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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA IN TEMA DI TUTELA DEI DIRITTI
UMANI
Aggiornato al 31 ottobre 2014
A cura di LUCIA SIPALA
H. c. Regno Unito, Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, 16 Settembre 2014
Questa sentenza della CEDU si occupa di analizzare le problematiche relative all' extraterritorialità,
al diritto alla libertà e alla sicurezza e le relazioni tra il diritto internazionale umanitario ed i diritti
umani.
In questo caso, la Corte si trova a giudicare su dei fatti relativi alla cattura in Iraq, durante le ostilità
del 2003 da parte delle forze armate britanniche, a seguito dell'invasione americana, di un .
cittadino iracheno.
Il ricorrente e' il fratello della vittima, che dopo essere stato catturato dalle forze armate britanniche
venne successivamente ritrovato morto con addosso segni di tortura.
Si tratta del primo caso in cui uno Stato parte della Convenzione chiede alternativamente la
disapplicazione dell'articolo 5 della Convenzione, una diversa interpretazione dello stesso alla luce
di principi di diritto internazionale umanitario, il quale autorizza l'internamento dei prigionieri di
guerra, pratica vietata dal secondo comma dell'articolo 5 della CEDU, durante i conflitti
internazionali.
La Grande Camera ha affermato che, sebbene H. fosse sotto la giurisdizione inglese sino al
momento del suo rilascio, non vi e' stata alcuna violazione dell'articolo in questione riguardo alla
sua cattura e alla sua detenzione.
La CEDU, infatti, deve essere interpretata insieme agli strumenti di diritto internazionale applicabili
in tempo di guerra.
La corte ha, innanzitutto, chiarito che non c' è stata violazione degli articoli 2 e 3 della convenzione,
in quanto non si avevano prove sufficienti a dimostrare che le autorità inglesi fossero responsabili
della sua morte, soprattutto per il fatto che il suo corpo era stato ritrovato a 700 m dal campo inglese
ed in una zona fuori al controllo delle stesse.
In secondo luogo, la Corte non ha condiviso il ragionamento dello stato resistente, secondo il quale
vi è carenza di giurisdizione per il fatto che il governo britannico non era una forza occupante e che
quindi la condotta dello Stato doveva invece essere soggetta alle norme di diritto internazionale
umanitario, perché in contrasto con la giurisprudenza della Corte e con quella della Corte
Internazionale di Giustizia.
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La Corte non ha nemmeno condiviso il ragionamento secondo il quale la giurisdizione andrebbe
esclusa per il fatto che dopo il suo arresto H. fosse passato dalla custodia delle truppe britanniche a
quelle americane. La Corte infatti ha affermato che H. fosse sotto la custodia delle truppe
britanniche dal momento della cattura sino a quello del suo trasferimento fuori dal campo.
La Corte ha interpretato l'articolo 5 alla luce della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, e
così facendo ha disposto che, quando si interpreta la CEDU, bisogna fare riferimento anche alle
successive applicazioni de trattato e anche tutte le norme di diritto internazionale applicabili tra le
parti.
Sotto questo aspetto, la Corte ha affermato che non è pratica degli stati di derogare all'articolo 5 in
materia di detenzione come stabilito dalla terza e quarta convenzione di Ginevra.
Più nello specifico, sia la CEDU che la Convenzione di Ginevra sono state redatte nello stesso
periodo storico e la prima deve essere quindi interpretata alla luce della prima.
Tuttavia la Corte ha riconosciuto che nei casi di conflitti armati internazionali, durante i quali
l'arresto dei prigionieri di guerra e la detenzione di civili costituenti minaccia alla sicurezza sono
elementi tipici del diritto internazionale umanitario, l'articolo 5 CEDU può' essere interpretato in
maniera estensiva e può' permettere quindi l'esercizio di tali poteri. La detenzione deve comunque
essere legittima e rispettare i principi di diritto internazionale umanitario.
La corte ha ritenuto legittimo l'arresto di H., in quanto trovato armato sul tetto della casa del
fratello, luogo nel quale erano custodite altre armi, in linea con quanto stabilito dalla terza e quarta
convenzione di Ginevra.
Adefdromil c. France, Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, 2 Ottobre 2014
Con questa sentenza la CEDU ha dichiarato il contrasto tra legge militare francese, che prevedeva il
divieto per il personale militare di far parte di associazioni di categoria, e la Convenzione Europea
dei Diritti dell' Uomo.
Sebbene il ricorso era stato promosso per violazione degli artt. 6, 11, 13 e 14 della CEDU, la Corte
si e' limitata a esaminarlo solo per violazione dell' articolo 11, posto a tutela della libertà' di
associazione.
Da questo punto di vista, nonostante l'articolo in questione preveda che delle restrizioni legittime
possano essere imposte dallo Stato ai membri delle forze armate, queste devono riguardare l'
esercizio del diritto e non la vera essenza del diritto di associarsi.
Più' nello specifico, la Corte ha affermato che il diritto di formare e fare parte di associazioni
sindacali costituisce uno degli elementi essenziali del diritto in questione.
Inoltre, non essendo controverso il fatto che in questo caso ci fosse una interferenza dello stato
nell'esercizio dei diritti garantiti dalla convenzione, la Corte ha verificato se la restrizione fosse
prescritta dalla legge, finalizzata a uno scopo legittimo e necessaria all'interno di una società
democratica.
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Nel caso di specie, la restrizione era stata prevista dalla legge militare, che distingueva tra
appartenenza a associazioni ordinarie, autorizzata, ed appartenenza a associazioni professionali,
quest'ultima invece proibita.
Su questo punto si era pronunciato anche il Consiglio di Stato francese, secondo il quale le
associazioni di appartenenza alle forze armate finalizzate alla protezione di interessi economici e
non di questa categoria erano da considerarsi come appartenenti al secondo gruppo. Questi divieti
perseguivano, poi, secondo la Corte, lo scopo legittimo della conservazione dell'ordine e della
disciplina necessaria alle forze armate.
Tuttavia, in una società' democratica, le stesse non risultavano proporzionate e necessarie.
Sotto questo punto di vista la Corte ha affermato che, sebbene la Francia avesse messo in atto
procedure speciali e creato degli organismi specializzati atti a farsi carico delle istanze proprie dei
membri delle forze armate, questi non erano idonei a garantire l'esercizio della libertà' di
associazione, libertà' che ingloba anche il diritto di formare e prendere parte ad associazioni
sindacali.
La Corte si e' dimostrata consapevole del fatto che la speciale natura delle forze armate esiga
un'attività' sindacale che si adatti a queste caratteristiche, ma ha anche sottolineato con forza che le
restrizioni, anche significanti, possono essere imposte sulle forme di azione e di 'espressione' di una
organizzazione professionale e del personale militare che di questa organizzazione fa parte, posto
che queste restrizioni non privino il personale militare del generale diritto di associazione in difesa
dei loro interessi professionali e economici.
Nel caso di specie, la Corte ha concluso che le ragioni dello stato resistente, volte a giustificare
l'ingerenza nel diritto di cui all'art 11 della CEDU sono insufficienti, perché' lo stato ha posto una
proibizione assoluta alla libertà di iscriversi ad associazioni sindacali nei confronti del personale
militare. Questo generale divieto corrode la vera essenza della libertà' di associazione e non può',
per queste ragioni, essere considerato proporzionato e necessario all'interno di una società'
democratica.
J. c. Olanda, Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, 3 Ottobre 2014
Questa sentenza della Corte Europea dei Diritti dell' Uomo cambia la giurisprudenza della Corte in
materia di diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Infatti, mentre prima di questa sentenza la CEDU non riteneva violato l' articolo 8 della
Convenzione nel caso in cui il migrante avesse formato una famiglia nel paese ospitante nella
consapevolezza della propria instabilità' nel paese o, in questo caso la corte ha invece sancito la
violazione di tale articolo.
Nel caso di specie, la ricorrente è una donna surinamese entrata nei Paesi Bassi nel 1997 e che
aveva contratto matrimonio con un cittadino olandese, da cui aveva avuto tre figli. La ricorrente si
era vista negare più' volte la richiesta di residenza permanente.
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La Corte, in linea con tutta la precedente giurisprudenza, afferma innanzitutto che nonostante la
ricorrente risiedesse da diversi anni nei Paesi Bassi, questo non faceva di lei una migrante 'stabile' –
definizione data nella giurisprudenza della corte per indicare quei soggetti ai quali era stato
formalmente garantito il diritto di residenza nello stato ospitante.
La differenza rispetto a casi analoghi sta nel fatto che la CEDU non ha considerato questo caso
come uno di quelli in cui oggetto era l'interferenza dello stato nel godimento del diritto della propria
vita privata e familiare, bensì è stato valutato il fallimento dello Stato di ottemperare all' obbligo
positivo di garantire alla ricorrente un permesso di residenza e, cosi' facendo, metterla nella
posizione di godere della propria vita famigliare in Olanda.
In questo senso, la CEDU ha ritenuto violato l'articolo 8 in virtù' delle particolari circostanze del
caso. Infatti lo Stato ha fallito nel bilanciare gli interessi in gioco: da un lato l'interesse della
ricorrente, di suo marito e dei suoi figli a continuare la loro vita familiare in Olanda, dall'altro
l'interesse dello Stato, tra i tanti, a controllare i flussi migratori.
E' importante ricordare che la Corte ha comunque ribadito i principi giurisprudenziali in materia di
godimento della vita privata e familiare, ma quello che qui interessa è la definizione che la Corte da
delle 'particolari circostanze' che devono venire in considerazione in questo caso di specie: qui tutti i
membri della famiglia della ricorrente sono cittadini olandesi, e la donna stessa era cittadina
olandese sino all'indipendenza del Suriname e che la stessa avesse vissuto (e che lo stato Olandese
avesse tollerato la sua presenza) in Olanda per sedici anni e che si fosse presa cura dei propri figli,
che godono di cittadinanza olandese e non hanno alcun legame diretto con il paese d'origine della
madre.
T. c. Belgio, Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, 7 ottobre 2014
Questa sentenza della CEDU in materia di estradizione, riconosce la violazione da parte del Belgio,
degli artt.3 e 34 della Convenzione.
In particolare qui la Corte si trova a decidere sulla legittimità dell'estradizione di un cittadino
tunisino, N.T. , condannato in Belgio a 10 anni per aver preso parte alla pianificazione dell' attacco
alla base militare belga di Kleine-brogel e all' ambasciata americana di Parigi.
Per questa ragione, gli Stati Uniti avevano chiesto al Belgio l'estradizione, fornendo la
'rassicurazione diplomatica' che T. non sarebbe stato condannato alla pena di morte e che sarebbe
stato processato davanti alla giurisdizione ordinaria.
La richiesta americana veniva accolta dal Belgio e il ricorrente impugnava la decisione del
Ministro della Giustizia davanti la CEDU, la quale garantiva una misura ad interim.
Nonostante queste misure fossero state ordinate, T. veniva estradato negli Stati Uniti nel 2013.
Alle doglianze del ricorrente, il Belgio rispondeva che il mancato rispetto delle misure ordinate
dalla CEDU era dovuto alle rassicurazioni diplomatiche fornite dagli Stati Uniti.
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Questo, secondo la corte non era sufficiente, e dichiarava quindi la violazione dell'articolo 34
CEDU.
Riguardo la violazione dell'articolo 3, la corte ha ritenuto che sebbene il diritto processuale penale
americano preveda la possibilità' di ridurre la pena dell'ergastolo, ricorrendo determinare
condizioni, la Corte ha ritenuto tali strumenti insufficienti.
A. N. c. Polonia, Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, 24 luglio 2014
Nella sentenza A.N c. Polonia, il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 3 (divieto di
trattamenti inumani e degradanti), 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza delle persone) e 6(diritto ad
un giusto processo) della CEDU.
In particolare, egli era stato tenuto segregato per sei mesi negli Stati Uniti presso il centro CIA in
Polonia, prima di essere trasferito a Guantanamo e lamentava innanzitutto la violazione dell’art. 3
sia dal punto di vista sostanziale che procedurale.
Sotto questo ultimo punto di vista, infatti, la Corte ha rilevato che la Polonia ha fallito la
conduzione di una immediata, scrupolosa e efficace indagine finalizzata all'accertamento delle
condizioni ritenute illegittime dal ricorrente, obbligo che incombe sullo stato quando si presume che
i propri ufficiali possano essere coinvolti in episodi di tortura e di trattamenti degradanti.
Più’ nello specifico, la Corte ha sostenuto che i trattamenti subiti dal ricorrente, nel periodo in cui
era detenuto in Polonia, costituissero tortura. Sebbene fosse possibile che gli ufficiali polacchi non
fossero al corrente dell’effettivo trattamento dei prigionieri, lo Stato aveva l’obbligo di assicurare
che gli individui sotto la propria giurisdizione non fossero soggetti a tortura o altri trattamenti
inumani e degradanti.
In questo caso, la Polonia è stata riconosciuta colpevole di aver facilitato la detenzione del
ricorrente e di non aver intrapreso alcuna misura al fine di impedirne il trattamento disumano e
degradante.
Inoltre, la Corte ha rilevato la violazione dell’articolo 3 nella misura in cui la Polonia ha
autorizzato il trasferimento del ricorrente dal proprio territorio in altri centri di detenzione,
sottoponendoli ad un ulteriore (e prevedibile) rischio di tortura.
Lo stesso ragionamento veniva applicato dalla Corte riguardo alla violazione dell’articolo 5, posto a
tutela della libertà’ e della sicurezza delle persone.
La corte ha rilevato anche la violazione dell’articolo 8, posto a presidio della vita privata e
personale di ciascun individuo. Ai paragrafi 538-540 si legge infatti che: “in relazione alle
circostanze in cui si è verificata, l'interferenza con la vita privata e personale del ricorrente non è
da considerarsi legittima”.
La corte ha riscontrato poi una violazione dell’articolo 13, nella misura in cui al ricorrente non
erano stati riconosciuti effettivi rimedi in Polonia, e dell’articolo 6.1 per il fatto che il ricorrente,
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essendo stato trasferito nella prigione di Guantanamo, era stato sottoposto ad un processo militare, il
cui procedimento non possiede i requisiti minimi del giusto processo.
La corte ha determinato che la Polonia fosse consapevole del fatto che ci fosse il rischio reale e
concreto che il ricorrente potesse subire un flagrante rifiuto di giustizia.
Inoltre la Corte ha ritenuto che la Polonia fosse in violazione degli artt 2 e 3 della Convenzione in
combinato disposto con l’articolo 6 del protocollo 1, in quanto ha autorizzato il trasferimento del
ricorrente dal proprio territorio ed esponendolo cosi’ ad un reale e prevedibile rischio di essere
condannato a morte a seguito del processo militare a cui sarebbe stato sottoposto.
Dopo aver condannato la Polonia al pagamento di una somma di 100,000 euro per il risarcimento
del danno non-patrimoniale subito dal ricorrente, la Corte ha ordinato alla Polonia di chiedere
rassicurazione diplomatica al governo americano, rassicurazione volta ad escludere l’applicazione
della pena capitale.
S.A.S c. Francia, Corte Europea dei Diritti dell' Uomo, 1 luglio 2014
Con questa sentenza la CEDU ha affermato, in linea con quanto sostenuto in casi analoghi, che la
legge francese che proibisce di indossare il burka nei luoghi pubblici non viola la Convenzione
Europea dei Diritti dell’ Uomo.
Più’ nello specifico, la ricorrente, una donna musulmana praticante residente in Francia che
saltuariamente indossa abiti religiosi coprenti il viso ( come il burka o il nijab) denunciava la
violazione degli artt. 3 ( trattamenti inumani o degradanti) , 8 (vita privata) ; 9 (libertà religiosa) ; 10
(libertà di espressione) separatamente e in combinato disposto con l’articolo 14 (divieto di
discriminazione).
Dopo aver dichiarato infondata la richiesta sulla base degli artt. 3 e 11, insieme e in combinato
disposto con l’articolo 14, la Grande Camera si è concentrata sulla compatibilità’ della legge
francese con gli articoli 8 e 9 della CEDU.
Dopo aver rilevato che la legge in questione costituiva un’interferenza o una limitazione dei diritti
tutelati da questi due articoli, la Corte ha poi determinato se l’interferenza fosse ‘ prescritta dalla
legge’, ‘volta a perseguire uno scopo legittimo’ e 'necessaria in una società’ democratica’.
Essendo stato il divieto posto tramite legge, la Corte si è soffermata a valutare gli ultimi due criteri.
La Grande Camera ha accolto la tesi dello stato resistente secondo il quale la legge perseguiva due
scopi legittimi: pubblica sicurezza e rispetto per il minimo gruppo di valori di una societa‘ aperta e
democratica.
Riguardo il primo scopo perseguito, la corte ha riconosciuto che la legge francese intendesse
tutelare la pubblica sicurezza dai possibili pericoli derivanti dall’occultamento del viso in pubblico.
Il secondo scopo perseguito, invece, è stato invece analizzato piu‘ nello specifico la Grande Camera
ha respinto la motivazione data dal governo francese, secondo il quale la legge fosse finalizzata alla
promozione dell’uguaglianza di genere e al rispetto per la dignita‘ umana, ma ha accettato la
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giustificazione secondo la quale la finalita‘ di tale legge fosse quella di garantire la pacifica
convivenza, nozione intimamente connessa allo scopo legittimo di proteggere i diritti e le libertà
degli altri.
Infine, la Grande Camera ha ritenuto che il limite imposto da tale legge fosse necessario in una
società democratica: infatti, in una società democratica caratterizzata da diversi credi, può essere
necessario porre dei limiti alla libertà di manifestare la propria religione o credo al fine di
conciliare gli interessi dei vari gruppi e di assicurare che il credo di ognuno venga rispettato.
In questo senso, lo stato in questione è il più adatto, rispetto alla Corte, a valutare il contesto locale
(cd. Principio del 'margine di apprezzamento').
Tuttavia, la Corte ha poi affermato che il divieto generale di indossare indumenti che coprano il
volto è proporzionato solo nel caso in cui vi sia un generale pericolo per la sicurezza pubblica, cosa
che nel caso di specie non era stata dimostrata dal governo francese.
Più’ nello specifico, la corte ha riconosciuto che il divieto, che si caratterizzava per la sua ampiezza
e per il fatto che prevedesse sanzioni penali, potesse solo risultare in un isolamento e
restringimento dell’autonomia di quelle donne che hanno scelto di indossare il velo.
Nonostante ciò, la Corte ha affermato anche che il margine di apprezzamento di uno Stato è tanto
più ampio quando manca unita’ di consenso in seno agli Stati del consiglio d’Europa.
In questo caso, trovandosi la Francia in minoranza rispetto agli atri stati, la Corte ha ritenuto che la
legge francese fosse proporzionata rispetto al suo scopo.
E’ interessante notare che due giudici hanno dato parere discordante con la maggioranza della
decisione, ritenendo che la legge in questione violi gli artt. 8 e 9 della CEDU sulla base del
ragionamento secondo il quale il governo francese ha fallito nel dimostrare le ragioni che non gli
hanno permesso di mettere in atto misure meno restrittive.
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