Leggi la testimonianza del prof. Cosmacini per la beatificazione di

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Leggi la testimonianza del prof. Cosmacini per la beatificazione di
Domenica mattina, quando le spoglie di don Carlo Gnocchi sono state posate dagli alpini sul sagrato del
Duomo, a pochi metri da me, la mia mente si è tuffata nel mare dei ricordi, a partire da quel 13 marzo del
1937, quando furono portate in Duomo le reliquie di Giovanni Battista de La Salle, fondatore dei Fratelli
delle Scuole Cristiane, miei educatori in questo Istituto Gonzaga, dove io frequentavo la seconda classe
elementare. Da pochi mesi era direttore spirituale dell’Istituto un sacerdote trentacinquenne, magro e
pallido, affabile e sorridente, che mi dimostrò la sua predilezione scegliendomi tra gli “astanti all’urna” che
dovevano scortare sul pullman le sante reliquie durante il loro trasporto dalla Stazione Centrale (dov’erano
in transito provenienti dal Belgio e dirette a Roma) fino al Duomo, qui attese, per la benedizione solenne,
dal cardinale Ildefonso Schuster.
Quel sacerdote era don Carlo, settantadue anni fa. Mentre il cardinale Dionigi Tettamanzi si accostava
benedicente, il mio pensiero era perso nel ricordo di quel lontano 1937, quando la memoranda giornata del
20 aprile vide l’inaugurazione dell’ala nuova dell’Istituto, affacciata alla via Settembrini. L’augusto visitatore
venuto a inaugurarla era nientemeno che Sua Altezza Reale e Imperiale il Principe di Piemonte Umberto di
Savoia, al quale che vi parla, prescelto dal Signor Direttore (l’indimenticato e indimenticabile fratel
Gioachino, professor Giuseppe Gallo), porse il benvenuto “a nome dei compagni piccoli e grandi”, con un
corollario declamatorio che ben ricordo, ma che non ripeto. La spiritualità di don Carlo era aliena da
declamazioni. Il giorno successivo non mancò di canzonarmi, come sapeva fare lui, tra una carezza e un
sorriso. Io, che dal principe avevo ricevuto un bacio che era stato un freddo tocco di guancia più che di
labbra, gli dissi la mia delusione. Don Carlo mi sussurrò: “un bacio è perfetto se è dato con affetto … come
quello della mamma”.
Un altro episodio, fra i tanti che si affollano alla mia memoria, concerne l’osservanza del rito militaresco che
al sabato pomeriggio comportava l’adunata in cortile in divisa da marinaretto, pronti a marciare e ubbidire
a comando. L’alternativa era quella di rinunciare per qualche ben giustificato motivo, come quello di
seguire don Carlo in visite edificanti ed educative all’Istituto dei Ciechi, alla Sacra Famiglia o in altre Pie
istituzioni di Milano e dintorni. Don Carlo, nel farci da guida, diceva che “valeva più una buona azione che
cento avanti marsc e dieci presentat’arm”.
Il mio pensiero, domenica, nella piazza del Duomo superaffollata, andava a ritroso anche alla primavera del
1944, quando don Carlo, redice dalla Russia e impegnato nel dare aiuto a chi cercava in Svizzera una “terra
d’asilo”, venne al paese – Ramponio in Val d’Intelvi – vicino al confine, nel quale la mia famiglia era sfollata
dopo i bombardamenti aerei di Milano. Celebrò una messa, nel Santuario del paese, dedicato a San
Pancrazio, un santo guerriero. Nel tragitto al Santuario, lungo circa un chilometro, tenendo un braccio sulle
spalle di me tredicenne, mi parlò della “lebbra di guerra”, che faceva cadere a pezzi le dita congelate,
inguantate non tanto per essere protette quanto perché i soldati non vedessero lo scempio compiuto dal
gelo. Al Vangelo disse una frase memorabile, dettatagli dalla sua esperienza di “Cristo fra gli alpini”, che
non ho dimenticato: “La guerra avvicina i morenti a Cristo e allontana i viventi da Dio”.
Voi capite perché quando monsignor Angelo Bazzari, a me medico e storico, propose di scrivere la storia
della Fondazione che si intitola al nome di don Carlo Gnocchi, ora “beato”, io accettai con entusiasmo. Ma
l’entusiasmo fu anche dettato da due altre ragioni. L’una è che la mia baracca, come egli definì la propria
opera in punto di morte consegnandola in eredità ai propri successori e continuatori, era l’opera – l’impresa
– di un uomo antiveggente che, senza essere né medico né psicologo laureato, seppe fare molto più di
quanto fecero la medicina e la psicologia del suo tempo, acquistando un posto di grande rilievo nella storia
medico-sanitaria del nostro paese.
L’altra motivazione è che, a mio avviso, il decennio di attività spirituale, intervallato dai periodi bellici di
Albania e di Russia, a contatto con i Fratelli e con i giovani del Gonzaga fu determinante per la messa a
fuoco della sua opera di carità e di scienza applicata.
“Stare con i giovani” fu sempre a sua consegna: prima con i ragazzi e gli adolescenti, qui in Istituto; poi con
quei giovani che, vestiti da alpini, egli seguì sui monti della Grecia e nelle pianure dell’Ucraina; infine con
quegli altri ragazzi, innocenti, colpiti dai residuali ordigni di guerra e divenuti “mutilatini”; e infine ancora
con quei bambini vittime anch’essi di una grande violenza, la virulenza morbosa della “paralisi infantile”,
della poliomielite.
In quest’opera, in questa impresa polivalente, tanto vasta quanto precorritrice, i Fratelli delle Scuole
Cristiane del Gonzaga furono al suo fianco continuativamente e in modo sostanziale. Fratel Gioachino (che
lasciatemi chiamare “il mio” direttore) lo capì, lo favorì, lo seguì, quando e laddove altri forse non lo
capirono e non lo seguirono.
Fratel Bertrando (Garavelli), che curava i ludi juveniles (e che portava a sciare all’Alpe Devero mio fratello,
con mia grande invidia), fu al fianco di don Gnocchi in un percorso educativo, dove l’educazione della
gioventù contemperava l’educazione fisica alla crescita spirituale e morale, aldilà o aldifuori delle ideologie
allora imperanti. Fu soprattutto fratel Beniamino (Bonetto) con la sua scienza, quegli che don Carlo
chiamava “il tecnico nostro” e che in realtà era un supertecnico, ricco di filosofia e psicopedagogo, ad
affiancare don Carlo nell’opera che lo portò alla “restaurazione della persona umana”, cioè – in un’Italia che
dopo la guerra ricostruiva se stessa – alla ricostruzione di tanti disabili intorno ai loro bisogni e intorno ai
loro diritti.
In una lettera a fratel Beniamino, don Carlo scrive: “Ella veramente sta diventando il tecnico nostro di
questo attualissimo problema e nessuno meglio di lei ha le qualità per esercitarlo con piena autorità”.
Il motore dell’opera di don Carlo è certamente la giustizia associata alla carità. Rendere giustizia al “dolore
innocente” attraverso l’ethos della carità cristiana. Ma la carità necessaria per sviluppare la sua opera è una
carità diversa da quella praticata da altre pur meritorie congregazioni misericordiose. E’ una carità speciale,
non generica ma specifica e che sa farsi specialistica, coniugando l’assistenza alla scienza. Dice don Carlo:
“Non è anche la scienza un dono dell’amore infinito?”.
Questa sintesi di scienza e assistenza don Carlo la cerca e la trova qui, nei fratelli delle Scuole Cristiane del
Gonzaga. Fratel Beniamino, da New York dove è andato a studiare il complesso organizzativo dell’opera di
riabilitazione, scrive a don Carlo, l’11 febbraio 1951, illustrandogli “l’organizzazione statale a favore dei
motulesi, l’organizzazione culturale e scientifica preordinata all’educazione e riabilitazione dei poliomielitici
e cerebropatici, l’organizzazione tecnica, l’organizzazione pubblicitaria, la polarizzazione sociale intorno ai
motulesi”.
Quando, esattamente un anno dopo (l’11 febbraio 1952), decolla la Fondazione Pro Juventute, la sede
romana dell’opera neo fondata è luogo di molti incontri decisionali tra don Gnocchi e fratel Gioachino,
divenuto Superiore generale dei Fratelli, ai quali vengono affidate direzione e gestione dei numerosi collegi
sorgenti via via. Fratel Beniamino diventa direttore del Centro-pilota, mentre nel Centro ortopedicochirurgico di Parma si succedono al vertice i fratelli Abele Morello, Crescenziano Quattrocchi, Edesio
Gambino, Tullio Panizzoli, Bertrando Garavelli, si quello stesso Bertrando che io ricordo, sul finire degli anni
trenta, curare la preparazione fisica degli allievi del Gonzaga (tra cui mio fratello) che tenevano alto l’onore
dell’Istituto nei campionati studenteschi di calcio e pallacanestro.
Ancora una volta, parlare di don Gnocchi, e qui del suo rapporto privilegiato con i Fratelli delle Scuole
Cristiane e con questo Istituto Gonzaga, fa da esca ai miei ricordi, sui quali non voglio indugiare oltre.
Mi sia permesso chiudere questo mio intervento con una metafora: se un albero che dà buon frutto non
può essere altro dal seme che è stato e dal terreno dove ha affondato le sue radici, la piantagione rigogliosa
di don Carlo, che ha fruttificato e fruttifica a vantaggio dei tanti che hanno bisogno di giustizia e di carità, di
assistenza e di scienza, ha avuto la sua semina e il suo humus, da cui viene l’humanitas, proprio qui, in
questo luogo … e in quel tempo in cui chi vi parla è stato uno dei tanti ragazzi che hanno ricevuto da don
Carlo, da San Carlo, “l’educazione del cuore”.
Giorgio Cosmacini