20. Diletti Toaldo - Funzione Pubblica Cgil

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20. Diletti Toaldo - Funzione Pubblica Cgil
INTERNAZIONALE
SCENARI
IN
MUTAMENTO
“Le elezioni americane del 2008
potrebbero essere elezioni storiche...
Per quanto Barack Obama
possa essere un candidato ‘diverso’,
a provocare una vera frattura storica
sarebbe un altro fattore:
la fine della coalizione conservatrice
di matrice reaganiana
che ha dominato gli Stati Uniti
negli ultimi quaranta anni.”
Mattia Diletti e Mattia Toaldo
DILETTI, TOALDO
Mattia Diletti e Mattia Toaldo*
AMERICA 2008:
UNA NUOVA COALIZIONE
DEMOCRATICA?
Un’elezione (davvero) storica
L
e elezioni americane del 2008 potrebbero essere elezioni storiche. Si tratta di un’affermazione quasi banale, visto che potrebbe divenire presidente degli Stati uniti un candidato di colore
nel paese che pochissimi decenni fa ancora non permetteva a tutti gli
afroamericani di votare. L’elezione di un presidente nero sarebbe un
evento più sconvolgente e inaudito della vittoria di una donna.
Ma per quanto Barack Obama possa essere un candidato
‘diverso’, a provocare una vera frattura storica sarebbe un altro
fattore: la fine della coalizione conservatrice di matrice reaganiana che ha dominato gli Stati uniti negli ultimi quaranta anni
(a corrente alternata, ma sempre con in mano il pallino culturale e politico di questa epoca 1). La grande domanda che ci si deve
porre è la seguente: è in corso un riallineamento dell’elettorato
americano che prefigura l’emersione di un nuovo baricentro
politico favorevole ai democratici? È Obama il volano di questa
trasformazione che potrebbe far tornare i repubblicani partito di
minoranza, come accadeva nell’epoca del New Deal e del postNew Deal? Quali idee sostengono il cartello elettorale della
nuova coalizione democratica? E quale coalizione sociale?
*
Mattia Diletti (Roma, 1975), Università di Teramo; ricercatore
Osservatorio geopolitico delle élites contemporanee (GEOPEC-CRS). Si occupa
di politica americana e sta svolgendo ricerche sul rapporto tra esperti, think
tank ed esecutivi in USA e in Italia. Mattia Toaldo (Cetraro, 1978). Università
di Roma Tre; ricercatore Osservatorio geopolitico delle élites contemporanee
(GEOPEC-CRS). Si occupa di politica americana e Medio Oriente. Sono curatori, con Martino Mazzonis, del blog America2008 (blogamerica2008.blogspot.com)
1
F. Tonello, Il nazionalismo americano, Liviana, 2007.
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L’ipotesi di fondo è che persino una vittoria elettorale di John
McCain non dimostrerebbe la tenuta del movimento conservatore, per quello che sta avvenendo nella demografia elettorale americana e per il profilo stesso del candidato repubblicano. Si tratta
di un outsider, l’unico in grado di poter far fronte alla profonda
crisi di credibilità del Partito repubblicano: egli, però, deve scegliere tra il corteggiamento di una base repubblicana che non lo
ama – e della quale non è espressione – e l’attenzione verso un
elettorato indipendente poco incline a certe battaglie ideologiche
e stufo del bushismo. La sua speranza è di convincere uno dei due
blocchi elettorali sperando che l’altro lo voti ‘turandosi il naso’,
per usare un’espressione tipicamente nostrana.
Una sua vittoria sarebbe una boccata d’ossigeno per
l’America conservatrice, la quale però è già costretta a fare i
conti con la fine della ‘spinta propulsiva’ del reaganismo. Molto
probabile è la prova disastrosa dei repubblicani al Congresso,
preannunciata già dalle elezioni suppletive del 2008: essi hanno
perso seggi sicuri ovunque, dalla Louisiana all’Illinois passando
per il Mississippi.
Nel 2006, dopo le elezioni di medio termine di novembre, era
già apparsa evidente la fine del bushismo: dalla tragedia di
Katrina del 2005 in poi la carica ideologica del neoconservatorismo e l’effetto 11 settembre erano svaniti, mostrando il re nudo
e un’America impotente, impantanata senza un perché plausibile nel fango iracheno. Allora ci chiedevamo su questa rivista 2 se
la fine dei neoconservatori (rappresentata simbolicamente dalla
catastrofica parabola personale di personaggi del calibro di Paul
Wolfowitz, annegati nel fallimento del loro progetto imperiale
in Medio oriente) significasse anche la resa dell’intero movimento conservatore:
Il neoconservatorismo ha rappresentato un tentativo di conversione del Partito repubblicano, il tentativo di rendere un partito
americano quasi europeo: ideologico e con una visione coerente del
2
M. Diletti, M. Toaldo, America 2006. Sopravviveranno i conservatori alla
fine dei neocons?, in «Quale Stato» 4, 2006, pp. 261-279.
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mondo, della politica estera, dei rapporti tra poteri costituzionali,
della condotta morale degli individui, della politica economica.
Questo tentativo si innestava su una base preesistente, ovvero il
corpus di credenze e valori del conservatorismo americano emerso
con la presidenza di Ronald Reagan. Esso era a sua volta espressione di una coalizione elettorale e di un blocco sociale (e geografico)
maggioritario nel paese ed egemone sotto il profilo culturale, anche
negli anni ’90 di Clinton. Se diamo per certa la sconfitta del neoconservatorismo, è ancora presto per formulare un giudizio sul futuro e sulla capacità di tenuta del blocco conservatore [...]. Del blocco conservatore si percepisce oggi lo smarrimento con i suoi riflessi su scala mondiale, ma sono ancora visibili la sua forza e la sua
capacità organizzativa. [...] è sulla effettiva capacità di tenuta del
blocco conservatore che vanno concentrate le attenzioni nei prossimi due anni 3.
Rispetto a questo ragionamento si avanza quindi un’ipotesi
ulteriore: che sì, il blocco conservatore sta attraversando una crisi
vera, che diverrebbe storica se il partito democratico fosse in grado
di approfittarne al fine di rovesciare l’egemonia conservatrice. Non
auguriamo al Partito democratico di trovare un nuovo Carter
(quattro anni di comando effimero, un intermezzo all’interno di un
ciclo conservatore che si era appena avviato), ma in questa sede
sosterremo che i fondamentali elettorali di breve e medio periodo
potrebbero permettere ai democratici di invertire la direzione di
un’epoca di dominio repubblicano. È vero che all’orizzonte non si
intravede un nuovo Roosevelt, ne tanto meno una compiuta ‘dottrina’ democratica capace di far emergere un nuovo paradigma culturale: per ora gli elettori democratici sono tenuti insieme dall’insofferenza per il bushismo, la guerra, la corruzione del Partito
repubblicano, la paura della crisi economica. E non è poco.
Come al solito sono le crisi ad aprire opportunità insperate e
far precipitare gli eventi. Il fallimento della politica estera di
Bush ha rappresentato il primo durissimo colpo contro la credibilità del partito repubblicano, e oggi è ancor più pesante la crisi
3
Ivi, pp. 261-262
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di fiducia dei cittadini americani nei confronti delle politiche
economiche del governo. A certificare insofferenza e rancore
verso il Partito repubblicano – e più in generale verso l’intera
classe politica – sono state queste incredibili primarie del partito democratico (partecipate come mai prima nella storia degli
Stati uniti), che hanno spazzato via le pretese di invincibilità del
candidato dell’establishment del Partito – Hillary Clinton – e
dato le ali a un altro che ha utilizzato costantemente un unico
messaggio: essere il rappresentante del «We, The People»
(«Noi, il popolo», un tema costante della politica americana fin
dalle origini), la gente comune che soffre per colpa della ‘solita
Washington’. Della quale evidentemente fa parte, agli occhi
degli elettori, anche la Clinton.
Il messaggio fortemente populistico di Obama è stato del tutto
travisato nella campagna elettorale italiana, dove sono stati utilizzati slogan del candidato nero senza comprenderne minimamente la
dimensione della rabbia anti-establishment e il suo legame indissolubile con la tradizione politica americana, non trasportabile in altri
contesti. Questo messaggio si è nutrito di quattro fattori:
1. le crisi (politica ed economica); 2. le opportunità che le
primarie americane offrono agli outsiders (pur essendo queste
ultime uno strumento malconcio, che molti vogliono riformare
già dal 2012); 3. la mobilitazione, anche spontanea, di fasce di
elettorato ‘dormienti’, ma potenzialmente filo-democratiche; 4.
le tecniche nuove di mobilitazione elettorale utilizzate da
Obama, rivolte soprattutto a questi gruppi.
Questi fattori rappresentano la condizione necessaria – ma
non ancora sufficiente e da qui viene il punto interrogativo del
nostro titolo – di una vittoria democratica nelle presidenziali di
novembre, ed essi saranno argomento di discussione nelle pagine che seguono.
È l’economia, stupido!
Nel 1979 le lunghe file alle pompe di benzina e una crisi economica che combinava alta inflazione e disoccupazione crescente
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avevano spinto il settimanale «Time» a scrivere che nel paese
c’era una «paura spengleriana che le luci stessero per spegnersi,
che la storica stupefacente abbondanza materiale degli Stati
Uniti stesse per finire». Alla fine di quel periodo prevalse
Ronald Reagan, che convinse gli americani che l’abbondanza
era ancora un loro diritto. Un decennio dopo, l’economia di
nuovo in recessione fu sfruttata da Bill Clinton per vincere contro Bush senior: fu uno dei suoi consiglieri a coniare l’espressione «It’s the Economy, Stupid!».
Oggi la fiducia nello stato dell’economia è tornata ai livelli
del 1992. Secondo un sondaggio della rete televisiva CBS, come
allora solo il 21% degli intervistati definisce la situazione
‘buona’, mentre il 66% ritiene di essere già in recessione.
L’economia è il problema principale che il nuovo presidente
dovrà affrontare secondo il 37% degli intervistati, più del doppio di quelli che sono preoccupati per la guerra in Iraq. Più di un
quarto degli americani ha dichiarato di aver dovuto tagliare
decisamente le proprie spese mensili a causa dell’attuale situazione, mentre il paese perde da dicembre circa 80.000 posti di
lavoro al mese.
La crisi si è fatta più acuta a seguito dell’esplosione della
bolla dei mutui subprime: finanziamenti concessi a famiglie che
non offrivano tutte le necessarie garanzie per farvi fronte.
Durante il picco di questo fenomeno, 4 mutui su 10 sono stati
concessi a debitori poco affidabili. Le banche americane hanno
finanziato questi mutui emettendo obbligazioni che sono poi
finite dentro prodotti finanziari più complessi, acquistati da istituti finanziari e fondi di investimento di tutto il mondo.
L’effetto contagio, con una diffusa insolvenza da parte di banche e istituti finanziari che ha già cominciato a manifestarsi, è
quindi uno dei rischi più probabili.
Ma per la sua stessa natura questa crisi ha un effetto concreto già oggi e su milioni di americani. Essendosi arrestata la concessione facile dei mutui, il mercato è crollato facendo calare sia
la domanda che i prezzi degli immobili. Secondo l’«Economist»
questo doppio crollo ha lasciato 9 milioni di persone con mutui
sulle spalle che sono più pesanti dell’attuale valore delle loro
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case. In altre parole, non riuscirebbero a pagarli neanche vendendo la casa. Quelli che già non ce l’hanno fatta e si sono visti
riscattare la casa dalla banca sono un milione.
Il nuovo presidente si troverà probabilmente a fronteggiare
questa crisi nel suo momento più acuto. Non è detto, tra l’altro,
che il tracollo non cominci a essere evidente già dopo l’estate,
influendo pesantemente sulle speranze di vittoria di John
McCain, volente o nolente identificato con l’attuale presidente
da molti elettori. Chiunque venisse eletto si troverà da una parte
a dover fronteggiare la crisi, e dall’altra a non avere gli strumenti per farlo (visto il già altissimo deficit del bilancio federale
americano).
Per ora, la scelta del candidato repubblicano è stata quella di
ribadire la oramai tradizionale politica del partito, mostrando però
una accentuata preoccupazione per «l’America dimenticata»,
nella quale ha condotto un lungo viaggio elettorale. Il piano economico di McCain prevede di tagliare le tasse alla parte più ricca
della società e lasciare briglia sciolta all’economia. Non è un caso
se uno dei suoi massimi consiglieri economici sia Jack Kemp, l’alfiere dei tagli fiscali dell’amministrazione Reagan. McCain ha
quindi promesso di rinnovare il piano fiscale di Bush e ha chiesto
un taglio delle tasse sulla benzina già da quest’estate.
Hillary Clinton non ha smesso di ricordare in tanti suoi
appuntamenti elettorali quanto fossero felici gli anni in cui suo
marito sedeva nello studio ovale. Accanto ai consiglieri di Bill,
la candidata democratica ha messo anche l’ex capogruppo
democratico alla camera Richard Gephardt, da sempre un
oppositore del NAFTA e di altri accordi commerciali liberoscambisti. Anche a costo di ripudiare le politiche del marito, la
Clinton si è allineata al’umore dell’elettorato americano,
preoccupato della globalizzazione e degli effetti degli accordi di
libero scambio. Il consigliere economico di maggiore importanza, Brian Deese, viene dal think tank liberal Center for
American Progress.
4
Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il
libero scambio), che conprende Stati Uniti, Canada e Messico (NdR).
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Il programma economico di Hillary era forse quello che
affrontava in maniera più decisa e più progressista il tema della
recessione: non solo eliminare i tagli alle tasse per i ricchi di
Bush, come vuole fare anche Obama, ma promuovere un programma di opere pubbliche nel campo del risparmio energetico,
garantire i proprietari di case contro il riscatto delle loro case da
parte delle banche, dare sussidi per il riscaldamento alle famiglie
più povere, aumentare le indennità di disoccupazione e abbassare le tasse ai poveri.
Obama (che ha fatto proprie una parte di queste proposte) ha
sostenuto nei primi mesi della sua campagna di puntare su di una
politica di sgravi fiscali, piuttosto che a una crescita dell’intervento pubblico nell’economia: si tratterebbe di tagliare 80
miliardi di dollari di tasse alla classe media, ai lavoratori e agli
anziani e contemporaneamente alzare le imposte sulle rendite,
fino al 28% – tanto per intenderci quelle che in Italia sono tassate al 12,5%. Più in generale, un presidente democratico si troverebbe a utilizzare un mix delle proposte dei due candidati:
sugli strumenti per far fronte alla crisi la distanza con il candidato repubblicano è reale, e i democratici sembrano rispondere
meglio alla richiesta di una maggiore protezione degli individui
e dei gruppi sociali danneggiati dalla crisi economica.
Programma realistico sempre che per il 20 gennaio, quando
la Casa Bianca avrà cambiato inquilino, la crisi non sia degenerata. Una crisi molto più grave, e dalla durata incerta, cambierebbe ulteriormente i termini della politica economica americana e inciderebbe sui fondamenti del patto sociale americano in
almeno due punti principali: la possibilità di finanziare i propri
consumi attraverso la crescita di valore degli immobili; il basso
prezzo dei carburanti che permetteva di ignorare i conflitti etnici e sociali perché si poteva andare a vivere in tranquilli sobborghi a decine di chilometri dalle città, tanto il costo del ‘pendolarismo automobilistico’ era ridotto.
Questo patto sociale, che in altre parole consentiva alla classe media e ricca americana di attuare il suo ‘diritto alla felicità’
nei nuovi sterminati sobborghi di villette con giardino, era stata
la spina dorsale della coalizione conservatrice che si era andata
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formando dagli anni Sessanta in poi 5. Sarà più difficile ora per
McCain e per il Partito repubblicano fare finta di niente, soprattutto se il rallentamento si protrarrà.
Le previsioni sulla durata e l’entità della crisi, che molti americani definiscono già recessione, cambiano di parecchio. Vale la
pena però di rispolverare, come fa l’«Economist», uno studio del
2003 del Fondo monetario internazionale sul tema dello scoppio
delle bolle immobiliari nei paesi ricchi dopo la seconda guerra
mondiale. Secondo il Fondo, queste crisi durano circa 4 anni
(tanto quanto una presidenza!) e sono spesso accompagnate da
fallimenti bancari. Se questa può sembrare una previsione pessimistica, è perché ancora non si è affrontato il tema dello scenario internazionale.
I fattori ‘i’: Iran e Iraq
Per capire quanto siano messi male gli Stati Uniti sul piano
internazionale, basta pensare al concetto di «momento unipolare» di Charles Krauthammer 6: alla fine della guerra fredda gli
USA si ritenevano, a ragione, l’unica superpotenza rimasta, e
quindi in grado di ridisegnare il pianeta a propria immagine. Un
vecchio sogno americano, quello di ‘ricominciare il mondo daccapo’. Negli anni di Clinton il governo americano della globalizzazione e l’intervento nei Balcani, nato per supplire alle mancanze europee, sembravano aver dimostrato a tutti che la supremazia statunitense era una cosa seria destinata a durare forse un
altro secolo. Non era altro, invece, che la breve luna di miele del
vincitore della guerra fredda con il resto del mondo.
L’attuale presidente era arrivato alla Casa Bianca convinto
che fosse arrivato il momento di liberarsi di una serie di zavorre
(della guerra fredda e non): dei trattati missilistici, ma anche di
Sui cambiamenti nella società americana e la nasciata della coalizione
conservatrice, vedi E. Vezzosi, Il mosaico americano, Carocci, 2005.
6
C. Krauthammer, The Unipolar Moment, in «Foreign Affairs», vol.
LXX, 4.90.
5
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una serie di trattati internazionali che non tenevano sufficientemente conto della supremazia americana, primi fra tutti quello
di Kyoto e quello sulla Corte penale internazionale. E il suo programma aveva anche un certo sapore isolazionistico.
L’11 settembre, invece, aveva portato la hubrys unipolare alle
sue estreme conseguenze, legittimando nientemeno che il ridisegno della mappa geopolitica del Medio Oriente. L’invasione
dell’Iraq serviva, tra l’altro, a dimostrare proprio questo: che gli
USA potevano cambiare il regime di un paese a loro ostile e
impiantarne uno nuovo, creare basi militari nel centro del centro strategico del mondo, ignorare le proteste dei loro partner
europei con relative opinioni pubbliche.
La politica internazionale qui andava a braccetto con una
certa idea di politica interna: l’emergenza creata dall’11 settembre diventava permanente grazie alla dichiarazione di una
«Guerra Globale al Terrorismo» di durata indefinita e contro
nemici non meglio identificati. L’emergenza permanente serviva
a quel punto per legittimare un rafforzamento senza precedenti
della presidenza: non solo il Patriot Act o le intercettazioni di
massa, ma la vera e propria carta bianca concessa al presidente
per fare qualsiasi cosa in politica estera e sul fronte della sicurezza interna.
L’idea stessa della guerra preventiva, affermata con la
Strategia per la Sicurezza Nazionale nel 2002 e poi ribadita nel
2006, forniva un potere senza precedenti agli Stati uniti nel
sistema internazionale, e al presidente in particolare. Era lui a
decidere cosa era una minaccia e cosa no, ed era lui a stabilire
come e quando colpire, su un terreno come si diceva allora, «di
sua scelta» 7.
Alla fine della presidenza Bush il quadro è parecchio diverso.
Il momento unipolare sembra essere stato, appunto, un momento. Oltre all’indefinito nemico ‘islamo-fascista’ emergono ben
più concrete minacce di confronto con Russia e Cina, contro le
quali alcuni intellettuali, conservatori e non, hanno già rimesso
7
A questo proposito vedi A. Rudalevige, The New Imperial Presidency, The
University of Michigan Press, 2006.
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in campo il tradizionale armamentario ideologico da guerra fredda: gli USA democratici in lotta contro le autocrazie russa e cinese 8. Il Medio Oriente è però forse il luogo dove la sconfitta è più
cocente ed evidente.
In Iraq già dallo scorso anno è all’opera la strategia del cosiddetto surge, che in italiano si può tradurre sia come ‘flutto, maroso’ che come ‘impeto’. Concretamente, questa strategia militare
faceva tesoro delle esperienze di ‘pacificazione’ adottate nell’ultima fase della guerra in Vietnam e integrava una presenza militare più capillare sul territorio con una più ampia riconciliazione politica nazionale. Da una parte, i soldati americani venivano posizionati in avamposti all’interno dei quartieri e delle zone
‘nemiche’, dove il loro compito diventava proteggere i civili dai
‘terroristi’. Dall’altra, si divideva il fronte avversario, stringendo
un’alleanza con i clan tribali sunniti contro i qaedisti e si calmava l’insurrezione sciita del ribelle Moqtada Al-Sadr.
Per mesi, la strategia (sostenuta fortemente da John McCain)
è sembrata funzionare: la violenza pareva diminuire. Il surge però
non poteva risolvere due problemi fondamentali: gli Stati Uniti
non hanno veri alleati in Iraq, e oggi difendono un governo
composto dai loro nemici filoiraniani di ieri; il tentavo di pacificare il paese per poter continuare a mantenere le basi militari
in Mesopotamia e controllare il Golfo non può essere accettato
né dall’Iran né dalle altre potenze regionali 9.
E così il surge è finito per essere un tampone, non una cura.
Moqtada Al-Sadr si è di nuovo ribellato, i qaedisti sono tornati
all’offensiva, il governo centrale si è rivelato incapace di essere
quello che gli americani avrebbero voluto. Contemporaneamente,
i costi della guerra si sono fatti sentire in patria: più di 4000 soldati caduti, migliaia di feriti e mutilati quasi nascosti negli ospedali
militari, 526 miliardi di dollari finiti in un pozzo senza fondo.
8
Sul confronto con Russia e Cina si è creata un’asse d’intesa tra il candidato repubblicano McCain e l’intellettuale neo-conservatore Robert Kagan,
che fa ora parte del suo staff di consulenti.
9
Sul fallimento del surge, vedi Grunstein, Judah, The Limits of the Surge,
«World Politics Review», 11 aprile 2008, <http://www.worldpoliticsreview.co
m/article.aspx?id=1924>.
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McCain e i repubblicani continuano a ripetere che il surge ha
funzionato. Dall’altro lato, i democratici guardano prevalentemente al fronte interno: il paese è stanco della guerra. La cosa
più probabile è che gli USA si ridurranno ad applicare la stessa
strategia degli israeliani a Gaza dopo il ritiro del 2005: colpire
‘chirurgicamente’ i leader terroristici ma senza costruire una
nuova coalizione sociale e politica in grado di stabilizzare veramente il paese. Non è un caso se, dopo i fallimenti degli anni
Novanta, sia proprio questa la strategia adottata oggi dagli USA
in Somalia, con risultati quanto meno controversi 10.
È l’illusione dell’attacco chirurgico, della superiorità tecnologica americana che permette di vincere le guerre senza avere
troppi morti, o addirittura non avendone quasi nessuno come in
Kosovo. Un’illusione nata e coltivata negli ambienti del ‘complesso militare intellettuale’ americano – in conseguenza del
pantano vietnamita – ma che in Iraq ha dimostrato tutta la sua
fragilità.
Un’illusione di cui sembra essere vittima anche la politica
verso l’Iran. Qui McCain e soprattutto Hillary Clinton hanno
usato parole di fuoco contro gli Ayatollah, con la senatrice di
New York che è arrivata addirittura a minacciare di «cancellare» l’Iran nel caso questi attaccasse Israele, meritandosi il titolo
di «dottor Stranamore» della politica americana da parte del
«Boston Globe» 11.
L’Iran preoccupa l’establishment di politica estera americano per
tre questioni: il suo sostegno alle milizie sciite in Iraq, il suo programma nucleare, le sue minacce a Israele. Più in generale, l’egemonia che sta acquisendo nell’area: il ritorno (grazie alla politica
americana) di una potenza sciita pronta a sfidare l’egemonia sunnita. L’idea di alcuni, per esempio dei falchi dell’amministrazione
Bush, era quella di risolvere la questione con attacchi chirurgici e
preventivi sui siti nucleari e su alcune basi militari iraniane.
Strike From Afar, «Washington Post», 3 maggio 2008,: <http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2008/05/02/AR2008050203525.html>.
11
Hillary Strangelove, «Boston Globe», 27 aprile 2008: <http://www.bosto
n.com/news/nation/articles/2008/04/27/hillary_strangelove/>,
10
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Il problema che ha frenato finora gli Usa è la constatazione che
la grande forza militare americana è impotente di fronte alla possibile reazione di Teheran: non solo un attacco missilistico contro
Israele, che scatenerebbe una guerra regionale, ma anche un maggiore sostegno alle forze irregolari e asimmetriche di Hamas a Gaza,
di Hizbullah in Libano e delle milizie sciite in Iraq. L’Iran, insomma, non si può colpire perché è un boccone troppo grosso e dimostra ancora una volta, come negli ultimi venticinque anni, di essere la maggiore fonte di frustrazioni militari degli Stati uniti.
Gli anni di Bush hanno forse visto di più che una semplice
sconfitta militare americana. Quello che emerge è che, di fronte a guerre sempre più asimmetriche come quelle in Iraq o in
Afghanistan, l’enorme supremazia americana sia in campo convenzionale che nucleare non è sufficiente per ridisegnare la
mappa di intere regioni. Le concezioni ‘globaliste’ di diffusione
della democrazia, di contenimento degli avversari veri o presunti, di guerre di durata indefinita e di ‘rifacimento del mondo’,
sono fallite di fronte alla realtà regionale e concreta di paesi che
il governo americano, e tanti intellettuali anche del campo
democratico, non hanno compreso sul serio.
A sette anni dall’inizio di quella che il neo-conservatore
Norman Podhoretz aveva definito la «Quarta Guerra Mondiale»,
rimane una grande differenza con la guerra fredda: manca un’analisi complessiva delle strategie e della natura dell’avversario,
manca l’equivalente dei «lunghi telegrammi» e degli articoli anonimi su «Foreign Affairs» di George Kennan 12 che aiutarono a
12
Alla fine degli anni Quaranta, gli scritti di George Kennan – dal 1944 al
1946 capo della missione diplomatica USA a Mosca – ispirarono la Dottrina
Truman e la politica estera degli Stati Uniti volta a ‘contenere’ l’Unione
Sovietica, e gli conquistarono a lungo grande autorevolezza nella definizione
del ruolo degli USA nel periodo dell’inizio della guerra fredda. Il suo «Lungo
Telegramma» da Mosca (5300 parole) nel 1946, e il successivo articolo del
1947 dal titolo Le origini della condotta sovietica (The Sources of Soviet Conduct,
su «Foreign Affairs», del luglio 1947), affermavano che il regime sovietico era
essenzialmente espansionista e che la sua influenza doveva essere ‘contenuta’
nelle aree di vitale valore strategico per gli Stati Uniti. Questi scritti divennero testi fondamentali nel periodo della guerra fredda (NdR).
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comprendere l’Unione Sovietica, il movimento comunista mondiale e le strategie per combatterli. Manca, in altre parole, la
capacità di discernere e di decidere in base a questo discernimento. Non sembra, per ora, che gli USA impareranno in fretta.
Le primarie e la democrazia americana.
Tra Inghilterra dei Tudor e populismo messianico
Su questi due temi si sono concentrati i candidati democratici
nelle primarie del 2008. Più l’economia che la guerra: solo tra un
po’ comincerà il vero bombardamento di spot su McCain/McSame, il sosia di Bush, che vuole continuare a far morire i figli delle
famiglie americane in Iraq. Più l’economia, anche perché alcuni
stati decisivi (l’Ohio e la Pennsylvania, per esempio) sono tra
quelle zone che hanno patito di più la crisi del settore manifatturiero e il dislocamento della produzione all’estero a seguito
degli accordi commerciali firmati da Washington. Le primarie
sono la prova dell’ampiezza della crisi e del risentimento verso
l’Amministrazione. I dati della partecipazione sono impressionanti, soprattutto se comparati con quelli del voto delle presidenziali del 2004. In alcuni stati i partecipanti alle primarie
superano la somma degli elettori di Kerry nel novembre 2004, o
vi si avvicinano di molto.
Su questo dato incredibile ci sarà da riflettere, ma bisognerà ovviamente aspettare per capire se questa fortissima
partecipazione alle primarie si tradurrà in maggiore affluenza
alle presidenziali.
Queste primarie sono state però al centro di grandi polemiche, perché ancora una volta la democrazia americana si è rivelata sì avvincente nella sua dimensione ‘narrativa’, ma arcaica e
mal funzionante nella sua applicazione. Gli Stati uniti rimangono una delle democrazia più antiche del pianeta. Questa vecchiaia se la portano addosso ancora oggi, mescolando regole e
usanze secolari con tecnologie elettorali del ventunesimo secolo. Ci vogliono settimane per capire esattamente quanti voti ha
preso un candidato, ma poi si utilizzano le più sofisticate struQ U A L E
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mentazioni messe a disposizione dal marketing per comprendere
il comportamento di voto di minuscoli segmenti dell’elettorato
americano. A volte più l’Inghilterra dei Tudor che la ‘più grande democrazia del mondo’; altre volte sono le statistiche dei consumi a sostituirsi all’analisi politica come chiave di interpretazione del mondo.
Sembra proprio che una larga porzione dell’élite politica americana si sia concentrata a lungo su come neutralizzare gli effetti
della democrazia subito dopo che la si era edificata. E non hanno
mai smesso. Non tramonta il pregiudizio delle vecchie élites rivoluzionarie nei confronti del popolo, inaffidabile una volta liberato dalle briglie della tradizione imperiale. Come è noto, la possibilità di esercitare il proprio voto non è automatica come da
noi: non basta aver raggiunto la maggiore età per ricevere la tessera elettorale a casa. Bisogna registrarsi, in molti stati un mese
prima del voto.
Una parte consistente della popolazione americana non fa
questa operazione: secondo il Census Bureau, l’ISTAT americano,
per le presidenziali del 2004 si registrò solo il 72% dei
197.000.000 di aventi diritto. Di questi, poi, un ulteriore 15%
rinunciò ad andare a votare pur essendosi registrato. L’affluenza
finale, pur di 15 milioni più alta che nelle elezioni precedenti,
raggiunse il 55%. Una percentuale che impallidisce a confronto
con le nostre elezioni provinciali, e che scende ancora quando si
vota solo per il Parlamento: nelle elezioni di mezzo termine del
2002 si fermò al 46%. La scarsa affluenza ha un carattere socioeconomico evidente: in America vota la parte più anziana, ricca
e istruita del paese. Sempre secondo l’US Census Bureau, per fare
un esempio, l’81% di chi guadagna più di 100.000 dollari l’anno
va a votare, mentre solo il 48% di chi è sotto i 20.000 dollari
annui di reddito fa altrettanto.
La novità di queste elezioni è che vecchie e nuove categorie
di elettori si stanno affacciando in massa sulla scena elettorale
americana (in particolare i giovani e i neri, che hanno sempre
votato poco: nel 2004 sono andati alle urne meno del 50% degli
elettori sotto i 30 anni) con il possibile risultato di cambiare profondamente il quadro politico e la composizione sociale delle
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due coalizioni elettorali. E finora il catalizzatore di questa trasformazione è ‘l’uomo nuovo’ Barack Obama. Con un’attentissima cura dell’organizzazione del consenso sul campo – nei collegi elettorali invasi dai suoi volontari – e una retorica a metà tra
il tradizionale populismo democratico di inizio secolo e il verbo
del predicatore, Obama ha convogliato un sentimento che qui
definiremmo ‘antipolitico’ nei binari tradizionali della competizione politica. Il popolo – e il popolino – temuto dalle élites ogni
tanto si stufa ed emerge in primo piano: in fondo l’unica forma
di ribellione consentita in queste democrazie occidentali è la
lapidazione del re nudo tramite l’urna elettorale.
Il risentimento contro la classe politica ha trovato un suo
campione secondo modalità tradizionali nel sistema politico
americano. Obama è un candidato populista. La premessa, però,
è che il termine populismo, negli Stati uniti, non ha la stessa
accezione negativa che lo caratterizza qui in Europa: autodefinirsi populista – come fanno alcuni rappresentanti del partito
democratico – significa schierarsi col popolo, quello del «We the
People» del preambolo della Costituzione del 1787.
La storia del sistema politico americano è contrassegnata da
ondate cicliche di populismo moralizzatore nelle quali il popolo,
o un campione che lo rappresenta, si oppone all’egoismo degli
interessi particolari. Il contadino e il piccolo proprietario terriero contro il finanziere aguzzino; il lavoratore contro i monopoli
e i robber barons; l’imprenditore e la sua famiglia contro i burocrati (nella sua declinazione conservatrice e antistatalista): a
seconda dell’epoca storica, rappresentazioni diverse della middle
class, che nella sua accezione più larga e più comune sembra
comprendere chiunque lavori o paghi le tasse, una sorta di surrogato del termine popolo.
Il movimento populista americano ebbe un suo rispettabilissimo partito alla fine del diciannovesimo secolo, forte nelle aree
agricole del Sud e dell’Ovest nelle quali la crisi economica, le
trasformazioni del tessuto produttivo – e finanziario – del paese
avevano prodotto povertà, rabbia e risentimento. Il People’s
Party elesse persino un suo senatore proveniente dallo stato del
Kansas. Da allora in poi la retorica e i temi del populismo
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riemergono ciclicamente: nel movimento socialista e sindacale
di inizio ’900, negli anni della Grande Depressione, nel nuovo
conservatorismo di Ronald Reagan, solo per fare alcuni esempi.
Lo storico americano Michael Kazin parla della «Populist
Persuasion» 13 come di una storia americana, nella quale retorica e linguaggi dei diversi movimenti populisti conquistano la
scena politica e pervadono il discorso pubblico e il funzionamento delle organizzazioni sociali e politiche. Il populismo in
questo caso non sarebbe solo ‘discorso’ (la lingua dei ribelli), ma
avrebbe anche una sua declinazione organizzativa, popolare e di
massa.
Il Partito democratico ha sempre avuto una sua anima populista, anche in questo caso sia conservatrice che progressista. Nel
primo caso uno dei suo esponenti fu George Wallace, il governatore democratico dell’Alabama, che lasciò il suo partito alla
fine degli anni ’60 perché contrario alla leggi anti-segregazioniste. Il suo nemico era l’establishment del partito, che avrebbe
scelto di assecondare gli hippies e i ben pensanti del Nord-est,
allo scopo di togliere denaro ai contribuenti per regalarlo alle
minoranze. E queste ultime divennero effettivamente la base del
nuovo partito democratico degli anni ’70.
Però, dopo gli anni del ‘common touch’ molto berlusconiano
di George W. Bush, la parola popolo è tornata ad appartenere al
campo democratico: a tenerla in pugno ora è Obama. Egli invoca, a ogni comizio, l’unità delle gente comune contro la solita
Washington delle lobbies e dei poteri forti. A partire dal 2006 un
approccio orgogliosamente populista era già tornato a fare breccia tra i democratici: erano stati eletti deputati e senatori libertari, alcuni imbevuti di retorica religiosa, spesso più isolazionisti
che pacifisti, ancora più spesso nemici del Big Business e del libero commercio che ha fatto perdere posti di lavoro traslocando
altrove gli impianti industriali.
Il popolo di «We the People» che si è schierato con Obama
appare come un accenno di blocco sociale, al tempo stesso mobi13
M. Kazin, The Populist Persuasion: an American History, Cornell
University Press, 1998.
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litato e organizzato dal senatore dell’Illinois ma schieratosi con
lui anche in modo spontaneo, quasi impulsivo. Le paure e le insicurezze economiche prima di tutto hanno generato un nemico:
l’establishment di cui la Clinton è accusata di far parte. In questa
coalizione c’è una parte di elettorato giovane, poco politicizzato,
con la laurea in tasca ma scarse certezze materiali, infilato in
un’industria dei servizi che offre molte meno opportunità che
negli anni ’90 del boom economico gestito proprio da Bill
Clinton. Le loro paure li hanno avvicinati ad altri gruppi sociali.
Insieme si sono riconosciuti nel «We the People» offerto da
Obama. Rappresentare ‘il popolo’ è cosa ben diversa, e molto più
potente, di quell’incarnazione di minoranze perdenti e distinte
(i neri, gli ispanici, i sindacati, i gay...) che era il Partito democratico degli ultimi quaranta anni. Una coalizione multicolore
che ha vinto solo grazie a imprenditori politici che hanno giocato in proprio, come Carter e Clinton.
Obama, almeno dal punto di vista retorico, è riuscito a rappresentarsi come incarnazione di un ‘interesse generale’ (come
diremmo qui da noi), sintesi carismatica di un’unità del Popolo
che prima era appannaggio retorico del conservatorismo americano. Ha ricostruito una narrazione della storia nazionale buona
per questa epoca di crisi.
La campagna del ventunesimo secolo
In un saggio-articolo sul «National Journal» 14, il giornalista e
scrittore Ronald Brownstein ha definito l’attuale campagna
elettorale americana la prima del nuovo secolo: «una combinazione delle intense emozioni generate tra i democratici dalla
polarizzante presidenza Bush con l’incessante avanzata delle
tecnologie informatiche». In campo democratico stanno accadendo quattro cose fondamentali: in primo luogo sta aumentando grandemente la partecipazione al voto, soprattutto tra
14
R. Brownstein, The First 21st-Century Campaign, «National Journal», 19
aprile 2008.
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alcune categorie ‘nuove’ di elettori; la seconda questione è la
crescita in maniera impressionante nella capacità di raccogliere denaro, soprattutto in termini di piccole donazioni su internet; in terzo luogo, la crescita delle possibilità di comunicazione a basso costo tra i candidati e i loro sostenitori/militanti;
infine, ma è l’aspetto più innovativo, la campagna del ventunesimo secolo è anche orizzontale. Sempre di più, porzioni
significative della campagna elettorale sono condotte da sostenitori di uno dei candidati che parlano a masse sempre crescenti di persone che la pensano come loro senza alcuna
mediazione da parte del candidato. Il quale ha il compito fondamentale di innescare il circolo virtuoso a lui favorevole.
Un esempio sono i video, anche di buona qualità, creati dai
sostenitori di Obama e che circolano sulla piattaforma di condivisione di You Tube: da quello della canzone Yes,We Can alle
avventure della Super Obama Girl. Solo i tre maggiori filmati
pro-Obama sono stati visti 26 milioni di volte, molto più dello
spot fatto in casa dalla Clinton, che ha avuto solo un milione di
spettatori.
Ma non si tratta solo di utilizzo delle nuove tecnologie.
L’orizzontalità si manifesta anche nella creazione di nuovi gruppi di sostegno a un candidato in zone non ancora toccate dalla
sua organizzazione. La rete di sostegno a Obama in Texas è partita da un club di lettura che si è organizzato autonomamente per
fargli campagna prima che lui mandasse anche solo uno dei suoi
uomini nello stato dell’attuale presidente.
La combinazione di attivismo e nuove tecnologie, insomma,
non rimane sullo schermo dei PC ma travasa nel paese reale
sconvolgendo i numeri della partecipazione, della militanza e
dei canali di finanziamento. Si calcola che alla campagna di
Obama abbiano contribuito, o come funzionari o come volontari oppure ancora solo come procuratori di soldi, ben due milioni
di persone. Il senatore dell’Illinois ha raggranellato più di chiunque altro tramite piccole donazioni sotto i 200 dollari ciascuna:
già 76 milioni di dollari sono stati raccolti così. Tanto per intenderci, John McCain in questo tipo di donazioni non ha raggiunto neanche un decimo di questa cifra.
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Fondamentale in questi risultati è stata la forza del messaggio
di Obama, un messaggio di mobilitazione, sostenuto da una biografia credibile: il senatore dell’Illinois, ha trasformato la sua
inesperienza in un’arma formidabile di consenso presentandosi
come il vero outsider in grado di cambiare Washington.
Il tema del sogno infatti, accanto a quello della paura, è da
sempre stato al centro della politica presidenziale americana,
come giustamente osservava Matteo Sanfilippo già nel 2004.
La speranza nel futuro – scriveva Sanfilippo – spinge l’America
più dei paesi europei, ma il peso delle contrapposizioni intestine è
tale da far temere a ogni nuovo balzo che la nazione si divida nuovamente e da far esprimere ad alcuni esponenti delle minoranze combattive la speranza che tale esplosione effettivamente avvenga 15.
Obama ha rappresentato anche questo: l’idea che una volta
tanto fosse il volto di una di queste minoranze a portare un messaggio di speranza in un futuro che evitasse le lotte intestine. I
tentativi di schiacciarlo sulle posizioni estremiste del reverendo
Wright sono diretti a farlo passare come il classico esponente di
una minoranza che chiede di rompere con chi comanda perché
in realtà vuole tirare giù tutta la baracca. Dalla sua ha oggi i
numeri, che nessun candidato nero alla presidenza aveva mai
avuto.
Secondo Brownstein, si è chiusa un’epoca nelle campagne
elettorali americane, e forse non solo americane. Era l’epoca
aperta dal faccia a faccia Kennedy-Nixon del 1960, in cui il più
giovane e spigliato candidato democratico aveva sopraffatto il
vecchio e ingessato leader repubblicano. L’era dell’egemonia
totale della televisione è finita: ciò non vuol dire, ovviamente,
che la televisione non conti più. Solo che accanto alla capacità
di comunicare dall’alto verso il basso grazie al piccolo schermo,
oggi ai candidati ne è richiesta un’altra: «l’abilità – scrive
Brownstein – di ispirare un gran numero di sostenitori e farli
15
M. Sanfilippo, Sogni, paure e presidenti: politica e cultura da Washington a
Bush jr., Cooper, 2004.
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lavorare per te, contribuendo finanziariamente, partecipando
nel lavoro sul territorio o semplicemente parlando ad amici e
familiari». Nella campagna del ventunesimo secolo, secondo
Brownstein, prevarranno i candidati in grado di ispirare e accrescere vaste reti di questo tipo di sostenitori. Roba da vecchia
Europa (quella di una volta).
Tutto ciò non è un’invenzione di Obama. La riscoperta dei
movimenti sociali e del radicamento fu uno dei fattori di successo nell’emergere della coalizione reaganiana alla fine degli
anni Settanta. Ciò che oggi è internet per i democratici, allora
fu il ‘direct mailing’ per i repubblicani: la capacità di raccogliere
milioni di indirizzi di posta di persone cui spedire lettere e messaggi specifici e collegati a campagne politiche condotte da organizzazioni anche esterne al partito. Non a caso, alcune delle
parole d’ordine di Reagan come la difesa dei valori tradizionali e
la riduzione ‘dell’invadenza governativa’ (le tasse) coincidevano
con gli obiettivi di quelle che noi definiremmo grandi organizzazioni di massa collaterali.
La riscoperta del ruolo del compattamento e della mobilitazione della propria base sociale, combinati con un uso sapiente
dei nuovi media, furono uno degli ingredienti chiave del successo iniziale di Howard Dean nel 2004. Questo suo approccio è
stato trasferito nel Partito democratico, del quale è divenuto
presidente. E Obama ha aggiunto il suo: nato politicamente
come ‘organizzatore di comunità’ nei ghetti di Chicago, sta cercando oggi di sfruttare le tecniche sperimentate in passato per
assicurarsi categorie di votanti solitamente poco inclini alla partecipazione, come i giovani e i neri.
Joe Trippi, organizzatore della campagna di Dean del 2004 –
quest’anno schieratosi con il perdente Edwards – la mette così:
«con Dean abbiamo provato che si poteva volare. Obama sta
portando l’uomo sulla Luna. Ora c’è sempre più gente che capisce che può influenzare quello che gli altri fanno usando nuovi
mezzi. Ed è un genio che non tornerà dentro la lampada».
Il quadro della campagna del ventunesimo secolo, condotta
prevalentemente da Obama, con gli altri spesso a inseguire,
sarebbe però incompleto se ci si fermasse qui. La massa dei picQ U A L E
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coli finanziamenti via internet, infatti, è venuta dopo. Il senatore nero emerse come grande concorrente nelle primarie democratiche solo quando, a marzo del 2007, fu reso noto che aveva
già raccolto più soldi di Hillary Clinton, che pure stava lavorando al suo progetto presidenziale da tempo immemorabile.
Particolarmente importanti sono stati i cosiddetti ‘bundlers’,
che in italiano si traduce più o meno come ‘ammucchiatori’: si
tratta di 79 capi-cordata che sono alla testa di reti che raccolgono assegni da 2.300 dollari, il massimo consentito dalla legge.
Ogni rete ha l’obiettivo di portare in cassa almeno 200.000 dollari. Anche qui il senatore nero ha copiato dalla destra: Bush
aveva usato massicciamente questo strumento nel 2000 e nel
2004, arrivando a creare una gerarchia tra ‘ammucchiatori’,
chiamati ‘pionieri’ e ‘rangers’. 100 dei 246 ‘pionieri’ ebbero un
posto nell’amministrazione Bush, 23 addirittura divennero
ambasciatori degli Stati Uniti.
Nel caso di Obama, gli ‘ammucchiatori’ fanno già parte di
un ‘comitato finanziario nazionale’ che viene consultato settimanalmente sui temi decisivi della campagna. I bundlers di
Obama vengono dai grandi studi legali, dagli hedge funds di
Wall Street, dalla comunità finanziaria di Chicago e fa parte
della lista anche il direttore della General Dynamics, una delle
maggiori ditte fornitrici dell’esercito americano in Iraq 16. Cioè
i classici poteri forti.
Uno studio analogo per Hillary Clinton o John McCain produrrebbe risultati non troppo dissimili. Forse quello che c’è di
nuovo, oltre alle dichiarazioni di alcuni bundlers di non voler
nessun incarico post-elettorale, è che in questo caso i grandi
donatori non sono gli unici azionisti del progetto Obama: i piccoli donatori hanno portato infatti più della metà dei fondi della
campagna del senatore, contro un terzo di quella di Hillary
Clinton e un quarto di quella di McCain. Per i grandi investitori sarà più difficile escludere la grande massa (stimata intorno a
16
Sul ruolo dei ‘bundlers’ nella campagna di Obama vedi Mosk, Matthew e
Alec MacGillis, Big Donors among Obama’s Grassroots, «Washington Post», 11
aprile 2008.
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1.300.000) di piccoli donatori dell’homo novus dell’Illinois.
Obama ha avuto l’intelligenza e il pragmatismo di legarsi a dei
poteri forti, ma costruendo al contempo una sua base personale
vasta e diffusa.
È grazie a questa combinazione di mobilitazione porta a
porta, di rapporti di potere tradizionali e di sfruttamento intensivo di nuovi mezzi che Obama si è imposto.
Forse lì si può fare
La crisi degli Stati Uniti è la crisi di due classi dirigenti: quella
di Bush ma anche quella della terza via clintoniana. I repubblicani presenteranno un candidato eccentrico e anomalo rispetto
a quello che sono stati in questi anni. Obama è una rottura con
l’establishment democratico centrista che ha controllato il partito dagli inizi degli anni Novanta fino a due anni fa, quando l’avvento di Howard Dean ha cominciato a scompaginare le carte.
Ma anche Hillary Clinton, nonostante il suo cognome, sarebbe
una rottura, anche se più piccola: lo sarebbero molte sue politiche economiche ma lo sarebbe anche la sua figura, la vera anomalia della presidenza Clinton, insopportabile per la coalizione
conservatrice sia in termini di biografia (il suo essere donna liberal e East Coast) che di campagne politiche, si pensi a quella per
l’assistenza sanitaria universale.
L’America si presenta a questo appuntamento elettorale con
una classe dirigente in parte diversa da quella che l’ha condotta
giù nel fosso. Soprattutto, a cambiare profondamente è il modo di
fare politica, che riscopre la partecipazione di massa, il radicamento sociale, la costruzione di reti orizzontali, la rappresentanza
di bisogni e la costruzione di sogni e narrative mobilitanti.
Scriveva Giuseppe De Rita dopo le elezioni del 2004 che
mentre i giornali, la TV e i sondaggi avevano fuorviato gli analisti disegnando un testa a testa che poi non c’era stato, alcuni
strumenti ‘invisibili’ erano stati la chiave del successo di George
Bush: «Sono stati i movimenti comunitari, le contee rurali, la
primordiale cultura dell’America di mezzo, le reti territoriali di
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militanti, la riscoperta del consenso acquisito porta dopo porta,
a far pendere la bilancia a favore di Bush» 17.
Questa lunga campagna per le primarie ha già messo in
campo questo tema, evidenziandolo ancora di più grazie all’utilizzo di alcune tecnologie al servizio di messaggi forti e riconoscibili. La riscossa democratica è arrivata non da una ossessiva
ricerca degli elettori di centro, ma dalla riscoperta del ‘centro del
loro schieramento’, di quegli elettori che o votano democratico
oppure non votano per niente, dalla mobilitazione e dal coinvolgimento orizzontale di quello che una volta da noi avremmo
definito il ‘popolo democratico’.
Anche se i democratici perdessero la battaglia di queste presidenziali, hanno buone probabilità di vincere la guerra per la
costruzione del nuovo blocco sociale dominante del loro paese,
una cosa che loro chiamano nuova coalizione democratica.
Questo è un processo lento, che richiede pazienza ma anche credibilità: si tratta di tenere assieme il vecchio blocco democratico, che oggi sostiene Hillary Clinton (quello sindacale, bianco,
fatto di tanti pensionati), e il nuovo, quello degli ‘elettori dormienti’ (i giovani, i neri...) che, almeno momentaneamente, si
stanno rivolgendo alla politica. Il risultato potrebbe essere che
‘la fine dell’epoca felice della globalizzazione’ liberista potrebbe
essere gestita negli USA da una forza progressista, mentre in
Europa il ritorno del dirigismo e la rappresentazione politica del
disagio è appannaggio della destra.
17
G. De Rita, Una lezione dall’America, «Corriere della Sera», 8 .11. 2004.
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