a scuola di osteopatia

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a scuola di osteopatia
Francesco Maria Cutrupi – Carmelo Priolo
a scuola di osteopatia
Per una cura della salute
Armando
editore
Sommario
Prefazione di Rodolfo Lena
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Introduzione
Note
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Capitolo primo: Origini ed evoluzione dell’osteopatia
1.La nuova concezione medico-terapeutica di A.T. Still
2.L’osteopatia craniosacrale
3. Vis medicatrix naturae e cura sui
4. Servizio ed etica della cura in medicina
5. Salute pubblica e difesa del pianeta
6.La funzione elettiva della mano nella terapia osteopatica 7. Giuramento di Ippocrate e Giuramento professionale
dell’Osteopata
8. Regole di etica nell’ambito del trattamento osteopatico
Note
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Capitolo secondo: Il valore della comunicazione tra paziente
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e terapeuta. Strategie e ambiti della comunicazione
1. “Comunicare è necessario come respirare, studiare il comunicare
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è progetto necessario per tutti, per ognuno” (D. Dolci)
2.Osteopata e paziente: una singolare relazione d’aiuto circolare 60
3.Custodire la singolarità, il segreto nella relazione terapeutica 61
4. “Offrire” la propria esperienza a chi “soffre” la propria
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esistenza 5.L’espressione del corpo come risorsa ed energia terapeutica
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6.L’empatia come elemento pulsante nel rapporto terapeutico
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7.Ragioni e metodo nella cura osteopatica
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Note
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Bibliografia
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A Nanà
immenso amore della mia vita
A Giovanni
il frutto più bello del nostro amore
Prefazione
Rodolfo Lena*
«In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi
asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione
corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini».
Recita così, tra l’altro, il famoso Giuramento di Ippocrate, prestato
dai medici-chirurghi e odontoiatri prima di intraprendere ufficialmente
la propria professione. Da almeno trent’anni, in Italia, un esercito di
osteopati – categoria ben distinta da quella medica tradizionale, come è
ovvio − avanza silenziosamente conquistando sempre maggiori spazi e
considerazione tra i cittadini che soffrono.
Un motivo ci sarà!
Dati Istat e Eurispes ci dicono che circa il 7-8% della popolazione si
rivolge agli osteopati, con un grado di soddisfazione del 78%.
La disciplina manuale nata negli Stati Uniti a fine Ottocento si è
oramai organizzata in scuole e associazioni di categoria e chi la pratica
professionalmente entra ogni giorno nelle case di migliaia di persone
con il solo obiettivo di alleviarne le sofferenze.
Siamo in presenza, però, di un evidente vuoto legislativo in materia. Oggi è ancora troppo facile rilasciare un diploma di osteopata, ma
soprattutto questa figura fatica a essere ricompresa nell’alveo delle professioni sanitarie propriamente dette.
Qualche passo avanti è stato compiuto con l’istituzione di un Registro con riferimenti agli standard europei e a quelli dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità, ma tanto resta da fare. E quando dico questo
* Presidente
della Commissione Politiche Sociali e Salute della Regione Lazio.
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intendo da entrambe le parti: le istituzioni devono sicuramente tenere
conto di questa disciplina e hanno l’obbligo di normarla, assumendosi
la responsabilità delle scelte che saranno prese in termine di riconoscimento pieno o parziale dell’osteopatia all’interno del Servizio sanitario nazionale. D’altro canto, gli osteopati devono tracciare una linea di
confine molto più chiara rispetto a chi agisce solo in termini di business
e che ha tutto l’interesse al perdurare di questa situazione di limbo normativo.
Trasparenza e chiarezza devono essere i nostri punti di riferimento
in questa delicata fase.
Anche in questa ottica, consiglio vivamente la lettura di questo volume, in grado di chiarire tutti gli aspetti della disciplina, con particolare
attenzione ai risvolti etici e deontologici che rappresentano il valore
aggiunto più alto e nobile per chi si occupa della salute altrui.
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Introduzione
Nella riflessione umana l’evento della vita sulla terra suscita ammirazione e turbamento, stupore e sgomento. Questo sentimento conflittuale scaturisce dalla consapevolezza che la vita stessa è intrecciata con
la dimensione della finitezza e della morte. Nel segno di tale polarità
l’uomo ha giustificato i motivi del suo esistere, concependo nel tempo
un variegato spazio espressivo sempre aperto al cambiamento, dando
impulso a complesse organizzazioni sociali e a tutte quelle forme di
civiltà finora conosciute. Non avendo nulla di compiuto o predeterminato in sé, autonomo nella sua capacità di pensiero e nello stesso tempo
permeabile ad ogni influenza, egli si scopre e si sviluppa in un intricato combinarsi di precarietà e infinite possibilità, giungendo a vedere
distinti, ma non giustapposti, il piano biologico della vita umana da
quello dell’esistenza. «L’uomo è uomo per la sua potenza di cultura. La
sua natura è poter uscire dallo stato naturale per mezzo della cultura,
poter dare, in lui e fuori di lui, realtà all’artificiale»1. Ex-sistere, come
suggerisce l’etimologia latina, significa infatti venir fuori da, emergere,
un essere esposti all’altro e ad altro, un oltrepassare ciò che si è, in
direzione di qualcosa che non è già data, ma che si apre come pura
possibilità, e quindi, annuncio di novità radicale, désir d’une ouverture
infinie. Nel venire al mondo da bipede, l’uomo, nella sua propensione
a camminare, s’accorge di essere votato all’erranza per provare ogni
possibile via e individuare quella più consona alla sua idea di esistenza.
È proprio da questa sua costitutiva insicurezza che egli può aprirsi ogni
via e costruire il suo destino2. La natura umana, quindi, sembra plasmarsi nella tensione continua dell’hodós, nel cammino, nel viaggio, nell’affrontare nuove sfide; in essa, però, emerge anche l’esigenza di stabilirsi,
mettere radici, vivere in uno spazio ben preciso; condizione nomade e
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senso della comunità per cui s’intrecciano, caratterizzando l’uomo alla
stregua di un funambolo nella costante ricerca del suo equilibrio, dato
dal dover governare le forze polari presenti in lui (stanzialità e nomadismo, ma anche ragione e istinto, ricerca di un fondamento per sfuggire
all’assurdo e al caos, materialità e spiritualità, benessere e malattia). La
vita dell’uomo, unica realtà del vivente in cui la dimensione biologica
si è evoluta di pari passo con quella che noi definiamo coscienza di
sé, esibisce un’altra importante polarità: la possibilità di decidere cosa
voler fare della propria vita, e nello stesso tempo, con la propria azione,
influenzare in un modo o nell’altro la vita degli altri. Questa azione, che
non si dà mai in modo neutrale, in quanto protesa a configurare l’universo morale entro cui si muove la comunità umana, suggerisce che
dinanzi all’altro possiamo avere un atteggiamento di dedizione, di cura,
o scegliere di rimanere indifferenti. Parafrasando Martin Heidegger si
tratta di scegliere tra una “vita inautentica” e una “vita autentica”. L’esistenza dell’uomo appare come un esserci, collocata, cioè, da sempre
in un “ci”, in una situazione, in un mondo, in cui essa risulta gettata e
verso il quale è originariamente aperta. Questa apertura denota il senso
di un progetto, di un compito, mostrando come vivere nel mondo implichi vivere con gli altri, e il fatto che si viva con gli altri, prendendosene
cura, significa riconoscere la propria finitezza senza cercare di rimuoverla, ed assumerla vuol dire anche inoltrarsi sul sentiero che consente
di vedere “rivelato” il proprio essere3. «Il riconoscimento della fragilità
comune, e una cura del mondo come luogo dell’esprimersi di sé inevitabilmente interrelati l’uno l’altro e all’ambiente, [finisce] per diventare,
più che una teoria edificante, una necessità la cui presa d’atto si segnala
come non più dilazionabile»4. Oggi anche la medicina è chiamata a riflettere sulla propria finitezza per recuperare il suo originario ethos, per
non essere dimentichi della propria condizione di vulnerabilità e porsi
oltre il mito del progresso scientifico. Essa in ogni tempo e in ogni luogo dovrà rispondere alla propria vocazione di curare la persona umana
e, allo stesso tempo, cercare di far luce sul nuovo orizzonte di senso che
può emergere dall’esistenza del malato. Bisogna che il medico s’intrattenga più con le ragioni del soggetto ammalato che con la sorda ragione
della malattia organica in sé. L’atto del curare, comunque, non si esaurisce intervenendo nella sfera individuale del paziente, poiché denota
ed interpella la condizione universale della vulnerabilità umana: una
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condizione, più di ogni altra, che ci rende umani e dalla quale dobbiamo
partire per tracciare il senso di ogni discorso5. È un dato acclarato che la
medicina abbia raggiunto alti livelli nella comprensione della fisiologia
umana e la ricerca biomedica sia in prima linea nella lotta contro molte
malattie, innalzando l’età media delle persone. Sul versante dei diritti
del paziente, però, non si è registrato il medesimo progresso. Una inadeguatezza, questa, che rivela l’esigenza di avere un approccio diverso
rispetto ai concetti di cura, salute e malattia, finora avuti. L’osteopata
nell’applicare il proprio metodo terapeutico rende manifesta anche la
sua visione del mondo e porta questa nuova sensibilità di concepire
l’ars medica, considerato che dalla sua professione emerge il senso di
un lavoro che tende a valorizzare, implementare, attivare sinergie, in
vista del benessere di ciascuno. «L’osteopatia è la perfezione del lavoro
della natura: quando ogni parte del corpo lavora bene noi siamo in salute, se non è così si instaura la malattia. Riarmonizzando le varie parti
ne viene migliorata la funzionalità e ritorna lo stato di salute: è questo il
lavoro dell’osteopata»6, afferma il fondatore dell’osteopatia A.T. Still.
In questo senso la cura e l’attenzione che dobbiamo avere per il nostro
corpo devono far riflettere sul fatto che noi siamo chiamati responsabilmente ad avere cura della salute o del benessere del grande corpo
della comunità umana di cui ognuno è parte costitutiva. La medicina ha
dinanzi il compito forse più importante della sua millenaria storia, il suo
kairòs7 da portare a compimento: riscoprire la sua funzione di servizio a
favore dell’umanità e proporsi quale parte integrante di quel processo di
trasformazione in corso che auspicabilmente dovrebbe portare alla formazione di una nuova coscienza planetaria. È un bene che la medicina
classica, negli ultimi decenni, stia cominciando ad aprirsi al confronto con le medicine non convenzionali (MNC), compresa la medicina
osteopatica, la cui validità teoretica e pratica è confermata sul terreno
delle sue procedure e risultati terapeutici mediante le diverse Scuole
che stanno operando nel mondo intero. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) con una risoluzione del 2009 ha sostenuto tra gli
Stati membri la raccomandazione di integrare l’osteopatia nei Sistemi
sanitari nazionali per la concreta attuazione del principio della libertà
di scelta della cura. La medicina osteopatica, consapevole di essere una
disciplina e una pratica terapeutica in continua evoluzione, coniuga il
proprio bagaglio di tecniche e valori con la prospettiva d’indagine della
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medicina tradizionale, un’integrazione che implica una visione costantemente ripensata alla luce della cornice esistenziale in cui opera.
Note
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G. Bachelard, Il materialismo razionale, Dedalo, Bari, 1975, p. 42.
L’uomo, secondo Sofocle, oltre ad essere to deinotaton, ciò che vi è
di più inquietante, per quello che può fare uscire da sé, è anche pantoporos
aporos, cioè capace di trovare sempre la strada, e perciò dotato di ogni risorsa; l’unica strada che gli è preclusa, restando dunque nella condizione di
a-poros, è la morte: «mai sprovvisto di fronte a ciò che lo attende, soltanto
alla morte non può sfuggire» (Sofocle, Antigone, vv. 360-362).
3 Heidegger introducendo il concetto di finitezza dell’essere scava un
solco incolmabile con tutta una tradizione che fa capo alla metafisica. Nella
connotazione del nuovo essere non si colgono più essenze immutabili, ma
solo tracce o cenni allusivi di una realtà ulteriore a cui l’uomo è chiamato
a rispondere. J.-L. Nancy, nel saggio Un pensiero finito, esprime puntualmente questo cambiamento di paradigma dell’essere che ha comportato
gravide conseguenze sul piano etico nell’intero ecumene: «Da una parte vi
è per noi un pensiero che è terminato, una modalità di pensiero che è stata
liquidata con il naufragio del senso, ossia il compimento e l’intero arco
delle possibilità di significazioni dell’Occidente […]. Ma compiendosi e
ritraendosi, questo pensiero fa sorgere una nuova configurazione […], alla
maniera della marea più impetuosa, che ritirandosi lascia vedere modificato il limite della riva. [Il senso di questo nuovo pensiero finito] si situa nel
fatto che l’esistenza “comprende” che “essere” non consiste nel riposare
sulla base di un’essenza, ma unicamente nel rispondere a e del fatto che
c’è “essere”, cioè nel rispondere a e di se stessi in quanto esistere di un’esistenza. La finitezza è la responsabilità del senso, assolutamente. Non ce n’è
un’altra (J.-L. Nancy, Un pensiero finito, a cura di L. Bonesio, Marcos y
Marcos, Milano, 1992, p. 10; 27).
4 G. Cusinato, L. Mortari, L.M. Napolitano (a cura di), Cura sui e autotrascendimento. La formazione di sé fra antico e postmoderno, in «Thaumàzein», 1, 2013, p. 8.
5 La vita umana è intessuta di vulnerabilità e il senso comune ce lo
attesta in ogni momento. La vulnerabilità ci accompagna sempre: essa è
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presente nei tempi del nascere, del morire, del patire in genere, della costituzione dei legami di ogni tipo, della creazione estetica, rammentandoci che l’uomo non può pensare di eliminare la sua fragilità in nome di
una presunta autosufficienza, quando ha tentato di farlo gli esiti sono stati
disastrosi per sé e per gli altri. Proprio per questo, nel 1988, la vulnerabilità, è stata individuata come principio bioetico dalla Dichiarazione di
Barcellona, che la definisce in questo modo: «La vulnerabilità è l’oggetto
di un principio morale che richiede l’esercizio della cura nei confronti delle persone vulnerabili. Le persone vulnerabili sono quelle persone la cui
autonomia, integrità e dignità possono essere minacciate. In questo senso
tutti gli esseri umani, in quanto portatori di dignità, sono protetti da questo
principio. Ma il principio di vulnerabilità richiede specificatamente non
solo di non interferire con l’autonomia, la dignità o l’integrità degli esseri
umani, ma anche che essi ricevano assistenza affinché possano realizzare
il proprio potenziale».
6 A.T. Still, Osteopathy Research and Practice, Press of the Pioneer
Company St. Paul, Minn. (Digitezed by the Internet Archive in 2007 whit
funding from Microsoft Corporation), 1910, p. 23.
7 Nell’antica Grecia il kairòs non è il tempo lineare e convenzionale che
scandisce le ore, i minuti e i secondi (il tempo cronologico), ma un tempo
propizio in cui è possibile prendere una decisione importante e irripetibile
tanto che l’impossibile può diventare possibile, la necessità può mutare in
spazio di libertà e di equa giustizia, a patto, però, che questo momento decisivo lo si sappia cogliere nell’istante in cui si manifesta. Il kairòs, quindi,
proponendosi come il tempo del cambiamento, indica che c’è una crisi
nella realtà in cui l’uomo si trova ad agire, una transizione in atto, e nella
fase di questo passaggio risulta decisiva e irreversibile la scelta intrapresa.
Nella medicina, Ippocrate individua la nozione di “crisi” nel momento critico o di snodo in cui la malattia evolve verso la guarigione o la morte. Dai
tempi di Ippocrate, la percezione del modo in cui funziona il corpo umano
è ovviamente molto cambiata, ma il senso antico del termine “crisi”, quello
di momento in cui si decide di imprimere una svolta agli eventi, è estremamente ancora attuale.
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