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ANNO XIII NUMERO 128 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 14 MAGGIO 2008
BARACK ’N ROLL
I soliti sospetti
Da Jefferson a JFK, l’accusa
puntuale di essere al servizio non
dell’America ma di potenze esterne
in corso una guerra epocale tra l’occidente e le forze oscure dell’antiocciE’
dente, mentre rischia di essere eletto presidente un democratico che non solo ha vissuto a lungo in terra nemica, ma potrebbe essere lui stesso adepto all’ideologia dell’antioccidente. Comunque, si sa già che vorrebbe che gli Stati Uniti uscissero dal grande
conflitto in corso, e che taccia di liberticide
le leggi di emergenza emanate. Chi salverà
l’America?
In realtà, l’America si è poi salvata. Lo
scenario ricorda quello con cui è oggi alle
prese Obama, ma appartiene alla campagna
elettorale del 1800. E non della minaccia
islamico jihadista, ma di quella giacobinonapoleonica. E non del Patriot Act, ma degli Alien Act e Alien and Sedition Act del
1798, che permettevano al presidente anche
in tempo di pace di deportare o imprigionare cittadini stranieri ritenuti pericolosi per
la sicurezza del paese. E non di Barack Obama, cresciuto in mezzo ai musulmani e forse allevato nella fede islamica, avversario
della Guerra in Iraq; ma di Thomas Jefferson: ambasciatore in Francia negli anni cruciali dal 1784 al 1789; ghost writer di una Dichiarazione dei diritti presentata da Lafayette all’Assemblea Costituente tre giorni
prima della Presa della Bastiglia; autore
nel 1798 di quelle “Kentucky Resolutions”
che oggi sono considerate un documento
fondante del moderno federalismo, ma che
in origine furono appunto un attacco a
Alien Act e Alien and Sedition Act; e avversario dichiarato di un’alleanza con l’Inghilterra contro Napoleone. Oltretutto Obama è
un esponente di quel Partito democratico di
cui fu Jefferson il fondatore. Inoltre Obama
è figlio di un nero e di una bianca; e Jefferson fu padre di sei figli fatti con la schiava
nera Sally Hemings. C’è la differenza che allora gli Stati Uniti non erano la maggior superpotenza mondiale.
Al dunque, quando Jefferson sarà eletto
la sua familiarità con la Francia lungi dal
creare guai favorirà addirittura gli States,
col permettere di comprare l’intero territorio della Louisiana da Napoleone a prezzo
di liquidazione. Ma ancora un secolo dopo
il suo successore Theodore Roosevelt rimprovererà a Jefferson la sua francofilia, accusandolo di non essere “un vero americano”: il che non ha impedito ai due di finire
scolpiti assieme, sul Monte Rushmore.
Passano 128 anni, e candidato democratico è il governatore di New York Al Smith:
un nonno irlandese, uno tedesco, uno italiano, uno inglese; e soprattutto cattolico. Il
primo “papista” a correre per la Casa Bianca. Per controbattere i timori della maggioranza Wasp che possa “obbedire al Papa
prima che alla Costituzione” non troverà di
meglio che impostare la sua campagna sulla revoca al proibizionismo degli alcoolici,
riconfermando così i pregiudizi popolari
sulla scarsa sobrietà di cattolici in generale
e irlandesi in particolare. In più, il periodo
di vacche grasse favorisce il Partito repubblicano del presidente uscente Calvin Coolidge. Insomma, Smith sarà battuto da “tre
P: Proibizionismo, Pregiudizio e Prosperità”. Il vincitore Herbert Hoover peraltro
incapperà nella Grande depressione del
1929, aprendo la strada all’elezione di
Franklin Delano Roosevelt: proprio il successore di Smith come governatore di New
York. Altri 32 anni, e di nuovo un cattolico si
candida alla Casa Bianca: John Fitzgerald
Kennedy. Subito vince le primarie in Wisconsin, subito fanno notare che ce l’ha fatta grazie al voto cattolico. Comincerà poi a
inanellare uno stato protestante dopo l’altro: ma ricorrendo massicciamente alla ricchezza di famiglia, avendo la fortuna di ritrovarsi di fronte un liberal notoriamente
squattrinato come Hubert Humphrey. Ma
per svoltare definitivamente gli ci vorrà nel
settembre del 1960 un famoso discorso a
Houston a un meeting di pastori protestanti, dove spiegherà che giurando sulla Bibbia
di restare fedele alla Costituzione se poi
violerà quel giuramento non rispettando la
separazione tra stato e Chiesa o favorendo i
suoi correligionari “farà peccato” anche come cattolico. Ma gli ci vorrà comunque il
congregazionista texano Lyndon Johnson alla vicepresidenza, più un intervento in favore dell’arrestato leader nero e pastore battista Martin Luther King, per acquisire quel
po’ di voti protestanti necessari a strappare
la vittoria più di misura di tutta la storia
americana: appena 112.827 voti.
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Giallo sul presidente apostata.“Da piccolo Obama andava in moschea”
Il rinnegato
NATO MUSULMANO, DICE DI ESSERE “SEMPRE STATO CRISTIANO”. FINORA I RUMORS NON HANNO LA MEGLIO SULLE SUE PRESE DI POSIZIONE
Perché i servizi segreti americani
hanno scelto un particolare
nickname per il senatore nero
Roma. “Presidente apostata”, “primo presidente islamico d’America”, “rinnegato dell’islam”, “musulmano travestito da cristiano”, “favorito di Hamas”, “candidato della
Manciuria” e così via. Il giallone di Barack
Obama cripto musulmano si alimenta ogni
giorno di rumors e di testimonianze. I grandi quotidiani hanno inviati in Indonesia per
scoprirne le frequentazioni coraniche, Usa
Today ha spedito un corrispondente a Kogelo, in Kenya, a parlare con la nonna Sarah.
Ieri sul New York Times Edward Luttwak ha
scritto del problema “apostasia” di Obama:
se ha praticato l’islam ed è nato da padre
musulmano, Obama è considerato apostata
dagli islamisti. “Non fa differenza che suo
padre abbia rinnegato l’islam”, scrive
Luttwak. “La conversione di Obama agli occhi dei musulmani è un crimine”. L’accusa
principale rivolta a Obama non è di aver
praticato l’islam, l’America nutre e coltiva
deferenza verso ogni fede (Bush elogia sempre la ‘nobile religione dell’islam’). E’ piuttosto il tentativo di occultare il proprio passato musulmano a ritorcersi contro il candidato democratico. All’inizio della campagna
per le primarie, il capo addetto stampa di
Obama, Robert Gibbs, disse che “il senatore
non è mai stato musulmano”.
Il problema era nato dal fatto che sul documento di identità di quando era ragazzo
risultava invece che la sua religione fosse
quella islamica. La madre di Obama divorziò dal padre e sposò un indonesiano, Lolo
Soetoro, e la famiglia si trasferì in Indonesia
dal 1967 al 1971. Obama frequentò la scuola
cattolica San Francesco di Assisi e in base
alla documentazione presentata fu iscritto
come musulmano, la religione del patrigno.
La documentazione richiedeva che al momento dell’iscrizione ogni allievo scegliesse
una delle cinque religioni di stato: musulmana, indù, buddista, cattolica o protestante. Obama scelse la prima. O gli fu fatta scegliere dalla nuova famiglia. “Da piccoli leggevamo il Corano”, ha detto al New York Times la sorellastra, Maya Soetoro-Ng, che ha
aiutato il fratello in campagna elettorale e
che sul paraurti dell’auto ha un adesivo su
cui è scritto “20/1/09, fine di un errore” (è la
data di insediamento del prossimo presidente). Il senatore Bob Kerrey ha elogiato il “legame” di Obama con l’islam.
I sostenitori di Obama dicono che il dossier islam è un complotto conservatore per
screditarlo. Una ricerca del Pew Center, il
più prestigioso istituto di ricerca religioso,
ha dimostrato che il 45 per cento degli americani non voterebbe mai un candidato musulmano, paragonato al 25 contro il mormone Mitt Romney. Due mesi dopo la sparata
del suo addetto stampa, un giornalista del
Los Angeles Times scoprì che Obama aveva
mentito e riportò che dal sito web di Obama
era scomparsa quella dichiarazione assoluta sostituita con una più sfumata: “Obama
non è mai stato un musulmano praticante”.
Il Los Angeles Times ha pubblicato una lunga inchiesta sul suo passato di fedele islamico. “Sono sempre stato cristiano”, ripete
sempre Obama. Ma come spiega Daniel Pipes, “i musulmani non reputano che la pro-
fessione della fede islamica sia di capitale
importanza. Per essi, chi è nato da padre
musulmano è un musulmano di nascita”.
Inoltre, tutti i bambini che portano un nome
arabo basato sulla radice trilaterale “H, S,
N” possono essere considerati musulmani.
Pertanto, a loro dire, basta considerare il nome completo di Obama: Barack Hussein
Obama per asserire che egli è musulmano di
nascita. Obama senior era un musulmano
che chiamò suo figlio Barack Hussein Obama junior. Soltanto ai bambini musulmani
viene dato il nome “Hussein”. Anche sua
nonna Sarah si definisce una “fervente fedele islamica”.
Zulfin Adi, un amico indonesiano, dice
che Obama “era musulmano. Egli si recava
in moschea. Ricordo che indossava un sarong”, un indumento portato dai musulmani. Gli abiti islamici Obama li ha nuovamente indossati nel 2006 (fu immortalato in una
celebre fotografia). Il verdetto di Pipes è
chiaro: “Obama era musulmano di nascita,
di padre non praticante e che per alcuni anni ricevette un’educazione sufficientemente
musulmana, sotto gli auspici del patrigno indonesiano”. La storia potrebbe avere anche
un risvolto positivo. Secondo Pipes, “se Obama venisse accusato apertamente di apostasia, ciò solleverebbe eccezionalmente la
questione del diritto di un musulmano a
cambiare religione, facendo sì che un argomento da sempre marginale diventi primario e centrale, magari a beneficio di quei
musulmani che tentano di dichiararsi atei o
di convertirsi a un’altra religione”. Scrive
sempre l’islamologo americano che “non si
dovrebbe scartare l’ipotesi che qualche islamista lo rinnegherebbe per il fatto che sia
un murtadd e tenterebbe di giustiziarlo”.
Intanto Robert Malley, consigliere di Obama, ha rassegnato le dimissioni dopo che un
giornalista del Times gli ha fatto domande
sui suoi incontri con Hamas. Proprio il fatto
che il senatore dell’Illinois sia il candidato
favorito di Hamas è stato al centro delle accuse mosse dal candidato repubblicano alla
Casa Bianca John McCain, che ha preso come spunto le parole di apprezzamento
espresse dal Ahmed Yousef, consigliere politico di Hamas, nei confronti di Obama.
“Obama ci piace e speriamo che vinca”.
Infine, pesa sulla storia di Obama, che ha
sempre preso le distanze dagli agitatori
afroamericani, il sostegno dei leader della
negritudine con la loro teologia della liberazione islamica (era un nero il primo
muezzin della storia). A cominciare da
Louis Farrakhan, il leader della “Nazione
dell’islam” e amico di Gheddafi che nel
1998 scrisse una lettera a Saddam Hussein,
definendolo “un visionario”. Intanto Obama
in un’intervista al mensile The Atlantic
spiega che “non vedrete, nel corso del mio
mandato, alcun calo di impegno a favore
della sicurezza di Israele” e che “finché Hamas sarà un’organizzazione terroristica, non
dovremo avervi a che fare”. Prese di posizioni dal peso specifico più grande dei rumors e dei lapsus di Rush Limbaugh, che
usa chiamarlo “Barack Osama”.
Giulio Meotti
“Barack è il candidato clintoniano, Hillary quello post clintoniano”
PER PAUL BERMAN, “IL SIMBOLISMO DI UN PRESIDENTE NERO È ENORME” MA OBAMA RISCHIA DI NON CAPIRE IL SUO LATO DEBOLE
New York. “Barack Obama è il candidato clintoniano, mentre Hillary è il candidato post clintoniano”, spiega Paul Berman,
intellettuale di sinistra, professore di giornalismo alla NYU, autore di “Terrore e Liberalismo” e storico della generazione del
Sessantotto. “Per certi versi Obama e i
Clinton sono simili – dice Berman – I Clinton hanno frequentato le scuole d’élite,
Wellesley, Yale, Georgetown, poi hanno
preso la decisione di coppia di entrare in
politica, andando nell’Arkansas di Bill. Lì
hanno subito capito di avere un grande
problema, lo stesso che ha oggi Obama”.
Berman è “molto entusiasta di Obama” e
considera la sua candidatura un “punto di
svolta”, ma solo riguardo “alla realtà delle relazioni razziali americane”. Secondo
Berman, “il simbolismo di un presidente
nero sarà di importanza enorme e irreversibile”, anzi già adesso il successo obamiano “è estremamente commovente e importante”.
Berman invita però a non esagerare il
peso della questione razziale: “I veri razzisti stanno in gran parte nell’estrema destra e non voterebbero comunque un democratico. E’ vero che esiste un razzismo
più subdolo, ma l’America è un paese che
da anni ha Colin Powell e Condi Rice in
posizioni di vero potere militare e civile,
un paese dove la gente di colore fa parte
della squadra di governo. E’ una cosa che
la sinistra avrà sempre difficoltà a riconoscere, perché è merito dei repubblicani e
dei Bush”.
Il fenomeno Obama, secondo Berman,
corre il rischio di incappare in un’altra ingenuità, quella di esagerare l’importanza
e l’impatto dei giovani e degli studenti: “I
democratici ripetono spesso questo errore, lo hanno fatto con Howard Dean, con
Gary Hart e nel 1968 con Eugene McCarthy, quando per la prima volta gli studenti si sono mobilitati come una vera forza politica”. Secondo Berman, questa mobilitazione studentesca, per quanto centrale nella campagna di Obama, porta con
sé parecchi pericoli, perché “una larga
parte del paese non sopporta l’attivismo
degli studenti universitari, specie quello
di chi si considera moralmente superiore”. Berman non fa previsioni, riconosce
che Obama è un politico molto abile, ma
crede che Hillary abbia molte più possibilità di battere John McCain (“l’unico dei
tre, peraltro, che dice la verità sull’Iraq”).
Barack Obama e Hillary Clinton partecipano a un dibattito a Las Vegas (foto Reuters)
Uno dei motivi pro Hillary, secondo Berman, è che la senatrice capisce questi problemi e ha già affrontato queste difficoltà.
Anche i Clinton sono il prodotto del movimento studentesco, quello del 1968 di McCarthy, ma quando hanno cominciato a far
politica si sono accorti che, specie al sud,
non si può essere eletti mostrandosi come
gli eredi di quell’élite universitaria: “L’intera carriera politica di Bill è centrata su
questo punto, così come quella di Hillary,
entrambi si sforzano da anni di mostrarsi
vicini alla gente, di essere populisti e non
membri dell’élite. E’ un processo lungo e
lento, e il paradosso è che Hillary è riuscita ad accreditarsi come la candidata della
working class soltanto in queste primarie”.
Obama, secondo Berman, è nella stessa
situazione: “Anche lui proviene dall’élite
intellettuale del nord-est, da Harvard e
poi dal quartiere liberal e universitario di
Chicago, Hyde Park. Ma a differenza di
Hillary ha appena cominciato il percorso
e malgrado dica di sapere che cosa dovrà
affrontare nei prossimi mesi, sospetto che
non lo sappia”.
Berman sta terminando il suo nuovo libro “The Flight of the Intellectuals”, in
uscita ad autunno e centrato sul lungo saggio su Tariq Ramadan già pubblicato da
New Republic e dal Foglio l’anno scorso:
“Le elezioni si decidono su due cose – dice – chi è il candidato più tosto e chi è il
candidato della gente. Obama sarà attaccato come il candidato debole ed elitario”.
Berman teme che “Obama non riconoscerà gli attacchi, perché spesso arrivano
in modo disonesto, con accuse false e bizzarre, come per esempio quella di essere
un estremista di sinistra, un islamico, un
terrorista”. Sono diffamazioni, spiega Berman, “ma questi attacchi contengono un
messaggio nascosto che Obama sembra
non capire: è lui il candidato debole ed
elitario”. La vicenda di Jeremiah Wright,
secondo Berman, “è stato un errore spettacolare”, non solo per le cose dette dal re-
verendo, ma perché Obama non ha avuto
la prontezza di rispondere e si è fatto bastonare per tre giorni in tv: “Il modo di dimostrare che sei tosto non è dirlo né ricordare che lo sei stato 40 anni fa in Vientnam, come ha fatto John Kerry e come farà
McCain, il modo di mostrarlo è farlo in
real time, di fronte al pubblico”.
Berman si preoccupa inoltre che Obama possa interpretare gli attacchi che riceverà come razzisti: “Se McCain volesse
fare una mossa furba, dovrebbe lanciare
attacchi che possano convincere Obama a
pensare che siano razzisti. Se Obama rispondesse accusando l’avversario di essere razzista, cadrebbe nella trappola di autodefinirsi elitario, perché il problema
dell’élite è come sempre quello di credersi superiore alle masse”.
Berman crede inoltre che riguardo al
ruolo dell’America nel mondo, Obama
non rappresenti “niente di tremendamente nuovo, perché sarà un presidente nella
tradizione di Clinton, piena di clintoniani
e con la stessa e identica confusione dell’era clintoniana sulla politica estera”.
Bill Clinton è stato sia idealista sia realista, incapace di elaborare una dottrina
coesa e convincente, spiega Berman, e anche Obama sembra in balia della stessa
“confusione intellettuale del Partito democratico”. Obama, ricorda Berman, ha
detto di essere un nemico dei genocidi, facendo intendere che non sosterrà una politica estera strettamente realista, ma allo stesso tempo vuole incontrare i nemici,
quindi rinunciando alla promozione della democrazia: “Molte delle cose che dice
non mi piacciono – continua – ma so anche che si tratta di campagna elettorale.
Non so quanto Obama capisca di questi
temi, ma da presidente deluderà i suoi sostenitori e non sarà selvaggiamente irresponsabile, visto che è circondato da gente seria e preparata. Sappiamo tutti che
Obama sa di non poter mantenere la promessa di far finire la guerra in Iraq e di
riportare le truppe a casa. Sappiamo anche che lui sa di non poter incontrare Ahmadinejad. Sotto quest’aspetto sta conducendo una campagna mendace, una campagna alla Nixon, ma al contrario. Nel
1968 Nixon diceva di avere un piano segreto per porre fine alla guerra in Vietnam, ora Obama ha un piano segreto per
continuare la guerra in Iraq”.
Christian Rocca
Perché il discorso di Obama sulla razza non basta ancora all’America
on basta. La polarizzazione del voto
democratico alle primarie torna a
N
porre la questione dell’identità razziale di
Obama come discriminante in vista delle
presidenziali. Se il discorso di marzo a
Philadelphia è riuscito a contenere gli effetti dello scandalo sugli apparenti estremismi antiamericani del suo ex pastore
Jeremiah Wright, se la decenza della sua
posizione, non di rigetto ma di distinguo,
gli ha salvato la campagna, se la sua successiva condanna incondizionata di Wright allorché il reverendo è tornato a parlare e a fungere da pazzo joker è apparsa
inevitabile e tempestiva, se l’abilità di
Obama, oltre alla potenza dei suoi atteggiamenti, hanno fatto uscire indenne il senatore dell’Illinois dalla partita in cui i
clintoniani hanno puntato sulla razza nel
districarsi delle primarie, ebbene tutto
ciò in vista delle presidenziali potrebbe
non bastare, pallido palliativo di quello
che tornerà presto a essere uno dei maggiori ostacoli tra Obama e la Casa Bianca.
Da un lato ci sono i sondaggi, che spiegano che nei grandi stati come Ohio e Pennsylvania potrebbe salire al 15 per cento
dell’elettorato democratico la percentuale di coloro che, con Obama nominato,
non lo voteranno per motivi razziali, resteranno a casa o sceglieranno McCain, con
effetti facilmente immaginabili. Dall’altro
lato c’è un discorso meno suffragato da cifre, ma così connesso al quadro sociale
Usa da esserne un fattore organico, indissolubile dalla realtà della convivenza e
della pace armata tra le comunità: l’unica
componente razziale aliena da qualsiasi
animosità sono i laureati. Altrove il pregiudizio è attivo, in reticolato multi-trasversale.
Per gli americani è difficile, difficilissimo, imbarazzante e in certi casi inopportuno parlare di razza, ancor più che di religione. Di fronte alle differenze – allorché si paventano scelte, alternative, bivi
di vario genere – aleggiano memorie,
ascendenze, sospetti. La razza in America
non è un problema risolto, è un problema
accantonato, sebbene in esso siano stati
prodotti apprezzabili progressi. La razza
in America è una questione placata, un’ascia di guerra sepolta, ma è soprattutto un
tabù socioculturale che rende vaghi e
sfuggenti perfino i più loquaci politici. Ripeschiamo l’episodio Geraldine Ferraro:
“Se Obama non fosse stato nero, non sarebbe arrivato dov’è arrivato”, disse la
Ferraro condannando a morte la sua partecipazione alla campagna, processata
per bestemmia del PC (politicamente corretto) e immediatamente ripudiata da Hillary. Una storia ridicola: le parole della
Ferraro, per quanto ingenerose verso i talenti di Obama, rispecchiano il modo di
pensare di tanta America. La sua considerazione può essere dibattuta e combattuta, ma non è assurda. E’ connessa al dibattito. Peccato che sia il dibattito a non esserci. Assente giustificato. La Ferraro è
stata messa alla berlina, non per aprire la
questione, bensì per archiviarla prima
possibile.
Perciò non basta ciò che sull’argomento
“razza” Obama ha già detto. Non può bastare quel primo chiarimento, solenne e
sistematico. Obama deve tornare ripetutamente, ossessivamente sull’argomento, fino a incarnarne l’antidoto vivente, per
quanto temporaneo. Deve disinnescare la
mina del silenzio. Deve porre la questione.
Deve ribadire la propria identità, il suo
punto di vista sulla storia razziale del paese, sui suoi errori, sulle vergogne, sulle posizioni che assumerà da presidente al riguardo. Deve dire se pensa che i neri “facciano abbastanza”, deve spiegare se ritie-
ne giusto che continuino ad usufruire di
corsie preferenziali. Deve parlare di diritti costituzionali e temperie del contemporaneo. Deve guardare dritto negli occhi le
Americhe che lo scrutano e lo soppesano
e usare tutte le sue tecniche di comunicazione: pause drammaturgiche, alti e bassi,
frasi scandite. Deve utilizzare con moderazione il suo leggendario crescendo oratorio, che fa tanto – troppo – chiesa nera. E
se i conti non tornano, deve fare l’ultima
cosa di cui ha voglia: pagare il conto a Hillary e invitarla a occupare l’ufficio del vice. Potrebbe essere abbastanza per rassicurare quella base operaia bianca che, dopo averne mormorato in famiglia e al bar,
sembra aver deciso di declinare l’invito di
Obama a stare dalla sua parte. La Clinton
la porterebbe in dote, e nessuno come lei.
Attenzione: può non trattarsi di un’opzione, ma di una scelta obbligata. Perché
Obama ha dimostrato che nell’America
d’oggi un nero può arrivare a un sospiro
dalla presidenza. Ma che nella scelta fatale ancora aleggia un fattore inconscio di
cui, o si tiene freddamente conto, o lo si
sfida sul bordo del baratro in cui precipiterebbe questa grande storia.
Stefano Pistolini
uando in tv hanno chiesto al candidato
repubblicano John McCain se avesse
Q
in mente un nome in codice da farsi assegnare dai servizi segreti, lui ha risposto:
“Jerk”. Coglione. Scherzava, ma non troppo. I nomi che la scorta dell’intelligence
usa per i politici che frequentano la Casa
Bianca sono sempre calcetti dispettosi assestati negli stinchi più potenti di Washington. Dick Cheney è “Backseat”, abbreviazione dell’espressione anglossassone
“backseat driver”, di solito un emerito
rompiscatole che siede dietro ma pretende
di dare continue indicazioni a chi siede davanti e guida. Il presidente Jimmy Carter,
che alla domenica faceva catechismo ai
bambini, era “Deacon”, diacono. La sala
d’emergenza della Casa Bianca, un bunker
senza finestre, è “The Cement Mixer”, la
betoniera. Hillary Clinton, in quanto ex
Flotus (First lady of the United States) e
ora candidata al posto di Potus (certo, President of the United States), s’è guadagnata il nome di “Evergreen”. Sempreverde. Il
presidente George W. Bush è “Tumbler”, il
bicchierone piatto da acqua – che però ai
party ci si riempie con il whiskey. Jeb Bush, Jenna Bush e Laura Bush sono “Tripper”, “Twinkle” e “Tempo”. Non fanno ridere, ma cominciano tutti con la T, e questo non guasta in ambiente militare e/o secret service. Infatti Bill Clinton è “Eagle”,
aquila – sì, come il presidente Jed Bartlet
della serie West Wing – oppure “Elvis”, e
la figlia Chelsea è “Energy”. Tutti con la E
di Hillary la Evergreen. Ronald Reagan e
la moglie Nancy erano “Rawhide”, dalla
omonima serie televisiva d’ambientazione
western e “Rainbow”, arcobaleno (ovviamente con la R).
In effetti i nomignoli non sono scelti
dai servizi segreti, ma dall’agenzia di comunicazione della Casa Bianca, che li
estrae da un lungo elenco di parole con
due requisiti: abbastanza chiare da essere conosciute e facilmente riconoscibili
da tutti, anche gracchiate dentro un auricolare durante un attentato, e abbastanza desuete da non essere usate per caso
durante i dialoghi. A Barack Obama non
è andata benissimo: “Renegade”, il rinnegato, che per uno indeciso se esibire la
spilletta con la bandiera americana sul
bavero è un affondo duro. La moglie Michelle è più fortunata: “Renaissance”, rinascimento. Renegade, nel codice militare della Nato, è il termine con cui si indicano gli aerei sospettati di essere stati dirottati da terroristi.
Il candidato McCain è ancora sprovvisto o, meglio, il suo non è ancora uscito (è
probabile che anche gli altri nomi in codice non siano più gli stessi, se oggi sono
sulla pagina di un giornale) ma su Internet si fa a gara di proposte: “Maverick”,
termine ambivalente per indicare l’outsider all’ennesima potenza. “Dinosaur”, dinosauro, per l’età. C’è chi suggerisce
“Grandaddy”, nonnino.
Emmotticon
L’ex direttore dell’Economist
tifa Obama e nel suo nuovo libro
spiega il segreto dell’Asia
(segue dalla prima) Di questo l’America si
è accorta da tempo, tant’è che il suo
sguardo è sempre più puntato in quella
direzione. Da una parte con speranza, dal
momento che in Asia si trovano i mercati
del futuro, e la considerazione non riguarda unicamente la Cina e l’India. Dall’altra non possono nascondere paura:
sempre lì, un giorno potrebbero scoppiare sanguinosi conflitti.
“Il tasso di inflazione in Cina è all’8,5
per cento. Ci viene detto che sono i postumi di un’epidemia suina e delle tempeste
di neve che ha paralizzato a inizio anno il
paese. La verità è che la Cina comincia
ad avere carenza di forza lavoro, la politica di un figlio per famiglia mostra i suoi
effetti negativi; i salari stanno crescendo,
la moneta ha appena avuto una rivalutazione del diciotto per cento rispetto al
dollaro e c’è il problema dell’inquinamento. Perché produrre a costi bassi significa avere un impatto consistente sull’ambiente. Per questo si assiste già a una
lenta delocalizzazione verso l’India di alcune industrie. In Cina accade oggi quello che accadeva in Giappone negli anni
Settanta. Poi c’è la politica. Da una parte
assistiamo a una sorta di appeasement
con tanti sorrisi, dall’altra il Giappone
mette in orbita un impianto satellitare,
mentre la Cina aumenta del sessanta per
cento le spese militari”.
I traumi del passato – uno su tutti, il
massacro di Nanchino – non sono superati. E ci sono poi le incognite sul futuro.
“Che ne sarà della Corea del Nord, del
Pakistan e del Tibet il giorno in cui moriranno i rispettivi dittatori o leader spirituali? Gli Stati Uniti fanno bene a mantenere le loro basi militari in Asia e a continuare la loro opera di vigile peacekeeping nella regione. Non condivido invece
il suggerimento di Robert Kagan di aumentare il controllo o quello di Paul
Wolfowitz di incrementare le spese militari. Anche se è vero che proprio in questa parte di mondo si trovano anche tre
potenze nucleari ufficiali: India, Pakistan
e Corea del Nord. Con buona pace dell’Europa che crede ancora di essere l’ombelico del mondo”.