà peccato” anche come cattolico. Ma gli ci vorrà comunque il congregazionista texano Lyndon Johnson alla vicepresidenza, più un intervento in favore dell’arrestato leader nero e pastore battista Martin Luther King, per acquisire quel po’ di voti protestanti necessari a strappare la vittoria più di misura di tutta la storia americana: appena 112.827 voti. IL FOGLIO ORGANO DELLA quotidiano CONVENZIONE PER LA GIUSTIZIA Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara Vicedirettore Esecutivo: Ubaldo Casotto Vicedirettore: Daniele Bellasio Redazione: Annalena Benini, Maurizio Crippa, Francesco Cundari, Stefano Di Michele, Marco Ferrante, Alessandro Giuli, Giulio Meotti, Paola Peduzzi, Marianna Rizzini, Christian Rocca, Nicoletta Tiliacos, Vincino. Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato) Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa Largo Corsia dei Servi 3 - 20122 Milano Tel. 02.771295.1 - Fax 02.781378 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 Presidente: Giuseppe Spinelli Consigliere Delegato: Denis Verdini Consigliere: Luca Colasanto Direttore Generale: Michele Buracchio Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c 00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499 Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995 Telestampa Centro Italia srl - Loc. Colle Marcangeli - Oricola (Aq) STEM Editoriale spa - Via Brescia, 22 - Cernusco sul Naviglio (Mi) S.T.S. spa V Strada 35 - Piano D’Arci (Ct) Centro Stampa L’Unione Sarda - Via Omodeo - Elmas (Ca) Distribuzione: Società Europea di Edizioni Spa Via G. Negri 4, 20123 Milano Tel. 02/85661 Pubblicità: P.R.S. Stampa Srl Via B. Quaranta 29 Milano, Tel 02.5737171 Pubblicità legale: Il Sole 24 Ore Spa System Via Monterosa 91 - 20149 Milano, Tel. 02.30223594 e-mail: [email protected] Abbonamenti e Arretrati: STAFF srl 02.45702415 Una Copia Euro 1,00 Arretrati Euro 2,00 + Sped. Post. ISSN 1128 - 6164 www.ilfoglio.it e-mail: [email protected] Giallo sul presidente apostata.“Da piccolo Obama andava in moschea” Il rinnegato NATO MUSULMANO, DICE DI ESSERE “SEMPRE STATO CRISTIANO”. FINORA I RUMORS NON HANNO LA MEGLIO SULLE SUE PRESE DI POSIZIONE Perché i servizi segreti americani hanno scelto un particolare nickname per il senatore nero Roma. “Presidente apostata”, “primo presidente islamico d’America”, “rinnegato dell’islam”, “musulmano travestito da cristiano”, “favorito di Hamas”, “candidato della Manciuria” e così via. Il giallone di Barack Obama cripto musulmano si alimenta ogni giorno di rumors e di testimonianze. I grandi quotidiani hanno inviati in Indonesia per scoprirne le frequentazioni coraniche, Usa Today ha spedito un corrispondente a Kogelo, in Kenya, a parlare con la nonna Sarah. Ieri sul New York Times Edward Luttwak ha scritto del problema “apostasia” di Obama: se ha praticato l’islam ed è nato da padre musulmano, Obama è considerato apostata dagli islamisti. “Non fa differenza che suo padre abbia rinnegato l’islam”, scrive Luttwak. “La conversione di Obama agli occhi dei musulmani è un crimine”. L’accusa principale rivolta a Obama non è di aver praticato l’islam, l’America nutre e coltiva deferenza verso ogni fede (Bush elogia sempre la ‘nobile religione dell’islam’). E’ piuttosto il tentativo di occultare il proprio passato musulmano a ritorcersi contro il candidato democratico. All’inizio della campagna per le primarie, il capo addetto stampa di Obama, Robert Gibbs, disse che “il senatore non è mai stato musulmano”. Il problema era nato dal fatto che sul documento di identità di quando era ragazzo risultava invece che la sua religione fosse quella islamica. La madre di Obama divorziò dal padre e sposò un indonesiano, Lolo Soetoro, e la famiglia si trasferì in Indonesia dal 1967 al 1971. Obama frequentò la scuola cattolica San Francesco di Assisi e in base alla documentazione presentata fu iscritto come musulmano, la religione del patrigno. La documentazione richiedeva che al momento dell’iscrizione ogni allievo scegliesse una delle cinque religioni di stato: musulmana, indù, buddista, cattolica o protestante. Obama scelse la prima. O gli fu fatta scegliere dalla nuova famiglia. “Da piccoli leggevamo il Corano”, ha detto al New York Times la sorellastra, Maya Soetoro-Ng, che ha aiutato il fratello in campagna elettorale e che sul paraurti dell’auto ha un adesivo su cui è scritto “20/1/09, fine di un errore” (è la data di insediamento del prossimo presidente). Il senatore Bob Kerrey ha elogiato il “legame” di Obama con l’islam. I sostenitori di Obama dicono che il dossier islam è un complotto conservatore per screditarlo. Una ricerca del Pew Center, il più prestigioso istituto di ricerca religioso, ha dimostrato che il 45 per cento degli americani non voterebbe mai un candidato musulmano, paragonato al 25 contro il mormone Mitt Romney. Due mesi dopo la sparata del suo addetto stampa, un giornalista del Los Angeles Times scoprì che Obama aveva mentito e riportò che dal sito web di Obama era scomparsa quella dichiarazione assoluta sostituita con una più sfumata: “Obama non è mai stato un musulmano praticante”. Il Los Angeles Times ha pubblicato una lunga inchiesta sul suo passato di fedele islamico. “Sono sempre stato cristiano”, ripete sempre Obama. Ma come spiega Daniel Pipes, “i musulmani non reputano che la pro- fessione della fede islamica sia di capitale importanza. Per essi, chi è nato da padre musulmano è un musulmano di nascita”. Inoltre, tutti i bambini che portano un nome arabo basato sulla radice trilaterale “H, S, N” possono essere considerati musulmani. Pertanto, a loro dire, basta considerare il nome completo di Obama: Barack Hussein Obama per asserire che egli è musulmano di nascita. Obama senior era un musulmano che chiamò suo figlio Barack Hussein Obama junior. Soltanto ai bambini musulmani viene dato il nome “Hussein”. Anche sua nonna Sarah si definisce una “fervente fedele islamica”. Zulfin Adi, un amico indonesiano, dice che Obama “era musulmano. Egli si recava in moschea. Ricordo che indossava un sarong”, un indumento portato dai musulmani. Gli abiti islamici Obama li ha nuovamente indossati nel 2006 (fu immortalato in una celebre fotografia). Il verdetto di Pipes è chiaro: “Obama era musulmano di nascita, di padre non praticante e che per alcuni anni ricevette un’educazione sufficientemente musulmana, sotto gli auspici del patrigno indonesiano”. La storia potrebbe avere anche un risvolto positivo. Secondo Pipes, “se Obama venisse accusato apertamente di apostasia, ciò solleverebbe eccezionalmente la questione del diritto di un musulmano a cambiare religione, facendo sì che un argomento da sempre marginale diventi primario e centrale, magari a beneficio di quei musulmani che tentano di dichiararsi atei o di convertirsi a un’altra religione”. Scrive sempre l’islamologo americano che “non si dovrebbe scartare l’ipotesi che qualche islamista lo rinnegherebbe per il fatto che sia un murtadd e tenterebbe di giustiziarlo”. Intanto Robert Malley, consigliere di Obama, ha rassegnato le dimissioni dopo che un giornalista del Times gli ha fatto domande sui suoi incontri con Hamas. Proprio il fatto che il senatore dell’Illinois sia il candidato favorito di Hamas è stato al centro delle accuse mosse dal candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain, che ha preso come spunto le parole di apprezzamento espresse dal Ahmed Yousef, consigliere politico di Hamas, nei confronti di Obama. “Obama ci piace e speriamo che vinca”. Infine, pesa sulla storia di Obama, che ha sempre preso le distanze dagli agitatori afroamericani, il sostegno dei leader della negritudine con la loro teologia della liberazione islamica (era un nero il primo muezzin della storia). A cominciare da Louis Farrakhan, il leader della “Nazione dell’islam” e amico di Gheddafi che nel 1998 scrisse una lettera a Saddam Hussein, definendolo “un visionario”. Intanto Obama in un’intervista al mensile The Atlantic spiega che “non vedrete, nel corso del mio mandato, alcun calo di impegno a favore della sicurezza di Israele” e che “finché Hamas sarà un’organizzazione terroristica, non dovremo avervi a che fare”. Prese di posizioni dal peso specifico più grande dei rumors e dei lapsus di Rush Limbaugh, che usa chiamarlo “Barack Osama”. Giulio Meotti “Barack è il candidato clintoniano, Hillary quello post clintoniano” PER PAUL BERMAN, “IL SIMBOLISMO DI UN PRESIDENTE NERO È ENORME” MA OBAMA RISCHIA DI NON CAPIRE IL SUO LATO DEBOLE New York. “Barack Obama è il candidato clintoniano, mentre Hillary è il candidato post clintoniano”, spiega Paul Berman, intellettuale di sinistra, professore di giornalismo alla NYU, autore di “Terrore e Liberalismo” e storico della generazione del Sessantotto. “Per certi versi Obama e i Clinton sono simili – dice Berman – I Clinton hanno frequentato le scuole d’élite, Wellesley, Yale, Georgetown, poi hanno preso la decisione di coppia di entrare in politica, andando nell’Arkansas di Bill. Lì hanno subito capito di avere un grande problema, lo stesso che ha oggi Obama”. Berman è “molto entusiasta di Obama” e considera la sua candidatura un “punto di svolta”, ma solo riguardo “alla realtà delle relazioni razziali americane”. Secondo Berman, “il simbolismo di un presidente nero sarà di importanza enorme e irreversibile”, anzi già adesso il successo obamiano “è estremamente commovente e importante”. Berman invita però a non esagerare il peso della questione razziale: “I veri razzisti stanno in gran parte nell’estrema destra e non voterebbero comunque un democratico. E’ vero che esiste un razzismo più subdolo, ma l’America è un paese che da anni ha Colin Powell e Condi Rice in posizioni di vero potere militare e civile, un paese dove la gente di colore fa parte della squadra di governo. E’ una cosa che la sinistra avrà sempre difficoltà a riconoscere, perché è merito dei repubblicani e dei Bush”. Il fenomeno Obama, secondo Berman, corre il rischio di incappare in un’altra ingenuità, quella di esagerare l’importanza e l’impatto dei giovani e degli studenti: “I democratici ripetono spesso questo errore, lo hanno fatto con Howard Dean, con Gary Hart e nel 1968 con Eugene McCarthy, quando per la prima volta gli studenti si sono mobilitati come una vera forza politica”. Secondo Berman, questa mobilitazione studentesca, per quanto centrale nella campagna di Obama, porta con sé parecchi pericoli, perché “una larga parte del paese non sopporta l’attivismo degli studenti universitari, specie quello di chi si considera moralmente superiore”. Berman non fa previsioni, riconosce che Obama è un politico molto abile, ma crede che Hillary abbia molte più possibilità di battere John McCain (“l’unico dei tre, peraltro, che dice la verità sull’Iraq”). Barack Obama e Hillary Clinton partecipano a un dibattito a Las Vegas (foto Reuters) Uno dei motivi pro Hillary, secondo Berman, è che la senatrice capisce questi problemi e ha già affrontato queste difficoltà. Anche i Clinton sono il prodotto del movimento studentesco, quello del 1968 di McCarthy, ma quando hanno cominciato a far politica si sono accorti che, specie al sud, non si può essere eletti mostrandosi come gli eredi di quell’élite universitaria: “L’intera carriera politica di Bill è centrata su questo punto, così come quella di Hillary, entrambi si sforzano da anni di mostrarsi vicini alla gente, di essere populisti e non membri dell’élite. E’ un processo lungo e lento, e il paradosso è che Hillary è riuscita ad accreditarsi come la candidata della working class soltanto in queste primarie”. Obama, secondo Berman, è nella stessa situazione: “Anche lui proviene dall’élite intellettuale del nord-est, da Harvard e poi dal quartiere liberal e universitario di Chicago, Hyde Park. Ma a differenza di Hillary ha appena cominciato il percorso e malgrado dica di sapere che cosa dovrà affrontare nei prossimi mesi, sospetto che non lo sappia”. Berman sta terminando il suo nuovo libro “The Flight of the Intellectuals”, in uscita ad autunno e centrato sul lungo saggio su Tariq Ramadan già pubblicato da New Republic e dal Foglio l’anno scorso: “Le elezioni si decidono su due cose – dice – chi è il candidato più tosto e chi è il candidato della gente. Obama sarà attaccato come il candidato debole ed elitario”. Berman teme che “Obama non riconoscerà gli attacchi, perché spesso arrivano in modo disonesto, con accuse false e bizzarre, come per esempio quella di essere un estremista di sinistra, un islamico, un terrorista”. Sono diffamazioni, spiega Berman, “ma questi attacchi contengono un messaggio nascosto che Obama sembra non capire: è lui il candidato debole ed elitario”. La vicenda di Jeremiah Wright, secondo Berman, “è stato un errore spettacolare”, non solo per le cose dette dal re- verendo, ma perché Obama non ha avuto la prontezza di rispondere e si è fatto bastonare per tre giorni in tv: “Il modo di dimostrare che sei tosto non è dirlo né ricordare che lo sei stato 40 anni fa in Vientnam, come ha fatto John Kerry e come farà McCain, il modo di mostrarlo è farlo in real time, di fronte al pubblico”. Berman si preoccupa inoltre che Obama possa interpretare gli attacchi che riceverà come razzisti: “Se McCain volesse fare una mossa furba, dovrebbe lanciare attacchi che possano convincere Obama a pensare che siano razzisti. Se Obama rispondesse accusando l’avversario di essere razzista, cadrebbe nella trappola di autodefinirsi elitario, perché il problema dell’élite è come sempre quello di credersi superiore alle masse”. Berman crede inoltre che riguardo al ruolo dell’America nel mondo, Obama non rappresenti “niente di tremendamente nuovo, perché sarà un presidente nella tradizione di Clinton, piena di clintoniani e con la stessa e identica confusione dell’era clintoniana sulla politica estera”. Bill Clinton è stato sia idealista sia realista, incapace di elaborare una dottrina coesa e convincente, spiega Berman, e anche Obama sembra in balia della stessa “confusione intellettuale del Partito democratico”. Obama, ricorda Berman, ha detto di essere un nemico dei genocidi, facendo intendere che non sosterrà una politica estera strettamente realista, ma allo stesso tempo vuole incontrare i nemici, quindi rinunciando alla promozione della democrazia: “Molte delle cose che dice non mi piacciono – continua – ma so anche che si tratta di campagna elettorale. Non so quanto Obama capisca di questi temi, ma da presidente deluderà i suoi sostenitori e non sarà selvaggiamente irresponsabile, visto che è circondato da gente seria e preparata. Sappiamo tutti che Obama sa di non poter mantenere la promessa di far finire la guerra in Iraq e di riportare le truppe a casa. Sappiamo anche che lui sa di non poter incontrare Ahmadinejad. Sotto quest’aspetto sta conducendo una campagna mendace, una campagna alla Nixon, ma al contrario. Nel 1968 Nixon diceva di avere un piano segreto per porre fine alla guerra in Vietnam, ora Obama ha un piano segreto per continuare la guerra in Iraq”. Christian Rocca Perché il discorso di Obama sulla razza non basta ancora all’America on basta. La polarizzazione del voto democratico alle primarie torna a N porre la questione dell’identità razziale di Obama come discriminante in vista delle presidenziali. Se il discorso di marzo a Philadelphia è riuscito a contenere gli effetti dello scandalo sugli apparenti estremismi antiamericani del suo ex pastore Jeremiah Wright, se la decenza della sua posizione, non di rigetto ma di distinguo, gli ha salvato la campagna, se la sua successiva condanna incondizionata di Wright allorché il reverendo è tornato a parlare e a fungere da pazzo joker è apparsa inevitabile e tempestiva, se l’abilità di Obama, oltre alla potenza dei suoi atteggiamenti, hanno fatto uscire indenne il senatore dell’Illinois dalla partita in cui i clintoniani hanno puntato sulla razza nel districarsi delle primarie, ebbene tutto ciò in vista delle presidenziali potrebbe non bastare, pallido palliativo di quello che tornerà presto a essere uno dei maggiori ostacoli tra Obama e la Casa Bianca. Da un lato ci sono i sondaggi, che spiegano che nei grandi stati come Ohio e Pennsylvania potrebbe salire al 15 per cento dell’elettorato democratico la percentuale di coloro che, con Obama nominato, non lo voteranno per motivi razziali, resteranno a casa o sceglieranno McCain, con effetti facilmente immaginabili. Dall’altro lato c’è un discorso meno suffragato da cifre, ma così connesso al quadro sociale Usa da esserne un fattore organico, indissolubile dalla realtà della convivenza e della pace armata tra le comunità: l’unica componente razziale aliena da qualsiasi animosità sono i laureati. Altrove il pregiudizio è attivo, in reticolato multi-trasversale. Per gli americani è difficile, difficilissimo, imbarazzante e in certi casi inopportuno parlare di razza, ancor più che di religione. Di fronte alle differenze – allorché si paventano scelte, alternative, bivi di vario genere – aleggiano memorie, ascendenze, sospetti. La razza in America non è un problema risolto, è un problema accantonato, sebbene in esso siano stati prodotti apprezzabili progressi. La razza in America è una questione placata, un’ascia di guerra sepolta, ma è soprattutto un tabù socioculturale che rende vaghi e sfuggenti perfino i più loquaci politici. Ripeschiamo l’episodio Geraldine Ferraro: “Se Obama non fosse stato nero, non sarebbe arrivato dov’è arrivato”, disse la Ferraro condannando a morte la sua partecipazione alla campagna, processata per bestemmia del PC (politicamente corretto) e immediatamente ripudiata da Hillary. Una storia ridicola: le parole della Ferraro, per quanto ingenerose verso i talenti di Obama, rispecchiano il modo di pensare di tanta America. La sua considerazione può essere dibattuta e combattuta, ma non è assurda. E’ connessa al dibattito. Peccato che sia il dibattito a non esserci. Assente giustificato. La Ferraro è stata messa alla berlina, non per aprire la questione, bensì per archiviarla prima possibile. Perciò non basta ciò che sull’argomento “razza” Obama ha già detto. Non può bastare quel primo chiarimento, solenne e sistematico. Obama deve tornare ripetutamente, ossessivamente sull’argomento, fino a incarnarne l’antidoto vivente, per quanto temporaneo. Deve disinnescare la mina del silenzio. Deve porre la questione. Deve ribadire la propria identità, il suo punto di vista sulla storia razziale del paese, sui suoi errori, sulle vergogne, sulle posizioni che assumerà da presidente al riguardo. Deve dire se pensa che i neri “facciano abbastanza”, deve spiegare se ritie- ne giusto che continuino ad usufruire di corsie preferenziali. Deve parlare di diritti costituzionali e temperie del contemporaneo. Deve guardare dritto negli occhi le Americhe che lo scrutano e lo soppesano e usare tutte le sue tecniche di comunicazione: pause drammaturgiche, alti e bassi, frasi scandite. Deve utilizzare con moderazione il suo leggendario crescendo oratorio, che fa tanto – troppo – chiesa nera. E se i conti non tornano, deve fare l’ultima cosa di cui ha voglia: pagare il conto a Hillary e invitarla a occupare l’ufficio del vice. Potrebbe essere abbastanza per rassicurare quella base operaia bianca che, dopo averne mormorato in famiglia e al bar, sembra aver deciso di declinare l’invito di Obama a stare dalla sua parte. La Clinton la porterebbe in dote, e nessuno come lei. Attenzione: può non trattarsi di un’opzione, ma di una scelta obbligata. Perché Obama ha dimostrato che nell’America d’oggi un nero può arrivare a un sospiro dalla presidenza. Ma che nella scelta fatale ancora aleggia un fattore inconscio di cui, o si tiene freddamente conto, o lo si sfida sul bordo del baratro in cui precipiterebbe questa grande storia. Stefano Pistolini uando in tv hanno chiesto al candidato repubblicano John McCain se avesse Q in mente un nome in codice da farsi assegnare dai servizi segreti, lui ha risposto: “Jerk”. Coglione. Scherzava, ma non troppo. I nomi che la scorta dell’intelligence usa per i politici che frequentano la Casa Bianca sono sempre calcetti dispettosi assestati negli stinchi più potenti di Washington. Dick Cheney è “Backseat”, abbreviazione dell’espressione anglossassone “backseat driver”, di solito un emerito rompiscatole che siede dietro ma pretende di dare continue indicazioni a chi siede davanti e guida. Il presidente Jimmy Carter, che alla domenica faceva catechismo ai bambini, era “Deacon”, diacono. La sala d’emergenza della Casa Bianca, un bunker senza finestre, è “The Cement Mixer”, la betoniera. Hillary Clinton, in quanto ex Flotus (First lady of the United States) e ora candidata al posto di Potus (certo, President of the United States), s’è guadagnata il nome di “Evergreen”. Sempreverde. Il presidente George W. Bush è “Tumbler”, il bicchierone piatto da acqua – che però ai party ci si riempie con il whiskey. Jeb Bush, Jenna Bush e Laura Bush sono “Tripper”, “Twinkle” e “Tempo”. Non fanno ridere, ma cominciano tutti con la T, e questo non guasta in ambiente militare e/o secret service. Infatti Bill Clinton è “Eagle”, aquila – sì, come il presidente Jed Bartlet della serie West Wing – oppure “Elvis”, e la figlia Chelsea è “Energy”. Tutti con la E di Hillary la Evergreen. Ronald Reagan e la moglie Nancy erano “Rawhide”, dalla omonima serie televisiva d’ambientazione western e “Rainbow”, arcobaleno (ovviamente con la R). In effetti i nomignoli non sono scelti dai servizi segreti, ma dall’agenzia di comunicazione della Casa Bianca, che li estrae da un lungo elenco di parole con due requisiti: abbastanza chiare da essere conosciute e facilmente riconoscibili da tutti, anche gracchiate dentro un auricolare durante un attentato, e abbastanza desuete da non essere usate per caso durante i dialoghi. A Barack Obama non è andata benissimo: “Renegade”, il rinnegato, che per uno indeciso se esibire la spilletta con la bandiera americana sul bavero è un affondo duro. La moglie Michelle è più fortunata: “Renaissance”, rinascimento. Renegade, nel codice militare della Nato, è il termine con cui si indicano gli aerei sospettati di essere stati dirottati da terroristi. Il candidato McCain è ancora sprovvisto o, meglio, il suo non è ancora uscito (è probabile che anche gli altri nomi in codice non siano più gli stessi, se oggi sono sulla pagina di un giornale) ma su Internet si fa a gara di proposte: “Maverick”, termine ambivalente per indicare l’outsider all’ennesima potenza. “Dinosaur”, dinosauro, per l’età. C’è chi suggerisce “Grandaddy”, nonnino. Emmotticon L’ex direttore dell’Economist tifa Obama e nel suo nuovo libro spiega il segreto dell’Asia (segue dalla prima) Di questo l’America si è accorta da tempo, tant’è che il suo sguardo è sempre più puntato in quella direzione. Da una parte con speranza, dal momento che in Asia si trovano i mercati del futuro, e la considerazione non riguarda unicamente la Cina e l’India. Dall’altra non possono nascondere paura: sempre lì, un giorno potrebbero scoppiare sanguinosi conflitti. “Il tasso di inflazione in Cina è all’8,5 per cento. Ci viene detto che sono i postumi di un’epidemia suina e delle tempeste di neve che ha paralizzato a inizio anno il paese. La verità è che la Cina comincia ad avere carenza di forza lavoro, la politica di un figlio per famiglia mostra i suoi effetti negativi; i salari stanno crescendo, la moneta ha appena avuto una rivalutazione del diciotto per cento rispetto al dollaro e c’è il problema dell’inquinamento. Perché produrre a costi bassi significa avere un impatto consistente sull’ambiente. Per questo si assiste già a una lenta delocalizzazione verso l’India di alcune industrie. In Cina accade oggi quello che accadeva in Giappone negli anni Settanta. Poi c’è la politica. Da una parte assistiamo a una sorta di appeasement con tanti sorrisi, dall’altra il Giappone mette in orbita un impianto satellitare, mentre la Cina aumenta del sessanta per cento le spese militari”. I traumi del passato – uno su tutti, il massacro di Nanchino – non sono superati. E ci sono poi le incognite sul futuro. “Che ne sarà della Corea del Nord, del Pakistan e del Tibet il giorno in cui moriranno i rispettivi dittatori o leader spirituali? Gli Stati Uniti fanno bene a mantenere le loro basi militari in Asia e a continuare la loro opera di vigile peacekeeping nella regione. Non condivido invece il suggerimento di Robert Kagan di aumentare il controllo o quello di Paul Wolfowitz di incrementare le spese militari. Anche se è vero che proprio in questa parte di mondo si trovano anche tre potenze nucleari ufficiali: India, Pakistan e Corea del Nord. Con buona pace dell’Europa che crede ancora di essere l’ombelico del mondo”.