Zzz… zzz… zzz… Ah, porca vacca! Quant`è scomodo `sto materasso!
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Zzz… zzz… zzz… Ah, porca vacca! Quant`è scomodo `sto materasso!
Prologo notturno Norimberga Prime luci dell’alba “Zzz… zzz… zzz… Ah, porca vacca! Quant’è scomodo ‘sto materasso! Dove l’hanno fatto, si può sapere?! È da una vita che cerco la posizione giusta e ancora niente. Oh diavoloccio, ci si mette pure la schiena! Cristo se fa male, mica se ne sta tranquilla. Ho un dolorino che sale dalla spina dorsale e che mi arriva fino al collo. Va e viene. Intermittente come il mio respiro… Chissà che diavolo è. Du’ maroni… Magari sto solo sognando, o no?” “Mi giro ancora a destra: no, niente, non mi si addice mai… la destra e allora di nuovo a sinistra. Ecco, è caduto il cuscino. Dov’è finito? Ma porca di quella… non vedo niente co’ ‘sto buio maledetto… Mhhh, preso! E ora cos’è che è volato di nuovo? Forse… Boh! Ma perché succedono sempre casini quando si va a sinistra? Poi ho ‘sta bocca secca, quasi felpata: sembra che mi ci hanno messo dentro la farina. Dovrei alzarmi e andare a bere un goccio d’acqua dal rubinetto del lavandino. Ma chi ne ha voglia!!!” “Vediamo, vediamo un po’… la bottiglia era qui, giusto. Finita!? Mi son sparato due litri d’acqua e mi scappa continuamente da pisciare! Diamoci una bella grattata dove so io che fa sempre bene, giusto per vedere se è vivo e se ha bisogno di qualcosa… Sì, okay, tutto nella norma. Pensavo meglio però. Vabbè.” “Zzz… zzz… zzz… Ora sto dormendo, oppure no? Ma che ore sono? Mica lo capisco, con questi occhi che si aprono e si chiudono, con questo sonno che poi non arriva mai. Che strazio. Voglio o non voglio dormire? Sarò sveglio o sto forse sognando? E se contassi tutti i concerti fatti negli ultimi mesi? Di sicuro sarebbero più delle solite pecorelle, magari mi addormento. Le pecorelle, le pecorelle smarrite che poi vengono mangiate dai lupi alla brace!!! Non ha senso, o sì? Diavolo, sto sognando! Dovrei iniziare a prendere dei sonniferi. Runf, runf… zzz… zzz… zzz… ‘Sto cervello non funziona più, ora pure la gola che raschia, ci ho dato dentro forte ieri sera… Chissà perché quando suoniamo all’estero tutto sembra andare bene: noi torniamo a essere noi e loro, il pubblico, torna a essere una platea attenta da catturare e convincere, non una caciara… Forse, semplicemente, quando siamo fuori dall’Italia ci impegniamo di più, studiamo i dettagli, non facciamo mai i fenomeni… i fenomeni… i fenomeni… come quando... come quando siamooo... in Italiaaaa… Zzz… Zzz… zzz… zzz…”. Abbiamo iniziato con “Viva la vidamuera la muerte”, poi ”La banda del sogno interrotto…”. Ma no! Qui sono i miei sogni che si sono rotti e interrotti. ”I cento passi” no. ”Fuori campo” si, forse. Mi sono anche dimenticato una strofa, ma tanto qui non se ne è accorto nessuno. Certo, mi capita spesso ultimamente di scordare qualche frase di quelle canzoni che canto tutte le sere. Mah! Quanta gente poi, quanti crucchi tutti assieme! Beh, a Norimberga non è che ci potevano essere degli emiliani, però sono contento, abbiamo suonato bene. Peccato per il tifone tropicale che poi ha interrotto la serata. Non lo so, comunque è stato un bel concerto, almeno credo… Piacere a ‘sta gente qui a me sembra più semplice, basta essere sinceri e di cuore: loro se ne accorgono se fingi.” “Zzz… zzz… zzz… Oh, cos’è?! Che è stato?! Ma perché non ho parlato con quelli dell’albergo! Ho il sonno leggero, mi sveglio per un niente e poi non mi riaddormento più. Ma cos’era quel rumore… cos’era? Come se avessero bussato: ma dove? Alla porta, o al muro? O era solo nella mia testa? Vacci a capire qualcosa… Sarà forse qualcuno che vuole parlare con me. La mia coscienza? Sono forse i miei fantasmi che bussano alla porta? O forse una bella donna, svegliata dai miei pensieri? Zzz… zzz… zzz… e poi dopo il concerto… Dio, quanto ho bevuto! Ho festeggiato troppo… un po’ la Germania, un po’ l’euforia… e poi birra e ancora birra, e tanto vino e Mojito e ancora birra. Non ci voglio nemmeno pensare alla mia povera glicemia e a quello straccio di ipertensione che mi ritrovo… Bravi pure gli altri a suonare, bravi tutti e il pubblico. Quanti erano, quanti? Cinquemila? Forse come… ma forse è solo un sogno… Cinquemila persone possono dare più forza di un milione. Mi rivedo quel 21 giugno del ’92: mi trovo a Bologna, quella è Piazza Maggiore… siamo agli inizi della storia, sono entrato nella band da quanto…? un mese e mezzo? Si, credo di si. Giunti qui per le Controcolombiadi, volute da chi, da quelli di Cuore? Forse. O dai soliti comunisti? Certo, come al solito. Siamo dei novellini in mezzo ad una marea di gente tosta. In Piazza Maggiore ho già intravisto gli Skiantos, i MauMau e lui, ancora non ci credo, il maestro Guccini. A noi toccano tre pezzi al pomeriggio, non uno di più. Abbiamo tutti la faccia di chi sente di aver vinto alla lotteria un premio molto più importante del denaro: si chiama, Ricordo Indelebile. Cartellone alla mano suoniamo alle cinque del pomeriggio. Questo tempo non promette nulla di buono, fa caldo, è umido e si suda, o forse siamo solo tesi, proprio come dei bimbi alla prima recita scolastica, guarda caso abbiamo iniziato a discutere: “Ma no, chi l’avrebbe mai detto!” Abbiam concordato solo due pezzi, sul terzo ci siamo spaccati. Ma io dico e mi chiedo: “Bologna e Piazza Maggiore: come si fa a non cantare ‘Bella Ciao’”? Si, proprio “Bella Ciao”. In quelle parole c’è la storia della mia famiglia, ci sono degli insegnamenti, un percorso ricco di semina: dal raccolto difficile ma fruttuoso a quello che siamo stati e che saremo, perché se ho questa testa, nel bene e nel male, lo devo a loro. Figlio di emiliani, nato a Carpi e cresciuto nel quartiere soprannominato“Cremlino”. Tutti continuano a discutere isterici; chi se ne esce con “Si, suoniamola”, chi invece come Albertone insiste nel non trovarla una buona idea. Io però me ne sbatto e con la mente volo alla mia infanzia, a quei pomeriggi assolati dove non soffiava un filo d’aria, trascorsi a tirare calci a un vecchio pallone in strada, con gli amici di sempre, da soli ogni giorno mentre i genitori lavoravano. Nessuno di noi si è mai sentito in pericolo, perché in quella meravigliosa Emilia, tra gli anni ‘70 e l’80, c’era sempre qualcuno a osservarti dal balcone di un palazzo o dalla sede del Partito dove all’ingresso campeggiava la foto di Berlinguer, quel Partito che organizzava tutto, dalle feste ai servizi sociali e le manifestazioni anche. Era impossibile sentirsi soli. C’era sempre una “guida rossa” pronta, con un paio di scappellotti, a farti capire quando sbagliavi e il perché. L’Emilia dello stare insieme e del ragionare di politica e pallone al bar sotto i portici, dei ciottoli ghiacciati d’inverno e del profumo di spiga in primavera, l’Emilia della domenica mattina passata a consegnare porta a porta L’Unità, in sella a una bici, a cavallo di un ideale. Vabbè, abbiam deciso finalmente, saliamo sul palco. Quant’è grande, sembra un campo da calcio! Sta iniziando a piovere. La gente sbuffa e apre gli ombrelli. Porca di quella… Ma si, porta fortuna, almeno così dicono! Eh, alla fine sono almeno cinquemila persone. Alcuni davanti alla transenna ci guardano con l’espressione interrogativa. Io sorrido. Ho quasi una paresi in faccia dalla tensione e mi calmo solo quando si aprono le danze con“RecrutingSergent”. La gente batte le mani, le pulsazioni iniziano a rallentare e proseguiamo con un brano strumentale. Ecco, due pezzi sono andati. Dài che la stiamo portando a casa. Dài, manca solo la terza canzone… ”Una mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao Una mattina, mi son svegliato e ho trovato l’invasor O partigiano, portami via, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao O partigiano portami via, che mi sento di morir…” In piazza scoppia il finimondo. La gente inizia a ballare, a saltare, a cantare: migliaia di voci unite alla mia, alla nostra. Abbiamo innescato qualcosa di imprevedibile, una scintilla. Ora forse qualcuno si ricorderà che questo “incendio” si chiama Modena City Ramblers. Canto per l’ultima volta il ritornello. Vorrei non fermarmi mai perché questo è il giorno perfetto, siamo nel posto giusto, Bologna, al momento giusto, il 1992, un nuovo decennio da affrontare a testa alta. Noi dei Modena City Ramblers siamo nati tra gli anni ’60 e ’70. Abbiamo vissuto il decennio di piombo in braghe corte, andando alle elementari o alle medie, con la testa sui libri aspettando il suono della campanella, segnale che un nuovo pomeriggio di scorribande in bicicletta sarebbe iniziato da lì a poco. Eravamo dei cinni negli anni ‘70, ma ognuno di noi aveva capito quello che stava succedendo, aveva annusato la paura di un paese tenuto sotto scacco dal terrorismo. Ricordo ancora quella volta che la mia maestra di italiano entrò in classe, dicendo che Aldo Moro era stato ritrovato morto in via Caetani; ricordo i nostri genitori fuori dalla scuola pronti a portarci a casa perché si sentivano tutti in pericolo e poi la strage di Bologna, le pallottole, le molotov e i morti ammazzati che ci accompagnarono nella nostra infanzia. Gli anni ’80 purtroppo ce li siamo beccati in pieno. Il decennio di plastica dove vigeva un’unica regola; dimenticarsi tutto quello che era accaduto prima, perché bisognava guardare avanti, perché l’importante era divertirsi. I Duran Duran e gli Spandau Ballet si contendevano lo scettro della band più amata dalle ragazzine. Le radio sputavano fuori oscenità come “Material girl” e “Wake me up”, mentre i video di gruppi quali Metallica, Cure e Joy Division li potevi trovare solo a notte fonda, quando i bravi bambini avevano già chiuso gli occhi. Furono quelli gli anni dei capelli cotonati e della giacche con le spalline, degli scaldamuscoli rosa e degli orecchini giganteschi, dove l’Italia costruì il suo gigantesco debito pubblico, il decennio masticato e poi sputato, perché il sapore se n’era già andato da un bel pezzo. Già! È il 1992, è scoppiato il caso Mani Pulite, stanno uscendo allo scoperto le facce di chi ha rubato senza ritegno, stanno cadendo tutti gli scheletri dall’armadio. Il popolo è stanco e non ce la fa più. Il popolo tiene fra le mani una montagna di monetine da tirare al prossimo traditore di questa Italia che può e deve cambiare, una volta per tutte. Chi lo sa, forse anche noi potremo dire la nostra e lasciare un segno indelebile… E ora, cos’è questo rumore? La gente sta applaudendo, quanti pugni alzati. Ma perché questo fastidio alle orecchie? DRINNN, DRINNN, DRINNN! Ah, Cristo, è la sveglia. Come ho fatto a puntarla all’ora sbagliata? Mi gira la testa e mi formicolano le mani, sento addosso ancora l’energia di “Bella ciao”. Bella Ciao? Perché sono a letto? Ero mica a Bologna?! C’era Guccini, pioveva… Cisco sveglia, sveglia! A che diavolo pensi? Stavi dormendo, era solo un sogno, un sogno che poi è diventato realtà. Cattiva, amara, nera 6:30 Le sei e mezza del mattino e i miei occhi sono già aperti, vagano nel buio come una bicicletta con la dinamo spaccata. Le lancette dell’orologio quadrato appeso al muro, l’ultima visione prima del sonno, continuano a battere e a sbattersene. Un soffice scalpiccìo, forse di una cameriera, sfiora il perimetro della mia porta che però rimane immobile: è ancora presto per sistemare la stanza. Queste lenzuola di cotone così leggere, ieri sera, sono diventate pesanti e puzzano di sudore. Mi gratto il pizzetto con la mano destra e poi, sempre al buio, do una ravanata ai peli della pancia. In bocca ho un sapore tremendo. Con questo alito potrei ammazzare qualcuno. Per un istante vorrei girarmi dall’altra parte, mandare a cagare tutto e assaporare ancora qualche minuto di questo maledetto sonno che mi abbandona ogni giorno di più ma non posso, no, perché ormai il mio cervello si è rimesso in moto e so bene che non riuscirò più a zittirlo; ha preso a camminare, a zoppicare, a produrre la solita materia che tanto per cambiare è cattiva, amara, nera. In lontananza posso sentire lo scambio delle rotaie di un tram. Provo a immaginare il viso del conducente, assonnato e incazzato perché il suo turno è all’inizio e chissà quando finirà… poi le gomme di un’auto decisamente grintosa e in successione, una serranda che viene alzata… sarà un bar, dove tutti potranno bere il solito caffè annacquato che ti spacciano per italiano. Uno, due, tre: eccomi seduto sul letto. Che fatica! Le molle cigolano ma sopportano il mio dolce peso con nonchalance, sono però certo che crollerebbero se, al posto dei chili, sostenessero i miei pensieri. Sto bene ora, seduto qui come un Buddha svogliato, su questo materasso che avrà senz’altro conosciuto culi meno “girati” del mio. Dalle fessure delle tapparelle filtra una luce bianca, non è quella di Dio o del suo figlioccio ma quella del nuovo giorno che avanza: è calda e mi accarezza come un guanto. Per un istante non sento alcun fastidio. Per un istante mi sembra davvero di stare bene, ma so perfettamente che non è così, che è una bugia, una delle tante che mi son raccontato in questi ultimi anni. Meglio alzarsi. Il piede sinistro becca il freddo del pavimento, quello destro ha più fortuna e incontra la morbidezza del tappeto. Seguo la luce bucherellata che continua a baciarmi il viso. Mi avvicino lento lento alla porta finestra che mi separa dal mondo, sperando di non sbattere contro qualche mobile. Butto fuori un lungo sospiro, il primo di tanti. Oggi è il 29 luglio 2005, il mio compleanno. Oggi tutti diranno che Stefano “Cisco” Bellotti compie trentasette anni. Ma nessuno può sapere che oggi è il mio ultimo giorno. Il mio ultimo giorno coi Modena City Ramblers. Ci penserà la gente a renderla malata0re 6:45 Ora è buio. Ora è luce. Ancora buio. Di nuovo luce. Buio. Luce. Buio, luce, buio. Luce, buio, luce. Buio, luce, buio… Cazzo, si è fulminata la lampadina. Che sia un segno del destino? Che debba rimanere nell’oscurità tutto il giorno, steso nuovamente su questo letto? Sarebbe bello ma non posso, davanti a me ci sono ore che vanno vissute fino in fondo. Beh, considerando il black out mi tocca davvero alzare il culo questa volta. Pochi secondi ed eccomi davanti alle tapparelle, basta pigiare un tasto e vengono su da sole. Schiacci un bottone, si accende la luce, ne provi un altro e tiri lo sciacquone, un altro ancora e accendi la televisione, o il computer o il rasoio elettrico o chissà cos’altro. Ne premi uno bello grosso ed esci da un gruppo nel quale stai da quattordici anni… no, quello non lo hanno ancora inventato ma sono sicuro che prima o poi ci riusciranno, prima o poi anche ai musicisti basterà un “clic” per andarsene fuori dalle palle, per liberarsi da comode trappole. Apro le finestre ed esco in balcone. Appoggio le mani sulla ringhiera e capisco solo ora che i postumi della sera prima se ne devono ancora andare, nel frattempo vedo avvicinarsi sulla strada una macchina solitaria con a bordo una donna. Una folata di vento investe la mia pelle, è aria fresca, la prima della giornata, la più pura; purtroppo passeranno le ore e ci penserà la gente a renderla malata, ma già che sono qui, in mutande, me la voglio godere fino in fondo e augurare il buongiorno a Norimberga, la città che ha ospitato il concerto di ieri sera. Un fiume stretto e lucido scorre lento e fa da casa ad anatre che si spulciano in gruppo: ci sono un paio di barche senza remi attraccate a un piccolo molo e, per un attimo, sento di somigliare a loro. La città si sta svegliando ed è così diversa da tutte quelle che vedo quasi ogni giorno, in Italia. Qui tutto sembra perfetto ma forse è solo apparenza: non una cartaccia in giro, non un colpo di clacson, e le aiuole perfettamente curate e nessun discutibile manifesto elettorale. Rientro in stanza: l’ordine fuori cozza alla perfezione col delirio che c’è qui dentro. I pantaloni sono a terra e sporchi di fango, la camicia porta eroicamente i segni dell’alcool, le scarpe con le quali “danzo” ogni sera sono da buttare, e poi la valigia aperta - che sta in mezzo alla stanza come una rotonda sul viale - è zeppa di vestiti andati a male: ne rimangono pochi di puliti e poi chissà dove li avrò ficcati… nella zona del frigo bar è meglio non guardare. Tracce di cibo ovunque, pizza, patatine, cioccolata e tre lattine di birra che hanno finito la loro corsa sul tappeto, lasciando in dote della schiuma secca. Cos’è ‘sta roba? Cazzo, ricordo di aver vomitato questa notte ma pensavo di esser riuscito ad arrivare al bagno. Mi è venuta voglia di sdraiarmi a letto per l’ennesima volta e poi fa niente se il sole si sta alzando, fa niente se c’è una lunga giornata davanti che mi aspetta. Sono così stanco che se potessi me la dormirei per mesi e mesi a occhi aperti naturalmente, pensando a tutto quello che mi è scivolato via dalle mani negli ultimi assurdi anni della mia vita, un’analisi senza lettino e senza dottore, perché in fondo la risposta so di portarmela dentro, si tratta solo di aprire la coscienza e dare aria ai ricordi. Un Muffin… Ore 6:50 Già, i ricordi. Quelli che mi porterò dietro per sempre, un libro pieno di fotografie, momenti che nessuno potrà mai cancellare dalla mia memoria. E dentro quelle pagine ci sono loro, i miei compagni di viaggio, a volte criticati ma di certo amati, perché nonostante tutto hanno condiviso con me una lunga strada. Ci sono stati tanti scontri e so che ce ne saranno anche dopo questa lunga giornata, ma non posso fare a meno di passare in rassegna tutti i componenti della band, una piccola squadra di calcio, una di quelle non facili da affrontare, tanto è dura e tignosa. E in questo team segnato dall’avanzare dei tempi, da chi potrei iniziare? Senza ombra di dubbio da Massimo Ghiacci, anche soprannominato “L’omone”. Un grande musicista, amante dei Beatles, profondo conoscitore di buona parte della “materia”, un gran bravo ragazzo, il classico boy scout che aiuta la vecchietta ad attraversare le strisce pedonali, insomma uno di quelli con cui è impossibile arrabbiarsi. Forse. Perché in mezzo a tutta queste belle qualità, il buon Ghiacci nasconde manie che, almeno a me, hanno fatto impazzire in questi anni. L’estrema pesantezza adottata durante le riunioni di gruppo, la paura di organizzare un viaggio, di volare e di attraversare paesi stranieri di notte.E poi che dire della sua predilezione per l’igiene? Da morir dal ridere! Me lo ricordo ancora in Irlanda, intento a disinfettare tutti i cessi pubblici che trovava a tiro; sarebbe un degno testimonial della “Mastro Lindo”, ma forse questo è meglio non farglielo notare, perché è anche un pochino permaloso, e potrebbe incazzarsi veramente! Uno che non se la prende mai è Francesco “Fry” Moneti, aretino doc, il farfallone del gruppo, dedito allo scherzo, e a prendere in giro noi e quelli che gli passano a tiro. Rimarrà negli annali la sua famosissima “supercazzola”, una frase pronunciata a tripla velocità attraverso cui Moneti sfotteva il poveretto di turno, il quale non poteva far altro che annuire, fingendo di aver capito. E fa niente se in quell’ammasso di parole pronunciate a velocità supersonica Moneti ci infilava. “Sei un baule!”. Che dire! Per me quasi impossibile litigare con uno come lui: sembra sempre vivere su un piano parallelo, dove in prima posizione campeggia solo una cosa. La figa. “Fry” sta tenendo il conto di tutte quelle che è riuscito a portarsi a letto. Sono quasi certo che prima o poi ci presenterà l’intero elenco. Anche Massimo Giuntini è di Arezzo, ma è un po’ diverso dal Moneti. Anche lui dedito a battutacce e a scherzi più o meno pesanti, ma non in grado di riprodurre la mitica supercazzola del suo collega e poi, sotto il profilo umano più governabile, meno scavezzacollo. Un enorme musicista il Giuntini, uno di quelli che riesce a suonare qualsiasi strumento. Un esempio? Beh, ricordo ancora bene quella volta che ci trovammo in studio: dovevamo registrare una traccia di clarinetto nell’album “Terra e Libertà”; non sapevamo dove sbattere la testa perché non conoscevamo nessuno che potesse ricoprire quel ruolo. All’improvviso, dal fondo della sala di registrazione, saltò in piedi Giuntini che propose: “Domani portatemi un clarinetto e risolviamo questo problema.” Lo guardammo come se fosse un pazzo ma Ghiacci raccolse la sfida. Il giorno dopo si presentò con un clarino mezzo rotto che Giuntini suonò a meraviglia, librandosi in un assolo che ci lasciò a bocca aperta. Peccato che se ne sia andato definitivamente. Uno che ha sempre badato al sodo è Robby Zeno, il nostro batterista, col suo hobby maniacale per le registrazioni dei nostri live. Il contabile del gruppo, quello che faceva quadrare tutto, uno di cuore, napoletano verace che non ce la faceva a non dirti le cose in faccia. Per lui è sempre stato normale esternare le sue opinioni, anche a costo di far rimanere male qualcuno, ma è il suo carattere, prendere o lasciare! Appassionato di Pino Daniele, è sempre stato lontano dal nostro concetto di musica, eppure umanamente è uno di quelli che ho sentito più vicino. Gli voglio bene a Robby, così come tengo moltissimo a Luciano Gaetani, il padre fondatore dei Modena City Ramblers, quello che ci aveva visto bene fin dall’inizio, quello che aveva capito tutto. Il vecchio della band, il saggio. Su di lui si poteva sempre contare: sapeva ascoltare Gaetani, lo psicologo in lui soprattutto nei primi anni; in lui abbiamo visto una vera e propria guida, una spalla su cui appoggiarsi nei momenti difficili, pubblici o privati. Un uomo serio ma anche un gran “cazzone” se devo dirla tutta, uno di quelli assetati di vita. E a proposito di sete… c’è anche chi, non trovando nulla da bere, si è arrangiato bevendo l’acqua del Nilo. Kaba! Già, proprio lui, il nostro storico fonico dal 1993, quello che ha prodotto il nostro primo demo tape! Un professionista eccezionale, sia dietro la consolle che tra le percussioni. Arcangelo Cavazzuti ha provato tutto nella vita: sul suo viso puoi leggere le rughe portate dal passato che, in più di un occasione, ha cercato di metterlo al tappeto, ma non è tipo da ritirarsi il Kaba. Si è sempre rialzato, anche quando tutti lo davano per morto. È riuscito a sconfiggere i suoi fantasmi, i suoi vizi ed è ancora qui con noi, più cazzuto che mai! Chi invece che nella vita si è sempre un po’ trattenuto è Franchino D’Aniello. Per me rimane la figura più indecifrabile della band. Ci siamo allontanati molto in questo periodo e sento la sua freddezza ogni volta che devo averci a che fare: purtroppo i problemi caratteriali e musicali sono aumentati col passare degli anni. E pensare che all’inizio fu il primo con cui legai. Ero l’ultimo arrivato nel gruppo, me la giocavo nelle retrovie perché non avevo ancora capito come funzionavano le cose e in un certo senso Franchino mi aiutò molto, e fu anche merito suo se mi ambientai in fretta; poi le cose sono cambiate, io sono cresciuto mentre lui è rimasto uguale. Dedito a tour massacranti e a nuovi progetti senza portare alcuna idea, è questo che mi ha sempre fatto incazzare di lui, nonostante sia una persona disponibile, uno di quelli sempre pronti a darti una mano. Di Franchino avrò per sempre un incredibile ricordo. L’anno scorso durante il tour ad Amsterdam, nel pomeriggio facemmo un bel giro per la città. Dopo una lunga camminata ci catapultammo in un coffee shop e ci sedemmo per fumare un po’ di roba. Franchino, che era ed è tuttora un ipocondriaco di prima categoria, si allontanò da noi dirigendosi verso il bancone del bar. Impegnati a fare ben altro non ce lo filammo di striscio, quando finalmente, dopo l’ennesimo tiro di canna gli diedi un occhio. Il nostro flautista se ne stava tranquillo al bancone; le sue mascelle si muovevano veloci. “Franchino, che fai lì da solo, vieni qui con noi!” gli urlai. “Mah, niente. Sto mangiando perché avevo fame!” “Mangiando?” “Si, Cisco… sto mangiando un muffin. È un po’ strano ma è buono!” “Strano? Ma scusa… quanto lo hai pagato?” gli chiesi mentre tutti avevamo già capito. “Eh, è molto caro, dodici euro! Ma chissà con cosa li fanno questi muffin!” rispose lui con innocenza, avvicinandosi al nostro tavolo col dolce sospetto. Il nostro fonico del tempo era uno che di quelle cose se ne intendeva; prese in mano “il corpo del reato” e poi scoppiò a ridere: “Ma Franchino, questo è un muffin alla marijuana!”. “Cosa?!” urlò lui strabuzzando gli occhi. “Ti sei mangiato mezzo muffin pieno di ‘Maria’, proprio tu che non hai mai provato un cazzo di queste cose. Sei fuori, non te ne sei accorto!?” urlai io divertito dalla situazione. Franchino invece sembrava calmo, e ci ripeteva di non avere nulla. Uscimmo dal coffee shop. Nemmeno cento metri e sentimmo urla piene di terrore proprio dietro di noi. Era lui, in preda al panico perché la fattanza gli stava salendo al cervello! Eravamo tutti sotto l’effetto delle svariate canne fumate, ridevamo di gusto perché D’Aniello si era pappato da solo mezzo muffin infarcito di Marjuana, una quantità che avrebbe potuto soddisfare l’intera band, fino a quando in un lampo di lucidità decidemmo di portarlo in albergo. Fu proprio in quella stanza che passai una delle ore più divertenti della mia vita. Franchino delirava, passava dal pianto al riso come uno schizofrenico. Mi guardava e urlava pensando che fossi un mostro. Vedeva i suoi piedi sul letto e andava in panico, chiedendosi cosa fossero, tutto mentre uno di noi filmava al secondo, rendendo il momento incancellabile. Quel video fece il giro dei nostri computer e li restò. Siamo come una pallina d’acciaio Ore 7:10 Accendo la TV anche se mi scoppia la testa. Non ho voglia di vedere nulla in particolare e poi, orario alla mano, non è che ci si possa aspettare un film d’autore a quest’ora, quindi cosa c’è di meglio che fare zapping alle sette del mattino in quel di Norimberga? Un film porno? Forse, ma chi ha voglia di alzare il telefono e cercare di comunicare con un portiere d’albergo tedesco! Potrei rimanere in silenzio, ma a pensarci bene non ne ho la minima voglia. È da mesi che lo evito accuratamente. Lui sa sempre rivelarti quello che ti affanni a nascondere, quello che non hai, quello che non sei più. E pensare che in fondo lo amo, ma tendo sempre a scacciarlo con mille faccende quotidiane. Spesso nella vita le cose vanno in questo modo: quando le hai a portata di mano fai di tutto per non afferrarle, perché ti sembrano troppo comode, scontate. Sui canali teutonici c’è ben poco da vedere: un telefilm giallo, forse una sottomarca de “L’ispettore Derrick”, un telegiornale, la replica di una partita di calcio, (cazzo quello è fallo!) e poi… CNN (non capisco), Fox Tv (idem), BBC (mica male la giornalista), Abc (Ammazza che incendio)… canali di cucina (mmhhh buono quello!), cultura (no, non è il momento), documentari sugli orsi (sono un esperto in materia) su isole sperdute chissà dove (fa troppo freddo lì) e musica… non ci posso credere, questa è… “ If I should fall from grace with god Where no doctor can relieve me If I'm buried 'neath the sod But the angels won't receive me” “If I should fall from grace with god”, The Pogues… loro che suonano dal vivo con la gente che balla sotto il palco: migliaia e migliaia di teste che vanno avanti e indietro, a destra e a sinistra senza fermarsi mai, e Shane MacGowan in forma strepitosa che canta appeso e sbronzo al microfono, con una maglia nera intrisa di sudore e le orecchie a sventola rosso fuoco, mentre il resto della band ci dà sotto come se fosse l’ultimo live della loro vita. E se ci penso dovrebbe essere sempre così, se ci penso metterei come legge l’obbligo di spremersi sul palco fino all’ultima goccia. “Let me go boys Let me go boys Let me go down in the mud Where the rivers all run dry” Anche noi siamo finiti ogni giorno di più nel fango, dentro a un fiume secco? Ce ne rendiamo conto, ma nessuno ha mai fatto nulla per fermare l’evolversi delle cose. Siamo come una pallina d’acciaio che corre su un piano inclinato: all’inizio il suo viaggio è lento, quasi impercettibile ma con l’andare del tempo la corsa si fa sfrenata, un treno senza padrone su un binario morto. Cosa sono diventati i Modena City Ramblers? Una locomotiva che non fa più fermate per rifornirsi di idee, di verità, di umiltà? “If I should fall from grace with god”, The Pogues… C’è la canzone del primo bacio, quella della prima scopata, quella degli amici che non ci sono più, quella della fidanzata che ti ha mollato e poi c’è lei, la canzone che ti ha cambiato l’esistenza. Ed è la più importante di tutte, perché da quella melodia capisci che non sarai più lo stesso, che qualcosa nella tua vita ha svoltato e non tornerà mai più come prima. E in quel lontano 1988 a me tutto cambiò per sempre, quando vidi il video alla televisione. Rimasi folgorato, infatuato e per un rockettaro tamarro com’ero fu davvero assurdo, ma quel pogo allegro e danzereccio, le note veloci e quella voce, mi fecero capire che era tempo di cacciar fuori dalla testa “il metallo” e vedere se stava succedendo qualcosa di nuovo in giro per il mondo. E allora spensi la tv, mi buttai addosso il solito chiodo nero, arraffai qualche lira dalla mia stanza e uscii in fretta e furia diretto al tempio della mia gioventù, il mio negozio di dischi preferito. Come un tossico in crisi d’astinenza, entrai senza salutare e chiesi immediatamente il disco dei Pogues. Il proprietario, che ben conosceva i miei gusti, restò impalato qualche secondo, mi guardò sorridendo, pensando forse tra sé e sé: “Ah, cazzone, ti sei svegliato finalmente!”. Estrasse il magico album, pagai ignorando la sua strafottenza e mi fiondai a casa, deciso a consumarlo in breve tempo. E così feci. Da quel momento iniziai a dividermi tra Led Zeppelin, Deep Purple, Metallica e la band di MacGowan, che lentamente prendeva possesso delle mie volontà. Dopo aver conosciuto i Pogues, mi interessai a tutto quello che gravitava attorno all’Irlanda e fu amore a prima vista: (musica) Waterboys, Planxty, Bothy Band, Christy Moore, (letteratura), Yeats, Brendan Behan, Flann O’Brien, Roddy Doyle, fino a una montagna di film. Davanti a me si aprì la realtà sconosciuta che avevo sempre sognato, fino a quando finalmente arrivò il momento di toccarla con mano. Era il 9 luglio del ‘91, concerto alla Festa dell’Unità di Sant’Ilario d’Enza, uno dei più belli della mia vita. I Pogues aprirono le danze con “Stream of whiskey” e conclusero con “Fiesta” e “The Irish rover”. Arena spettacoli piena zeppa, pogo furioso: non mi fermai un attimo, dall’inizio alla fine non feci che ballare, spintonare, saltare, sudare e camminare sulla testa degli altri, cercando in ogni modo di arrivare fino al palco e di impossessarmi del microfono, per cantare a squarciagola insieme a Shane. Conclusi la serata in modo epico. Stremato e cosparso di terra dalla testa ai piedi, con le narici otturate, vomitando birra addosso a una ragazza che sono certo, si ricorderà ancora di me! Sapere che l’indomani saremmo partiti per l’Irlanda, rendeva tutto ancora più magico. Arrivai a Dublino in aereo pieno di entusiasmo con il mio amico Marco e dopo soli tre giorni eravamo già in preda allo sconforto totale; pioveva ininterrottamente, non facevamo altro che beccarci acqua e non riuscimmo nemmeno a socializzare, un po’ per timidezza, un po’ per inesperienza, ma dal quarto giorno cambiò tutto. Ci trovavamo sul Ponte Ha’Penny e guardavamo il fiume Liffey scivolare lento verso il Mare di Irlanda; sullo sfondo si ergeva la sagoma della Custom House e il Liberty Hall, l’edificio più alto della città che sembrava sfiorare il cielo gonfio, quando seguendo con lo sguardo quella massa d’acqua scura che si spostava, dissi a Marco: “Se le cose non funzionano, perché insistere nella stessa direzione? Prendiamo il primo treno in partenza, lasciamo Dublino, deviamo verso ovest, andiamo a Galway, proviamo a cambiare!”. Da quel momento, il viaggio, che sembrava destinato ad andare in vacca, si trasformò in una delle esperienze più incredibili della mia vita. Galway era stupenda, con le sue case basse e colorate a fiancheggiare la baia, con i suoi cigni sempre alla ricerca di cibo, con le sue vecchie signore dalla pelle rosata che passeggiavano lente masticando l’aria viva. E noi sempre in giro, con le suole delle scarpe fumanti e il sorriso sulle labbra, a stringere mani e ad ammirare posti nuovi, facemmo amicizia con tutti, io in particolare ricordo una ragazza dai capelli rossi e dalla grande gonna verde che svolazzava al vento. Tra una Guinness e una baked potato mi spiegava cosa significasse vivere a Galway, cosa volesse dire essere irlandesi: “In questa terra non puoi e non devi avere paranoie, sei quello che sei e nessuno ti giudicherà. Chi lo farà è un fottuto stronzo. Qui non esistono tavoli occupati, siediti dove preferisci e qualcuno ti parlerà, ragazze comprese. Non siamo tipe da tacchi a spillo; buttati e vedrai che qualcuno ti afferrerà! E sono certa che un giorno partirai da Galway per farci ritorno e che in te conserverai mille frammenti di questa terra, perché se ti alzi al mattino e pensi alla sua gente, significa che hai iniziato ad amarla e che non potrai più smettere di farlo”. Aveva gli occhi color d’Irlanda quella ragazza, si chiamava Shannon, come il grande e maestoso fiume irlandese cantato dai Pogues. La immagino ancora lì, seduta sulla panchina del porto davanti alla magica baia, ad affrontare le onde della vita come se nulla fosse, perché tutto fa parte del destino. “So I walked as day was dawning Where small birds sang and leaves were falling Where we once watched the row boats landing By the broad majestic Shannon“