SATURA art gallery

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SATURA art gallery
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SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
Redazione
Giorgio Bárberi Squarotti,
Milena Buzzoni, Giuseppe Conte,
Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia,
Mario Napoli, Mario Pepe,
Giuliana Rovetta, Stefano Verdino,
Guido Zavanone
Redazione milanese
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Anno 4 n° 16
quarto trimestre
Autorizzazione del tribunale
di Genova n° 8/2008
In copertina
Pietro Canale, Senza titolo,acrilico su
tela, cm 100x120, 2009
SATURA è un trimestrale di Arte
Letteratura e Spettacolo edito
dall'Associazione Culturale Satura
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sommario
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PREMIO SATURA
CITTÀ DI GENOVA
Adele Desideri -15 agosto, Levanto
Silviano Fiorato - Connubio
Lucio Pisani - Se qualcosa rimane
Pasquale Balestriere - Memorie d’Ulisse
Fabio Delucchi - Ireland
Cristina Mantisi - I silenzi dell’aria
Gino Sarti - Lo Sten
Umberto Vicaretti - Carpe diem
Maria Vittoria Barroero - Se solo potessi
Elena Capello - Ricordi spezzati
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UN POETA DA RISCOPRIRE:
IL CLASIO (LUIGI FIACCHI)
Davide Puccini
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DUE POESIE
Guido Zavanone
Per i bambini di Gaza
La Giustizia
21
QUANDO IL PLAGIO È D’AUTORE
Giuliana Rovetta
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LA FLORA IN GUIDO GOZZANO
TRA TRADIZIONE
ED INNOVAZIONE
Rosa Elisa Giangoia
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LA VOLPONA
Guido Zavanone
GOTICO, BAROCCO E LIBERTY
NELL’INCANTESIMO DI PRAGA.
CON UN PIZZICO DI MISTERO
Milena Buzzoni
L’ANIMA AFFOGATA NEL VINO.
IL VINO, LA DISPERAZIONE
E LA MORTE NELLE NOVELLE
PER UN ANNO DI PIRANDELLO
Marco Chiariglione
PROSPEZIONI
Una voce accordata sull’eterno
Angelo Mundula
Densità di vita e di scrittura
Guido Zavanone
Parlare al volto della Terra
Guido Zavanone
Conoscere in poesia
Guido Zavanone
Il coraggio della paura
Giuliana Rovetta
Un poeta “sontuoso”
Rosa Elisa Giangoia
A dieci anni di distanza
Rosa Elisa Giangoia
La Natura ed il Divino
Rosa Elisa Giangoia
CRITICA
PIETRO CANALE
Luciano Caprile
FUMETTO
SERGIO GERASI
Favole, musiche e grandi nasi
Manuela Capelli
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PERSONAGGI
A OTELLO SOIATTI
CON RICONOSCENZA
Giannino Piana
PITTORE DEL SILENZIO, POETA
DELL’ESSENZA, EDITORE DI
CULTURA, PER CINQUANT’ANNI
ORATORE NOVARESE:
GLI OTTANTA
DI OTELLO SOIATTI
Liviano Papa
IL QUADERNO DEI VERSI
POLENSI DI OTELLO SOIATTI
Licia Micovillovich
CULTURA E DINTORNI
CULTURA È DIVERSO
DA CULTURALE
Fiorangela di Matteo
UNA POESIA
PER LE ANTICHE SCALE
Antonio Ferro
CRITICA
RENZO MAGGI
LE PAROLE DI PIETRA
Roberto Valcamonici
IL LIBRO
CARLO SERRA
LA VOCE E LO SPAZIO
Per un’estetica della voce
Delia Dattilo
VETRINA
ROBERTA BUTTINI
Giorgio Di Genova
ORETTA CASSISI
Francesca Tosa
PILLINO DONATI
Presenze
Angelo Mistrangelo
LUISA GIOVAGNOLI
Un postulato di luce e colore,
di geometrie e di simboli
Silvia Bottaro
GRAZIA LAVIA
Visioni fra(me)s
Viola Lilith Russi
LUCIANA LIBRALON
Elisa Aste
BRUNA MILANI
Elena Colombo
ISABELLA RAMONDINI
Andrea Rossetti
108
SATURARTE 2012
XVII Concorso Nazionale
d’Arte Contenmporanea
111
Dal Web
PRESENT’ART COMMUNITY
Mario Napoli
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III Edizione PREMIO SATURA
CITTÀ DI GENOVA - 2012
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C I T T À D I G E N O VA
Palazzo Stella - Genova - Piazza Stella 5
Premiazione sabato 17 dicembre 2011 - ore 17
GIURIA: Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone.
POETI PREMIATI:
PRIMO PREMIO alla poesia 15 agosto, Levanto di Adele Desideri
SECONDO PREMIO alla poesia Connubio di Silviano Fiorato
TERZO PREMIO alla poesia Se qualcosa rimane di Lucio Pisani
QUARTO PREMIO alla poesia Memorie d’Ulisse di Pasquale Balestriere
QUINTO PREMIO alla poesia Ireland di Fabio Delucchi
SESTO PREMIO alla poesia I silenzi dell’aria di Cristina Mantisi
SETTIMO PREMIO alla poesia Lo Sten di Gino Sarti
OTTAVO PREMIO alla poesia Carpe diem di Umberto Vicaretti
NONO PREMIO alla poesia Se solo potessi di Maria Vittoria Barroero
DECIMO PREMIO alla poesia Ricordi spezzati di Elena Capello
POETI SEGNALATI:
Sandra Ansaldi, Gianluigi Bavoso, Giovanni Casalino, Franco Castellani, Giulio
Cervellati, Andrea Cramarossa, Laura Di Marco, Clara Di Stefano, Rosanna Gamberale, Esther Grotti, Maria Mineo, Antonella Modàffari Bartoli, Massimo Pallavicini, Luigi Paraboschi, Maribel Pesce Maineri, Renzo Piccoli, Domenico Pisana,
Marilina Severino, Piergiorgio Zambolin, Giorgia Zamboni.
Premio di poesia inedita Satura - Città di Genova
SATURA arte letteratura spettacolo
2^ EDIZIONE PREMIO DI POESIA INEDITA
“SATURA - CITTÀ DI GENOVA”
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Adele Desideri 15 agosto, Levanto
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ADELE DESIDERI
15 agosto, Levanto
Dalle valli montane giungiamo
a questo screpolato mare di luci.
Nel ferro incidiamo
totem e serpenti marini
- sul legno contorto
poniamo anfore d’oro
in offerta ai trapassati.
Ci raduniamo qui,
in attesa di una donna che,
con il filo – con l’ago – riannodi
gli orli slabbrati, rammendi la lisa
stoffa e sui cappelli ponga fiori
di cartapesta – segnali
di una memoria mancata,
di una fallita scommessa.
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Silvano Fiorato Connubio
SILVIANO FIORATO
Connubio
Valica il disco chiaro della luna
- ombra che scioglie
luce che ravviva –
questo inarcarsi morbido dei corpi
e il sorriso che spunta
al bianco dell’avorio.
Sospendono le voci
appese nel silenzio
come grappoli al cielo;
ogni fessura filtra la sua linfa;
ogni petalo sfoglia
e si conclude.
Solo la quiete tace il suo respiro
nella pagina bianca che si chiude.
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Lucio Pisani Se qualcosa rimane oltre il durare
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LUCIO PISANI
Se qualcosa rimane oltre il durare
Quella fanciulla
che giace ormai da tempo nella pietra
forse un giorno rideva ed ora è solo
idolo scuro, pietra nella pietra.
Non so se vede gli alberi e gli uccelli
che a primavera, liberi nel canto,
danno un senso alla vita e alle stagioni.
Forse anche ella un giorno intonò un canto
alle attese e agli eventi
affidando il messaggio del suo esistere
a persone distratte o affaccendate.
Né vale domandarsi se tuttora
un’eco scavi ancora nella pietra
mentre il tempo trascorre indifferente
ed anche la memori si fa stanca.
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Memorie d’Ulisse
E giaccio qui sul cuore di Penelope
alla tardiva fiaccola che brucia
l’ultimo buio della notte. Stanca
è però questa donna della tela.
La trama della vita anch’io ripongo
e ancora il tempo misuro tra luna
e luna, nel ricordo di violenti
schiaffi d’onda sul ben contesto guscio
che sbanda e salta e affonda con sussulti
di cuori e tenui speranze d’approdi.
Ah, pianure di Troia, dove in neri
grumi s’estinse tanto chiaro sangue,
dove i migliori compagni lasciarono
la vita, sciolte membra, per la via
maestra! Torti e canuti sentieri
a me il fato prescrisse, senza gloria.
(Ogni viaggio è compiuto. Sei venuto
a capo d’ogni rotta, i tanti sfagli
di cuore dominati dai ricordi.
Le stelle non ammiccano, silenti.)
Ci sono storie di navigli, presi
dalla terra e domati dai bardotti,
vènule di città, invasi un tempo
da grida di fatica, ora dismessi,
d’alzaie spenti e vedovi. Neppure
in quelli c’è più respiro di vento.
È tempo d’acquietarsi nella sera.
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Pasquale Balestriere Memorie d’Ulisse
PASQUALE BALESTRIERE
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Fabio Delucchi Ireland
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FABIO DELUCCHI
Ireland
Galway-Dublin, Howth
febbraio 2008
Forse ero io il ragazzo che aspettavi, sulla panchina
di fronte al molo e, davanti, l’Oceano ti parlava.
Seduta, di te vedevo solo l’ombra bionda, dietro
la stele che ricorda la mia terra, le gesta eroiche
e la grande impresa che rende ancora la mia città
famosa. Annotavi sul diario, scrivevi: “qualcosa…”.
Riconosco ancora, da questa piazza, sospeso
all’ultimo piano, tra quelli di mille angeli biondi il tuo
sorriso di donna d’Irlanda, rivedo la tua forza.
Il mare entra nel piccolo porto di Galway, ci divide
e si congiunge alla foce col torrente, a grandi onde.
I cigni sullo scalo chiedono pane ai turisti, pesce
ai pescatori. E noi?
Sarebbe troppo facile, adesso, dire che tu “gli somigli”,
un’offesa alle tue ali, un limite ai tuoi colori. Un freno
al tuo giovane cuore che batte ancora, lontano.
Le foche sembrano invece cani strani all’Agling Club
di Howth, dove attendono qualcuno che le ristori di fish
and chips, nuotano in posa sotto il molo; forse ridono
dei nostri corpi.
Avrai dunque trovato un senso alle parole che cercavi?
Quel senso che io non riuscivo a darti, a spiegarti
con parole semplici, forse perché ignoto a me pure:
mai cercai prima di allora nella vita un senso
che non fosse, per me e per gli altri, sopravvivenza.
Avremo scritto ora, anche noi, le nostre parole,
trovato il vero nel sentimento che si mostra, a volte,
tra due corpi uguali così diversi? “Un’altra lingua, forse!”.
Amica lontana, cigno, foca, uomo che mi inquieta
e sorride lieta, le nostre terre sono in realtà tanto vicine
che se mi sporgo sento ancora la tua voce riemergere,
nelle poche foto che conservo e portano il tuo nome.
“La città di Genova alla città di Galway. 29.VI.1992”.
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I silenzi dell’aria
Nessuno muove i silenzi dell’aria
eppure qualcuno ha lasciato
un percorso di orme
che portano altrove
sulla sabbia in attesa dell’onda.
Nella rada la nave appare sospesa
in questa monocromia di luce,
nella leggera assenza di pallide visioni
dove il cielo e il mare
sono un’unica tavola bianca.
In evanescenti trasparenze
un fiore di agave si protende
con l’ultimo suo grido alla vita.
Aspettando nuove armonie di sole
dormono i gabbiani
col capo sotto l’ala
nell’immobilità del sonno
in attesa del vento.
E, in questo silenzio che smorza il respiro,
potrei cominciare il mio viaggio
camminando sul filo dell’acqua
fino a toccare l’orizzonte lontano.
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Cristina Mantisi I silenzi dell’aria
CRISTINA MANTISI
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Gino Sarti Lo Sten
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GINO SARTI
Lo Sten
Quante volte di sera
nel metato fumoso:
“Mai trentatré cartucce
nel caricatore,
snervi la molla dell’elevatore,
s’inceppa”.
Solleva dolcemente
la zazzera bionda,
lo stupore negli occhi sbarrati.
Avevi sedici anni, Sergio,
lo Sten, inceppato, sull’erba.
Più in là, carponi,
gorgogliava sangue il nemico,
gli strappi dei miei cinque colpi
nella giacca a vento.
Il sole giocava
sulla doppia esse d’argento
delle sue mostrine.
Altissimi nel cielo terso
tuonavano, indifferenti,
cento quadrimotori.
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Carpe diem
Al sole di gennaio, Robinù,
stende un guanto con stimmate di cielo
dall’attico d’una panchina blu.
Vecchia volpe del furto con destrezza
ruba ridendo il sole, Robinù,
senza dare nell’occhio il guanto che
sferza fustiga slabbra tramontana
(non si accorgono i ricchi dell’esproprio,
passi rapidi a radere il pavè).
Equivocando forse col Poeta
che gli lasciò nell’Urbe quella casa
- Via Orazio – senza numero civico –
del giorno ruba un unico elemento,
il solo che occupando interamente
centotrenta decimetri quadrati
lascia indenni le stanze ed il parquet.
Parla agli alberi, ascolta fole arcane.
Poi srotola un giornale demodè
nell’andito della sua casa blu,
ne libera minuzzoli di pane
per un’agape gaia con gli uccelli.
Sbreccia sbriciola scambia insieme a loro
miche minute con parole ignote
(sorpresi noi da tanta meraviglia
stranieri a quel fraterno rendez-vous).
Si fa notte e appagato, Robinù,
il guanto con il sole nella mano
si stipa nella teca di cartone,
per caso non gli riesca di scippare
al Controllore Capo di frontiera
(check-in partenze per altre stazioni)
residuo un permesso di soggiorno
in quella casa blu – ampio giardino –
quattro luci – con vista sul metrò.
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Umberto Vicareti Carpe diem
UMBERTO VICARETTI
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Maria Vittoria Barroero Se solo potessi
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MARIA VITTORIA BARROERO
Se solo potessi
Se solo potessi
richiamare a me i giorni
quelli del canto
e delle rimembranze
quelli indomiti
delle rappresaglie d’amore
e delle palpebre socchiuse
potrei attraversare senza tremore
il ponte del distacco
quasi in pace
con i rendiconti dell’anima.
Aspetterei il tempo buono
la mano dell’angelo
che preme sul mio petto
e mi sospinge nell’orbita di un bacio.
Se solo potessi
adagiarmi quieta
a vendemmiare la vita.
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Ricordi spezzati
E’ terra di confine
in cui mi muovo a stento,
se il tempo che ho vissuto
non è quello che sento.
Ho vent’anni, ma vedo
I miei figli incanutire.
Facce che non conosco
mi vogliono impedire
di cercare mia madre
in questo gelido tempio
di polvere e di mobili
coperti da lenzuola.
Voci che non conosco
mi chiamano: “Señora”,
poi ritorna il silenzio, e sono sola.
Ma ricordo il primo giorno davanti al mare,
coi bambini per mano e la risacca
che rubava la sabbia sotto i piedi,
come adesso, vedi?
Mi rubano il presente
queste onde maligne nella mente,
con pazienza infinita
la congiura dei giorni
mi deruba la vita.
L’oggi non ha memoria,
solo orme profonde
lasciate dal dolore
nella mia storia.
Domani non ha memoria,
solo orme profonde
lasciate dall’amore
nella mia storia.
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Elena Capello Ricordi spezzati
ELENA CAPELLO
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Davide Puccini Un poeta da riscoprire: il Clasio (Luigi Fiacchi)
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(LUIGI
FIACCHI)
UN POETA DA RISCOPRIRE:
IL CLASIO (LUIGI FIACCHI)
di Davide Puccini
Mi sia consentita, in avvio, una considerazione di carattere personale: forse non mi sarei mai deciso a leggere il Clasio se non vi fossi stato per così dire obbligato dalla curatela di un’edizione delle opere di Renato Fucini attualmente in corso di stampa per la casa editrice Le Lettere, dal momento che lo scrittore toscano ne parla come di una lettura fondamentale per la sua formazione. Felice obbligo, che mi ha procurato il piacere
di scoprire o riscoprire un poeta delizioso. Ma procediamo per ordine, cominciando con il fornire qualche notizia sull’autore.
Non si contano, nel corso dell’Ottocento, le ristampe che riuniscono le Favole (cento, nella raccolta definitiva del 1807) e i Sonetti pastorali (1789) del Clasio, al secolo Luigi Fiacchi (Scarperia nel Mugello 1754 - Firenze 1825), sacerdote ed erudito, accademico della Crusca, filologo e apprezzato curatore di testi
classici (rinomata, in particolare, l’edizione delle opere di Lorenzo il Magnifico
di cui fu incaricato direttamente dal granduca Leopoldo II, lodata anche dal Carducci che pure si mostra poco benevolo con la sua poesia, trattandola con sufficienza): dovevano andare a ruba, se molti dei più attivi tipografi fiorentini ne
approntarono una nella prima metà del secolo, e nella seconda metà ne furono
spesso pubblicate anche fuori regione. Ma nel Novecento le edizioni si rarefanno alla svelta fino a scomparire del tutto, dopo aver tentato timidamente la strada dell’antologia scolastica: i tempi ormai non erano propizi. Negli ultimi decenni del Clasio è stato ripreso, è vero, il poemetto in ventinove ottave Lamento di
Cecco da Varlungo in morte della Sandra (1804) insieme a quello in quaranta ottave di Francesco Baldovini1, gustoso rifacimento di una novella del Decameron
(VIII 2) composto intorno al 1661 ed edito nel 1694, in risposta del quale è stato scritto quasi un secolo e mezzo dopo; ma si tratta di un idillio rusticale che
si può collocare sulla scia della Nencia da Barberino laurenziana, una sapientissima esercitazione accademica sulla parlata del contado, senza dubbio piacevole, che però interessa più la storia della cultura che quella della poesia.
Con queste premesse, è ovvio che anche la critica sia latitante, con poche eccezioni. A parte i cenni nelle storie letterarie più corpose e nelle antologie di lirica settecentesca o gli scritti d’occasione per il centenario della morte, ci sono in sostanza soltanto due saggi specifici nel corso del Novecento, e
per di più pressoché contemporanei in coincidenza con il bicentenario della
nascita, uno di Ettore Allodoli2 e l’altro di Piero Bigongiari3: ed è certo degno
I lamenti di Cecco da Varlungo, a cura di O. S. Casale, Roma, Editrice Salerno,1991.
E. Allodoli, Luigi Fiacchi detto il Clasio, in “Nuova Antologia”, LXXXIX (1954), 1848, pp. 509-16.
3
P. Bigongiari, Introduzione al Clasio, in “Paragone”, VI (1955), 62, pp. 42-52. Il saggio è stato poi raccolto
nel volume Capitoli di una storia della poesia italiana, Firenze, Le Monnier,1968.
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(LUIGI
FIACCHI)
Riferendosi al periodo 1849-53, cioè ai suoi sei-dieci anni, il Fucini scrive in Foglie al vento: “Leggevo allora il Clasio, le favole e i sonetti pastorali: e tanto ero innamorato di quella lettura che detti allora il
primo tuffo in quella specie di romanticismo realista che mi ha accompagnato per tutta la vita” (Firenze,
Soc. An. Editrice “La Voce”, 1922, pp. 29-30). E nella novella Scampagnata: “«Il Metastasio va lasciato stare;
ma anche questo qui [Leopardi], badate, Cosimo, è carino ma carino dimolto. E anche lui ha scritto con
que’ versi uno più lungo e uno più corto che mi piacciono tanto perché c’è il comodo di metterci quanti
vocaboli si vole… Ma come son difficili! e come li tratta bene anche il Clasio!» / «O quello!» saltò su il sor
Cosimo; «o quello, che è scritto poco bene, con tutte quelle sentenze!»” (in Le veglie di Neri, Firenze, Barbèra, 1882, pp. 233-34).
5
F. D’Intino, Fiacchi Luigi (Clasio), in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 47, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, pp. 316-17.
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Davide Puccini Un poeta da riscoprire: il Clasio (Luigi Fiacchi)
di nota che se ne sia occupato un poeta come Bigongiari, sodale e coetaneo di
Luzi e Parronchi, critico raffinato e sensibile.
Del resto in passato gli estimatori di prestigio al Clasio non sono mancati davvero: basti ricordare che il Leopardi nella sua Crestomazia della poesia italiana gli dètte un posto di primo piano, concedendogli ampio spazio con
ben quattordici favole, la prima estrapolata a mo’ di introduzione con il proprio titolo, Il Canocchiale della Speranza, probabilmente perché ci sentiva un’anticipazione della sua stessa poesia, e le altre riunite anonimamente sotto la dicitura “Favole varie”. Leggiamo almeno la prima:
Un giorno la Speranza
per ciaschedun mortale
fece un bel Canocchiale.
Questo, come è d’usanza,
dall’un de’ lati suoi
ingrandisce l’oggetto oltremisura;
dall’altro lato poi
mostra piccola e lungi ogni figura.
Se l’uom dal primo lato il guardo gira,
il ben futuro mira;
guarda dall’altro lato,
e vede il ben passato.
D’altra parte noi non possiamo sfuggire alla suggestione di presentire
Leopardi in I due Calendari (LXXXVII), dove viene smentita la speranza che rallegra la gioventù, o nella “Donzelletta” della favola XXVI, nella “Ginestra… tenera” della LXXIX o ancor più nel Cervo della LXXXII, che ammonisce il Cerbiatto impaziente di diventare adulto come un “Garzoncello scherzoso”: “Infelice!
ah! di tua vita / sì fiorita / tu non prezzi ora le rose! // Non temer: veloci i vanni / hanno gli anni, / e fia pago il tuo desire; / ma, o mio figlio, ah! tu nol vedi:
/ quel che chiedi / t’avvicina al tuo morire”.
Si aggiunga che, se la statura di Renato Fucini non è quella del Leopardi,
per lui – lo abbiamo accennato – la scoperta del Clasio è stata addirittura determinante, come dichiara esplicitamente nelle postume note autobiografiche, ai fini
di una vocazione letteraria, e gli rende un omaggio scherzoso citandolo nella sua
novella più famosa proprio in compagnia del Leopardi e del Metastasio4.
Più di recente al Clasio è toccato solo il posto che gli era dovuto nel Dizionario biografico degli Italiani5 con una scheda che, sebbene puntuale quanto ai dati di fatto, risulta piuttosto reticente sul suo effettivo valore, tanto da
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Davide Puccini Un poeta da riscoprire: il Clasio (Luigi Fiacchi)
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(LUIGI
FIACCHI)
indurre chi non le conosca a supporre che le Favole siano scritte in prosa.
Ma dunque, venendo al punto dopo questa necessaria premessa biobibliografica, perché dovremmo leggere o rileggere il Clasio? Perché la sua poesia, nata con intenti pedagogici all’interno del ricco filone favolistico del Settecento, è un miracolo di grazia espressiva e di purezza linguistica, e la morale conclusiva non fa mai aggio su una rappresentazione del mondo animale e vegetale, o più ampiamente naturale e anche inanimato, spesso domestica (con l’asino, il gatto, il cane e la gallina vi compaiono perfino la piattola e
le tignole) e resa sempre con una punta di sapido realismo, a dimostrazione
che, nonostante le premesse sfavorevoli, lo Spirito soffia dove vuole. La semplicità e la limpidezza dello stile sono così notevoli da farci dimenticare che
ci troviamo di fronte a un poeta dotto, che ben conosce il mestiere. La varietà metrica è al servizio di un orecchio infallibile: se la sestina di endecasillabi, con la sua distesa cantabilità, può ricordare nei momenti più felici l’ottava
d’oro dell’Ariosto, i versi brevi, non solo settenari ma anche quinari e quadrisillabi, vengono usati per aderire strettamente al ritmo e al carattere della narrazione, mentre l’alternanza di versi lunghi e brevi consente modulazioni inedite e originali. La favola IV, L’Usignolo e la Rondine, in quartine di ottonari a
rime alterne, è chiusa da una sestina, sempre di ottonari, che allarga il respiro proprio in coincidenza con la morale. Questa sorta di ampliamento ritmico in explicit si ritrova anche nella IX, La Neve e la Montagna, in cui la sequenza di decasillabi a rima baciata è conclusa da una quartina di tre endecasillabi e un decasillabo a rime incrociate, e nella XVI, La Cera e il Mattone, dalla struttura simile. Il già ricordato Canocchiale (XI) è costituito da un’unica strofe di
dodici endecasillabi e settenari che, senza darlo a vedere con segnali tipografici esterni come sporgenze o rientranze, si organizza in tre quartine: la prima a rime incrociate, la seconda a rime alterne, la terza a rime baciate. Le quartine di quinari (di cui il primo e il terzo sdrucciolo, il quarto tronco) unite a due
a due dalla rima del secondo e quarto verso della favola XII, Il Zeffiro, l’Ape e
la Rosa, sembrano suggerire proprio il fremito ondeggiante della Rosa al soffio dello Zeffiro. La XLI, Il Pastore e il Girasole, comprende strofe formate da
due quinari a rima baciata seguiti da un endecasillabo tronco, più altri due quinari a rima baciata seguiti da un nuovo endecasillabo tronco in rima col precedente, con l’effetto di un periodo musicale brevissimo che all’improvviso si
allunga per poi smorzarsi subito. La favola LXXXII, Il Cerbiatto e il Cervo, presenta strofette di quattro ottonari e due quadrisillabi, secondo lo schema AaBCcB;
la XC, L’Elefante, terzine di due endecasillabi rimati, che come base hanno invariabilmente un quinario sdrucciolo, separati da un decasillabo sdrucciolo: e
la metrica rende alla perfezione l’andatura goffa e pesante dell’animale che tenta di attraversare uno stretto ponte. Discorso simile si può fare per la favola
XCV, La Zanzara e la Farfalla, dove le quartine di settenari, il primo e il terzo
sdrucciolo, il secondo e il quarto in rima, mimano il volo oscillante. Le rime sono
in genere facili, cioè non ricercate, ma non banali, e la naturalezza del periodare, appena ingentilito da qualche inversione sintattica, è accresciuta da un
uso avveduto dell’enjambement, non molto frequente ma spesso incardinato
sul nesso forte aggettivo/sostantivo.
Il garbo settecentesco di questi apologhi si sostanzia di un trasparente
correlativo oggettivo e di una concretezza concettuale che non esita a delineare non solo una morale che deriva dal buonsenso ma perfino il dettato evan-
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gelico senza mai rinunciare alla sua sorridente leggerezza. Così La Gallina nell’isola del fiume (XCIII) salvata dalle acque evoca “un’eterna Provvidenza in cielo / che il mondo a voglia sua regge e conduce; / né del tuo capo un vil capello solo / fia che senza di Lei ne cada al suolo”, con preciso riferimento a Matteo X 29-30. Pare proprio che l’ammaestramento sia offerto con tocco particolarmente delicato, quasi con pudore, quando è di carattere religioso, come nella già ricordata favola XLI: “Or tu, se vuoi, / apprender puoi / il tuo dover, o
Pastorel, da me: / tu pur sovente / alza la mente / a Chi la vita ed ogni ben ti
diè”. Tutta da assaporare la XIV, L’uccello nel campo dei lacci, con la sua “arguzia luminosa” e il disegno “sottile e sicuro”, secondo la definizione di Bigongiari, la cui morale si riscatta da ogni astrattezza concludendosi con il detto
popolare “gatta ci cova”; e questa tendenza sentenziosa è ribadita anche alla
fine della XXXVI, Il Fanciullo e il Gatto (“a can che lecca cenere, / non gli fidar
farina”), e da altre favole. Non c’è da stupirsene: i saggi ricordati non lo citano, ma il suo studio Dei proverbi toscani, lezione detta nell’Accademia della
Crusca il dì 30 novembre 1813 come premessa alla Dichiarazione di molti proverbi, detti e parole della nostra lingua di Giovanni Maria Cecchi, del quale esistono varie edizioni ottocentesche, ci dice quanto il Clasio fosse ferrato in materia. In altri casi la morale è già nei fatti o nelle parole dei protagonisti, e il
poeta si guarda bene dal ripeterla inutilmente. La favola XIII, La Testuggine e
il Serpente, si conclude così: “Or qual precetto mai trar si potria / dalla Favola mia? / Io nol dirò, ché assai palesemente / l’ha già detto il Serpente”; nella
XXVI, La Donzella e la Sensitiva, l’ammonimento moralistico è pronunciato direttamente dalla pianta dietro alla quale l’autore si cela (“Se modesta e saggia
sei, / far tu dèi / quel che fare a me tu vedi”), e così nella XXX (dove l’ultimo
verso, “vide che chi mal fa, male riceve”, è anche variante di un noto proverbio), nella XXXI, XXXIII, XXXIV ecc. Ma se pure è l’autore a enunciare l’insegnamento che si ricava dalla favola, lo fa con tale bonomia che non giunge mai importuno e calato dall’alto. La cordialità sembra essere il suo segno distintivo,
e anche quando la morale è oggettivamente amara, basandosi sulla realistica
conoscenza dell’uomo come è e non come dovrebbe essere, è sempre rischiarata dalla luce della verità. A volte il succo pedagogico si trova all’inizio (I, XX
ecc.), come se, adempiuto coscienziosamente il dovere, ci si potesse poi lasciar
andare a cuor leggero al piacere del racconto.
Si dirà che si tratta di un mondo idilliaco che ha ben poca rispondenza con
la realtà, ma a parte il fatto che la poesia può ben nutrirsi di una fantasia vagheggiata, è molto meno vero di quanto si pensi, e non perché la morale si incarica sempre, in un modo o nell’altro, di riportare al mondo reale, bensì proprio per la qualità della rappresentazione: si consideri ad esempio la frequenza con cui torna il
tema della fame come motore dell’azione, o comunque quello dell’interesse materiale, solo di quando in quando trasceso dai buoni sentimenti, del resto sempre trattati come un’aspirazione, una meta da raggiungere, piuttosto che come
regola. E, per dirne una, l’invito a non comminare affrettatamente la pena di morte per un delitto, perché non si può poi tornare indietro e restituire la vita all’innocente ingiustamente condannato, che sostanzia la favola LXXXI Il Pastore, può
configurarsi perfino come una cauta adesione alle tesi del Beccaria e un elogio del
riformismo asburgico che il 30 novembre 1786 aveva portato Pietro Leopoldo ad
abolire, primo stato al mondo, la pena di morte in Toscana (il 1° dello stesso mese
di quello stesso anno il medesimo sovrano aveva nominato il Clasio insegnante
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di filosofia e di matematica nelle sue scuole). E c’è comunque la solida realtà dei
sentimenti, se càpita di commuoversi alla triste sorte di quella Lepre (LXXXIII) che
pure, con la sua indecisione che risulterà fatale, deve dimostrare la tesi iniziale
che “l’indugiato rimedio allor non giova”.
Sembra inoltre, lo abbiamo già accennato, che il Clasio sia riuscito a liberarsi felicemente del peso dell’erudizione. Le reminiscenze letterarie che si avvertono, perlopiù sul versante popolaresco toscano, sono così ben assorbite nel contesto che risultano piuttosto segnali di appartenenza linguistica scelti con gusto,
discrete strizzatine d’occhio al lettore. Se la “Rosa purpurea / dal molle sen” della favola XII (formula ripresa anche nella XXIV: “nel molle sen delle purpuree foglie”) non può non ricordare l’immortale verso del Poliziano “ardisce aprire il seno
al sol la rosa” (Stanze I 78 4), tanto più che “odorifero /spandea tesoro”, con un
verbo che il Poliziano lega alla rosa nella non meno celebre ballata I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (v. 21: “Quando la rosa ogni suo foglia spande”), l’uccellino
della favola XIII, “che avea / sì vecchia fame / che quasi ei la vedea”, è un nipotino dei molti affamati del Pulci (Morgante XVIII 196 1-2: “Io vedevo la fame / in
aria”; XIX 77 5: “però che in aria la fame vedea” ecc.), tanto più che alla fame si
unisce un aggettivo come vecchio nel senso di ‘solenne, grande’ tipicamente pulciano (V 38 7: “una vecchia paura”; XV 54 8: “un vecchio colpo” ecc.) e nella XXIII
si trova proprio il nesso “una vecchia paura” appena ricordato. Anche il Gatto della favola XLVI, “che a rubar cominciò fin dalla culla”, è un discendente di Margutte, “cattivo insin nell’uovo” (XVIII 141 1); e al Pulci (XXIV 99 3) rinvia pure la locuzione “far lima lima”, che vale ‘schernire’, della LXVI. Nella favola LXV l’espressione “avea ’l cervello sopra la berretta”, cioè ‘era fuori di testa’, rimanda di nuovo a una ballata allora assegnata al Poliziano e torna nel Varchi (di cui il Clasio
curò varie opere) e nel Cecchi (di cui curò due commedie). In un caso riecheggia,
è vero, il Tasso, ma rielabora con fine artificio il verso della Liberata “il pietoso
pastor pianse al suo pianto” (VII 16 8), rinunciando all’allitterazione ma raddoppiando l’annominazione nella favola XLIX: “ché dolersi al dolore, piangere al pianto / è d’un’anima bella il primo vanto”; oppure si noti come riusa il Petrarca del
son. CCCII (“e compie’ mia giornata inanzi sera”), riplasmandolo con garbo in senso popolare nella già ricordata LXVI: “che lo conduce a notte innanzi sera”, e ancor più il “corporeo velo” della canzone CCLXIV 114 attribuendolo a una piattola nella LX.
Non sono assenti espressioni della lingua viva, come in buondato (XIV),
che vale ‘in gran quantità’, biasciasorbacerbe (XL) per ‘persona arcigna e inacidita’, batter la capata (LXXVIII) per ‘morire’, grasso bracato (XCVI) per ‘grassisimo’; ma il Clasio è sempre stato molto attento a non servirsi di riboboli che
corressero il rischio di rimanere confinati nel vernacolo, attenendosi invece a
quella solida genuinità toscana che era ormai diventata patrimonio comune dei
migliori e nella penna di un toscano poteva godere di una freschezza nativa.
Gli aspetti peculiari delle Favole del Clasio che abbiamo cercato di evidenziare, e in particolare la concretezza della rappresentazione, emergono anche dalla sua riflessione teorica, però opportunamente elaborata a posteriori:
quando la Lezione sopra l’apologo detta nella Società Colombaria l’anno 1803
fu svolta, i giochi ormai erano fatti o quasi. Dopo la dottissima introduzione,
che ripercorre la storia dell’apologo e i deboli tentativi di definirne le caratteristiche ad opera soprattutto dei letterati francesi, l’autore pone una premessa filosofica, sottolineando la difficoltà di apprendere idee astratte che non sia-
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Per esempio G. Savoca, in Parini e la poesia arcadica, Roma-Bari, Laterza, 1979 (LIL 34), p. 97: “A metà
strada tra l’esercitazione cruscante […] e lo scherzo letterario stanno i Sonetti pastorali e il Lamento di
Cecco”.
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no legate all’esperienza sensibile, da cui deriva anche la scarsa popolarità della matematica. Quindi le verità morali, per essere comprese più facilmente dai
fanciulli e dagli adulti non assuefatti alla scienza, debbono essere rivestite di
elementi materiali: “Se vogliasi per esempio far sentire vivamente una certa verità morale, non sarà inopportuno l’inventare un fatto come seguìto tra gli animali, o tra diverse altre cose corporee; e conservando i caratteri e le convenienze degli Attori, modificarlo colla forza dell’ingegno per modo che tra esso fatto e la verità da inculcarsi apparisca una perfettissima somiglianza”. Una tale
poetica utilitaristica, esposta da un letterato che per tutta la vita ha insegnato filosofia e matematica, seguace delle idee chiare e distinte mentre il secolo
dei lumi è agli sgoccioli, avrebbe potuto condurre alla disfatta. Ne scaturisce
invece una definizione della favola non solo pienamente rispondente alla realtà dei fatti, ma veicolo fecondo di risultati raggiunti sul piano della poesia:
“una finta azione di cose corporee, che espressa e dipinta all’anima come se
fosse presente, rende sensibile e per conseguenza più chiara, a forza della sua
somiglianza, un’astratta verità morale”.
Dei Sonetti pastorali (propriamente 40, anche se nel loro complesso sono 55,
di cui i sonetti XLV-XLVII dedicati a Gesù Cristo) si dà in genere una valutazione
limitativa, accomunandoli al Lamento6, ma sono invece abbastanza vicini alle Favole, sia per la perspicuità, tanto più apprezzabile in una forma chiusa che lascia
al poeta ben poco spazio di manovra, sia per la tematica. Per esempio il sonetto
XX, sulla duplice natura celeste e terrestre della farfalla, un tempo bruco (e non è
da escludere una delicata simbologia spirituale), riprende la favola XCIX, La Farfalla e il Cavolo; il sonetto XXXVIII sembra una continuazione della prima, L’Agnella e lo Spino, prendendo le mosse dalla conclusione di questa per approdare a una
nuova morale che evoca con accenti toccanti la benignità divina: “Anzi, tu qui l’eterna man non senti? / Sì, quella man che per arcane strade / i benefici suoi porge ai
viventi”. Anche quando gli argomenti sono almeno in parte nuovi rispetto alle favole, come la nocività della guerra per la povera gente del sonetto XI o la pietà per
gli sventurati del XXXIII, vengono trattati con la stessa chiarezza ornata di immagini sensibili. Semmai il breve volgere di quattordici versi non lascia adito al respiro narrativo tipico del Clasio e gli permette soltanto un raccontino condensato o
scorciato che in qualche caso finisce per risultare epigrammatico; e talvolta il travestimento pastorale e mitologico diventa un po’ ingombrante in così poco spazio, mentre nelle favole avviene perlopiù di percepirlo discretamente sullo sfondo come allusione appena sfiorata. Quello che di necessità manca ai sonetti e li rende meno appetibili è la mobilità ritmica delle favole, che si rigenera ogni volta che
passiamo dall’una all’altra; e tuttavia ci sembra che l’autore meriti un posticino anche nella storia di questa forma tanto privilegiata nella nostra tradizione letteraria da non essere mai tramontata dalle origini ad oggi, e potrebbe darne ragione,
in conclusione, il Giudizio dell’abate Giovan Battista Zannoni che precede il testo
in molte edizioni ottocentesche: “sì nelle Favole come nei Sonetti pastorali regna
una maravigliosa semplicità, e tutta vi si scorge l’arte perché l’arte si occulti”.
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Guido Zavanone Per i bambini di Gaza - La Giustizia
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DUE POESIE
DUE POESIE
di Guido Zavanone
Per i bambini di Gaza
Abbiamo pianto
sul vostro popolo martoriato
sui fanciulli portati a morire
nelle camere a gas.
Abbiamo pianto
e abbiamo chiesto perdono.
Davanti al lutto dell’alba diciamo:
tutto questo non va dimenticato.
Mai avremmo creduto
che voi,
i giusti sopravvissuti,
vessilliferi di un mondo diverso,
avreste versato il sangue
d’altri fanciulli innocenti.
Davanti al lutto dell’alba diciamo:
anche questo non va dimenticato.
La Giustizia
In questo tempo
niente più ci persuade
dell’ingiustizia vincente.
Consacrata nei templi, scritta
nei codici, si aggira per i tribunali
si organizza nella nostra mente
ci tranquillizza con l’aspetto
di ciò che è stato
da sempre, del risaputo
che suscita rispetto.
Ed è l’opposto
della giustizia che combatte
grida dai tetti
infastidendo chi la sente
e versa il sangue
proprio e tra la gente
mostra il suo volto
disfatto e piangente.
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QUANDO IL PLAGIO È D’AUTORE
di Giuliana Rovetta
Lo scandalo che ha scatenato in Francia tutta una serie di accuse di falso, plagio, contraffazione e altrettante risentite repliche degli scrittori interessati ha avuto, come a volte accade, un inizio casuale e una risonanza inaspettata. Una giovane insegnante di lettere francesi, Evelyne Larousserie, in forza
al Collège Armand Lanoux di Marne-la-Vallée parte per le vacanze estive negli
Stati Uniti portando con sé un allettante libro umoristico. S’intitola I’m Stranger Here Myself: Notes on Returning to America After 20 Years Away, che nella versione francese suona American rigolos: chroniques d’un gran pays, con
evidente riferimento al titolo di un famoso film degli anni ottanta, American
Gigolo 1. Si tratta di una gustosa satira di costume scritta da un americano vissuto a lungo in Inghilterra, senza pretese d’indagine sociologica ma con spunti interessanti, nati da un’osservazione ironica e attenta. La lettrice, avvertita
quanto basta, si stupisce nel costatare che interi brani di questo libro si trovano riprodotti in un romanzo satirico sulla società francese, Ticket d’entrée2.
L’autore, Joseph Macé-Scaron, non è affatto uno sconosciuto esordiente ma occupa una posizione de choix nel mondo giornalistico e editoriale: vicedirettore del settimanale Marianne, direttore dell’autorevole Magazine Littéraire, MacéScaron è spesso presente nei programmi culturali televisivi di Canal + e RTL,
dove spicca per il suo ruolo di critico severo e informato.
Da un raffronto tra svariati passaggi selezionati da Acrimed (Action Critique Médias), associazione creata dagli allievi del sociologo Bourdieu e lanciata sul web negli anni novanta come polemico osservatorio dei mezzi di comunicazione, si può notare che la somiglianza non si limita a semplici assonanze fra i testi o ad echi dovuti a una comune ispirazione, ma rappresenta un caso
di plagio vero e proprio, indubbiamente facilitato da quelle funzioni tipo “copia e incolla” che rendono automatico e immediato il recupero, senza rispetto del copyright, di materiali già pubblicati. Nel caso di Macé-Scaron, dopo un
breve tentativo di difesa, l’accusato ha dovuto ammettere di aver peccato di
leggerezza, ricopiando da certi appunti annotati in fase di lettura e della cui
provenienza aveva perso memoria3. Fatto sta che l’autore saccheggiato a piene mani viene citato nel testo en passant una sola volta. Dopo questa plateale gaffe il direttore di Magazine Littéraire non si è salvato da ulteriori assalti
della stampa: la rivista satirica Le Canard enchaîné gli addebita un furto di parole4 ai danni del saggista Victor Malka risalente al 1999 e L’Exprès conferma
questa pratica come uso ripetuto se non abituale. Lo scandalo non ha tuttavia
Bill Bryson ne è l’autore, l’editore è Payot Rivages, Parigi, 2003, la traduzione in francese è di Christiane David Ellis.
2
Joseph Macé-Scaron, Ticket d’entrée, Grasset, Parigi, 2011.
3
La dichiarazione è stata rilasciata dall’autore in un’intervista curata da Laure Daussy in Arrêt sur images del 22 agosto 2011.
4
Michel Schneider, Voleurs de mots, Gallimard Tel, Parigi, 2011.
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impedito all’interessato di mantenere tutte le sue funzioni e persino di vedersi assegnare da una giuria di giornalisti il Prix de la Coupole.
Sulla base di questi fatti viene da chiedersi insieme a Béatrice Gurrey5:
la Francia è il paradiso dei plagiari? Occorre fare un passo indietro e soffermarsi sulle differenze che si possono riscontrare nel comune sentire, più che
nella legislazione, a fronte di questo problema, risolto con maggior vigore in
paesi come la Germania o gli Stati Uniti, e lasciato in un limbo d’impunità proprio in Francia. Una tradizione ben attestata nel passato e ripresa anche in tempi recenti vede nel plagio, nonostante la sua connotazione negativa, una forma di scrittura che non esula totalmente dal campo della creatività letteraria.
Secondo Giraudoux “Il plagio è alla base di ogni letteratura, ad esclusione della prima che è comunque sconosciuta”. Come sostiene oggi Marc Escola, tutta la letteratura è fatta di prestiti e prelievi che possono essere servili oppure
dar vita a un testo che con opportune modifiche sintattiche, ritmiche, lessicali si distingue da quello che è stato plagiato fino ad acquisire caratteristiche
di originalità6. D’altronde Proust, grande maestro del pastiche (termine che equivale all’imitazione consapevole di uno stile che appartiene ad altri), nel dar vita
ai suoi Pastiches et Mélanges nel 1908 sapeva, scrivendo alla maniera di Balzac o di Flaubert, di Michelet o dei Goncourt, di inventare una scrittura che prima non esisteva: una langue proustienne calata di volta in volta nei binari inderogabili dei modelli scelti.7 Nel curriculum di uno scrittore l’eventuale produzione di testi scritti “alla maniera di”, può essere vista dunque come una fase
di passaggio, un’esercitazione che serve a farsi le ossa e a mettere alla prova
le proprie capacità, eventualmente migliorandole.
Nella letteratura del Novecento la questione si carica della maggior importanza assunta dalla sfera dei diritti individuali, che interessa il ruolo dell’autore in quanto proprietario della sua opera. Dietro questo impulso aumentano i casi di ricorso ai tribunali con un andamento crescente a partire dagli
anni ottanta.
Gli esempi da citare, ovviamente con esiti giudiziari non sempre omogenei, sono ultimamente messi sotto osservazione da un sito apposito animato dalla specialista Hélène Maurel-Indart, autrice di un saggio sull’argomento,
in cui viene analizzata la controversa frontiera che divide il plagio vero e proprio da altre modalità di riscrittura, come appunto sono il pastiche, la parodia, il sequel8. Può trovare spazio anche un plagio effettuato a carico di testi
non ancora scritti? Il paradosso, che è il pane di Pierre Bayard, come dimostrano i titoli di molti suoi libri9, si spinge fino a immaginare un “plagiat par anticipation”, una sorta di deriva fantascientifica in cui la letteratura dà prova di
Le plagiat sans peine, Le Monde, 23 settembre, 2011.
Marc Escola, Plagiat et création littéraire, in Atelier de théorie littéraire, http://www.fabula.org/atelier
Vedi Guido Almansi, Guido Fink, Quasi come, Bompiani, Milano, 1976.
8
Hélène Maurel-Indart, Du plagiat, Folio Essais, Gallimard, Parigi, 2011; il sito www.leplagiat.net,
in continua evoluzione ed aggiornamento, conta numerosi collaboratori nel mondo universitario e
giornalistico.
9
Pierre Bayard, Comment améliorer les oeuvres ratées?, 2000; Demain est écrit, 2005; Comment parler
des livres que l’on a pas lus?, 2007; Le plagiat par anticipation, 2009; Et si les oeuvres changeaient d’auteur?, 2010: tutte le opere sono pubblicate da Éditions de Minuit, Parigi.
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Franc Schuerewegen, in Acta, Fabula, cit., 25 febbraio 2009.
Jacques Finné, Des mystifications littéraires, José Corti, Parigi, 2010.
12
Calixthe Beyala, Les honneurs perdus, Albin Michel, Parigi,1996.
13
Alain Minc, Spinoza, un roman juif, Gallimard, Parigi,1999.
14
Vedi nota 5.
15
Jacques Attali, Histoire du temps, Fayard, Parigi, 1982.
16
Jérôme Dupuis, Patrick Plagiat D’Arvor, L’Express, 5 gennaio 2011.
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preveggenza e i legami fra gli scrittori sfuggono alla legge cronologica per coagularsi intorno a nuclei tematici dove i rimandi contano di per sé, secondo un
concetto di simultaneità che esula dal calcolo temporale. Non sfugge, sotto traccia, la ovvietà (o il conservatorismo, secondo l’opinione di alcuni come Franc
Schuerewegwen10) di questo ragionamento, pur ammantato di originalità in omaggio al consolidato stile Bayard: i grandi artisti, gli scrittori di genio sono sempre in anticipo sul proprio tempo, rappresentano in qualche modo una comunità che condivide certe intuizioni, formano una specie di Pantheon dove ci si
dà del tu e si ignorano le leggi temporali.
Partendo da un’enunciazione oggettivamente non contestabile com’è la
definizione di Jacques Finné, secondo cui il plagio è “una citazione senza autorizzazione, senza virgolette, senza referenze”11 possono essere fatte rientrare in questa casistica operazioni di portata più o meno ampia: si va dai prelievi della camerunense Calixthe Beyala12, accusata d’aver copiato, fra gli altri, Romain Gary e il nigeriano Ben Okri, alla caduta in tentazione di Alain Minc13,
che elargendo in una biografia di Spinoza una preziosa ricetta di gelatina di
rose, la attribuisce al filosofo olandese, mentre ne è artefice Patrick Rödel, a
sua volta autore di una biografia spinoziana in circolazione. Piccolezze? La
Gurrey14 tira in ballo Jacques Attali, scrittore prolifico ed economista sempre
alla ribalta per i suoi molti incarichi pubblici, che nello scrivere Histoire du temps 15
ha attinto a materiali dello storico Vernant e dello scrittore Ernst Jünger, suscitando le ironiche scuse del suo editore Fayard: “Attali? autore geniale, ma
poco pratico nell’uso delle virgolette”.
Gli argomenti avanzati a loro difesa dagli autori colti in fallo in alcuni casi
sono incredibili: s’invocano a discolpa errori tecnici che hanno prodotto la sparizione delle note o cancellato le virgolette nel testo. In altri casi sono patetici:
così Patrick Poivre d’Arvor riguardo a una biografia di Hemingway scritta “all’americana” assicura in un primo tempo che la versione diffusa, e fatta oggetto di molte sperticate recensioni, non era quella definitiva…ma una bozza inviata per sbaglio che sarebbe stata poi rivista segnalando al momento dovuto le eventuali citazioni. Il personaggio PPDA (così lo chiama il suo pubblico e i giornali francesi) è certamente interessante, sia per il temperamento poco remissivo che l’ha
spesso messo al centro delle cronache, sia anche perché resiste sotto la luce dei
riflettori fin dai tempi in cui la fedele militanza a fianco di Giscard d’Estaing, presidente della Repubblica negli anni 1974-1981, gli ha consentito di portare avanti una brillante carriera di giornalista televisivo su diversi canali nazionali. Autore di una trentina di romanzi, alcuni scritti a quattro mani col fratello Olivier,
nel gennaio di quest’anno quando comincia a circolare tra gli addetti ai lavori una
biografia di Hemingway, preannunciata dall’editore Arthaud, viene improvvisamente accusato dal settimanale L’Express 16 di aver trasferito nel suo Hemingway,
la vie jusqu’à l’excès un centinaio di pagine tratte dalla biografia dello scrittore
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americano riconducibili alla penna di Peter Griffin, oggi defunto. Questo testo,
pubblicato nel 1985 da Oxford University Press e tradotto da Gallimard quattro
anni dopo, è praticamente introvabile in libreria. Però PPDA è riuscito evidentemente a procurarselo.
Le pagine indebitamente prelevate da Griffin sono un centinaio, su un
totale delle circa 400 di cui consta l’opera con cui PPDA avrebbe voluto onorare Big Ernest nel cinquantenario della morte. Troppe per una disattenzione
casuale, senza contare che l’intenzione di sviare dal testo plagiato è visibile in
alcune manovre che lasciano immutata la sostanza, come l’utilizzo estremo di
sinonimi o l’inversione delle parole nella frase. Come nota l’estensore dell’articolo accusatorio, anche le divagazioni storiche (ad esempio quella che riguarda il fronte italiano nel 1917) sono identiche e persino le descrizioni dei paesaggi sono in molta parte coincidenti. Come si difende l’autore? Spiega di aver
passato una ventina di mesi a documentarsi su diversi testi fra cui ovviamente anche numerose biografie (“non potevo comunque inventargli una vita diversa!”). Tra queste ammette di aver apprezzato soprattutto quella di Griffin,
ma contesta di aver volutamente utilizzato materiali tratti da quella biografia
e nega in ogni caso la malafede (anche se non spiega perché nella bibliografia
manca proprio quel libro). A suo carico resta l’ombra di un’ipotetica recidiva
che ha dei risvolti alquanto dubbi, visto che vi si mescolano rapporti professionali e privati. L’accusatrice che trascina in causa PPDA è infatti questa volta una sua ex fiamma, ferita dalla pubblicazione del libro Fragments d’une femme perdue17 e decisa a contestargli non solo il reato di violazione della sua privacy, in quanto il romanzo adombra situazioni della loro vita di coppia, ma anche quello di plagio, dato che nella redazione dell’opera è stato fatto largo uso
di una corrispondenza personale senza preventiva autorizzazione.
Se l’autore accusato si difende asserendo che il progetto di questo libro
era stato concordato con l’interessata (Agathe Borne ha dimostrato di coltivare qualche ambizione letteraria), a cose fatte la danneggiata fa invece valere il
principio secondo cui le lettere appartengono sì al loro destinatario, ma questi non ha il diritto di renderle pubbliche senza il consenso della persona che
gliele ha indirizzate. Una relazione amorosa che Cristophe Carron definisce toxique18 approda dunque ad una sentenza che condanna Poivre d’Arvor al pagamento di 33.000 euro di danni morali. In questo caso è sembrato facile contrastare un utilizzo poco corretto di materiali strettamente privati, ma in altri casi la situazione può essere più evanescente, soprattutto quando vengono invocati dei danni più immateriali di una banale scopiazzatura.
A riferire di un caso controverso che non ha mancato di suscitare polemiche è La Revue littéraire19 riguardo a due romanzi che vertono sullo stesso
drammatico tema: la morte di un figlio raccontata dalla madre. Sotto accusa
è la giovane scrittrice di successo Marie Darrieussecq che nel raccontare la toccante storia della perdita di un bambino in Tom est mort sembra essersi largamente ispirata al lungo racconto di Camille Laurens intitolato Philippe20. Più
che il ricorrere di echi, coincidenze, assonanze e somiglianze sintattiche e più
Patrick Poivre d’Arvor, Fragments d’une femme perdue, Grasset, 2009.
Cristophe Carron, Voici, 8 septembre 2011.
19
Camille Laurens, Marie Darrieussecq ou Le syndrome du coucou, La Revue littéraire n.32, 2007.
20
Camille Laurens, Philippe, POL, 1995; Marie Darrieussecq, Tom est mort, POL, 2007.
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QUANDO IL PLAGIO È D’AUTORE
Giuliana Rovetta Quando il plagio è d’autore
ancora che il calco di una narrazione strutturata in scene identiche o quasi, quello che crea la sensazione di una vera imitazione è il particolare soggetto -una
specie di tabù letterario- che viene scelto a distanza di non molti anni con la
stessa intuizione di farne un racconto in prima persona. Solo che mentre per
Laurens si tratta di una dolorosa esperienza vissuta, il che giustifica il taglio
impresso, quello di una faticosa elaborazione del lutto profondamente sentita, nel caso di Tom siamo in presenza di pura fiction in cui le varie tappe vengono progettate a tavolino, aiutandosi forse con la feuille de route dell’antecedente, non solo letto attentamente, ma anche pubblicamente apprezzato.
In mancanza di evidenti copiature o sostanziosi prelievi la contestazione avanzata da Laurens, della quale si può comprendere il sentimento di frustrazione profonda, verte su una sorta di plagio attinente alla sfera psichica
che, pur non avendo alcuna valenza né letteraria né tanto meno giuridica, trova però accoglienza nell’ambito di un concetto generico di correttezza e lealtà fra scrittori (per di più, come in questo caso, appartenenti alla stessa –imbarazzata- casa editrice). Fin troppo ovvia in questo caso la difesa dell’accusata: non esiste divieto a raccontare una storia già raccontata, ad ambientare
una vicenda in un contesto già utilizzato, a immaginare di soffrire ciò che qualcuno ha sofferto davvero. Da plagio, o plagiat psychique, l’azione negativa di
impossessarsi di un modo di pensare e di sentire si trasforma in singerie: uno
scimmiottamento che rimane ovviamente senza sanzione, essendo le esperienze umane a disposizione di chiunque voglia farne materia di scrittura. Siamo
qui in un territorio che nuovamente confina col pastiche, ma in direzione contraria, visto che l’intenzione è quella di trattare un tema altrui ma usando il
proprio stile e linguaggio.
Nei margini in cui si muovono le contestazioni a cui abbiamo accennato, trovano spazio giuste rivendicazioni, a volte un esagerato protezionismo,
spesso qualche pedanteria. Allora meglio scegliere la via di Philippe Sollers, autore di libri di grande successo da oltre un cinquantennio; dalla sua bibliografia ha depennato il primo romanzo, Une curieuse solitude, apprezzato a suo
tempo da Louis Aragon e François Mauriac: “Questo libriccino è un plagio. Persino il titolo non è mio”.
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LA FLORA IN GUIDO GOZZANO
TRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE
di Rosa Elisa Giangoia
La produzione poetica di Guido Gozzano rappresenta, per ormai consolidata interpretazione critica, il punto di presa di distanza e superamento di
una tradizione che aveva avuto la sua fase di massima elaborazione fino all’esaurimento con D’Annunzio e l’apertura verso il nuovo di una poesia che avrà i
suoi esiti significativi attraverso le varie esperienze del Novecento, in particolare con la prima produzione di Eugenio Montale. Questo carattere di snodo
si riflette anche nei fiori a cui il poeta fa riferimento nei suoi testi, alcuni dei
quali provengono da una consolidata tradizione poetica, soprattutto con eredità tardo romantiche e leopardiane, mentre altri si affacciano per la prima volta sulla scena letteraria, sostenuti sia da un’apertura verso il realismo, sia dal
nuovo gusto liberty che si va affermando in tutta Europa.
A segnare la continuità con la tradizione nella poesia di Gozzano è innanzitutto la rosa, che comunque si connota di caratteristiche nuove, in perfetta sintonia con la sensibilità del tempo e con le valenze simboliche che più
recentemente questo fiore aveva assunto in D’Annunzio. Vediamo innanzitutto la lirica Le due strade, che compare ne La via del rifugio e con alcune varianti ne I colloqui. Il verso d’apertura «Tra bande verdi gialled’innumeri ginestre»
indica subito l’attraversamento del territorio poetico leopardiano e dannunziano da parte di Gozzano. Infatti alle ‘ginestre’, introdotte in poesia da Leopardi come elemento di forte novità, si unisce l’aggettivo ‘verdi gialle’ (ne La via
del rifugio, che diventa ‘verdigialle’ neI colloqui), tipicamente dannunziano, come
dimostra Edoardo Sanguineti con citazioni da Climene (nel Poema paradisiaco), «I licheni ed i muschi verdegialli» (v.10), e da Il fuoco 1. Nuovo è comunque
l’accostamento di questo aggettivo composto al fiore della ginestra con il preciso intento di raggruppare con realismo in un unico accostamento cromatico i fiori, gli steli e le foglie, secondo la netta percezione visiva che se ne può
avere al momento della fioritura. In questo paesaggio punteggiato da ginestre
fiorite, Gozzano colloca «una bella strada alpestre» che «scendeva a valle»: ci
può sorgere il dubbio se l’ambientazione sia in Piemonte, dove sulle pendici
delle Alpi, di solito non fioriscono ginestre, o in Liguria, dove le pendici più sassose e assolate degli Appennini nel mese di maggio si ricoprono di solari ciuffi di ginestre, per cui l’aggettivo ‘alpestre’ riferito alla strada potrebbe significare genericamente ‘di montagna’, al di là della precisa catena in cui il poeta
si trovava, insieme ad una sua non più giovane amica. Su questa strada, all’improvviso, compare ‘una ciclista’: è una ‘Signorina’, caratterizzata da un insieme di elementi che ne sottolineano la modernità e la giovinezza. Innanzitutto proprio perché è ‘una ciclista’, una persona cioè che, per spostarsi, usa il nuo-
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Prose di romanzi II, p. 712 e p. 736.
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La bicicletta, in Canti di Castelvecchio, 1903.
v. 20, v.68; v. 18, v. 62.
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Il censore, v.1; La casta veglia, v. 13 nell’Intermezzo; la Sestina nell’Isotteo; Le belle ne Le Chimere.
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vo mezzo, che richiede abilità e gagliardia fisica, solo dagli inizi del Novecento entrato in uso in Italia, specie per le giovani donne, ma già nobilitato poeticamente dal Pascoli2, inoltre ha un nome moderno, si chiama infatti Grazia,
anche con il diminutivo-vezzeggiativo Graziella, ormai di moda in Italia sulla
scia del successo del romanzo Grazielledi Alphonse de Lamartine (1852). Ma
ad accrescere il fascino adolescenziale di questa figura concorrono anche le rose.
Infatti il poeta, in entrambe le versioni del testo, accenna per ben due volte alla
«bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose»3. Ecco che il fiore tradizionale simbolo di giovinezza, ritorna ancora una volta con questa funzione, indicata indirettamente attraverso il dare luce e colore ad un oggetto, la bicicletta, anch’essa simbolo di giovinezza, in quanto emblema della modernità. Questa nota di
vigoria giovanile viene poi accentuata dal participio ‘accesa’ che stabilisce un
legame vitalistico tra la bicicletta e le rose che si riverbera sulla figura della fanciulla Graziella. Nel testo compreso ne La via del rifugio, però, le rose servono anche ad indicare l’opposto, cioè la bellezza della donna matura che ormai
sta per declinare e spegnersi, secondo una simbologia di consolidata ascendenza letteraria. Infatti il poeta, a proposito della sua non più giovane amica dice:
«Belli i belli occhi strani della bellezza ancora / d’un fiore che disfiora e non
avrà domani. / Al freddo che s’annunzia piegan le rose intatte, / ma la donna
combatte nell’ultima rinunzia».
La rosa come tradizionale simbolo di fugacità della giovinezza e soprattutto della vita, secondo l’antica tradizione classica, ripresa nell’Umanesimo e nel Rinascimento, ritorna in Gozzano in Carolina di Savoia, a proposito della quale principessa morta giovanissima, il poeta ripete due volte «Visse la vita d’una rosa» (v.
2 e v. 46) con derivazione immediata e precisa da François de Malerbe (1555-1628)
che nella Consolation à M. Du Perier così atteggia il motivo della tradizione: «Et,
rose, elle a vécu ce que vivent les roses, / l’espace d’un matin». In Gozzano ‘rosa’ è in rima con ‘sposa’, facile rima di lunga durata letteraria.
Le rose sono per Gozzano simbolo sicuro di giovinezza e di voluttà, recuperato secondo un gusto estetizzante e dannunziano. È quanto vediamo nel componimento Il più atto, dedicato a suo fratello minore, Renato, al quale augura molte soddisfazioni: «A lui vada la vita! A lui le rose, i beni, / le donne ed i piaceri!»
(vv. 7-8). Il termine ‘rose’ sembra riassumere tutti i piaceri più vitali e voluttuosi,
anche per i rimandi a D’Annunzio4. Di conseguenza per il poeta le rose diventano simbolo dei piaceri non goduti in Cocotte: «Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…Vedo la casa,
ecco le rose / del bel giardino di vent’anni or sono!» (vv. 69-72).
La rosa è accostato da Gozzano, secondo tradizione, alla viola, in Paolo
e Virginia: «Muto mi reclinai sopra quel volto / dove già le viole della morte /
mescevasi alle rose del pudore…» (vv. 140-142), dove la derivazione più immediata e diretta è da Bernardin de Saint-Pierre, tanto che nella prima stampa sono
fra virgolette “viole della morte” e “rose del pudore” a sottolineare il loro carattere quasi di citazione dallo scrittore francese: «Les pâles violettes de la mort
se confondaient sur ses Joues avec les roses de la pudeur», ma in realtà gli archetipi dell’accostamento di questi due fiori con queste precise valenze sim-
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boliche si possono trovare ben più indietro, e soprattutto nella tradizione poetica italiana, a partire da Petrarca. Ma Gozzano accosta le rose anche a fiori entrati da poco ad adornare i giardini, come il geranio. Cosi ne L’assenza, dove
il poeta vive un momento di inquietudine per l’assenza della madre dalla casa
e dal giardino dove «sopra un geranio vermiglio, / fremendo le ali caudate /
si libra un enorme Papilio…» (vv. 14-16). Guardando il giardino si sente ‘stupito’ (v. 26) e aggiunge: «I fiori mi paiono strani: / ci sono pur sempre le rose,
/ ci sono pur sempre i gerani…» (vv. 30-32), in un mescolarsi di tradizione e
novità realistica, tipica del primo Novecento.
Le rose sono per Gozzano, secondo un gusto tipicamente decadente, simbolo di avvizzimento e di morte, così in Suprema quies, componimento caratterizzato da un gusto macabro, compare«un mazzo sfasciato ed avvizzito / di
rose rosse», fiori che ritornano, velati della malinconia del disfacimento, ad ornare la figura evocata della Poetessa in Il viale delle Statue: «Anche recava, contro il suo costume, / due rose rosse nelle nere chiome» (v. 102). Ma è soprattutto nei sonetti di Domani che le rose assumono una vistosa connotazione di
disfacimento: «Un servo aduna i belli / fiori che inghirlandarono i capelli / e
li gitta allo stagno, indifferente. // Le rose aulenti nella notte insonne, / le rose
agonizzanti, morte ai baci / nelle capellature delle donne, // scendon piano con
l’alighe tenaci, / in su la melma livida e profonda, / con le viscide larve dei batraci» (I, 6-14) e «Pace alle rose in fondo dello stagno, / in loro fredda orrenda sepoltura» (II, vv. 1-2).
Per Gozzano le rose entrano anche in quel mondo particolare dei fiori
riprodotti, finti e secchi che egli, forse unico, introduce nella sua poesia. Ecco
allora «la gonna a rose turchine» (v. 21), non sappiamo se ricamate o stampate, di nonna Speranza e della sua amica Carlotta, le quali indossano anche «uno
scialle ad arancie, a fiori, a uccelli, a ghirlande» (v.23), e «le turchine / rose trapunte della bianca veste» (Primavere romantiche, vv. 33-34), decisamente ricamate. In queste precisazioni la natura si arricchisce delle invenzioni della fantasia e così le rose diventano ‘turchine’, assecondando quell’aspirazione che i
floricoltori perseguivano da tempo e che solo recentemente si è realizzata. Sono
«le buone cose di pessimo gusto» (v. 1, v.12), in cui rientrano «gli albi dipinti
d’anemoni arcaici» (v.8) esoprattutto «i fiori in cornice» (v. 1), i «fiori finti» (I
sonetti del ritorno, II, 7 e Della cavolaia, v. 96), accanto a cui si possono collocare i «fiori secchi» (Le non godute, v. 79). In verità nell’Ottocento i fiori riprodotti in seta, quelli essiccati per composizioni o conservati sotto vetro per fini
ornamentali hanno avuto grande diffusione e successo, fortuna che è durata
fino a quando, ai primi del Novecento, hanno cominciato a funzionare, prima
in Francia sulla Costa Azzurra e poi anche in Italia sulla Riviera Ligure, le serre, capaci di fornire fiori freschi in ogni stagione dell’anno, per cui quelli finti e secchi sono stati percepiti come fuori moda, obsoleti, come appunto li vede,
con il suo animo moderno, Gozzano, nei cui anni dovevano iniziare ad essere
già in uso i fiori di serra, come possiamo rilevare dalla poesia Un rimorso: «Fuggimmo all’aperto: / le cadde il bel manicotto / adorno di mammole doppie. //
O noto profumo disfatto / di mammole e di petit-gris…» (vv. 14 – 18). Siamo
in un contesto elegante e mondano e la donna indossa quanto è più di moda
nella Torino primonovecentesca, capitale italiana della moda di derivazione francese. Infatti ha il manicotto di pelliccia di petit-gris, in cui infilare le mani per
tenerle calde, come le donne dannunziane del Piacere e della Leda senza cigno,
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Due Beatrici, II, ne La Chimera, vv. 3-5.
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anche qui adorni di mazzi di violette per profumarli. Siamo in inverno, se occorre il manicotto e le mammole sono ‘doppie’, cioè con petali doppi, e profumano, quindi sono fresche, coltivate nella novità delle serre e per questo elemento di modernità e di eleganza.
Una notazione particolare meritano «le mele che sanno di rose» a cui Gozzano accenna ne L’ipotesi (v.90), le quali «emanerebbero, amici, un tale aroma
che il cuore / ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici» (vv. 91-92). Il connubio tra le mele e le rose (in botanica appartenenti entrambe alla famiglia delle Rosacee) è molto antico, tanto che se ne potrebbe trovare l’archetipo nella
vicenda di santa Dorotea, miracolosamente capace di procurare mele e rose nella stagione invernale), ma in realtà qui si allude ad una particolare varietà di
mela, chiamata appunto ‘mela rosa’, coltivata in Piemonte, che emanava una
fragranza di rose ed era particolarmente utilizzata in quelle preparazioni gastronomiche in cui le mele si combinano con le rose (marmellate, gelatine e liquori di rose), oltre che collocate negli armadi per profumare la biancheria e
la cui buccia veniva posta sulla brace per profumare gli ambienti. Nella poesia di Gozzano si caricano però di un’ulteriore valenza, in quanto proprio il fatto che queste mele emanino una fragranza di rose diventa elemento memoriale di evocazione della giovinezza, ristabilendo, pur attraverso l’abbassamento quotidiano e casalingo delle mele, il circuito tradizionalmente letterario di
rose e giovinezza.
Il giglio è in Gozzano fiore di gusto tipicamente liberty, o ancor meglio,
preraffaelita, come vediamo nel sonetto La preraffaelita, in cui viene tratteggiata una donna tipica delle raffigurazioni dei pittori Preraffaeliti, cioè languida, eterea, fredda e distante, che appunto «Tien fra le dita de la manca un giglio / d’antico stile, la sua destra posa / sopra il velluto d’un cuscin vermiglio»
(vv. 9-11). Versi che saranno ripresi identici anche nel sonetto L’Antenata. Oltre che da raffigurazioni pittoriche, l’immagine di questa donna ha un antecedente immediato in Viviana May de Panuele di D’Annunzio, a proposito della
quale il poeta dice: «O voi che compariste un dì, vestita / di fino argento, a Dante Gabriele, / tenendo un giglio ne le ceree dita»5. Nel testo di Gozzano dobbiamo però notare la rima ‘giglio / vermiglio’, che ci riporta immediatamente
a Iacopone da Todi (72,6), quasi che il poeta volesse ricreare un suo personale clima letterario preraffaelita, come dimostra anche l’incipit di Laus Matris:
«Laudata sii dal figlio / che, compiuti vent’anni, oggi lascia li inganni / ritorna come giglio» (vv. 1-4), in cui la ripresa da Iacopone della rima ‘figlio /giglio’
può costituire un’ulteriore attestazione del “francescanesimo” di Gozzano. Rime
che ritornano in triade ancora nelle terzine conclusive de La falce: «…sopra il
lin vermiglio / tutto di sangue che un baglior rischiara / la sposa muore, bianca come il giglio. // La Morte, intanto, il feretro prepara: / a l’alba di diman la
madre e il figlio / saran racchiusi nella stessa bara» (vv. 9 14).È un componimento di amore materno e di morte, ritmato, nella conclusione, dalla ripresa
di queste rime iacoponiane che proiettano il legame tra madre e figlio nell’alone del rapporto tra Cristo e la Madonna, con riferimento al sacrificio tramite
l’aggettivo ‘vermiglio’. In un altro contesto poetico, quello de La culla vuota,
invece, ‘figlio’, oltre che con ‘giglio’, rima con ‘artiglio’: «Oh, voce roca, fune-
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bre sul vento / sei tu, la Morte? Che m’hai tolto il figlio? / Ah! L’odo urlare, urlare di spavento, / bianco lo vedo com’è bianco un giglio, / un giglio chiuso dall’ossuto artiglio…» (vv. 27 – 31), con un chiaro riferimento alle dita della Morte, unghiate e lunghe come un artiglio.
Il gusto liberty porta Gozzano ad apprezzare soprattutto i fiori rampicanti e dall’andamento sinuoso, quali il ‘convolvolo domestico’ che fa una rapida apparizione in Della passera dei santi (v. 107), come esempio di modificazione della natura da parte dell’uomo, e il ‘caprifoglio’, presente nello stesso componimento (v. 121), per dimostrare le capacità di modificazione da parte della natura stessa per adattarsi ad altri esseri, in questo caso le macroglosse, ma che ritorna con valore puramente ornamentale ne L’ipotesi : «(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio)» (v. 26), con un’immagine in cui
la leggerezza armoniosa della ringhiera del balcone si intreccia con la grazia
della cascata di caprifoglio secondo un gusto tipicamente liberty. Ma, dato che
il convolvolo e il caprifoglio appartengono alla flora spontanea italiana, è il glicine che rappresenta l’elemento floreale del gusto nuovo e liberty di Gozzano.
Il glicine è una pianta importata nel Settecento dall’Oriente, dove era ampiamente diffuso nelle sue diverse varietà in Cina e Giappone, e ben ambientatasi da noi sulla fine dell’Ottocento per adornare i giardini della borghesia italiana con le sue piante dal fusto forte e sottile ed i rami flessuosi che si attorcigliano sia attorno allo stesso fusto che tra di loro, capaci di intrecciarsi alle
ringhiere, alle pergole e ai berceaux per animarli in un breve periodo, tra la fine
della primavera e l’inizio dell’estate, di bei fiori a grappolo in varie tonalità di
lilla che sfumano fino al bianco. Un pianta di rapido sviluppo e molto decorativa, soprattutto nella fioritura, con una sottile ambigua valenza femminile, per
il portamento flessuoso, per l’estendersi dei rami come braccia che cercano un
appiglio, per la robusta tenacia con cui si avvinghia ad ogni possibile supporto. Gozzano amava senz’altro questo pianta, presente al Meleto, come possiamo vedere da L’analfabeta: «Biancheggia tra le glicini leggiadre / l’umile casa
ove ritorno solo» (vv. 25-26), da I sonetti del ritorno: «Sui gradini consunti, come
un povero / mendicante mi seggo, umilicorde: / o Casa, perché sbarri con le
corde / di glicine la porta del ricovero?» (I, vv. 1-4), «Il profumo di glicine dissipi / l’odor di muffa e di cotogna» (II, vv. 1-2), «O Casa fra l’agreste e il gentilizio, / coronata di glicini leggiadre, / o in mezzo ai campi dolce romitaggio!»
(II, vv. 9-11), «o vecchie stanze, aulenti di cotogna, / o tetto dalle glicini prolisse» (VI, vv. 3-4). Il poeta, che usa per questa pianta la variante regionale femminile, la definisce ben due volte ‘leggiadra’, l’associa, in atteggiamenti sempre fortemente affettivi, ad una casa (dietro cui si cela la sua del Meleto), abbandonata e ritrovata, dove la glicine aggraziata e moderna, rallegra l’esterno,
celando la muffa e l’odore di cotogne all’interno, che riportano al passato. Alla
gamma cromatica del glicine si collegano altri fiori cari a Gozzano, come il ‘colco’, dai fiori violetti, che ‘sorride’ tra «le stoppie invalide…» (L’inganno v. 11),che
anche ritorna ne La Signorina Felicita: «Nel mestissimo giorno degli addii / mi
piacque rivedere la tua villa. / La morte dell’estate era tranquilla / in quel mattino chiaro che salii / tra i vigneti già spogli, tra i pendii / già trapunti di bei
colchici lilla. // Forse vedendo il bel fiore malvagio / che i fiori uccide e semina le brume» (VIII, vv. 381 – 388). È un fiore autunnale, collocato in questa stagione dal poeta in entrambi i testi, che sente l’autunno come preludio di morte; ma nel primo caso il fiore, pur nel contesto autunnale mortuario, rappre-
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in Idillio maremmano (v. 23) nelle Rime nuove.
I, v.38, in La Chimera.
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II, v.118, in Alcyone.
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«Ed egli fu il leucoio, ella il galantho, / il fior campanellino e il bucaneve» (VI, 9-10).
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senta una nota di rasserenante, seppur momentaneo, conforto. Infatti il poeta dice ‘sorride’, invece nel secondo caso diventa metafora della morte di ogni
altro fiore e dell’approssimarsi delle nebbie autunnali, anche perché ne viene
sottolineato il carattere di essere velenoso e quindi apportatore di morte.
Tipico del gusto liberty e compreso sempre nella gamma cromatica del
violaceo, anch’essa particolarmente apprezzata dal gusto di questo momento, è il giaggiolo o iris, che incontriamo in Totò Merùmeni : «Ma come le ruine
che già seppero il fuoco / esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori, / quell’anima riarsa esprime a poco a poco / una fiorita d’esili versi consolatori…» (vv.
49-52). Qui, però, il giaggiolo viene ad assumere il significato di ‘fiore del deserto’, in base al retaggio leopardiano de La Ginestra. Sta ad indicare in particolare l’idea della poesia che non nasce dalla piena dei sentimenti, ma piuttosto dall’aridità sentimentale, dall’«anima riarsa», come dirà Eugenio Montale
ne L’anguilla.
In un contesto autunnale e di morte compare anche la viola ne I sonetti del ritorno: «Ritorna la viola a tardo autunno: / non morirò premendomi il
rosario / contro la bocca, in grazia del Signore» (VI, vv. 12-14). Il poeta si augura di morire nelle ‘vecchie stanze’, in ‘Un letto centenario’ e soprattutto ‘in
grazia del Signore’, per cui la viola assume qui un carattere di conforto nel momento della morte. Invece la viola e la mammola diventano elementi caratterizzanti la primavera in Primavere romantiche, componimento che il poeta dedica alla Mamma per farle rivivere ‘le gioie della giovinezza’, anche se è ormai
una ‘donna declinante’ (v. 6) per il dolore e l’età, tanto che, con un’immagine
che in qualche modo riprende quella del melograno in Pianto antico del Carducci, dice: «Invano / fiorisce di viole il colle e il piano: / non ritorna per lei la
primavera» (vv. 6-8). Ma poi la giovinezza della donna viene rievocata in un contesto di primavera, che sembra riecheggiare la figura dantesca di Matelda nel
Paradiso Terrestre: «Ella col libro qui venia leggendo / e a quando a quando
in terra s’inchinava / la mammola, l’anemone, e la flava / primula prestamente raccogliendo» (vv. 29 – 32). ‘Flava’ è termine caro al Carducci, come attributo di ‘chioma’6 e al D’Annunzio che riprende lo stesso nesso in Donna Francesca7, mentre lo collega a ‘sabbie’ in Ditirambo 8. L’accostamento di questo aggettivo ad un fiore, in particolare alla primula, rappresenta quindi un’ innovazione di Gozzano. La primula è fiore caro al poeta, presente due volte in Dell’aurora, per creare un paesaggio primaverile, insieme agli anemoni, al biancospino, alla pervinca, al galanto e al bucaneve (vv. 9-10 e 52-53). Il galanto e il
bucaneve in realtà sono due nomi per indicare lo stesso fiore, ma probabilmente Gozzano è stato tratto in inganno da un passo non chiarissimo de I gemelli del Pascoli9. Inoltre la primula ritorna nella lirica Il responso, dove Gozzano
dice: «C’era un profumo mite che mi tornava bimbo: / … un gracile corimbo
di primule fiorite». Sono versi di grazia crepuscolare, vicini alla sensibilità del
D’Annunzio di Consolazione.
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Tra tradizione e modernità si pone invece il ‘garofano’ che Gozzano nella lirica Garessio immagina con gusto tardo-romantico, rinvigorito dalla recente realizzazione degli edifici di stile medievale nel Parco del Valentino a Torino, come ornamento delle «finestre medievali e oscure» dalle quali «non più
ridon le dame ai bei vassalli», ma «i garofani bianchi, rossi, gialli // protendon
le gran capigliature…». Si tratta di una poesia d’occasione in cui il poeta vuole tratteggiare un castello medievale come luogo di pace e di silenzio in cui far
risaltare la figura di Maria Marro, a cui la poesia è dedicata. Il modo, però, con
cui il poeta descrive i garofani, il fatto cioè che «protendono la gran capigliature» ha qualcosa di liberty, per gli elementi di sinuosità e di scomposta gradevolezza, oltre che per l’implicito collegamento che il vocabolo ‘capigliatura’
comporta con la figura femminile. Ma Gozzano, in un altro testo, di gusto scherzoso, La ballata dell’Uno, accenna anche al valore di simbolo ideologico e politico che il garofano rosso aveva recentemente assunto: «Finalmente il Vaticano / lascia il Papa ed il Concilio, / balla il tango col Sovrano / dal garofano
vermiglio».
Di gusto e derivazione decisamente dannunziano è il riferimento al fiore dell’’oleandro’ che troviamo nella lirica «Demi-vierge» II, che inizia: «Dove
sono la tunica e le armille / d’elettro che portavi a Siracusa? / E le fontane e i
templi d’Aretusa / e l’erme e gli oleandri delle ville? ». L’ambientazione classicheggiante ed i precisi riferimenti geografici (Siracusa) e mitologici (Aretusa) ci riportano infatti alla lirica L’oleandro (1903) di Gabriele D’Annunzio.
È invece di gusto tipicamente romantico il riferimento che Gozzano fa
alle margherite sfogliate per avere responsi sulle corrispondenze d’amore ne
L’amica di Nonna Speranza: «O margherite in collegio / sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati! » (vv. 45 – 40).
Da questa sia pur breve rassegna emerge che in Gozzano compaiono sia
fiori che hanno colpito la sua attenzione nella realtà, sia fiori nobilitati dalla
tradizione letteraria. A questo proposito possiamo notare in particolare la presenza dell’asfodelo nel sonetto La morte del cardellino: «Poi, con le mani, nella zolla rossa / scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo / d’asfodeli di menta e
lupinella» (vv. 9-11). I bianchi fiori degli asfodeli non sono comuni nel paesaggio piemontese, né in pianura, né sulle pendici delle Alpi, mentre sono piuttosto diffusi su tutta la dorsale appenninica, soprattutto nel sud. Probabilmente il poeta li cita perché erano, secondo le credenze della Grecia classica, i fiori dei morti, e anche perché compaiono frequentemente in Pascoli e in D’Annunzio per cui si alonano anche di un carattere poetico moderno.
Derivata molto probabilmente dall’osservazione diretta durante i soggiorni terapeutici in montagna è, invece, l’attenzione per i rododendri, fiori di colore rosa più o meno intenso e vivace, che si trovano solo sulle pendici alpine, oltre i mille metri. Proprio in questo ambiente montano Gozzano colloca
la farfalla ‘parnasso’: «evocate un pendio di rododendri, / coronato d’abeti e
di nevai, / e la bella farfalla ecco s’adagia / sullo scenario, in armonia perfetta» (Le farfalle II Monografie di varie specie. Del parnasso vv. 25 – 28). È lo scenario in cui vive questa farfalla dove «spiccano sul candore alcune chiazze /
vermiglie come fior di rododendro» (vv. 37 – 38), farfalla che«diede l’ali alla neve
ed al ghiacciaio, / al macigno al lichene al rododendro» (vv. 51 – 52), che è opportuno attendere «sull’orlo degli abissi, / fra gli alti cardi i tassi i rododen-
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Lettera del 17 settembre 1908 ad Amalia Guglielminetti.
Lettera del 3 settembre 1908.
Rosa Elisa Giangoia La flora in Guido Gozzano tra tradizione ed innovazione
dri» (vv. 72 – 73). Esotiche e nuove sono invece le orchidee, conosciute nelle
lontane terre d’Oriente e che il poeta ipotizza un tempo presenti anche da noi
per la gioia di questa stessa farfalla ‘parnaso’: «In altra età, per certo, quando
l’Alpi / erano miti come Trapobane, / la farfalla avea l’abito conforma / con
le felci i palmizi l’orchidee» (vv. 55 – 58). Alle orchidee ben si adatta la farfalla esotica ‘ornitottera’, a proposito della quale Gozzano dice: «E la farfalla, che
non so pensare / sui nostri fiori, sotto il nostro cielo, / ben s’accorda coi mostri floreali» (Dell’ornitottera, vv. 71 – 73), così viene definita l’orchidea!
Questi accostamenti tra fiori e farfalle meriterebbero un più accurato esame de Le farfalle Epistole entomologiche che Gozzano aveva iniziato a scrivere per Alba Nigra, sotto cui si cela la poetessa Amalia Guglielminetti. A suo dire
doveva essere una cosa molto nuova fatta di «lettere […] un po’ arcaiche come
quelle che scrivevano gli abati alle dame settecentesche per iniziare ai misteri della Fisica, dell’Astronomia, della Meccanica; ma modernissime nel contenuto, fatte di osservazioni filosofiche nuove e di fantasie curiose e fanciullesche»10. Da queste parole emerge chiaramente l’atteggiamento di Gozzano desideroso di guardare alla tradizione, in questo caso andando anche più indietro nel tempo, al Settecento, e nello stesso tempo di apportare una forte nota
di modernità al suo lavoro letterario, che nasceva anche dall’osservazione diretta delle trasformazioni dei bruchi in farfalle, grazie al fatto che egli allevava personalmente una colonia di bruchi, come racconta in una precedente lettera sempre alla Guglielminetti11. In questo poema, che rimase incompiuto alla
morte dell’autore, ma che doveva, nelle sue intenzioni, essere anche corredato da fotografie, stretti erano i rapporti tra le farfalle e i fiori, mutuati, però,
più che da osservazioni dirette da memorie letterarie dei poemi Vie des fourmies e Vie des abeilles del Maeterlinck.
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LA VOLPONA
di Guido Zavanone
Riassunto delle puntate precedenti (1)
Maria, della la Volpona, è un’anziana e ricca vedova, che vive nel culto del denaro.
Ha una sua piccola corte: una lontana parente, due domestiche ad ore, un’insegnante cinese di yoga. Tutte l’accudiscono quasi gratuitamente essendo state designate quali eredi in un testamento che la Volpona ha mostrato loro ad
arte, minacciando continuamente di modificarne o revocarne le disposizioni.
Vivono così sotto ricatto, ma a sua volta Maria è succuba di una santona che
si atteggia a guida spirituale.
La Volpona è tutta tesa ad incrementare il proprio patrimonio e, con ingegnosi quanto spregiudicati artifici, acquista, a prezzo irrisorio, un grande appartamento di proprietà della parrocchia per poi destinarlo a casa di riposo, che gestisce senza scrupoli ricavandone guadagni cospicui.
Ma, un giorno, irrompe nei locali dell’Istituto la Guardia di finanza, che sequestra
la documentazione contabile e interroga gli anziani ospiti. Successivamente intervengono gl’ispettori sanitari che dispongono la chiusura della struttura per alcune
settimane, mentre la Procura apre un fascicolo penale nei confronti di Maria, accusandola di frode fiscale e, inoltre, di omicidio colposo in persona di due anziani deceduti a causa di malnutrizione e mancanza di cure sanitarie.
Del caso si occupano ampiamente la stampa e fin la televisione nazionale che mettono alla gogna Maria, mentre buona parte dei ricoverati non fa più ritorno nella
casa di riposo e persino il figlioccio Carlo ne abbandona l’amministrazione.
Muore improvvisamente il fratello di Maria, molto facoltoso e scapolo; cocente è la
delusione della Volpona per essere stata pretermessa nel testamento.
(1) Apparse sui numeri, 5, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15 di questa rivista.
Colpita negli affetti e negli affari (di questi, temeva, neppure il tempo avrebbe rimarginato le ferite) Maria pensò di poter trovare conforto nelle cose dello spirito. Le tornavano ossessivamente alla mente le parole del fratello rivoltele nel testamento: beffarde nell’intenzione, ma che pur contenevano un ammonimento: di distaccarsi dai beni terreni in vista dell’ineludibile appuntamento.
Nelle avversità le reazioni umane sono fondamentalmente due e opposte: volgersi docilmente a Dio nella speranza di trattenerne la mano punitrice
(come fanno, nella loro rassegnata saggezza, i cani che leccano la mano che li
percuote) o rivoltarsi imprecando per il torto che si ritiene di aver ricevuto.
Nel suo sano pragmatismo, Maria non aveva dubbi: era la prima via quella da seguire, la sola che poteva essere utile e fruttuosa.
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Ma come rabbonire e ingraziarsi Colui che tutto può? Con Lui non erano consentiti i trucchi usati con successo nei confronti di don Carlo e delle altre persone di cui si era servita per i suoi scopi. Occorreva piuttosto un tramite e questo, in mancanza di meglio, poteva essere Gianna, la santona tanto esperta in campo spirituale.
Ma, per averla completamente dalla sua parte, era necessario dissipare
ogni precedente malinteso, far capire a Gianna che le malefatte dei suoi figli
erano ormai completamente dimenticate.
E la Volpona seppe trovare le parole più semplici ed efficaci per rasserenare e propiziarsi l’amica: “Uno di questi giorni andiamo insieme a visitare
l’appartamento che ti ho promesso; e che sarà presto tuo”, soggiunse con un
sospiro.
Gianna si rasserenò prontamente e si dispose ad ascoltare con pazienza gl’incalzanti interrogativi di Maria sul destino dell’anima (della sua, in particolare) dopo la morte; problema che non turbava certo i sonni della santona. La quale disegnò intanto una sua strategia, che consisteva nel rassicurare
Maria circa la sua vita eterna, ma non del tutto, se voleva tenerla in pugno. Era,
del resto, lo stesso insegnamento della Volpona, quando mostrava il suo testamento e ne faceva trasparire, nel contempo, la revocabilità.
Prima però – pensava Gianna – bisognava fare piazza pulita d’ogni residuo affetto che potesse albergare nell’animo della sua amica nei riguardi delle persone che la circondavano. Certo, sfondava una porta aperta, dato che Maria amava soltanto se stessa. E tuttavia Gianna aveva notato un certo attaccamento della Volpona a quelli che erano o potevano esserle utili: un surrogato
dell’affetto che poteva essere pericoloso, un embrione della gratitudine, che bisognava estirpare.
Il figlioccio Carlo aveva prestato la propria opera nella Casa “San Pio” senza nulla pretendere? Aveva fatto bene i suoi calcoli contando di ereditare la Casa.
Appena il “San Pio” era entrato in acque procellose lui aveva abbandonato la
nave. Pronto, magari, a farvi ritorno quando la tempesta si fosse placata.
Che dire delle due domestiche che facevano “volontariato” presso Maria? Infide e infingarde, non avevano esitato a tradirla ridicolizzandola in televisione, davanti a milioni di spettatori. Meritavano veramente quello che, con
bella antifrasi, si chiama “il ben servito”, e, cioè, ad essere chiari, un bel calcio
nel sedere. Lo stesso valeva per la cinese, imbrogliona che insegnava quello che
non sapeva spacciandosi per medico; e ora non si faceva più vedere, evidentemente temendo che se l’avessero notata al “San Pio” ne avrebbe sofferto la
sua reputazione.
E ce n’era anche per la vicina di casa, bollata, senza tante perifrasi, come
“invadente e pettegola”.
Restava Laura. “Di lei – diceva Gianna – non mi riesce di esprimere un
giudizio: parlare del nulla non è possibile”.
Per la verità erano tutte persone, eccettuata forse l’innocua Laura, cadute in disgrazia della Volpona, ma l’abilità di Gianna era quella di trasformare
i moti oscuri dell’anima, quali il rancore, il risentimento, il disprezzo, in giudizi morali, tali, per la loro assolutezza, da non ammettere ripensamenti.
“Blindata”, per così dire, l’avversione di Maria nei confronti di quanti potevano essere di ostacolo ai disegni di Gianna, c’era da spazzare il terreno anche da un nuovo pericolo che si andava profilando attraverso alcuni discorsi
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di Maria circa un, sia pur ancora nebuloso, proposito di lasciare alla Chiesa e
ai poveri buona parte delle sue sostanze. Gianna temeva, non senza ragione,
la straordinaria forza attrattiva che la Chiesa esercita sui più sostanziosi patrimoni dei suoi fedeli. Il pericolo era concreto se don Carlo si era precipitato
al capezzale di Maria quando lei era degente all’ospedale.
Gianna corse prontamente ai ripari, facendo uscire dal cilindro delle sue
conoscenze religiose un magico valore, a suo dire comune a tutte le religioni: quello della povertà. I poveri, assicurava, è bene che restino poveri, in pool position
come sono nella corsa per il Regno dei Cieli. E poi il denaro non lo sanno amministrare e quando diventano ricchi cadono immancabilmente in rovina. Quanto
alla Chiesa – affermava Gianna – soffre proprio delle sue ricchezze; e la santità non la si trova certo fra i tronfi porporati, ma tra i poveri curati delle periferie, a ottocento euro al mese.
Maria che in cuor suo disprezzava i poveri (“sono degli incapaci” soleva dire) e nella Chiesa cercava solo un possibile tornaconto, fu facilmente convinta e non parlò più di queste sue pie intenzioni.
Gianna passò quindi all’azione.
Già in passato aveva rilevato la propensione fiduciosa di Maria per le sedute spiritiche. Gliene parlò, ricevendo un assenso entusiastico.
Le sedute, sotto la regia di Gianna in veste di medium, si svolgevano quasi ogni giorno in casa di Maria davanti ad uno speciale tavolino appositamente commissionato.
Il defunto marito di Maria era, per così dire, di casa con consigli economici e finanziari molto apprezzati anche se di rado azzeccati.
Ma ciò che maggiormente commuoveva e, insieme, inorgogliva Maria era
l’accorrere, dai luoghi più diversi dell’Oltretomba, di una moltitudine di personaggi illustri, di “spiriti magni”, al solo generoso intento di confortarla e consigliarla. Tutti, dopo aver succintamente riferito la loro travagliata vicenda terrena, parlavano, pur senza scendere in particolari, della luminosa beatitudine
in cui erano immersi e che attendeva anche l’anima eletta di Maria quando fosse giunto il tempo. Nella confusione, si mescolavano, a volte, voci di persone
ancora vive senza che vi si facesse caso.
Fin che un giorno, dopo tante invocazioni, si presentò addirittura Padre
Pio, il santo caro a Maria. E questi si rivolse proprio a lei, dicendo con voce grave e accorata: “Maria, la Casa di riposo che mi hai dedicato è in pericolo, assediata com’è da molti nemici agguerriti e protervi. Tu sei piena di sante intenzioni per difendere me e la Casa, ma sei avanti negli anni e anche il malore che
ti ha recentemente colpita è un avvertimento del Signore. Vedo accanto a te una
persona timorata di Dio in cui ripongo incondizionata fiducia, la tua amica Gianna, che possiede una grande energia, fisica e spirituale. Dà a lei la cura della
nostra Casa e tu dedica quanto ti resta di vita alla preghiera e alle opere di bene”.
La Volpona fu dapprima commossa, poi sgomenta, infine dubbiosa. È a
dire che quando erano in gioco i suoi beni Maria ritrovava la sua antica forza,
la sua vigile accortezza, la sana diffidenza contadina. Era, del resto, lei stessa
troppo esperta tessitrice d’inganni per non avvertire quello, abbastanza rozzo, di cui era in quel momento vittima designata.
Non fece trasparire nulla alla sua amica e, il giorno dopo, si recò dall’avvocato Filippone per sentire il suo parere.
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Dopo la “crisi mistica” così dolorosamente superata, subentrò in Maria
una crisi più difficile da vincere perché subdola ed ubiquitaria: il tormento della solitudine, che non le dava tregua e l’accompagnava in ogni luogo e momento. Tutti l’avevano abbandonata o tradita e lei vagava in un mondo estraneo,
popolato da esseri indifferenti od ostili. Anche i suoi beni, a cominciare dalla
Casa “San Pio”, sembravano allontanarsi da lei, fuggire verso creditori spietati ed insaziabili, tra i quali si stagliava, in prima fila, l’ombra sinistra del Fisco,
il moderno Leviatano che divora le sue vittime.
Di notte Maria aveva gl’incubi, si vedeva al fondo di un “buco nero”, dal
quale era impossibile uscire e da cui non filtrava luce di speranza.
Un giorno, al colmo della depressione, mentre s’aggirava per casa guardando uno ad uno gli oggetti che l’adornavano quasi ad assicurarsi che fossero ancora lì, al loro posto, le venne per le mani un pacco di fotografie ingiallite dal tempo. Erano le fotografie della sua infanzia e della sua giovinezza quando ancora non l’aveva assalita il demone del denaro.
“No!”, si disse, quel passato non doveva perderlo, troppo a lungo lo aveva relegato nella soffitta della sua memoria. Sentì che da quei relitti sgorgava,
improvviso, un fiotto di vita e di umanità.
(continua)
Guido Zavanone La Volpona
Filippone, il quale aveva lui pure mire inconfessate sul “San Pio”, volle
essere franco, quasi brutale: “La sua amica è un’imbrogliona maldestra e lei,
Maria, è una grande ingenua”.
La Volpona, tradita ed umiliata nella sua autostima, pensò di sbugiardare la falsa amica fingendo di stare al gioco. E proprio Gianna gliene diede il destro organizzando un’altra seduta spiritica. Aveva, infatti, notato delle perplessità in Maria e si propose di fugarle. Ed ecco farsi vivo nuovamente San Pio, accompagnato questa volta, a confermarne l’identità, da un intenso profumo di
rose. La Volpona si alzò di scatto, lasciando la presa del traballante tavolino,
accese la luce e vide Gianna che frettolosamente faceva scivolare nella sua borsetta una boccetta di profumo. Nello scoprire la grottesca messinscena, Maria
ebbe la struggente percezione, quasi una rivelazione, che anche la beatitudine eterna in cui aveva creduto, altro non era che una callida invenzione; e questo fu il dolore maggiore ed accrebbe l’ira, lo sdegno per l’inganno.
“Vattene subito, tu e i tuoi spiriti!” – intimò a Gianna, scagliandole contro il complice tavolino.
La santona si precipitò verso la porta senza proferire parola, inseguita
dall’invettiva di Maria: “Sei la degna madre dei tuoi figli”.
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Milena Buzzoni Gotico, barocco e liberty nell’incantesimo di Praga. Con un pizzico di mistero
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GOTICO , BAROCCO E LIBERTY NELL’ INCANTESIMO DI PRAGA . CON UN PIZZICO DI MISTERO
GOTICO, BAROCCO E LIBERTY
NELL’INCANTESIMO DI PRAGA.
CON UN PIZZICO DI MISTERO
di Milena Buzzoni
Forando nuvole scure, atterriamo su una città grigia attraversata da una
Moldava lucida e sinuosa come la scia di una lumaca.
Usciamo dal portone dell’Hotel Roma a Mala Strana ( la città piccola ) la cui
maniglia è un ricurvo Colosseo di bronzo, per raggiungere il Ponte Carlo e immergerci subito nell’atmosfera retrò della wagneriana “città indimenticabile”.
Appena mettiamo piede fuori, ci rendiamo conto di aver fatto un passo
indietro nel tempo : tutto ciò che ci circonda appartiene a un’altra epoca e
persino le persone che incontriamo hanno qualcosa di obsoleto e dismesso:
abiti che da noi non si usano più, fogge e colori anni ’50, pettinature corte e
mosse oppure giovani con strumenti musicali in mano, viole, violini, contrabbassi smascherati dalla forma delle custodie nere. Vetrine antiquate, traffico
rado, tante biciclette. E un silenzio diffuso come per rispettare un defunto.
Eppure la città buia e misteriosa, la “Praga magica” di Angelo Ripellino, quella
arcana e ossessiva di Kafka, quella invasa dall’odore di “cetrioli in aceto il cui
acre sentore provoca angoscia” di Camus, sembra svanita nel chiarore di questo pomeriggio di maggio.
Attraversiamo parte del quartiere che sorge sulla sinistra della Moldava,
nel triangolo compreso tra il fiume e il monte di San Lorenzo. Abitato da artigiani e commercianti, fu fondato a metà del 1200 accanto alla città vecchia
come seconda città di Praga. Vicino alla chiesa di San Nicola, meraviglia del
barocco praghese, con la sua inconfondibile cupola verde-rame, “ la capovolta
coppa smeralda…come un faro di luce trionfale” di Milos Marten, si allineano
le facciate dai tenui colori pastello, azzurro, verde, rosa, giallino sulle quali
spicca il bianco dei riccioli e delle volute settecentesche. Sede di istituzioni
statali e ambasciate straniere, i piccoli edifici di Mala Strana sembrano usciti
ieri da un diligente restauro e danno subito una sensazione di ordine e pulizia. Passiamo davanti a qualche “vinaria” dove si serve, insieme a una tipica
cucina ceca, vino e birra. Arriviamo al monumento forse più rappresentativo
della città, annunciato da due torri gotiche unite dall’arco della porta: quella
più bassa faceva parte delle fortificazioni del ponte di Giuditta del XII secolo
mentre la più alta risale al 1464. Escono dal cielo con le loro guglie insieme alla
cupola di malachite di San Nicola e a quella di San Francesco dei Crociferi. Oltrepassata la porta, ecco finalmente il ponte Carlo, il ceco Karluv Most, innalzato nel 1357 su modello del ponte Sant’Angelo di Roma, da Carlo IV che sulle
rovine del ponte romanico di Giuditta fece costruire a Petr Parler, uno dei più
noti architetti e scultori dell’epoca, un capolavoro tecnico e artistico in stile
gotico: lungo 520 metri, alto 10, sostenuto da 16 massicci pilastri, divenne
poco a poco il centro più animato della città: qui si commerciava, si esercitava
la giustizia (i condannati venivano immersi nella Moldava dentro cesti di vi-
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Milena Buzzoni Gotico, barocco e liberty nell’incantesimo di Praga. Con un pizzico di mistero
mini) e si organizzavano tornei. A vegliare sul cammino di chi lo percorre la
sequenza di una trentina di statue barocche, evangelisti, teologi, vescovi, santi,
angeli muniti di una serie di oggetti, molti dei quali spiccano sul nero del
bronzo con l’ottone lucido e scintillante di spade, croci, aureole che fendono
l’aria con divina fatalità. Incontriamo il Turco che sorveglia un cristiano imprigionato dietro spesse grate, San Tommaso con i suoi libri, Sant’Antonio da Padova con i suoi vasi, il codice di Sant’Ivo, la clava di San Giuda Taddeo, le
scatole di unguento dei medici Cosma e Damiano. Queste statue che adombrano la vittoria della Controriforma in Boemia, la Chiesa trionfante a un secolo dalla sconfitta dei protestanti nella battaglia della Montagna Bianca, non
hanno l’immobilità un po’ catatonica che di solito caratterizza sculture così
monumentali, al contrario sembrano coinvolgerci nello spettacolo che ognuna
rappresenta: alcune si sporgono in avanti, il cane del Turco potrebbe essere di
carne e ossa, l’angelo di San Francesco Borgia penzola disinvoltamente le
gambe sull’orlo del plinto.
“…. Chi non ha visto in che modo la notte, in certi giorni non segnati dal
calendario, queste statue abbandonano i piedistalli suicidi per mescolarsi ai
passanti notturni, non capirà mai la mia poesia…” dice Vìtezslav Nezval.
Lo percorriamo sopraffatti da quella solennità un po’ sinistra e raggiungiamo la città vecchia attraverso la torre di Stare Mesto che chiude il ponte all’estremità opposta.
Passando dalla via Karlova che ci regala un percorso intatto in mezzo a
facciate originarie e locali caratteristici, arriviamo alla Staromehstské Nàmehstì, la grande piazza che racchiude alcune delle cose più belle di Praga. Subito
si è ammaliati dal gruppo bronzeo che dilaga al centro dove personaggi, rocce,
croci mantengono la flessuosa dinamicità che solo il Liberty sa dare. Un monumento enorme, una colata di forme in movimento di fronte alle quali, a differenza di tanti anonimi monumenti sparsi nelle città, non si può passare
indifferenti. La distribuzione delle figure e del paesaggio, la loro irregolare
composizione, lo stagliarsi solenne di quella principale che si stacca dal
gruppo in uno slancio verticale, ne fanno uno dei gruppi scultorei più suggestivi nei quali ci si possa imbattere. È dedicato a Jan Hus il riformatore religioso boemo arso sul rogo per eresia. Alle sue spalle svettano i due campanili
della chiesa gotica di Tyn punto di riferimento degli utraquisti praghesi, l’ala
moderata degli ussiti. Edifici rinascimentali e barocchi dalle facciate pastello
abbelliscono il versante nord e quello sud della piazza, mentre a sud-ovest si
trova il trecentesco municipio con la torre dell’orologio, l’Orloj. Restiamo incantati a guardare il meccanismo di questo orologio astronomico con il famoso corteo degli apostoli, le fasi lunari e la posizione dei pianeti. Ogni ora
gli ingranaggi mettono in moto uno scenario in cui appaiono le statue policrome dei dodici apostoli, la morte con la clessidra e la campana funebre, il
turco, l’avaro, il vanitoso e il gallo dorato che canta dopo l’ultimo rintocco. Le
ruote dentate, le figure, le allegorie, gli automi che vediamo muoversi sulla
facciata della torre evocano certi giocattoli, la vetrina animata dei negozi per
bambini! Tutto attorno, sulla piazza, gruppi di turisti che non riescono ad affollarla. E vista così, verso sera, carica di una commovente bellezza, sembra
non conservare neppure memoria dei tragici fatti che si sono alternati sulle sue
pietre. Nel 1419 infatti il popolo praghese, ussita, buttò dai balconi della municipalità il borgomastro e i suoi consiglieri: questa “defenestrazione” segnò
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GOTICO , BAROCCO E LIBERTY NELL’ INCANTESIMO DI PRAGA . CON UN PIZZICO DI MISTERO
l’inizio della rivoluzione ussita che terminò nel 1436. In seguito al matrimonio tra Ferdinando I e Anna Jagellone, sorella di Luigi II, re d’Ungheria e di
Boemia, nel 1526 i primi Asburgo ottennero la corona boema. Sotto Rodolfo
II (1552-1612), Praga divenne lo splendido centro dell’Impero: astronomi, alchimisti, artisti e studiosi di ogni genere tra i quali Keplero e Arcimboldo, arrivarono da tutta Europa. Aumentò però l’antagonismo tra la maggioranza
protestante e i cattolici appoggiati dagli Asburgo. Dopo la morte di Rodolfo
II, gli Asburgo si ritirarono a Vienna e, nel 1618, i nobili calvinisti boemi “defenestrarono” dal castello i governatori asburgici. Da questo episodio ebbe
origine la Guerra dei Trent’anni, all’inizio della quale, nel 1620, i protestanti
persero la famosa battaglia della Montagna Bianca che segnò il progressivo
declino di Praga e dell’intero paese.
Davvero tanti sono i luoghi, i quartieri, le piazze, i palazzi segnati da eventi
significativi, quasi che la città costituisca una sorta di atlante storico, la mappa
delle proteste , delle rivoluzioni, delle battaglie e dei lutti che ne hanno marcato
l’evoluzione. Piazza San Venceslao, dove approdiamo il mattino successivo, dopo
una cena in un ristorante caratteristico di Mala Strana, è uno di questi. La grande
piazza, lunga e stretta (750 m. x 60!) e un tempo sede del mercato dei cavalli, è
un esempio tipico della pianificazione urbanistica di Carlo IV. Oggi assomiglia
più a un viale e si snoda in discesa come una passatoia. La statua in bronzo del
patrono San Venceslao domina la cosiddetta “Croce d’Oro” cioè il nucleo della vita
economica e sociale della città. Nel XIX secolo, dopo la proclamazione della repubblica in seguito al crollo dell’impero asburgico, la piazza diventa il sismografo politico della città: nel 1938 con il Patto di Monaco vede l’annessione del paese alla
Germania nazista e dieci anni dopo il colpo di stato comunista che neppure il
tentativo della “Primavera di Praga” di Alexander Dubchek riesce a rovesciare. Il
sacrificio dei due studenti Jan Palach e Jan Zajic ricordati qui da una croce di
bronzo stesa a terra e, un po’ più avanti, da una lapide circondata da aiuole fiorite, è ancora vivo e attuale e per quelli della nostra generazione che non hanno
dimenticato le immagini televisive, mantiene una forte carica emotiva. Il ’68 ha
lasciato qui le ceneri delle vittime di una rivolta per la libertà che altrove in Europa sarebbe riuscita a sovvertire i rapporti di potere.
In questa piazza si è poi concentrata la protesta contro il regime comunista e qui inizia la rivoluzione democratica del 1989 chiamata, per il suo carattere pacifico, “rivoluzione di velluto” che, l’anno successivo, dopo
quarant’anni, porta alle prime elezioni libere. Nel 1992, poi, il parlamento slovacco proclama la propria sovranità con la scissione dalla repubblica ceca.
Scendiamo verso la “Croce d’Oro” in questa mattinata soleggiata e
fredda. Passiamo davanti alla facciata liberty dell’Hotel Europa mentre, di
fronte, sulla sinistra, ci accompagnano monumentali palazzi déco. All’interno
di Palazzo Lucerna, alzando gli occhi verso la cupola della galleria che stiamo
percorrendo, un enorme cavallo rovesciato è appeso alla sommità. Parodia
della statua di San Venceslao, è opera di un artista contemporaneo ceco David
Cerny, lo stesso che nell’89, al momento della svolta democratica del paese,
aveva esposto un carro armato dipinto color fucsia! Qualche passo ancora ed
ecco la vetrina di “Zara” l’imprenditore che agli inizi del ‘900 era andato in
America dall’amico Ford per imparare il sistema della catena di montaggio e
applicarlo alla propria fabbrica di calzature. Amato dai suoi operai, è tuttora
ricordato per la modernità delle sue vedute.
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Milena Buzzoni Gotico, barocco e liberty nell’incantesimo di Praga. Con un pizzico di mistero
Passeggiamo nelle strade della “Croce d’Oro” cercando spicchi di sole
che mitighino il freddo. Svoltiamo verso il cuore di Staré Mesto, la città vecchia,
e prima di raggiungere la Staromestské nàmestì, la piazza con il monumento
a Hus che non ci stancheremo di guardare, ci imbattiamo in un altro emblema
della città, la quattrocentesca Torre delle Polveri. In contrasto con gli altri edifici per le sue forme gotiche e la facciata annerita era il punto di partenza per
i cortei dell’incoronazione dei re boemi che terminavano al Castello davanti
alla cattedrale di San Vito. Il nome risale al 1600 quando cominciò ad essere
utilizzata come magazzino per la polvere da sparo.
Decidiamo di fare una pausa e di sederci al caffè di uno dei palazzi più
sfacciatamente liberty che si possano immaginare. Una sosta inevitabile visto il
fascino che emana la Obecnì dum, la Casa Municipale, costruita tra il 1906 e il
1911 sull’area del distrutto palazzo trecentesco di Venceslao IV. Prendiamo il
caffè sotto lampadari e appliques di ottone perfettamente conservati come i rivestimenti di legno, le piastrelle, i vetri. Un piacere guardarsi attorno. E godere
della raffinata leggerezza di uno stile qui a Praga così magnificamente testimoniato! Uno stile che, senza traumi e senza stonature, convive con le linee severe
e le oscurità del gotico e con i pastelli e le volute del barocco.
Riprendiamo il nostro percorso verso la Moldava ed entriamo nel quartiere ebraico “confitto in un’area esigua, tra la Città Vecchia e il fiume....è il più
piccolo di tutti i quartieri praghesi....bizzarro labirinto di viuzze sudicie e non
lastricate, strette come i cunicoli di una miniera. Budelli cui le sporgenze ed i
gomiti davano un che di ubriaco, di barcollante, di onirico....” Questo il ghetto
di Angelo Ripellino. Oggi le ristrutturazioni lo hanno ripulito restituendo
un’immagine non molto diversa da quella delle altre zone della città, in ordine e composta come una scolaretta al primo giorno di scuola. Chiamato
anche Josefov in onore di Giuseppe II che nel 1748 abolì parzialmente le discriminazioni verso gli ebrei, nel XIII secolo vede i primi insediamenti concentrati nella zona della sinagoga Vecchio-Nuova. Qui ci assale un gotico silenzio
e documenti, oggetti, parati: gli strumenti di una religione che sembra aggrapparsi alle sue tradizioni, tenerle ferme nelle bacheche, per opporsi ai rischi
del cambiamento dei tempi e alle minacce venute “da fuori”.
Entriamo nella sinagoga Pinkas, vero e proprio monumento commemorativo per i 77.297 ebrei boemi e moravi vittime dello sterminio nazista. I muri
sono interamente coperti dalla sequenza di tutti i nomi, in ordine alfabetico,
delle vittime del genocidio.
Luft Oskar, Maderova Gertruda, Mahaler Alois, Nohel Arnost......seguiti
da data di nascita e data di morte. Di solito un breve intervallo tra l’una e l’altra. Ogni parete sembra l’ingrandimento di una pagina di giornale, nere le lettere, rossi i numeri, un gigantesco sinistro necrologio.
Inseguiti dalle voci che ogni nome evoca passiamo da una sala all’altra poi saliamo al primo piano dove lo spazio è, in forma diversa, più indiretta e subdola, altrettanto ossessivo: nelle bacheche che coprono i muri
sono radunati i disegni dei bambini chiusi nel campo di concentramento di
Terezin: una notte di luna piena, gli alberi e il sole, il cammello e il deserto,
le farfalle sui fiori.....
Sotto il nazismo morì il 90% della popolazione ebraica e alle comunità
religiose vennero sottratti oggetti artistici e di culto allo scopo di costituire
nella capitale ceca il cosiddetto “museo della razza estinta”. Senza volerlo fu
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Milena Buzzoni Gotico, barocco e liberty nell’incantesimo di Praga. Con un pizzico di mistero
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posta la prima pietra del museo ebraico di Praga, uno dei più significativi per
quanto riguarda l’arte sacra e profana.
Ecco, dopo qualche passo nel sole che si è intiepidito, le lancette dell’orologio sulla facciata del municipio: les aiguilles de l’horologe du quartier juif vont
à rebours ricorda Apollinaire. È invece Ribellino ad accompagnarci per gli stretti
passaggi del cimitero, all’ombra dei sambuchi : “Colpivano i visitatori la secolare
mestizia di quel recinto, l’accatastarsi in un piccolo spazio dei morti di molte generazioni...la torva vitalità della plebe di pietre sciancate, il loro mistero che cresce nella stracca luce invernale....” Una necropoli spettrale fatta di undicimila
cippi, da quelli più rozzi in arenaria, con la cima piatta o a mezzaluna o a cuspide
( la più vecchia è quella del rabbino-poeta Avigdor Karò e risale al 23 aprile 1439)
fino ai sarcofagi del ‘600 come quello, a forma di tabernacolo di Rabbi Low, il
leggendario rabbino esperto di tutte le scienze comprese cabala e alchimia, legato
a Rodolfo II e creatore di un Golem. All’affollamento di queste lapidi sghembe annerite dal tempo, al mistero che emanano queste sepolture, si addice la leggenda
del Golem, personaggio-chiave della Praga magica, il cui nome si incontra nel
Salmo 139 con il significato di “embrione”, “grumo informe” e per estensione
“uomo di argilla” a cui, secondo le indicazioni del libro della Creazione, si può dar
vita introducendo nella sua bocca lo schem, il foglietto con il nome impronunciabile di Dio. Tutto in questa necropoli ha qualcosa di arcano e fiabesco, anche le
ragnatele che “come stracci di crespo si tendono tra le urne”, l’assenza di fiori, i
mucchietti di sassolini lasciati dai visitatori sulle lapidi in segno di devozione o
per esprimere una richiesta, la monotonia del grigio che si moltiplica di pietra in
pietra, i rami ancora spogli dei sambuchi.
Tornando all’albergo la vista si rasserena lungo la superficie lucida della
Moldava, i viali che la costeggiano, il ponte Carlo in lontananza che rovescia nell’acqua i suoi pilastri e le macchie nere dei suoi bronzi.
Guardando in basso verso l’argine, sul greto sabbioso tra la vegetazione,
dentro un grande nido circolare, un cigno sta covando. Sembra una ballerina avvolta nel tulle che si inchina a fine spettacolo.
In un silenzio da biblioteca, attraversiamo l’isola di Kampa, separata da
Mala Strana dal ruscello del Diavolo, tra le facciate rococò di piccole case dai
nomi fiabeschi: “Alla volpe blu”, “Al guanto bianco”…..
-Che si mangia stasera?- chiede Marcello riportandoci alla quotidiana realtà.
-Qualunque cosa, purché vicino”- risponde Federico che, portavoce delle intenzioni di tutti, non ha più voglia di camminare.
-Potrebbe andare quel posto che abbiamo visto stamattina, non sembra
troppo turistico, quello vicino all’albergo, un po’ in salita - propone Lorenzo
E dopo cinque minuti siamo seduti su una panca attorno a un tavolo in un
locale con le pareti rivestite di legno. Il menu è simile a quello delle sere precedenti: gulasch, salsicce, stinco, prosciutto, selvaggina ma, fermandosi solo pochi
giorni è facile evitare gli stessi piatti. Così scelgo lo stinco che non ho ancora
mangiato. È proprio buono accompagnato dall’amarognolo della birra. La cena
ci restituisce energia e torniamo in albergo a piedi chiacchierando .
Stamattina il Castello si presenta smagliante nella luce tersa di un maggio
rispettoso delle stagioni. Le guglie della cattedrale di San Vito perforano un cielo
azzurro senza sfumature e la facciata bianca del monastero di Strahov inneva la
collina di Hradcany che risaliamo attraverso un tranquillo giardino pubblico dove
incontriamo solo una guardia a cavallo. Il Castello, che il Guinness dei primati cita
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Milena Buzzoni Gotico, barocco e liberty nell’incantesimo di Praga. Con un pizzico di mistero
come il più grande del mondo, è una città nella città. Con più di sette ettari di superficie, fu fondato attorno all’880 in stile romanico e successivamente rimaneggiato fino al settecento, epoca a cui risale la forma odierna. Simbolo
dell’indipendenza ceca (nel 1989 al grido di “Havel na hrad!”, “Havel al Castello!”,
la popolazione chiamò alla presidenza il più acceso oppositore del regime comunista!) è ancora oggi la residenza del capo dello stato. Si entra soggiogati dalla
monumentalità di due statue di gigantomachia poste ai lati del cancello. Una serie
di cortili collega i vari edifici che compongono il complesso e vi si può ammirare
l’enfasi di un barocco che si materializza in scale e fontane. Nella Galleria del Castello opere eccellenti quasi inaspettate: Rubens, Tiziano, Veronese, Tintoretto….
Il terzo cortile è dominato dalla gotica facciata della cattedrale di San Vito in cui
venivano incoronati e sepolti i re boemi. Un colpo d’occhio mozzafiato solleva
lo sguardo in alto tra rosoni, pinnacoli, guglie e una torre di cento metri con la
campana di Sigismondo, la più grande della Boemia. L’interno ci risucchia con la
soggezione degli archi a sesto acuto, del buio trafitto dai fendenti colorati della
luce che penetra dalle vetrate come attraverso un caleidoscopio, del silenzio che
assorbe i bisbiglii dei visitatori . Tremila pietre dure miste a pasta d’oro rivestono la Cappella di San Venceslao costruita dal Parler a metà del 1300. Peccato
non avere più tempo per esplorare meglio questo luogo, scendere nelle cripte, visitare tombe, attraversare sale con la meticolosità un po’ pedante del viaggiatore
di professione. Senza orari e senza regole. C’è però il tempo per una breve incursione nel monastero di Strahov, la bianca costruzione sulla collina di Hradcany
che con le guglie della cattedrale costituisce la più tipica veduta di Praga e, vista
da Mala Strana, troneggia lassù come una gigantesca torta degli sposi! Puntiamo
subito sulla biblioteca che conta ben 140000 volumi! Nella sala più vecchia, detta
“teologica”, lignee bacheche barocche arrivano a un soffitto a galleria affrescato
con immagini allegoriche del Nuovo Testamento, una folla di figure capriolanti
fra nuvole e cieli azzurri. E a terra l’immensità di questa sala e del sapere concentrato nei suoi libri si amplifica in una serie di mappamondi di provenienza olandese. Nella sala “filosofica” che ci congeda, si arriva attraverso un corridoio in cui,
tra gli altri, 68 volumi documentano le piante legnose del paese. Ogni volume è
dedicato a un albero con il cui legno è fatta la copertina.
Girando per le stradine tagliate dal sole che circondano il Castello, percorriamo “la viuzza d’oro” o “vicolo degli alchimisti” che nelle loro casette
tentavano di produrre la pietra filosofale nonché elisir di lunga vita e oro per
l’imperatore Rodolfo II.
Ed ecco, al N.22, una delle case abitate qui a Praga da Kafka, lo scrittore
più rappresentativo dello spirito di questa città ma anche dello spirito di ciascuno di noi.
Basta distogliere gli occhi dalle quinte dentro le quali si muovono i suoi
personaggi, dal Castello, dal tribunale o dalla stanza in cui Gregor Samsa diventa un insetto, per percepire un male comune.
È ancora Ripellino a notare che “con rimandi kafkiani si può rinvenire lo
stesso disagio di creatura sui margini, in ogni creatura praghese, straniera nella sua
terra e soggetta agli abusi di autorità inaccessibili, a una solerte e sfuggente inquisizione, che scruta e braccheggia e manipola l’uomo... di lui decide una burocrazia
misteriosa, a lui, si chiami Josef Svejk oppure Josef K, non resta che cercar sotterfugi…..per passare attraverso il soffocante rituale di regole e di imposizioni”.
Che sia anche per questo che a Praga ci si sente a casa?
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L’ A N I M A A F F O G ATA N E L V I N O
L’ANIMA AFFOGATA NEL VINO.
Il vino, la disperazione e la morte
nelle Novelle per un anno di Pirandello
di Marco Chiariglione
In alcune Novelle per un anno Pirandello tratta di vino, più o meno direttamente, attribuendo ad esso, nella maggior parte dei casi, funzioni e significati rilevanti.
Le funzioni che il vino assume all’interno delle Novelle paiono molteplici. Da una parte esso diviene una sorta di tramite verso la morte, in quanto uno
dei vizi che scaturiscono dalla disperazione e conducono a disfatta, suicidio
e omicidio, oppure, all’opposto, in quanto esso sembra assumere connotati quasi medicinali, di conforto (“Viatico”), rispetto alla trista condizione umana1. Dall’altra parte il vino è funzionale ad alcune parodizzazioni del sacramento eucaristico.
È da intendersi che tali aspetti spesso coesistono all’interno delle novelle che si andranno a indagare, tuttavia il motivo della disperazione per la miseria della vita dell’uomo, incapace di conciliare sogni e realtà, costituisce il fondamento stesso dell’ispirazione pirandelliana, e il vino, che con tale disperazione pare talvolta persino identificarsi, diviene una sorta di vero e proprio tramite verso la morte, che è sia fisica – quella dell’omicidio ma soprattutto del
suicidio –, sia dell’anima, che quella fisica determina e precede.
***
Del vizio di bere vino quale causa ma soprattutto conseguenza della disperazione, dovuta a una vita abbattuta dall’insuperabile contrasto tra sogni
e realtà, vertono in particolare le novelle Vittoria delle formiche, E due!, Chi fu?
e Donna Mimma.
Nella brevissima Vittoria delle formiche2 l’autore mostra, come sovente
accade nelle proprie novelle, il resoconto della capitolazione, della sconfitta di
Lo stesso Pirandello nell’Avvertenza a ciascuno dei primi tredici volumi dell’edizione Firenze, Bemporad, 1922-1928, delle Novelle per un anno a proprio modo – cioè con quella sua malinconica e
sofferente ironia – si scusava con i lettori per la propria troppo amara e triste concezione del mondo e della vita; cfr. L. Pirandello, Avvertenza, in Note ai testi e varianti, in Novelle per un anno, a
cura di M. Costanzo, premessa di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1985, vol. I, tomo II, p. 1071: “L’autore delle Novelle per un anno spera che i lettori vorranno usargli venia, se dalla concezione ch’egli
ebbe del mondo e della vita troppa amarezza e scarsa gioja avranno e vedranno in questi tanti piccoli specchi che la riflettono intera”.
2
L. Pirandello, Vittoria delle formiche, in Una Giornata, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19972, vol. III, tomo I, pp. 702-708 (il testo della novella – già pubblicata in “La lettura”, febbraio 1936 – riproduce, con varianti, quello dell’edizione de Una Giornata, Milano, Mondadori, 1937
del XV volume delle Novelle per un anno).
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Era inutile che cercasse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come un vero porco, ecco, così
doveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco8.
3
Si vedano in proposito, tra le tante, almeno le novelle che in qualche modo di vino trattano o che
perlomeno ad esso accennano, di cui diremo: Il “fumo”, E due!, Acqua amara, Sole e ombra, Sopra
e sotto, Il coppo, Un po’ di vino, Donna Mimma, L’uccello impagliato, Chi fu?; per non parlare poi
delle opere teatrali e dei romanzi.
4
Cfr. L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., passim.
5
“Formiche” che significativamente danno titolo alla novella stessa.
6
L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., p. 706: “Erano formiche piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee, che un soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne sopravvenivano da tutte le parti; e il da fare che si davano; l’ordine nella fretta; queste squadre qua, quest’altre là; viavai senza requie; s’intoppavano, deviavano per un tratto, ma poi ritrovavano la strada, e certo s’intendevano e consultavano tra loro”. Evidentemente si tratta di una descrizione tanto allucinata quanto surreale delle formiche per figurare quelle ansie e agonie che tormentavano
il protagonista. Tale identità viene persino dichiarata direttamente dall’autore una volta che, narrando di come esse passeggiassero sul corpo dello stesso protagonista, il quale peraltro già tutti
“sapevano pazzo” (ivi, p. 708), identificava tali formiche con i pensieri e i rimorsi che – appunto –
lo assalivano impedendogli di dormire: “E ad un certo punto ecco che si vide uscire dalle maniche
della camicia su quelle mani penzoloni le formiche, le formiche che dunque sotto la camicia gli passeggiavano sul corpo come a casa loro. Ah, perciò forse la notte lui non poteva più dormire e tutti i pensieri e i rimorsi lo riassalivano” (ivi, p. 707).
I riferimenti, le figurazioni e i procedimenti psicoanalitici, in un’epoca tanto cruciale, sembrerebbero piuttosto evidenti, persino in qualche modo pionieristici. Si ricordi che, anche a seguito della malattia mentale della moglie, Pirandello approfondì lo studio sui meccanismi della mente e sull’analisi del comportamento sociale nei confronti della malattia mentale, avvicinandosi sin da giovane alle teorie dello psicologo Alfred Binet e, successivamente, alle nuove teorie psicanalitiche di
Sigmund Freud.
7
Ibidem: “Non ci poteva credere! Uno dopo l’altro s’era lasciati portar via dagli usuraj i poderi, e
una dopo l’altra le case, per poter disporre d’un po’ di danaro di nascosto dalla moglie, per pagarsi qualche piccola passeggera distrazione (veramente, non piccola né passeggera; era inutile che cercasse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni
come un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco) e gli era bastato che la moglie non si fosse ancora accorta di nulla, per seguitare a vivere come se neppur lui
sapesse nulla della rovina imminente; e sfogava intanto le bili e le smanie segrete sul figlio innocente che studiava il latino”.
8
Ivi, p. 704. Cfr. in proposito all’espressione “Aveva vissuto […] come un vero porco” la novella Il
Signore della Nave, in Candelora, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19972, vol. III,
tomo I, p. 427, e la commedia Sagra del Signore della Nave, in L. Pirandello, Diana e la Tuda, Sagra
del Signore della Nave, a cura di R. Alonge, Milano, Mondadori, 1993, p. 107.
Marco Chiariglione L’anima affogata nel vino
un uomo e quindi la rappresentazione del suo tragico epilogo3. I “pensieri e i
rimorsi” – diffusamente descritti con la consueta cura per l’indagine psicologica e per quell’efficacissima analisi delle più oscure e recondite ombre celate tra delle pieghe dell’animo umano4 – vengono figurati quali surreali “formiche”5, descritte come “piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee”6, che
costituiranno il delirante pretesto per quella che, al di fuori della prospettiva
allucinata della narrazione, nient’altro è che la descrizione di un disperato suicidio. Interessante è che il vino, insieme alle donne e al gioco d’azzardo, sia additato quale “distrazione” definita prima “piccola” poi, rettificando, “non piccola né passeggera”7, cioè come uno dei vizi che hanno determinato il decadimento e la corruzione del protagonista, che resta – caso piuttosto insolito nelle novelle pirandelliane – anonimo:
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Ma il “vino”, insieme al “giuoco”, è una giunta riportata nel testo dell’edizione delle Novelle per un anno rispetto a quello dattiloscritto con correzioni autografe a penna dell’autore, in cui il vizio era circoscritto alle donne (“Le
donne! le donne!”)9. Si deduce pertanto un’intenzione particolare e una riflessione che ha determinato l’autore a identificare proprio nel vino uno dei vizi
che hanno spinto al suicidio il protagonista della novella.
Sempre a un suicidio, questa volta esplicitato, di un giovane ventiseienne – Diego Bronner – disperato e rovinato per “un fallo di gioventù”, era già dedicata la novella E due!10, ulteriormente impreziosita dalla commuovente figura dell’anziana madre. Molti sono i tratti comuni con Vittoria delle formiche
quali il silenzio persino accresciuto dallo “zirlio” dei grilli intanto che non si
muoveva una foglia11 e il cielo plumbeo12 dei luoghi in cui maturano e si svolgono i suicidi che paiono consuonare con un disperato paesaggio dell’anima
dei protagonisti, ma soprattutto già le cause del decadimento cioè il vino, le
donne e il gioco d’azzardo:
Giovinastri, si sa! Invitati a casa da questo forestiere, riccone e scostumato, avevano fatto pazzie: vino, donnacce… s’ubriacavano… Ubriaco, quello voleva giocare a carte, e perdeva13.
9
Cfr. redazione dattilografata dall’autore di Vittoria delle formiche con correzioni autografe a penna, dalle Carte degli Eredi Stefano Pirandello, raccoglitore n. 32, cartellina verde, “Novelle. Dattiloscritti” (cfr. anche raccoglitore n. 31, cartellina bianca, “Soggetti per novelle”), riportata in: L. Pirandello, Vittoria delle formiche, in Note ai testi e varianti, cit., 19972, vol. III, tomo II, pp. 1433-1437:
1435: “Doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni e anni come un
vero porco, ecco, così sì doveva dire, come un vero porco; le donne! le donne!”. Cfr. L. Pirandello,
Carteggi inediti con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo, a cura di S. Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, p. 250 e nota 3; p. 252; p. 253 e nota 1; p. 255 e nota 2.
10
L. Pirandello, E due!, in Scialle nero, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19965, vol.
I, tomo I, pp. 176-185. Il testo della novella – già pubblicata con il titolo Strigi in “Il Marzocco”, 29
settembre 1901 – riproduce, con varianti, quello con il titolo definitivo E due! dell’edizione de Scialle nero, Firenze, Bemporad, 1922 del I volume delle Novelle per un anno.
11
Cfr. ivi, p. 176: “Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l’argine. Solo, nel gran silenzio, s’udiva un lontanissimo zirlio di grilli e – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui,
con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto. […] Il Bronner stette un pezzo col volto in su a contemplar quella fuga, che animava con così misteriosa vivacità il silenzio luminoso di quella notte di luna”. Cfr. L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., p. 705 e 707:
“Lasciava il pagliericcio; rinunziava a dormire; tornava a sedere sulla soglia della catapecchia; e lì
il silenzio smemorato della campagna immersa nella notte, a poco a poco, lo placava. Il silenzio,
non che turbato, pareva accresciuto dal remoto scampanellio dei grilli che veniva dal fondo della
grande vallata”; e: “L’aria era immota; in attesa della pioggia che pendeva sulla campagna, in quel
silenzio sospeso che precede la caduta delle prime grosse gocce. Non crollava foglia”.
12
Cfr. L. Pirandello, E due!, cit., p. 176 e 185: “Correva per il cielo una trama fitta d’infinite nuvolette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall’alto, le passasse in rassegna”; e: “Continuava per il cielo
la fuga delle nuvolette lievi, basse, cineree”. Cfr. L. Pirandello, Vittoria delle formiche, cit., p. 707:
“Il cielo, durante la notte, s’era incavernato, e la pioggia pareva imminente”.
13
In realtà a ubriacarsi sembrerebbe esser stato soprattutto il “Russo”, cioè la vittima di Diego e
dei “suoi compagni di crapula”, che quindi lo truffavano giocando a carte; cfr. ivi, p. 181: “Ubriaco, quello voleva giocare a carte, e perdeva…”; e ivi, p. 183: “Anch’io, va’ là, con gli altri. Era uno
spasso! E allora venivano le carte da giuoco. Giocando con un ubriaco, capirai, facilissimo barare…
[…] Così… scherzando… Oh, questo, te lo posso giurare. Là risero tutti, giudici, presidente; finanche i carabinieri; ma è la verità. Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scher-
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S’era proposto di non leggere più, di non più scrivere un rigo; e andava lì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in
sé, per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poiché
le tristi necessità della vita gl’impedivano d’abbandonarsi a esso, come
avrebbe voluto.19
E si noti che la prima redazione della novella, intitolata Strigi20 – pubblicata su “Il Marzocco”21 – proprio recita che il protagonista intendeva “uccidere in sé la propria anima”:
Si era proposto di non più leggere, di non più scrivere un rigo; e andava
lì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé la
propria anima, per affogare nel bagordo il suo bel sogno giovanile, poizare. Non ci pareva una truffa. Erano i denari d’un pazzo schifoso, che ne faceva getto così… E del
resto, neppure un centesimo ne rimaneva poi nelle nostre tasche: ne facevamo getto anche noi, come
lui, con lui, pazzescamente…”.
14
Cfr. ivi, p. 181: “L’accusa a tradimento dei suoi compagni di crapula, quel processo scandaloso,
che aveva sollevato tanto rumore e infamato tanti giovanotti, scapati, sì, ma di famiglie onorate e
per bene”.
15
Cfr. ivi, p. 182: “Che è stato? Niente. Sono stato tre anni «in villeggiatura». Parliamo d’altro…”.
16
Del giovanile sogno di scrittore si apprende indirettamente nel corso della narrazione, attraverso i discorsi diretti e indiretti della madre; cfr. ivi, pp. 181 e 184: “Il suo figliuolo era tanto bravo!
sapeva tante cose! scriveva, prima, anche nei giornali…”; e: “– Perché non lavori? perché non scrivi più, come facevi prima?”.
17
Cfr. ivi, pp. 176-177: “S’udiva […] – sotto – il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui,
con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell’argine opposto. […] Forse qualcuno,
come lui, s’era messo a contemplare […] il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell’acqua nera fluente”.
18
Cfr. ivi, p. 185.
19
Ivi, pp. 183-184.
20
Le “strigi” sono le civette o in genere gli uccelli rapaci notturni, verosimilmente qui a indicare un
cattivo augurio e un presagio di morte. Improbabile che si tratti degli “strigi” intesi quali pesci d’acqua dolce. Cfr. le voci dedicate a Strige, in S. Battaglia, Grande dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, vol. XX, 2000, p. 359.
21
Cfr. la nota 10 di questo studio.
Marco Chiariglione L’anima affogata nel vino
Dunque il vino nella novella, oltre a essere uno dei vizi che imbruttisce, diviene anche il fondamentale strumento della sprovveduta truffa di Diego e “dei
suoi compagni di crapula” ai danni del “Russo”, la loro sciocca vittima. A seguito di tale truffa Diego Bronner subirà un imbarazzante processo14 e finirà in carcere per tre anni15, la qual cosa in realtà costituisce solo apparentemente la causa e l’origine della sua rovina. Infatti un passo della stessa novella mostra esplicitamente e significativamente che l’intento autodistruttivo del comportamento
del protagonista preesisteva, affermando che egli già da prima intendeva “affogare nel bagordo” il proprio sogno giovanile di scrittore16, per l’impossibilità di
realizzarlo a causa dell’ostilità delle cose del mondo (che appena vengono accennate), cioè per l’incapacità o l’impossibilità di conciliare il sogno con la realtà. I
conseguenti sentimenti di disillusione e frustrazione sfoceranno allora necessariamente nel naufragio dell’anima nei vizi: vino, donne e gioco d’azzardo, vale a
dire in acque oscure, anzi “nere”17, proprio come quelle del Tevere in cui si getterà lo stesso sventurato Diego Bronner18:
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ché le tristi necessità della vita gl’impedivano d’abbandonarsi a lui, com’egli
avrebbe voluto.22
Quindi il sogno era già stato ucciso in sé, insieme all’anima stessa. Si potrebbe dire che il più era già stato fatto, non essendo ormai più possibile riprendere la vita (come invece sperava la madre, anche a costo della propria).
La morte fisica era ormai ineluttabile e persino la parte meno gravosa, tanto
che il primo suicidio che il giovane si figura di aver visto23, nient’altro rappresenterebbe che la prefigurazione del proprio.
Chi fu?24, altra novella che tratta del vizio di bere vino, è piuttosto atipica rispetto alla produzione novellistica pirandelliana – difatti è una di quelle non comprese dall’autore nelle Novelle per un anno e andrà poi in successive edizioni a far parte dell’Appendice25 – particolarmente per i tratti spesso
allucinati della narrazione e per il relativo sviluppo degno quasi di una sceneggiatura teatrale o cinematografica, mostrando un’ispirazione sospesa tra l’onirico-psicanalitico26 e l’orrorifico.
Si tratta di una sorta di deposizione, si deduce a degli ufficiali di polizia, del personaggio protagonista, l’“ottimo giovane” Luzzi, in riferimento ai
fatti e alle cause di quello che si scoprirà essere un omicidio, precisamente quello della madre di Tuda, che è la promessa sposa da cui questi era stato abbandonato pochi mesi prima, precipitandolo nella disperazione. Il movente sarebbe stato il disonore di Tuda, a causa della madre, che gli sarebbe stato svelato dal defunto di lei padre Jacopo Sturzi.
Il tema dominante della narrazione, quasi un leitmotiv, è il vino: sin dal
principio il protagonista pietosamente spiega l’infrangersi – ancora una volta
– del proprio sogno: “Il sogno mio, il sogno mio di tant’anni era crollato!”27, da
cui gli derivava un dolore alla testa che gli dava “il farnetico, il capogiro e i conati della vomizione”28, tuttavia nega le accuse di essersi “dato al vino, per dimenticare”29 – riconoscendo piuttosto d’aver ecceduto nelle “facili avventure”30
22
Redazione della novella con il titolo Strigi in “Il Marzocco”, 29 settembre 1901, riportata in: L. Pirandello, Strigi, in Note ai testi e varianti, cit., 1985, vol. I, tomo II, pp. 1156-1160: 1159, i corsivi
sono nostri. Cfr. A. Orvieto, Prose, a cura di C. Pellegrini, con appendice di lettere di Pascoli, Pirandello, D’Annunzio, Capuana, Cecchi, Cardarelli, a cura di R. Fedi, Firenze, Olschki, 1979, lettera VIII,
p. 178 e nota 1; e L. Pirandello, Carteggi inediti, cit., p. 285 e nota 1; p. 286 e nota 1.
23
Cfr. L. Pirandello, E due!, cit., pp. 176-178 e 184-185.
24
L. Pirandello, Chi fu?, in Appendice, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19972, vol.
III, tomo II, pp. 986-992 (il testo della novella – poi pubblicata nell’Appendice dell’edizione: L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti e A. Sodini, Milano, Mondadori, vol. II,
1938 – riproduce quello pubblicato in “Roma di Roma”, I, 59, 27-28 giugno 1896).
25
Si vedano in proposito ivi, pp. 1445-1446 e ivi, 1985, vol. I, tomo II, pp. 1071 ss.
26
Cfr. in proposito al secondo capoverso della nota 6 di questo studio.
27
L. Pirandello, Chi fu?, cit., p. 986.
28
Ibidem: “Avevo qui un male, qui, alla testa, che mi dava il farnetico, il capogiro e i conati della
vomizione”.
29
Ibidem: “E mente per la gola chi afferma che a Napoli mi fossi dato al vino, per dimenticare”.
30
Ibidem: “Invece, m’ero dato alle… sì, alle facili avventure, scioccamente, per prendermi una rivincita, anzi una vendetta della coscienza, della fedeltà, dell’astinenza mia di tant’anni. Questo sì; e
in questo, ne convengo, ho ecceduto”.
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– Sì, son morto, Luzzi – soggiunse; – ma il vizio, capisci, è più forte! Mi
spiego subito. C’è chi muore maturo per un’altra vita, e chi no. Quegli
muore e non torna più, perché ha saputo trovar la sua via; questi invece torna, perché non ha saputo trovarla; e naturalmente la cerca giusto
dove l’ha perduta. Io, per esempio, qui, all’osteria. Ma che credi? È una
condanna. Bevo, ed è come se non bevessi, e più bevo, e più ho sete. Poi,
capirai, non posso concedermi troppe larghezze…34
Allora Luzzi viene costretto a bere vino fino a ubriacarsi dal “morto”, al
quale non è possibile ribellarsi, così come è impossibile ribellarsi al vizio stesso, implicitandone l’irresistibilità e l’inesorabile forza:
E m’attirò nell’osteria. Lì mi forzò a bere, a ribere, certamente con l’intenzione d’ubbriacarmi. Tanto era il mio stupore e tanto lo sgomento,
che non seppi ribellarmi. Non bevo vino; eppure ne bevvi non so più quanto. Ricordo: una nube soffocante di fumo; il tanfo acuto di vino. […]
Anche bevendo mi guardava. A un tratto si riscosse e cominciò a parlarmi a bassa voce. Già la testa mi girava pei vapori del vino; ma quelle parole strane sulle cose della vita e della morte, me la facevano girar peggio35.
Quindi il tragico epilogo mostra Luzzi, ormai sopraffatto dall’ubriachezza e dalla disperazione, che viene condotto sulla scena dell’assassinio da Jacopo Sturzi36 – “come un fantasma d’incubo, che mi trascinasse verso un precipizio” –, e si risolve nella repentina descrizione del delitto, che l’allucinazione attribuisce proprio al “morto”, al “fantasma”, cioè lo Sturzi:
Cempennante, ebbro, con la testa in fiamme e più pesante del piombo, io
gemevo: – Tuda? Tuda e la madre? – La figura di lui ammantellato mi si
confondeva nell’ombra violenta con l’ombrello ch’egli sorreggeva alto con-
Cfr. ibidem: “Ubbriaco, io? Ma già, che meraviglia, se ora si tenta di far credere che mi finga pazzo per iscusarmi?”
32
Cfr. ivi, p. 990: “Non bevo vino”.
33
Ivi, p. 986. Forse tale insistita ripetizione è volta a suggerire in qualche modo l’insinuarsi della
“nuova” follia.
34
Ivi, p. 989.
35
Ivi, pp. 990-991.
36
La figura ammantellata di Jacopo Sturzi, si badi, è descritta “confondersi nell’ombra violenta con
l’ombrello”, suggerendone l’irrealtà e dunque che si tratti in verità di un’illusione, di un miraggio,
di un autoinganno, di un’allucinazione; cfr. ivi, p. 992.
31
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– e precisa di non essere affatto ubriaco31 e ancora, come ripeterà nuovamente32, di non aver mai bevuto vino: “Vino, non ne ho mai bevuto”33.
Si parla dunque del vizio di bere vino, che viene riconosciuto persino più
forte della morte, attraverso le parole del morto-vivente Jacopo Sturzi, per il
quale rappresenta una vera e propria pena (“È una condanna”) con tratti di contrappasso (“Più bevo, e più ho sete”):
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tro la pioggia, e diveniva enorme agli occhi miei, come un fantasma d’incubo, che mi trascinasse verso un precipizio. E là, con uno spintone, mi
cacciò dentro il portoncino bujo, urlandomi all’orecchio: – Va’, va’, da mia
figlia!…
Ora io ho qui, qui nella testa, soltanto gli urli di Tuda avviticchiata al mio
collo, urli che mi spezzavano il cervello… Oh! fu lui, torno a giurarlo, fu
lui, Jacopo Sturzi!… Lui, lui strangolò quella strega che si spacciava per
zia… Se non l’avesse fatto lui, però, l’avrei fatto io. Ma l’ha strozzata lui
perché ne aveva più ragione di me.
Questa è la verità. Io ho le mani nette.37
Si ritrova dunque in questa novella piuttosto esplicita l’identificazione
del vino con il vizio, ma ancora con la disperazione e con la morte, questa volta inferta a chi fu causa della propria rovina, cioè la lasciva38 e spregiudicata
madre di Tuda (la colpa della madre quale causa di rovina si riscontra – come
vedremo – anche nella novella Sopra e sotto).
Allora la vera risposta alla domanda posta nel titolo della novella “Chi
fu?” – cioè “chi è stato?” –, a fondamento del racconto stesso, è proprio costituita da tale identificazione: sono stati allo stesso tempo il vino, il vizio, la disperazione, e pesino la morte stessa i colpevoli, vale a dire tutti i sentimenti
che invadevano la misera anima di Luzzi – evidentemente il reale assassino –
che nella sua follia e palpabile allucinazione si era schizofrenicamente sdoppiato nell’alter ego del defunto Jacopo Sturzi39.
Ancora tratta del bere vino quale vizio, suggerendone i rilevanti nessi col
motivo della disperazione, la novella Donna Mimma.
Donna Mimma, il drammatico personaggio protagonista dell’omonima
novella e della stessa raccolta che la comprende40, assume i tragici connotati
dell’impossibilità del ‘vecchio’ di potersi in qualche modo adattare al ‘nuovo’
e trovarvi luogo. Infatti il disperato tentativo dell’anziana “ostrètica”41 di adeguarsi ai nuovi tempi e alla scienza conduce, nonostante i propri immani sforzi, all’inesorabile sconfitta e all’impossibilità di ritrovare il proprio posto cui
era stata costretta a rinunciare. La conseguente frustrazione del personaggio
si manifesta in quotidiane scenate contro il farmacista e la giovane ostetrica
che è venuta “a rubarle il pane”42. E ancora, si noti, l’assoluta e terribile disperazione di donna Mimma è attribuita da qualcuno (“C’è chi dice che”43), non senIbidem.
Gli adulteri della moglie sono adombrati mediante una più o meno esplicita parafrasi da parte
di Jacopo Sturzi, il marito defunto; cfr. ivi, p. 991.
39
Cfr. in proposito ivi, pp. 988-989.
40
L. Pirandello, Donna Mimma, in Donna Mimma, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit.,
19965, vol. II, tomo I, pp. 597-623 (il testo della novella – già pubblicata in “La lettura”, gennaio 1917;
in L. Pirandello, Un cavallo sulla luna, Milano, Treves, 1918; e nell’edizione de Donna Mimma, Firenze, Bemporad, 1925 del IX volume delle Novelle per un anno – riproduce, con varianti, quello
dell’edizione: L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, cit., vol. II, 1938).
41
Cfr. ivi, pp. 618-619.
42
Ivi, p. 623: “Invelenita contro tutto il paese, col cappellaccio in capo, ogni giorno ella scende in
piazza, ora, a fare una scenata davanti la farmacia, dando dell’asino al dottore e della sgualdrinella a quella ladra Piemontesa che è venuta a rubarle il pane”.
43
Ibidem.
37
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D’altra parte il vino, seppure con modalità diversificate, assume i connotati di una sorta di medicina o “viatico” per la disperazione umana all’interno delle novelle Sopra e sotto, L’uccello impagliato, Certi obblighi, La paura del
sonno, Sole e Ombra, Il coppo, Un po’ di vino e Il “fumo”. Tuttavia l’ambito è
sempre quello desolante dell’inaridimento e morte dell’anima, dovuto alla caduta dei sogni e delle aspirazioni di fronte al contrasto con la realtà della vita,
che costantemente si risolve in disfatta, morte e sconfitta, ma con l’unica rilevante eccezione de Il coppo, come si mostrerà.
Nella novella Sopra e sotto 46 il vino e la conseguente volontaria disperata ubriacatura – dei quali all’interno del racconto sono diffusi cenni costanti
e rilevanti47 – assumono un ruolo fondamentale e predominante, dal momento che costituiscono la strana medicina, la strana cura, attraverso cui il professor Carmelo Sabato intende liberarsi della propria anima, che più non vuole,
poiché ormai insopportabile e insostenibile: perciò si riempie di vino, per scacciarla in tal maniera da sé:
– Enrichetto… Enrichetto mio… no, per carità… non mi dire che ho un’anima immortale… Fuori! fuori! Ecco, sì, ecco quello che io dico: fuori; sarà
fuori l’anima immortale… e tu la respiri, tu sì, perché non ti sei ancora guastato… la respiri come l’aria, e te la senti dentro… certi giorni più, certi
giorni meno… Ecco quello che io dico! Fuori… fuori… per carità, lasciala
fuori, l’anima immortale… Io, no… io, no… mi sono guastato apposta per
non respirarla più… m’empio di vino apposta, perché non la voglio più,
non la voglio più dentro di me… la lascio a voi… sentitevela dentro voi…
io non ne posso più… non ne posso più…48
Ibidem.
Ibidem.
L. Pirandello, Sopra e sotto, in La rallegrata, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit.,
19965, vol. I, tomo I, pp. 550-558 (il testo della novella – già pubblicata in “Corriere della Sera”, 29
marzo 1914; in L. Pirandello, La trappola, Milano, Treves, 1915; e nell’edizione de La rallegrata, Firenze, Bemporad, 1922 del III volume delle Novelle per un anno – riproduce, con varianti, quello
dell’edizione: L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, cit., vol. I, 1937).
47
Cfr. ivi, passim.
48
ivi, pp. 554-555.
44
45
46
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za qualche implicita malignità, al fatto che si sia “data al vino”44 – cioè beva,
si ubriachi – “perché dopo queste scenate, ritornando a casa, donna Mimma piange, piange inconsolabilmente; e questo, come si sa, è un certo effetto che il vino
suol fare”45. Tale considerazione, indirettamente attribuita alla gente del paese ormai ostile, pare in realtà velare e allo stesso tempo esprimere lo strettissimo rapporto che Pirandello instaura fra i termini ‘disperazione’ e ‘vino’. Il pianto infinito e inconsolabile dello sconfitto viene infatti attribuito all’ubriachezza, considerandolo nient’altro che un preciso e determinato effetto del vino.
È come se in qualche modo l’autore più o meno direttamente additasse una sorta di identità tra vino e disperazione, inferendone i nessi causali.
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Il tono della novella, che pare in principio piuttosto leggero e scherzoso, si appesantisce progressivamente sino alla drammatica rivelazione finale,
che viene espressa con quell’amaro sorriso, invero qui ridotto ormai ad una smorfia, tipico dell’umorismo pirandelliano49. Il disquisire tra i due principali personaggi, l’anziano professor Sabato e il giovane professor Enrico Lamella, verte circa la grandezza o la piccolezza dell’uomo di fronte alle stelle (e all’immensità dell’universo, quindi) e in qualche modo, anche se non esplicitamente, si
risolve in un clamoroso e irriverente quanto ironico e insieme umoristico pseudo-sillogismo pronunziato dal primo: “Le stelle sono grandi, io sono piccolo,
e dunque m’ubriaco”50.
Ma già dal principio, mascherata dal registro comico – che poi si scoprirà amaramente umoristico –, si trova in estrema sintesi la dichiarazione di quello che si potrebbe chiamare il ‘senso della vita’ per i due personaggi – che peraltro in gran parte costituisce e spiega il significato della novella – espresso
proprio attraverso ciò che essi bevono: vino il primo, perché voleva morire, birra il secondo, perché non voleva morire:
Vino, il professor Sabato: vino, fino a schiattarne: voleva morire. Il professor Lamella, birra: non voleva morire.
Ancora una volta il silenzio è la cornice, l’interludio e la premessa dell’amara riflessione, interrotta – oltreché da “qualche remoto rotolio di vettura” – nuovamente da “un curioso strido – zrì” forse di un pipistrello51, molto
simile allo “zirlio” delle novelle di cui sopra.
I motivi della disperazione vengono mostrati nell’ultima parte del racconto attraverso le disilluse parole del professor Sabato, le quali delineano a
tratti essenzialissimi la vicenda: la “perdizione” delle due figlie a causa della
condotta della madre e moglie, di fronte al cui cadavere ora questi, ubriaco, era
stato (ri)condotto in occasione della veglia funebre.
La corruzione delle figlie è inferita dapprima attraverso la “canzonettaccia francese: «Mets-la en trou, mets-la en trou…»”52 e in particolare quella della seconda di esse, la quale il saccente professor Lamella avrebbe voluto per
sé: “Giovannina… Vanninella, sì… Célie… ah ah ah… Célie Bouton… La volevi
tu…”53. La “canzoncinella” esprime un esplicito quanto evidente invito all’atto sessuale, presupponendo una corruzione della figlia in tal senso, confermato poi dal fatto che ella aveva cantato all’Olympia tale canzone: “L’hai sentita
all’Olympia? Mets-la en trou, mets-la en trou…”54. L’Olympia era un teatro di
49
Cfr. L. Pirandello, L’umorismo, in Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio, in Opere di
Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, vol. VI, 19652, pp. 15-160.
50
L. Pirandello, Sopra e sotto, cit., p. 554. Sarà plausibilmente da riconoscere in proposito anche un
parodico richiamo al proverbiale “Cogito ergo sum” di Pascal, autore citato poco prima all’interno
della novella stessa: “Ah, tu così ragioni? Questo, prima di tutto, l’ha detto Pascal. Ma va’ avanti!
va’ avanti, perdio! Dimmi ora che significa” (ivi, p. 553).
51
Cfr. ivi, pp. 550 e 552-553: “Dalle case, dalle vie della città non saliva più, da un pezzo, nessun
rumore. Solo, di tratto in tratto, qualche remoto rotolio di vettura”, e: “Un improvviso, curioso strido – zrì – ferì il silenzio succeduto vastissimo all’ultima domanda del Lamella. […] Era stato forse
lo strido d’un pipistrello”.
52
Ivi, p. 556.
53
Ivi, p. 557.
54
Ibidem.
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– Sì… e sai? Vanninella m’ha… m’ha anche mandato un po’ di danaro…
e io non gliel’ho rimandato, sai? Sono andato alla Posta, a riscuotere il
vaglia, e…
– E…?
– E ci ho comprato la birra per te, idealista.57
Anche il nome d’arte della figlia, Célie Bouton, potrebbe considerarsi un
“nome parlante” in tal senso – tradotto si potrebbe rendere come “Bocciolo Monello” – con piuttosto evidenti allusioni oscene. Un’ombra di questa vicenda
peraltro, insieme allo stesso nome Célie Bouton – riferita però al personaggio
della madre – si ritrova nella commedia napoletana in tre atti L’abito nuovo di
Eduardo De Filippo la cui sceneggiatura fu scritta a quattro mani dallo stesso
De Filippo e da Pirandello58. Lo spirito delle due opere, la novella e la commedia, sembrerebbe in qualche modo consimile, dal momento che in quest’ultima si biasima la svendita della dignità per la ricchezza59.
L’Olympia è uno storico teatro di Parigi ed è il più antico music hall ancora in attività della capitale francese. La prima vedette a esibirvisi fu La Goulue, insieme con il suo gruppo di ballerine di
can-can. In seguito accolse i maggiori artisti francesi. La gloria del teatro, che poteva contenere sino
a duemila persone, crebbe per poi arrestarsi nel periodo fra il 1929 e il 1944, in cui la sala venne
trasformata in un cinema.
56
Si tratta di una stella, come sarebbe divenuta Vanninella quale vedette dell’Olympia, ben diversa da quelle di cui filosofeggiava Lamella, come indirettamente in una feroce battuta sembrerebbe
stigmatizzare il professor Sabato: “– Va’ a guardare le stelle… va’ a guardare le stelle…” (L. Pirandello, Sopra e sotto, cit., p. 558).
57
Ibidem.
58
Cfr. L. Pirandello e E. De Filippo, L’abito nuovo. Una commedia in tre atti, in Le commedie di Eduardo, a cura di A. Ottai e P. Quarenghi, coordinamento L. De Filippo, Roma, L’Espresso, 2007, DVD VI
(che riproduce l’edizione televisiva in bianco e nero del 1964), cito dalla copertina: “Lo scrivano Crispucci tenta disperatamente di difendere la propria dignità, e quella della figlia, dalla dubbia fama
della moglie, che lo ha abbandonato per diventare una stella del circo col nome d’arte di Celie Bouton. Tornata improvvisamente a Napoli, la donna muore durante un’esibizione sulla pubblica piazza. Deciso a rinunciare a un’eredità che lo disonora e che compromette il buon nome della figlia,
Crispucci è oggetto di pressioni interessate da parte di parenti e colleghi. Al ritorno da un viaggio,
intrapreso per decidere dell’eredità, Crispucci trova la figlia pronta a una fuga d’amore. Vedendo
in lei, abbigliata coi vestiti e i gioielli della madre, la moglie rediviva, lo scrivano muore, infagottato in quell’abito nuovo che è il simbolo di una ricchezza recente e, allo stesso tempo, di una dignità svenduta. L’abito nuovo, scritta a quattro mani con Pirandello nel 1936, andò in scena [nel 1937
al teatro Manzoni di Milano] pochi mesi dopo la morte dello scrittore”.
59
La commedia riprende anche la vicenda descritta nell’omonima novella pirandelliana; cfr. L. Pirandello, L’abito nuovo, in Donna Mimma, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit., 19965,
vol. II, tomo I, pp. 624-632; e ancora L. Pirandello, L’abito nuovo, in Note ai testi e varianti, cit., tomo
II, pp. 1232 ss.: 1232: “Della novella Eduardo de Filippo trasse uno scenario in dialetto napoletano
(nel dicembre 1935: FR [F. Rauhut, Der junge Pirandello, München, Beck, 1964], p. 471). Prima rappresentazione il 1° aprile 1937: SP II [L. Pirandello, Saggi, poesie, scritti varii, cit.], p. 1321”.
55
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Parigi, costruito da Josep Holler (ideatore anche del Mulin Rouge) nei cui famosi interni rossi si esibivano vedette e ballerine di can can55. Si deduce pertanto, e una simile associazione doveva essere piuttosto automatica e immediata per i lettori dell’epoca, che proprio una tale equivoca vedette56 dovesse
esser divenuta la figlia – in tal modo “corrotta” – del professor Sabato, al quale ella aveva peraltro mandato “un po’ di denaro”, e questi non l’aveva “rimandato”, anzi lo aveva adoperato per comperare la birra proprio per quell’“idealista”
di Lamella, in una chiusa dall’umorismo feroce:
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Dunque il professor Sabato vuole morire, liberarsi della propria anima,
scacciandola empiendosi di vino, in una follia di ubriaco, che tuttavia pare diventare l’unica sanità mentale possibile in un mondo ostile e sbagliato, la cui
realtà è incompatibile con i sogni e le aspirazioni dell’uomo. Si tratta di una
prospettiva tristemente volta all’estraniamento, all’annientamento dell’anima
e alla morte, in cui pare rimanere quale risorsa solamente l’amaro quanto spietato e terribile ghigno dell’umorismo.
Di nuovo, nella novella La paura del sonno 60, un valore consolatorio assume il vino per Saverio Càrzara, costruttore di burattini e perciò chiamato “Mago
delle fiere”, protagonista di una curiosa e tragicomica vicenda che mostra la
morte apparente della moglie e quindi la relativa “resurrezione”, tra scene e
commenti sospesi tra il comico e l’umoristico.
Sin dalle prime battute del racconto il vino si afferma essere “di conforto” agli studi del “Mago”, che tutte le sere leggeva ogni sorta di libri per ispirare le proprie creazioni:
Egli, il Mago, ogni sera, vincendo lo stento con la pazienza, leggeva ogni
sorta di libri: dai Reali di Francia alle commedie del Goldoni, per arricchirsi vieppiù la mente di nuove cognizioni utili al suo mestiere.
Gli era di conforto a quello studio un buon fiasco di vino.61
Sempre intento al lavoro il “Mago” forse talvolta beveva un po’ troppo,
si asserisce infatti: “Attendeva ora assiduamente al lavoro, senza mai stancarsi. […] S’intratteneva qualche sera un po’ di soverchio col fiasco del vino”62.
Tuttavia il valore consolatorio del vino si manifesta in modo più evidente nel corso della veglia funebre della moglie – morta come si diceva solo apparentemente – in cui esso viene adoperato, in una scena molto divertente, dagli amici che con il neo-pseudo-vedovo vegliavano per lenirne il dolore: non solo
quello morale ma anche (e soprattutto) quello fisico, il “Mago” infatti “ha mal
di denti”:
– Ah, che spasimo qua… – si lamenta questi a tarda notte.
– Nel cuore? Eh, poveretto!
– No. – Don Saverio accenna alla guancia. – Come se ci avessi un cane addentato.
– Scherzi del dolore… – gli risponde uno degli amici. […]
– Come vi sentite adesso? – gli domanda uno, di lì a poco.
– Ma che! lo stesso… – risponde il Mago. – Arrabbio dal dolore.
– Forse, date ascolto a me, un goccetto di vino… – suggerisce il primo, rattristato e premuroso.
60
L. Pirandello, La paura del sonno, in La giara, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, cit.,
19972, vol. III, tomo I, pp. 53-69 (il testo della novella – già pubblicata in “Roma letteraria”, 25 marzo 1900; in L. Pirandello, Beffe della morte e della vita, cit. – riproduce, con varianti, quello dell’edizione de La giara, Firenze, Bemporad, 1928 del XI volume delle Novelle per un anno).
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Ivi, p. 54.
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Ivi, p. 56.
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L’ A N I M A A F F O G ATA N E L V I N O
(LA
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SECONDA PARTE DEL SAGGIO SARÀ PUBBLICATA NEL PROSSIMO NUMERO)
Ivi, pp. 59-61.
Marco Chiariglione L’anima affogata nel vino
E gli altri:
– Certo!
– Meglio!
– Stordisce di più! La notte è così fredda!
– Ma vi pare che possa bere? – domanda mestamente don Saverio. – Fana
lì morta… Se voi volete, senza cerimonie: di là ce ne dev’essere…
Uno degli amici si alza infreddolito e va a prendere il vino, seguendo le
indicazioni del vedovo; non per sé, né per gli amici, ma per quel poveretto che ha mal di denti… Una bottiglia e cinque bicchieri. […]
Così, a poco a poco, la bottiglia si votava, ma piano piano, senza glo glo.
E finalmente ruppe l’alba.63
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Angelo Mandula Una voce accordata sull’eterno
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PROSPEZIONI
PROSPEZIONI
Letture di Rosa Elisa Giangoia, Angelo Mundula, Giuliana Ro-
vetta, Guido Zavanone
UNA VOCE ACCORDATA
SULL’ETERNO
di Angelo Mundula
Dopo lungo silenzio ci raggiunge – da chissà quali isole vaganti (1) la voce mai perduta di Carmelo Mezzasalma, con un titolo che
ci appare subito conclusivo di una parabola, di un periodo molto intenso e riassuntivo della vita: Diario di preghiere, perché ogni
giorno è giorno di attesa e, appunto, di preghiera, come dire di quotidiano dialogo
con Dio. E a ben pensarci, quelle sue “isole
vaganti” sono quella sola isola da cui ci ha
sempre parlato e ci parla Carmelo, quell’isola in cui è depositata per sempre la sua sete
di sapere e di conoscenza che sempre culmina nella conoscenza suprema, nell’isola per
eccellenza, della Bellezza e della Verità. Di
fatto, per nessuno, come per Carmelo, diventato oggi com’era facile prevedere, don Carmelo, la poesia è “scala a Dio”. Forse qualcosa di più: un modo, tra i più alti e nobili,
per assecondarne i progetti; in parte, addirittura, per attuarli. Non più soltanto uno strumento di conoscenza, ma un modo per farsi, con Lui, grazie a Lui e per Sua grazia, creator o quasi Sua longa manus, perché la sua
grazia, ricevuta fin dalla nascita, si estenda
a tutta la terra, a tutti gli uomini che la abitano. Il risultato più coerente, in fondo, «tra
chi si è trovato a vivere, come la mia generazione, un passaggio epocale – nei molti altri che ancora incombono – tra una letteratura come esperienza di vita e una letteratura di mercato, votata unicamente al successo, alla notorietà, alle cordate di schieramenti fra Nord e Sud e di poetiche regionaliste», come ben scrive il Nostro in una sua
Nota dell’Autore, davvero imprescindibile dal
testo poetico. Ben presto egli aveva intuito
e voluto con tutta l’anima che mai l’amore
per la poesia avrebbe potuto soppiantare in
lui l’amore per Gesù Cristo, la potenza della sua Risurrezione. Come ancora scrive nella sua nota: «Il dio cristiano e la poesia dovevano camminare insieme, mai l’uno senza l’altro» Mezzasalma sa, tuttavia, fin d’allora, che «per creare fu necessario prima pian-
gere; che non c’è creazione senza dolore; e
che, insomma, il canto del Poeta è sempre accompagnato e guidato da “Muse dolorose”».
Prima che sacerdote, Carmelo Mezzasalma
è un uomo che, del sacro, del divino ha fatto ragione della sua vita e della sua ricca storia personale così come, più tardi, della poesia il suo specchio fedele. E se è vero che
«l’anima vive dove ama», la sua anima, anche poetica, è un’anima sempre in attesa di
Dio («Come un innamorato / vegliato, ogni
sera, dal puro silenzio / dell’attesa, ricevo
sempre / lettere d’amore al crocicchio / di
questo labirinto del tempo …». E’ un amore innato, o nato forse ancor prima della nascita, «fin dal grembo di mia madre» (ci dice
Carmelo), per miracolo dell’anima, per miracolo di Dio. Tutta la vita ne è, dunque, attraversata quasi in preparazione, in attesa di
quel grande Amore che non solo è la fonte
primaria della vita ma anche – ed è questa
la prima volta forse che lo si esplicita con tanta energia – la fonte primaria della poesia. E
qui la poesia religiosa, grazie a Carmelo Mezzasalma, fa davvero un salto di qualità, proponendo a tutta voce la novità e l’originalità del poeta cristiano tout court nei confronti di ogni altro poeta. Come Mezzasalma ci
dice nella stupenda poesia dedicata alla Madre (qui con la maiuscola perché qui maiuscola e minuscola mirabilmente si fondono),
la voce del poeta cristiano è, ab initio e per
sempre, una voce «accordata sull’eterno».
(1)Si allude ad un precedente libro del Nostro.
Carmelo Mezzasalma, Diario di preghiere,
Edizioni Feeria, Panzano in Chianti (FI)
2011, € 10,00
DENSITÀ DI VITA E DI SCRITTURA
di Guido Zavanone
Sandro Gros-Pietro è una figura felicemente complessa: editore, poeta, instancabile organizzatore culturale, romanziere, saggista,
insegnante. Ora si presenta di nuovo nella
sua veste originaria e prediletta, quella di
poeta, in un libro che scardina le previsio-
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zione Beat, ma qui siamo a mille miglia dal
rictus professorale (come lo definì Alberto Asor Rosa) di un Sanguineti. L’accumulazione di dati precisi e nomi veri non ci
rende automaticamente poeti. L’inventario
del mondo non deve essere narcisistico,
cioè lo scrittore non deve mostrare la
propria abilità di accumulatore. L’elenco
deve essere incarnato in una esperienza vissuta, come nelle Geoepiche. Così Gros-Pietro non teme il lirismo, tutt’altro: il suo lirismo è ricostituito da un salutare bagno
nella complessità, e la sua lingua rinasce,
nuova, dal contatto con flussi superiori alla
povera singolarità dell’uomo.
La poesia geoepica non può essere che religiosa, nel senso più alto e mistico del termine. Dio e Cristo sono presenze continue
e tutto si riferisce a Dio: anche il Merlo canterino che parla in un poemetto davvero sorprendente. Così Gros-Pietro si separa dalla
media della sperimentazione italiana, e si avvicina, semmai, ai grandi modelli americani. Ricordo la commozione con cui Allen Ginsberg onora la madre morta, e confida a Dio
– l’Eterno della rivelazione ebraica – che lo
adorerà sempre e comunque, «anche se non
è sposato», anche se pecca nei danteschi
«mal protesi nervi». Anche il merlo canterino prega, a modo suo, e si prende una confidenza simpatica e drammatica con l’Eterno. Ora più che mai, la poesia, secondo noi,
ha bisogno di questa intensità, che non rinnega nulla dell’umano e nello stesso tempo
sa osservare ardentemente il cosmo e le «lente immagini». Gros-Pietro ci ricorda, insomma, che la poesia non è un gioco.
Sandro Gros-Pietro, Le geoepiche e altri canti, Genesi, Torino 2010, pp. 96, € 12.00
PARLARE AL VOLTO
DELLA TERRA
di Guido Zavanone
Ho un antico ricordo liceale, e a pensarci
bene era già una dichiarazione di poetica:
il poeta Quinto Ennio «tria corda habere
sese dicebat», diceva di avere tre cuori, perché parlava il greco, l’osco e il latino. Dunque Viviane Ciampi ha due cuori, entrambi nobili: il suo stesso nome lo testimonia,
la Francia ha battezzato Viviane e l’Italia le
ha dato la radice familiare, Ciampi.
Guido Zavanone Densità di vita e di scrittura
ni del lettore. Come pochi, oggi, Gros-Pietro
sembra l’erede del mondo beat (quello di Ginsberg e di Snyder, per intenderci), in cui l’intensità – anche religiosa – delle esperienze
provoca l’intensità sperimentale della scrittura. È veramente la traduzione «in forma
di parole», come direbbe Dante, del vissuto, del «nudo grido di vita e di morte» che
«ci accompagna nel viaggio».
Che cosa è la geoepica? Il poeta lo spiega
all’inizio: è l’epica del pianeta Terra, «protagonista poetico, nella sua terrigna e terragna consistenza, spessore biologico, materiale, storico». Quindi esiste la geoepica,
ma esiste anche l’uomo: solo che l’uomo è
un semplice elemento di Gea, la Terra, non
certo il suo padrone arbitrario, non il centro del macrocosmo. Di conseguenza, la
poesia di Gros-Pietro vede, con surrealismo
e larghezza di sguardo, il mondo come un
sistema policromo, ricchissimo di sfumature che esistono a prescindere dall’uomo:
«il segno / di rinoceronte tra le nuvole / galoppa / la coscienza smagata di parola / libera / in forma di terra e nuvole l’umana
/ virtus»; «All’origine c’era un campo incolto / alla periferia della città fra fossi / sterpaglie sassi era il regno / di formiche grilli e cicale»; «Le nuvola sono geografia in cielo / più affidabile delle rotte annebbiate /
degli eroi del gioco del calcio…».
La poesia di Gros-Pietro è una ricchissima
esperienza linguistica. Lo ricorda anche Rossano Onano in una prefazione creativa e intelligente. Mi colpisce la policromia di
questa epica, che sembra dipinta con
smalti e – in modo onnivoro – incorporare tutto (potrò fare il nome di Schifano, il
rivoluzionario traduttore delle cose del
mondo in forme dipinte e fotografate, instancabilmente, ardentemente?). Mi colpisce – dicevo – l’incredibile quantità di particolari felici (caratteristica la cui invenzione è attribuita da Borges, lettore dichiaratamente edonista, a Dante). Tra i particolari, ci sono i nomi propri degli uomini e
dei luoghi. I nomi sono moltissimi, sparsi
nel libro: il traduttore e santo Gerolamo,
Diotima e Socrate, Alcatraz e il Golgota, Hemingway e Cuba, Amsterdam e San Francisco, Möbius e la città di Torino, il Torino
calcistico e Damasco, il Mar Nero e New
York, e Lucio Dalla… È tipico della Neoavanguardia italiana e anche della genera-
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Guido Zavanone Parlare al volto della terra
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Questo libro parla della terra, dei luoghi,
e soprattutto della gente che sta sulla terra. La prima epigrafe è un pensiero di Jean
Giono (nato e morto a Manosque, in Provenza, e anch’egli franco-italiano come la
Ciampi): è l’autore del romanzo L’Homme
qui plantait des arbres, su cui molti di noi
si sono commossi, perché è un richiamo
al vero impegno, che non pensa al particulare di oggi ma pianta ghiande per fare
le querce di domani. E così Giono scrive:
«Mentre cerca la sua vanga, incontra il volto della terra». Il volto della terra, proprio
così: come se la terra fosse una persona,
e l’abitudine contadina lo crede. Anche
oggi il vecchio contadino di Carpi o di Fòssoli lascia cadere un po’ di vino, perché la
terra lo merita prima di lui: anche il suolo fertile ha sete, come tutti i viventi.
Della Madre Terra, Viviane Ciampi parla
con una lingua che prende dal francese
(con la sua precisione intellettuale) e dall’italiano (con la sua musicalità, anche
quando è colloquiale). Ecco un esempio:
«Alberi, campioni di longevità / guardiani dei mutamenti. / Così vicini! Bello non
vederli precipitare, / recidere… / Amarli
è fortificarsi / e se in essi ti specchi / quasi ti sgorgano / paesaggio e linfa / dalla
lingua». Oppure: «Dicono: nelle campagne
/ non arriva il male / o arriva meno che
altrove. / Qui, la gioia si deposita compatta / come bocca di necessità e persino /
venata di speranza». È nel contatto con la
natura che l’uomo può fortificarsi e rasserenarsi, perché è la concretezza originaria degli esseri (compresi quelli che non
appartengono al genere umano, cioè la
maggior parte dei viventi): «Il lavorio
delle formiche / è un’unica poesia». In questa concretezza vitale tutto funziona perfettamente, anche se non c’è una legge prestabilita: come la rosa del mistico Angelus Silesius «fiorisce senza perché», eppure fiorisce, così «non vi è legge che ordini alle stagioni / di rinverdire i prati o al
sole / d’indorare il grano» (e io, uomo di
legge, magistrato, in una intera vita professionale, avverto la maestà di un ecosistema che non abbisogna di leggi, perché
in esso tout se tient da sempre; ma l’uomo, che si impegna in un difficile percorso di civiltà, non può rinunciare alle leggi, e ora ritroviamo nella natura ciò che
non siamo più e ciò da cui ci siamo separati, come specie). L’uomo riscopre il
modo di vivere della rosa «senza perché»:
infatti «il bello dell’infuocata campagna /
è questa difficoltà di pensare o meglio /
questa fuga dal pensiero pensante». E il
pensiero pensante deve interrogarsi in un
modo più vitale e sensibile, di fronte alle
colline: sì, «forse» la natura ha qualche sua
«logica sconosciuta», ma noi non possiamo saperne nulla, e la nostra affermazione rimane sottomessa ad un forse. Nei
campi e nei boschi ricordiamo l’antica verità socratica: sappiamo di non sapere, e
il poeta non fa eccezione.
I contadini vivono tra natura e cultura, usano intelligenza e lavoro durissimo per piegare i ritmi della natura a fini umani. In
cambio, la terra chiede loro la stabilità sul
suolo, generazione dopo generazione (solo
nel dopoguerra questa continuità si è
spezzata, forse troppo velocemente e violentemente). Gli agricoltori non possono essere individualisti: occorre una comunità,
un gruppo. Quindi questi «rematori della
terra» «mantengono l’ansimare / di una fratellanza d’intenti», come le formiche poetiche. E quando uno scrittore si avvicina puramente ai campi, contemporanei e paralleli alle città (ma da esse separati) nasce una
poesia diversa: oggettiva e lirica nello
stesso tempo, sensibile e pensante, filosofica e leggera, che prende il meglio della
prosa e il meglio del lirismo. Se «l’operosità resta dentro nel sangue / la vedono coagularsi ad ogni fase della vita», la terra ci
indica sempre «il giusto della vita» e
«l’opera del mondo», come avrebbe detto
Mario Luzi. Il poeta è lì, a sentire, cercare
e dire la sua parola nuova.
Ecco una delle parole nuove della Ciampi:
alberitudine. L’alberitudine è «totalizzante», per lei: basta saperla vedere e sentire,
con gli occhi e con il cuore bilingue italofrancese. L’alberitudine riapre gli occhi all’uomo e scioglie la sua lingua e la poesia.
Per questo abbiamo abbondato con le citazioni (e non bastano): per dare conto, a chi
legge, di una scrittura inusuale e piena di
páthos.
Viviane Ciampi, Le ombre di Manosque, Edizioni Internòs, Chiavari 2011, pp. 86, €
10.00
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Ignazio Gaudiosi ha esordito come poeta
nel 1983, dopo i cinquanta anni. L’inizio tardivo è stato compensato da una bibliografia folta e da cospicui riconoscimenti critici (di cui è testimonianza, tra l’altro, il volume di Francesco D’Episcopo, Ignazio
Gaudiosi, poeta mediterraneo, Graus, Napoli 2007, di cui abbiamo preso visione e
che contiene molte ottime liriche). La nota
biografica sulla quarta di copertina segue
l’uso: primi premi, nomi di critici illustri,
attività dentro e fuori la poesia. Ma noi crediamo di non essere ingiusti – anzi, al contrario, di perseguire una vera giustizia – dicendo che la poesia di Gaudiosi è indifferente all’apparato che la circonda (tutto ciò
che i giovani critici, formatisi con le sirene francesi degli anni ’70, chiamerebbero,
forse, il «paratesto»). Vogliamo dire che la
poesia di Gaudiosi non ha tanto bisogno
delle molte – e meritatissime – soddisfazioni critiche ricevute. Paradossalmente, sarebbe comunque una poesia luminosa, anche
se non avesse guadagnato l’attenzione
(come è successo a figure novecentesche
immense, da Dino Campana a Lorenzo Calogero e Guido Morselli, in vita). E nemmeno il lettore si nutre di sola critica: al convivio delle Muse il lettore di poesia vuole
poesia e basta, perché vuole il pane, la vita.
Ci siamo convinti che Gaudiosi sia un poeta ispirato e che i suoi testi siano alti e nobili. Prescindendo dai discorsi critici, cerchiamo di farci un’idea personale, ed
esploriamo il libro, così magmatico e complesso: allora incontriamo testi di potente
e virile ermetismo (l’ermetismo sonoro e
mediterraneo di Lorenzo Calogero, di Lucio Piccolo, di Michele Pierri: autori, non a
caso, della Magna Graecia, grandi e ancora poco studiati e letti). Per esempio, Gaudiosi scrive: «È un cenno, / un segnacolo
anzi / lo sciame brusente / che a gorgo si
effonde nella cervice / e non trova strada»,
e il testo si chiude icasticamente, con un
aforisma aristocratico: «Passare le deformi
effigi alla specchiera / che lo sbaglio mondi / sarebbe impresa assai corriva». Oppure nel componimento, Antinomie, che dà
il titolo all’intera raccolta (e che può ricordare la metafisica di un altro autore ispi-
rato, l’Arturo Onofri del Ciclo lirico della
terrestrità del sole): «Spirito e materia, viva
mistura / che va a brinare il meglio delle
essenze. / Sentenza in sublimanza, / il giusto compimento di un prodigio»). Il linguaggio è sonoro e filosofico (perché questa poesia è filosofica), come – appunto – nei grandi poeti che abbiamo menzionato: «ultraemergenze», «vertebrali consistenze», «volontaria latitanza», «si elidono gli opposti»,
«amorevoli affezioni», «futuribili miraggi»,
«inopinata sintonia». Secondo noi, ne risulta una poesia elitaria e molto musicale, che
molto chiede e molto dà al lettore, il quale non sarà un lettore comune. E poi: c’è un
vero piacere nell’atto della lettura, soprattutto quando il lettore tenta un’esecuzione ad alta voce: allora tutte le possibilità implicite nei versi si dispiegano, come
deve essere.
Questa è una poesia di «ignote vibrazioni»,
alta e tesa come un poema lustrale e misterioso, senza tempo anche quando fanno capolino le cose frastornanti della contemporaneità, come il jet, o certi piccoli segni di
linguaggio giuridico (Gaudiosi è laureato in
Giurisprudenza). Il poeta ha visto che
«ciascuno corre sempre col suo tempo / per
appianare i veli della sorte, / ma non potrà scemare / il vento delle sue malinconie».
Il «correre col suo tempo» e il «correre del
tempo» (nella prima poesia, Nuziali veli I)
sono pratici e visibili, avvenendo nel presente; ma la malinconia è vento, è invisibile e interiore e non appartiene al tempo del
corpo, ma al vivere interiore dell’anima, che
non è nel tempo pubblico («l’ansia nascosta dei pensieri»). Ecco: la cifra è l’anima,
l’anima dà e al contempo riceve la dettatura dei testi, e conosce, nei modi intuitivi e
misteriosi che le sono propri. Insomma, secondo noi, Gaudiosi è uno di quei poeti assoluti che si sono dedicati all’ascolto liturgico del gran mare dell’essere. Infatti il poeta è come quella madre a cui si dice: «travagli hai avvertito più di loro / perché già
nato è il figlio nella mente». Oppure, detto in altro modo: «la verità era già nel proprio grembo».
Ignazio Gaudiosi, Antinomie, introduzione
di Francesco D’Episcopo, prefazione di Rodolfo Tommasi, postfazione di Luca Grisolini, Helicon, Arezzo 2010, pp. 114, € 11.00
Guido Zavanone Conoscere in poesia
CONOSCERE IN POESIA
di Guido Zavanone
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Giuliana Rovetta Il coraggio della paura
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Il CORAGGIO DELLA PAURA
di Giuliana Rovetta
Circa una ottantina di anni fa usciva in Francia un romanzo satirico ambientato in un piccolo paese immaginario del Beaujolais, Clochemerle, per molti versi simile a quello che
sarà poi da noi il guareschiano borgo di Brescello di Peppone e Don Camillo. Se nella Bassa padana si affrontavano, nella realtà rurale del dopoguerra, “rossi e bianchi” in continuo e umoristico confronto, a Clochemerle era stato messo in scena dall’autore
Chevallier un gustoso teatrino, specchio della società di provincia, ricco di figurine caricaturali: preti e contadini, politici e dame
di carità, madri di famiglia e borghesi quasi sempre votati all’ipocrisia.
Sembra impossibile che da quello stesso autore, peraltro di grande successo negli anni
cinquanta e tradotto in oltre venti lingue,
oggi arrivi fino a noi un testo pubblicato a
più riprese in Francia (la prima volta nel
1930) che non fa sorridere affatto, anzi induce a riflettere, anche dolorosamente, e
per di più appassiona per la profondità d’indagine e la libertà con cui viene trattato il
tema che dà il titolo al libro, la paura. Un
tema non facile da inquadrare e che oggi
richiama subito alla mente l’uso deterrente cui questo sentimento si presta per indurre nella collettività certi comportamenti di maniacale prudenza e di rifiuto di
veri o presunti “nemici” interni. Nei conflitti bellici poi questo tema è ancora più imbarazzante, in quanto non solo tradizionalmente inaccettabile per le regole della
vita militare ma anche sottaciuto nella percezione dei civili, in quanto assimilato a una
forma di viltà, almeno in fieri.
Più ancora che la testimonianza romanzata di un giovane soldato nelle trincee e sui
fronti della grande Guerra, dai Vosgi, al Chemin des Dames, dalla Champagne per finire in Alsazia, soldato -sottolineiamo- partito volontario e che ha molti tratti in comune con l’autore stesso, La paura ha alcune caratteristiche del pamphlet. E’ una
lunga e progressiva meditazione, che diventa via via una requisitoria, attorno all’inutilità della guerra (e questo spiega le fasi
di mancata distribuzione del libro, in certi periodi particolarmente sensibili a una
possibile deriva disfattista). Con crudo rea-
lismo e con un’estrema precisione d’immagini, Chevallier riesce a raccontare, come
poi farà Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano, la vita vera del soldato, fatta di attese, speranze deluse, ordini impartiti alla
cieca da superiori non sempre degni di disporre della vita altrui. Non si raccontano
solo le lunghe marce e gli assalti, con la fatica che strazia il corpo e il panico che s’insinua nelle viscere, ma anche si allude al distacco profondo del soldato dal mondo che
non combatte, che cerca di mantenere le
sue abitudini con un egoismo che sembra
necessario per poter continuare a vivere.
La prima guerra mondiale ha alimentato il
mito del sacrificio eroico, dell’abnegazione
portata all’estremo limite, in un misto d’inconsapevolezza dei fatti reali e di adesione
obbligata degli individui ai rispettivi ruoli,
con un margine di comprensione troppo esiguo. Come già Henri Barbusse nel suo
scandaloso racconto Le feu, Chevallier vuole rompere la scorza fino allora impenetrabile di un’epopea dai risvolti misconosciuti. Il grimaldello di cui si serve è la mise à
jour di un istinto che per lui non deve essere sanzionato né represso ma accolto nelle sue fondamentali dinamiche: la paura è
un segnale di allarme che esercita il fisico
e la mente alla difesa, è un potente catalizzatore di energie che recluta ogni risorsa del
corpo e dello spirito. Il lungo resoconto di
Chevallier, del resto, non è tenero con chi nei
ranghi dell’esercito non compie il proprio
dovere, a qualsiasi livello di responsabilità,
e riesce invece a mostrare attraverso l’esempio del suo alter ego Jean Dartemont, che si
può agire coraggiosamente anche avendo
paura e sforzandosi di vincerla.
Colpisce poi, nelle pieghe del concitato resoconto delle varie azioni, l’emergere di una
tentazione non prevista nell’ambito militare cioè quella di fraternizzare col soldato
nemico, come se nel quadro della generale disperazione fosse proprio questa la persona più adatta a comprendere lo stato
d’animo dell’io narrante. La distanza fra la
società borghese che esige il sacrificio dei
propri giovani connazionali (purché non si
tratti dei propri figli in senso stretto) e la
dura realtà del fronte, finisce per affratellare i nemici in un comune sentimento di
dolore e d’impotenza. Anche questo, come
si vede, è un risvolto inedito da trattare e
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Gabriel Chevallier, La paura, Adelphi, Milano 2011, traduzione di Leopoldo Carra,
pp. 327, € 20,00.
UN POETA “SONTUOSO”
di Rosa Elisa Giangoia
Quando si incontra un poeta di cui si avverte l’indubbia qualità, è sempre una grande
emozione, che si desidera comunicare e condividere con quanti sanno veramente apprezzare la poesia. A me è recentemente capitato leggendo La caduta di Bisanzio di Alessandro Rivali, una raccolta di poesie o, forse, meglio un compiuto poemetto, che supera il sentimentalismo soggettivo dilagante nella produzione poetica attuale per presentare una
visione che, partendo dalla storia, sa attingere ad una dimensione esistenziale universale, con una voce inconfondibile, di forte incisività espressiva. Caratteristica fondamentale diventa così un registro che potremmo
definire epico, ma non nel senso classico e
tradizionale, quanto piuttosto per il fatto che
l’eroe è l’uomo singolo, pur nella sua umana piccolezza, contraddistinta dal male e dalla sofferenza, sempre uguale nello spazio e
nel tempo, soprattutto sempre impegnato a
misurarsi nella storia con una fine, con una
caduta, che, però, non è mai completamente tale, perché al di là delle macerie c’è sempre un’attesa ed una speranza.
La storia, appunto, è l’elemento che caratterizza questa seconda silloge di Alessandro Rivali, poeta giovane, poco più che trentenne, alla sua seconda prova poetica,
dopo La Riviera di sangue (Mimesis, Milano 2005 e in edizione accresciuta Faraeditore, Santarcangelo di Romagna 2007),
con un’attenzione ed una consapevolezza
della storia che parte dall’esperienza della famiglia paterna, residente negli anni ’30
in prossimità del Barrio gòtico di Barcellona e di lì fuggita fortunosamente, per
scampare alle fiamme della guerra civile,
nell’estate del ’36, fino ad approdare a Genova, dove iniziò una nuova vita. Di qui deriva all’autore la consapevolezza che la Storia nella sua universalità sia l’ingranaggio
che condiziona e determina la storia di ogni
individuo, di ogni famiglia, di ogni gruppo
sociale, di ogni popolo e nazione, ma non
in senso fatalistico e rinunciatario, ma piuttosto con una consapevolezza profetica che
lo porta a guardare la Storia con una fiducia nella Vita che trascende appunto il susseguirsi degli eventi. L’attenzione dell’autore, in questo snodarsi di creazione poetica, definita “visionaria e sontuosa” da Roberto Mussapi ed “epica” da Alessandro
Ramberti, va a quei momenti critici della
storia in cui qualcosa finisce, ma non è mai
una fine in senso assoluto, proprio perché
la Vita ha il sopravvento per cui la Storia
si rimette in moto, in quanto il suo fine è
oltre il tempo in un disegno che all’uomo
singolo e anche agli uomini dotati di autorità e potere sfugge, abbiano o meno la consapevolezza di esserne elementi determinanti. Simbolo di ogni caduta storica diventa appunto la “caduta di Bisanzio”, fine di
una civiltà dalla lunga e complessa eredità, occasione di tormentosa sofferenza per
chi si trovava a spendere la sua personale
esistenza lì in quel momento, ma nello stesso tempo passaggio verso un futuro. A fare
da corollario, in questa caduta, nella comune esperienza del dolore, della sofferenza
e della lacerazione, sempre come stretto
passaggio verso il futuro, sono altre esperienze storiche, come Pompei, Persepoli e
Atlantide, poeticamente rivissute da Rivali attraverso il massimo di consapevolezza storica nell’attenzione alle fonti, ma nello stesso tempo con un’acuta capacità di penetrazione fantastica e visionaria nelle
più nascoste pieghe dell’animo di quanti ne
sono stati ad un tempo protagonisti, attori e vittime. Proprio da questa tensione tra
dati storici e creatività immaginifica nasce
lo stile tutto particolare del poeta, che ricrea la storia ed esprime l’intimo degli individui sulla scena del tempo con una ricercatezza espressiva fatta di tensione les-
Rosa Elisa Giangoia Un poeta “sontuoso”
abbondantemente indigesto, per le idee
unanimemente accettate in certi contesti.
La sincerità disarmante con cui Chevallier
tratta la sua materia è ben riassunta dalle
parole che mette in bocca al personaggio
del sergente Nègre, dotato di umor nero e
di disincantata preveggenza: “Traccio il bilancio di questa guerra: cinquanta uomini
illustri nei libri di storia, milioni di morti
di cui non si parlerà più e mille milionari
che decideranno le leggi”. Difficile non riconoscere il contenuto di amara verità di
questa inappellabile sentenza.
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Rosa Elisa Giangoia A dieci anni di distanza
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sicale, di creatività sintagmatiche sempre
molto forti, in un registro tutto teso da un
lato al basso e negativo degli ambiti semantici del soffrire, del patire, del lacerare e del
morire, dall’altro disponibile ad aperture
che gettino ponti oltre la storia. La caratteristica dello stile poetico di Rivali è il contrasto, tra vita e morte, orrore e pietas, realtà e “altrove”, tra ferrigne e ofidiche rimembranze dantesche e bagliori di speranza che proprio nel magma espressivo tende a consolidarsi in certezze, fino all’approdo ad un silenzio che si carica di mistero
e di attese. Questa tensione tra storia ed oltre è massima nelle liriche della sezione Giovanni della Croce, imperniate sulla sofferenza di una fiamma che oltre che tortura è illuminazione di un oltre in cui campeggia la figura dell’Amato (“Paragonava le
fiamme / al desiderio per l’Amato”, II) e trova un personaggio emblematico nel poeta
Ezra Pound, che valica con la sua poesia la
contingenza della personale biografia e della storia per proiettarsi in una dimensione
di assoluto luminoso, non ancora pienamente compreso neppure dalla critica, in
cui “Dialogava con le forme del vento”.
Alessandro Rivali, La caduta di Bisanzio,
Jaca Book, Milano 2010, pp. 134, € 14,00
A DIECI ANNI DI DISTANZA
di Rosa Elisa Giangoia
Il nuovo romanzo di Bruno Rombi Il labirinto del G8 raccoglie ed intreccia le esperienze e le modalità narrative dei romanzi precedenti dell’autore. Infatti alla linea realistica, che aveva contraddistinto i due romanzi di ambientazione sarda, Una donna di carbone e Un oscuro amore, si intreccia una narrazione surreale, tipica del romanzo La piramide arquata, che diventa però funzionale alla comprensione profonda ed autentica della vicenda reale raccontata.
Questo romanzo, come già si evince dal titolo, rievoca, a dieci anni di distanza, le
drammatiche giornate che Genova visse in
occasione della riunione dei Grandi della
Terra nel 2001, che videro azioni di contestazione duramente represse dalla polizia,
con strascichi ed esiti giudiziari complessi e forse non ancora del tutto chiariti.
L’autore, attraverso pagine di narrazione
surreale, caricate di forti valori simbolici e
condotte sul filo di dinamiche oniriche, riesce innanzitutto a ricostruire le sensazioni che tutti a Genova hanno avuto in quei
giorni di dieci anni fa. Diffusa e fortemente avvertita era la percezione di sospensione della normalità, a cui si accompagnava
l’attesa inquieta e inquietante di qualcosa
di eccezionale e temibile che dovesse necessariamente accadere: tutta la città era
in stato di pesante assedio, con ampio dispiegamento di forze di polizia e militari,
tutta la zona del centro storico era stata di
fatto rinchiusa dentro una cortina di ferro e tutti gli abitanti erano stati schedati con
un lungo lavoro preventivo. Proprio in questo ambiente del centro storico di Genova,
nell’intrico labirintico dei suoi vicoli, l’autore colloca l’intreccio di una serie di vicende di cronaca nera che impegnano con le
loro rituali procedure le forze dell’ordine
per la loro soluzione. Protagonisti ne sono
alcuni componenti dell’ampia comunità latino-americana che proprio in questa zona
della città ha la maggior parte delle sue abitazioni e che sembra ampiamente praticare rituali di tipo vudù. Nel romanzo, quindi, vicende complesse di omicidi, forse rituali, si verificano proprio nella zona più
controllata della città nei giorni della grande assise internazionale e dei cortei di protesta, prima pacifici, poi improvvisamente funestati dagli attacchi dei black bloc, duramente repressi dalla polizia, con l’assalto alla palestra della scuola Diaz, i conseguenti fermi di molti giovani e le inquietanti vicende alla caserma di Bolzaneto, mentre l’allora Ministro degli Interni teneva le
fila di tutta la situazione da una caserma
sul lungomare.
L’abilità del narratore sta però nello stabilire un nesso di interdipendenza tra le due
situazioni: nella narrazione le storie di omicidi e di assassini che si verificano nel centro storico hanno, infatti, una loro ragion
d’essere proprio in quel luogo, in quel momento preciso in cui si sta svolgendo il G8
con le conseguenti repressioni della protesta e del dissenso. Sono vicende apparentemente di cronaca nera locale, ma in realtà manovrate dall’alto e da lontano, proprio per dare la possibilità alle forze dell’ordine di agire con mano libera e pesante nel controllo e nella repressione.
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Bruno Rombi, Il labirinto del G8, Condaghes, Cagliari 2011, pp. 172, € 10.00
LA NATURA ED IL DIVINO
di Rosa Elisa Giangoia
Sulla linea di una poesia armoniosamente
musicale, caratterizzata da intensa meditazione e forte spiritualità, già ampiamente
portata avanti nelle raccolte precedenti, si
colloca la nuova silloge poetica di Mariangela De Togni, Fiori di magnolia, che rappresenta un continuum cantato, o per usare il
termine frequentemente impiegato dal-
l’autrice una “salmodia”, di penetrazione nel
divino attraverso la natura. Se nella raccolta precedente, Cristalli di mare, era appunto il mare con le sue variazioni di colori, di
luci, di suoni e di movimenti, a costituire
l’elemento che in un certo qual modo permetteva alla poetessa di sfondare il muro
del naturalismo per penetrare nell’Oltre, in
questa nuova raccolta sono i fiori a svolgere questa funzione, come già dimostra il titolo in cui ricorre il grande e bianco fiore
dell’albero della magnolia, fiore “candidamente significativo”, come dice il prof.
Neuro Bonifazi nella Prefazione. Per questo
potremmo dire che l’ambientazione di questa silloge è il giardino, ma non nel senso
del locus amoenus di tradizione classica, in
quanto, in tutta la produzione letteraria,
quello è sempre un luogo di delizie, di riposo e di quiete appartato dal resto del mondo, rispetto al quale rappresenta un’alternativa positiva, in contrapposizione. In questo itinerario poetico di Mariangela De Togni, invece, tutto è giardino, il mondo stesso, l’ambiente naturale è colto come un giardino in cui emergono elementi particolarmente significativi ed attraenti che ancora
una volta portano l’autrice ad andare lei stessa, ma soprattutto a condurre il lettore, al
di là della realtà per attingere alla dimensione superiore del divino. In questo mondo, in cui appunto i fiori occupano una dimensione di centralità, tutto è naturale, anzi
è la natura stessa che porta all’Oltre, attraverso un fatto, quello dell’essere oggetto della Creazione divina e quindi del conservarne tracce tangibile, che si rivela e manifesta nella bellezza, con un recupero che non
è però intellettualistico e culturale, ma è immediato e spontaneo da parte dell’autrice,
di quella linea platonica della bellezza terrena che è di per sé immagine di bontà, capace di elevare e di orientare al bene. Il mondo che si profila attraverso il susseguirsi delle liriche di questa raccolta, che, come tono,
come ispirazione, come musicalità, ma soprattutto come ambiente, rappresentano appunto una continuità interrotta, che conferisce al testo una natura letteraria di tipo
poematico, è un mondo tutto all’insegna della natura, quindi un mondo colto essenzialmente nella sua dimensione di creazione divina, quasi non toccato, non modificato dalla mano dell’uomo, un mondo inalterato nel-
Rosa Elisa Giangoia La natura del divino
Ad emergere, però, come protagonista di
tutta la narrazione, in ultima analisi, è soprattutto la realtà umana, sociale e politica della città di Genova, dei suoi abitanti,
attenti e partecipi, che fedeli alla loro tradizione, hanno saputo mantenere atteggiamenti e condotta tali da salvare la continuità democratica, senz’altro in città e forse
in tutto il paese. Di qui nasce un’importante lezione che dall’esperienza di quei giorni difficili può diventare linea guida per ogni
situazione in cui occorra difendere le conquiste democratiche del nostro paese.
Ma il pregio di questo romanzo, condotto con
mano abile dall’autore, nonostante le difficoltà derivanti dall’ intrecciare due fabulae
e dal lavorare sul piano della realtà e del surreale, caricato di forti valenze simboliche, sta
anche nell’aver saputo tratteggiare con
mano sobria, ma efficace, situazioni e figure di cui si è impossessata la cronaca, sfruttate dal giornalismo e dai mass media, sapendo restituire loro quell’autenticità e quell’umanità che anche le situazioni più complesse e le figure più discusse richiedono: è
in particolare il caso della ricostruzione della vicenda di piazza Alimonda che ha visto
l’uccisione del giovane Carlo Giuliani da parte del carabiniere Placanica, due giovani, trovatasi nella loro inesperienza a rappresentare due realtà contrapposte, guardate dall’autore con occhio paterno ed imparziale.
Con questo suo nuovo romanzo Bruno
Rombi si conferma narratore di pregio, capace di osservare la realtà e di trasferirla letterariamente nella pagina narrativa interpretandola nelle sue dinamiche interne, caricandola di suggestioni rivelatrici, ricavandone
lezioni di valore non contingente.
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Rosa Elisa Giangoia La natura del divino
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la sua originalità primigenia, in linea con
quanto ci ha insegnato Cicerone quando dice
“il mondo della campagna è migliore di quello della città, perché è stato fatto dagli dei,
mentre quello della città è opera dell’uomo”.
Nei versi di Mariangela De Togni sono
scarsissimi gli elementi che indicano manufatti umani e sono tutti di tipo religioso, cioè
costruzioni architettoniche per il culto, la
preghiera, la vita monastica (“”arcate di un
monastero / medievale”, “chiostro” / “alte
finestre / della chiesa vuota”, “chiesa /solitaria”, “finestra a bifora”, ecc.). Allo stesso modo quello che appare dalle liriche di
questa raccolta è un mondo pressoché disabitato dagli uomini: le uniche presenze che
rileviamo sono quelle degli angeli, di Gesù
Bambino, del Buon Samaritano; gli unici riferimenti realistici sono alla Terra Santa. E’
quindi un mondo poetico di silenzio e di
solitudine, fissato in una dimensione sincronica fuori del tempo della storia, tutto teso
in un’esperienza dialogica trascendente, senza relazioni interpersonali, come testimonia il dialogo insistente con il “Tu” divino
o con la “Madre” e come attestano i frequenti riferimenti, anche lessicali, al “silenzio”
e alla personale “solitudine”, che diventano, anche nell’esperienza esistenziale del-
la poetessa, le condizioni indispensabili per
cogliere, appunto nella “salmodia” del cuore, quella voce di canto, che per chi sa ascoltarla può emergere dalla natura, solo in silenzio e solitudine, e che permette il dialogo con il “Tu”, al di là del tempo e della storia. L’unica presenza umana è quella di Sarah (Scazzi) la giovinetta barbaramente
uccisa dai suoi parenti, la cui vicenda ha
commosso la poetessa ispirandole una
toccante lirica.
Questo mondo, che fiorisce al divino, che innalza e consola ha un suo perno, cioè la sua
giustificazione e saldezza in un elemento preciso, nella Fede, a cui viene dedicata una breve lirica, intensa, ma dubitativa riguardo alla
sicurezza del suo possesso, secondo l’insegnamento del Vangelo. Ma è chiaro che la
poetessa può regalare agli altri attraverso le
sue liriche conforto e sicurezza, proprio perché personalmente è ispirata dalla fede, dono
divino, ma anche accettazione continua, ricerca perpetua, adesione costante: è questo,
indubbiamente, l’elemento che rende diversa, diciamo pure speciale la poesia di Mariangela De Togni.
Mariangela De Togni, Fiori di magnolia, Edizioni Helicon, Arezzo 2011, pp. 67, € 11,00
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CRITICA
di Luciano Caprile
Certi artisti riescono a trasferire efficacemente in un riflesso interiore le
immagini del mondo esterno. Questo processo non si verifica di solito immediatamente. Ha infatti bisogno di un certo tempo di sedimentazione per
raggiungere il suo scopo. Solo allora tutto ciò che viene recepito dallo sguardo corrisponde a quello che viene acquisito dall’anima e il risultato di una
simile evoluzione visiva e percettiva si evidenzia sulla tela. Tale percorso
non ha sovente un andamento lineare poiché i tentennamenti, i ripensamenti, i passi indietro, i dubbi si insinuano nei pensieri e nei gesti come il
timore di non saper più ritrovare la via del ritorno da un viaggio intrapreso verso l’ignoto. Senza tener conto che in questi casi non esiste la conquista definitiva di una certezza ma solo la consapevolezza, man mano
Ricordi, acrilico su tela, cm 60x70, 1997
Pietro Canale
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Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x120, 1998
che si procede, di trovarsi nella giusta direzione operativa dove l’arrivo coincide col
concetto di partenza se il comportamento
segue le norme richieste dalla circostanza.
Da qualche tempo Pietro Canale ha scelto un simile approccio creativo avendo a
lungo sondato un terreno prodigo di
suggestioni post-impressioniste o fauves
dove il colore si traduceva in macchia e
la macchia in evocazione paesaggistica.
Con implicazioni figurali più o meno marcate e talora con tentazioni ancora più descrittive che emozionali. Da qui il rischio
ricorrente del passo indietro e la minaccia di vanificare l’intero progetto evolutivo. La mostra a Palazzo Robellini di Acqui Terme parte dal momento in cui l’artista genovese prende coscienza della sua
capacità di volgere in un diverso territorio quegli impulsi timbrici che facevano
parte di un interessante, sensibile, personale patrimonio coltivato nel tempo con
perspicacia.
Le prime opere in rassegna, databili tra il
1996 e il 1998 a preannunciare il nuovo
corso, sono da attribuirsi a quel travaglio
figurale di cui si è appena detto. Infatti il
Paesaggio del 1997 traduce in macchie le
folte chiome dei due alberi in primo piano, mentre un accenno di case compare
sull’orizzonte serale caratterizzato da ripetute sovrapposizioni di pennellate
orizzontali che intendono annullare ogni
tentazione narrativa più dettagliata. E se
a proposito di Ricordi è ancora leggibile
qualche frammento figurale nell’impasto
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Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x120, 1998
cromatico d’insieme, con Machine l’unica traccia da collegarsi al recente passato sembra affidata a quella linea che corre sulla tela col compito di contenitore. Seguono altre opere che affrontano il fantasma dell’immagine da trasferire in percezioni o in agglomerati compositivi dal
seducente impatto timbrico. Il distacco definitivo dalle origini sembra affidato a un
Senza titolo interpretato nei toni del blu
che annuncia il deciso approdo di Canale nell’agognato territorio dell’informale.
A un simile momento di svolta è seguito un
periodo di riflessione scandito da sperimentazioni eterogenee che sono proseguite per
qualche anno per lasciare infine il passo a
un ulteriore, interessante capitolo nel complesso percorso del nostro autore.
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Pietro Canale
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Pietro Canale
...Alla ricerca del tempo e delle cose perdute. Pietro Canale parte da
un'indagine proustiana condotta su schegge di passato per approdare al limitare dell'informale, alle plaghe del non esplicitato, del non
detto, di un astrattismo che lascia sempre intravedere squarci di
reale. Sarà perché, in fondo, il figurativismo non è estraneo al suo peregrinare intellettuale ed estetico: nei suoi lavori, tanti e multiformi
(nell'accumularsi strati di materia, nella densità del disegno, nella filosofia compositiva, nel lirismo paesaggistico tenuto in sottotraccia)
sono i rimandi alla tangibilità dell'essere, tanti gli ammonimenti a rinunciare per le nostre percezioni al filtro del concettuale.
Le tele di Canale sono un concentrato di sovrapposizioni. Lo stesso
piano narrativo prediletto negli ultimi anni dall'artista genovese si
presta a letture multiformi, anche se mai ascrivibili a una mera visione nostalgica delle cose. Anzi, Canale attraverso la sua testimonianza induce a non accettare l'inerzia come regola universale. C'è
ribellione in queste sbavature di colore, in queste volute programmaticamente confuse e avvinghiate le une alle altre (concordiamo con
Luciano Caprile, che parla di suggestioni post-impressioniste o fauves), in queste campiture dagli orizzonti incerti....
da un commento di Marco Bevilacqua su “Arte IN”
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Pietro Canale
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Note biografiche e mostre
Pietro Canale nasce a Genova nel 1951.
Le sue esperienze artistiche iniziano nei primi anni Ottanta quando incontra i pittori Andrea Bagnasco e Flavio Fracasso con i quali stringe
un’amicizia che lo porterà in breve tempo a interessarsi con passione
all’arte dedicandosi allo studio del disegno e delle tecniche pittoriche.
Dal 1985 le sue opere vengono accolte in numerose mostre collettive.
Contemporaneamente la sua ricerca pittorica, rivolta a un paesaggio
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CRITICA
Senza titolo, acrilico su tela, cm 100x100, 2010
Pietro Canale
che col tempo si interiorizza sempre di più, viene gratificata da significative esposizioni personali. Questi anni sono pieni di stimoli, di contatti e di esperienze artistiche condivise con centri culturali e
associazioni come Promotrice Belle Arti Liguria, Centro Culturale N. Barabino - Genova, Galleria S. Donato - Genova, Galleria L’Universo - Santa
Margherita Ligure, Galleria Erox Art - Dolceacqua, Mostra personale Satura - Genova, Esposizione Palazzo Zenobio - Venezia, Mostra personale
Palazzo Robellini - Acqui Terme. Pubblicato dal 2001 sul Dizionario
degli Artisti Liguri (De Ferrari Editore). È presente su riviste a tiratura
nazionale tra le quali ARTEin. Sue opere sono presenti in collezioni
pubbliche e private in Italia e all’estero.
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Sergio Gerasi. Favole musiche e grandi nasi
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FUMETTO
SERGIO GERASI
Favole, musiche e grandi nasi
di Manuela Capelli
Mettete insieme Milano, Allan Poe, Lovecraft e Sclavi, ma anche Kerouac, i poeti Beat, le favole classiche e Chomet e avrete una parte dell’anima di
Sergio Gerasi, all’esordio come autore completo con “Le tragifavole” (ReNoir Comics), una raccolta di racconti immersi in un’atmosfera al contempo iper-realistica e surreale. Laddove infatti, in ognuna delle storie a fumetti, la scenografia riporta a terra, fra le strade milanesi, i
pensieri volano insieme ai protagonisti e
ai loro grandi nasi. Come Il burattinaio, una
sorta di Pinocchio all’incontrario che vignetta dopo vignetta non solo reinventa la favola mantenendo le peculiarità di un genere oggi raro più
che mai, ma evoca la musicalità e il senso del
ritmo che costituiscono l’altra anima di Sergio, batterista e fondatore della rock band
200Bullets.
Prima di cimentarsi come autore unico,
dando spazio a un personaggio nato durante l’edizione 2006 della 24 ore del fumetto (maratona fumettistica che prevede la realizzazione di una storia di 24 tavole in 24 ore), Sergio disegna, lavorando con grandi testate
e con grandi teste: dagli inizi su “Lazarus Ledd” (Star Comics) ai
disegni per “Jonathan Steele”, “Cornelio” (il fumetto di Carlo Lucarelli)
e le ultime fatiche su “Dylan Dog”, è passato dalla trasposizione in fumetto di un racconto di Alan D. Altieri su testi di Tito Faraci, «Internationoir», e per ReNoir Comics, su testi di Davide Barzi, «G&G»: un omaggio al grande Giorgio Gaber, premiato come miglior graphic novel nell’edizione Full Comics 2010. In questi giorni, invece, escono alcune sue
illustrazioni nel nuovo inserto culturale ‘La Lettura’ del Corriere della
Sera. Ed è proprio dal suo eclettismo che partiamo.
Come disegnatore hai lavorato, da Steele a Cornelio a John Doe fino
a Dylan Dog oggi, su una certa tipologia di personaggi. Come autore,
per quanto tragiche, a delle favole. Sentivi la necessità di un cambio
di registro?
Decisamente sì, ho spesso necessità di movimentare il mio lavoro che
per natura è statico, almeno fisicamente. Il lavoro del disegnatore, o
comunque in generale dell’autore di fumetti, è spesso strettamente le-
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FUMETTO
tuoi protagonisti. Citando il tuo libro,
“Strano stile questo, e che nasoni!”…
“Del naso come è ovvio ci sarebbe molto da dire”, così scriveva Asor Rosa. Al
di là di questo, quando per la prima volta partecipai alla 24 hic, mi decisi a realizzare qualcosa di completamente diverso dal solito. Dal mio solito. E lì ci fu una
grande svolta nella mia testa. Questo stile, questi nasi e queste figure dinoccolate si sono disegnate quasi da sole. Evidentemente le avevo lì, in un angolo della testa, ed è stato naturale prendere
quella strada in un’ ottica di libertà creativa totale. Subito dopo il mio primo lavoro per la 24 hic i commenti furono costanti e insistenti, molto positivi comunque, e già mi identificavano con quello
dei nasoni, i nasoni di Gerasi, ecc.
Il naso, nell’arredamento di un volto, è
importantissimo, forse ancor più degli
occhi per certi versi. È il naso che decide cosa farti notare di un volto, alle volte ti spinge a guardare gli occhi di una
persona, alle volta la bocca, altre volte è
più timido e ti presenta il volto nella sua
interezza, altre volte è un naso orgoglioso che si mostra per primo, nella sua
maestosità.
E poi come dimenticare Zanardi…
Fra le definizioni di favola, ci sono “narrazione con personaggi immaginari che
contiene un ammaestramento morale” e
“qualsiasi narrazione di fatti inventati”.
A quale corrisponde di più il tuo libro?
Forse in parte ti ho già risposto. Credo
che la mia visione stia vagamente nel
mezzo, anche se con un velo di presunzione mi piacerebbe dire di avere una visione tutta mia delle favole, ecco perché
le ho chiamate in quel modo. Quello che
cerco sempre di evitare è un certo ‘ammaestramento’ (morale per di più) – non
mi piace mai generalizzare i concetti –
tantomeno cercare di sopraelevare il mio
giudizio sulle cose rispetto a quello del
lettore. Non sono un maestro, che me ne
scampino! Io cerco semmai di suggerire,
evito, per quanto mi è possibile, un cer-
Sergio Gerasi. Favole musiche e grandi nasi
gato al proprio studio, alla propria casa
e alla propria scrivania. Uno strano ossimoro dato che al contrario, per farlo nel
migliore dei modi, bisogna viaggiare
molto con il pensiero. Ecco che, quindi,
nel mio caso (ma sono certo sia una condizione comune per chi fa il mio stesso
mestiere) quella scarica elettrica di fantasia che si prova iniziando un lavoro,
magari su un personaggio nuovo, diventa vitale.
Nondimeno quando si inizia un nuovo
lavoro, si parte dalla raccolta di documentazione, non solo visiva, ma anche nozionistica, sull’argomento che la storia
tratterà: questo aspetto diventa un’occasione di studio che arricchisce. Cosa che
non guasta mai. Nel mio caso specifico
poi, dopo anni (una decina, ormai anzi
sono quasi undici) di lavoro su un genere popolare ben delineato e con certe regole, ho sentito la necessità “autoriale”
di sperimentare un linguaggio narrativo
a fumetti strettamente personale, sregolato e nato unicamente dal bisogno di raccontare delle storie a modo mio.
Alcuni autori dichiarano che i loro personaggi prendono vita da sé, mentre sembra che tu, anche perché ti auto-ritrai in
certe tavole, tratti i tuoi come burattini,
di cui condurre le esperienze…
Il carattere fondante delle Tragifavole è il
travestimento, fatto con un velo fantastico
posato sopra situazioni più o meno reali,
situazioni avvenute realmente.
Prendo spesso spunto da quello che mi
succede per poi rielaborarlo con calma,
con una visione più metaforica, più
evocativa.
Si può a ragione dire che i miei personaggi nascono dentro di me e uscendo se ne
portano dietro un pezzo. Ecco perché
non assegno mai dei nomi a questi personaggi. Ed ecco anche il perché hanno
tutti una fisionomia simile, riconoscibile e con un denominatore unico: un naso
importante.
Ecco, appunto, il naso: di Pinocchio, di
Cirano, di Uno, nessuno, centomila, dei
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FUMETTO
to aspetto didascalico nei confronti dell’argomento trattato. Cerco cioè un dialogo con chi legge, non voglio mai dirgli
che il mio pensiero è la visione giusta delle cose, ecco perché nelle storie cerco di
prendermi in giro e di smussare anche
i personaggi nel momento in cui il frammento narrativo è al culmine.
La solitudine esistenziale è uno dei temi
delle Tragifavole. Parlando invece della solitudine nel processo creativo: quanto è
importante, stimolante, angosciante?
La solitudine è una condizione ricorrente della mia vita a tutti i livelli: sentimentale, sociale e lavorativo.
Ecco perché ci sono così affezionato
(rido, nda). Tralasciando i primi due
aspetti, la solitudine che caratterizza questo lavoro è una costante. Alcuni miei
amici/colleghi la fuggono, si alleano in
studi collettivi dove lavorano fianco a
fianco. Io invece tento di sfruttarla nel
migliore dei modi perché la solitudine è
un serbatoio di creatività molto generoso, se lo sai aprire e se sai frugarci dentro. Tutto sommato poi ho sempre pensato che potrei lavorare in un luogo pieno di gente ma nel momento in cui abbassi lo sguardo sul foglio bianco, sei inesorabilmente da solo, quindi tanto vale…
‘la solitudine non è mica una malattia, è
necessaria per star bene in compagnia’ …
e ancora …’un uomo solo è sempre in buona compagnia’… così diceva Giorgio Gaber, a cui sono molto legato.
Come fumettista, hai lavorato sia da solo
sia insieme ad altri autori. Quali ritieni
essere i punti di forza dell’una e dell’altra esperienza?
Personalmente non mi ritengo uno sceneggiatore di professione, anzi, non ho
il mestiere per farlo. Ecco perché le Tragifavole, mio -per ora- primo e unico lavoro da autore completo, hanno un incedere così strano e sregolato (ma che comunque ha colpito molto i lettori, a quanto ho potuto constatare). Ti dirò che quindi lavorare con altri sceneggiatori –di professione- mi permette di concentrarmi
unicamente sui disegni e tutto diventa
più sciolto, morbido e naturale. Mi rilasso, insomma. Ebbene sì, il mio lavoro è
disegnare, e disegnare mi rilassa: sono
un privilegiato, lo so.
Quando invece devo tirar fuori una storia dalla mia testa lo faccio con una certa dose di malessere, ma non perché vado
incontro a un qualche blocco creativo,
anzi. È un malessere dettato dal fatto che
scrivo quasi sempre e solo per tirar fuori un disagio. Le Tragifavole sono una serie di racconti nata nel corso di diversi
anni, che piano piano son rimasti lì a galla, fino a che poi non ho più potuto lasciarli ‘stagnare’. Dovevano lasciare posto ad altro.
Scrivere i dialoghi di un fumetto e scrivere i testi di una canzone. Quali sono
secondo te le principali differenze di due
testi che necessitano entrambi di una certa sinteticità?
La prima e più evidente caratteristica della canzone è che è costruita quasi su uno
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Sergio Gerasi. Favole musiche e grandi nasi
schema matematico, dato che deve convivere con la musica. Ha necessità di rima (non sempre, fortunatamente) ma soprattutto di metrica
(anche se alle volte si può ‘barare’). La sintesi che si attua nel testo di
una canzone è più forte di quanto si debba fare in un fumetto, bisogna appellarsi a quella che Jannacci chiamava poetastrica. Anche i dialoghi che mettiamo nelle cosiddette nuvolette nascondono però delle
insidie, anzi molte. Io ho cercato di evitarle, nelle Tragifavole, spostandomi più su un gergo quotidiano che, se noti, si distacca molto da quanto si legge normalmente nei fumetti popolari, come Dylan Dog per esempio, che proprio in questi giorni sto terminando di disegnare.
Facendo riferimento alla storia che hai scritto per la 24h del 2007, mi
potresti dire quali sono le principali difficoltà del tuo lavoro?
Premetto che le difficoltà di una 24ore in cui bisogna fare 24 pagine
di fumetto sono tantissime. Molte più del normale, ecco perché dopo
ben tre edizione di fila (tra cui la storica prima di Milano nel 2005) ho
deciso di desistere. Come ti dicevo mi trovo costretto a scindere il lavoro di solo disegnatore da quello di autore completo.
Quando disegno le difficoltà tecniche non sono molte, anzi se mi trovo di
fronte a qualche vignetta complicata o a qualche tavola ‘ardita’,
questo diventa più uno sprono
maggiore, piuttosto che una difficoltà. Al massimo può capitare di
trovarsi in totale divergenza creativa con lo sceneggiatore, ma è difficile che questo avvenga. In quel
caso subentra il fattore ‘professionalità’: questo è il mio lavoro e cerco di farlo al meglio, anche quando non sono estasiato dalla storia.
Analizzando invece le difficoltà da autore unico le cose si
complicano: come ti dicevo
non ho mestiere (nel senso antico del termine) nello scrivere,
quindi o mi trovo di fronte a
un’ispirazione viscerale oppure evito di farlo, di fare fumetti tutti miei. Molto spesso mi
trovo di fronte a storie che
non riescono ad arrivare ad
un finale soddisfacente per cui
rimangono lì, nel cassetto, o più
verosimilmente in una cartella
sull’hard disk del computer
chiamata ‘storie senza fine’.
Rimangono lì perché prima o
poi da qualche parte dovranno
andare, di questo sono certo.
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Sergio Gerasi. Favole musiche e grandi nasi
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FUMETTO
Passando alla lavorazione, che tecnica hai utilizzato per le Tragifavole e da cosa è stata dettata la scelta monocromatica del seppia? È stata tua o concordata in fase editoriale?
Da qualche anno ormai
sono passato all’utilizzo
del pennello. Le Tragifavole, quindi, sono state realizzate (come tutto quello
che faccio) con un pennello numero 2, in martora
W&N e china nera. Non uso
praticamente altri strumenti. Qualche pennarellino per piccoli ritocchi,
eventualmente per le parti più delicate delle campiture, ma in linea di massima con un pennello e una
boccetta di china posso
fare più o meno tutto. Tutto quello che son capace di
fare naturalmente. Non
tutto in senso assoluto.
Le tavole delle Tragifavole, in realtà, non sono in
seppia, ma sono in china
diluita (quindi nere e grigie). La decisione di virare
il tutto al seppia è nata per
differenziare questo lavoro da G&G, altro mio libro
(e di Davide Barzi) uscito
pochi mesi prima, sempre
per lo stesso editore, ReNoir Comics (libro dedicato al teatro-canzone di
Giorgio Gaber).
Il seppia in ogni caso
dava alle storie un calore
particolare, che mi ha subito convinto.
In una delle favole c’è una battuta che fa riferimento ai “fumetti di serie B”: quali sono secondo te?
Accidenti non mi costringerai a fare dei nomi. Mi sembrerebbe antipatico… diciamo che ci sono alcuni fumetti che non hanno mai il coraggio di essere fumetti ma vorrebbero essere solo ‘narrativa’ e altri
fumetti che non riescono nemmeno da lontano a sembrare ‘narrativa’. Ecco questi non mi piacciono mai molto… spero di non essere risultato troppo ermetico in questa mia risposta.
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PERSONAGGI
di Giannino Piana
Ho conosciuto Otello Soiatti – Otèlo come da sempre preferisce farsi
chiamare nel ricordo delle sue origini istriane – circa quaranta anni fa,
nel locale, che aveva preso in affitto nel centro di Novara, per promuovere una serie di iniziative culturali, che spaziavano da conferenze e
cicli di lezioni sui temi più diversi a letture di poesie e di prose poetiche, da mostre di pittura e di grafica alla redazione della rivista “Tempo sensibile” fino all’organizzazione del premio letterario “Città di Novara”, che ha coinvolto nel trascorrere degli anni un numero sempre
più nutrito di concorrenti provenienti da ogni parte d’Italia. Mi ha subito colpito la passione, la tenacia e il disinteresse con cui
spendeva il suo tempo (e probabilmente anche parte delle sue risorse economiche) per un servizio culturale alla città, senza ricevere peraltro dalle istituzioni pubbliche il riconoscimento e la gratitudine che si sarebbe meritato. Proveniente dall’Istria, e più precisamente dalla città di Pola, dalla quale è stato costretto ad emigrare come esule insieme a molti altri conterranei, negli anni
Cinquanta, Otèlo ha conservato sempre viva la nostalgia per la sua patria lontana; una nostalgia
struggente che affiora ogniqualvolta il discorso cade sulle origini, e i ricordi, sempre nitidi, dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse in quel lembo di terra appaiono soffusi da un velo di mestizia, divenuto un tratto distintivo
della sua personalità. L’inserimento nella città di Novara
non è stato per lui (come del
resto per molti altri provenienti da fuori) un’impresa facile: la proverbiale diffidenza
dei novaresi, soprattutto verso chi dimostra spirito d’iniziativa (in qualsiasi campo
ciò si manifesti) non
ha man-
Otello Soiatti
A Otello Soiatti, con riconoscenza
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Otello Soiatti
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PERSONAGGI
cato di procurargli momenti di scoramento. Ma Otèlo ha saputo resistere con ostinazione e oggi, a distanza di anni, può
dire con orgoglio di aver dato il proprio
contributo alla costruzione di un tassello significativo della cultura della città.
Il merito più grande di Otèlo non sta tuttavia nella sua attività di operatore culturale, per quanto – come si è detto – assai importante. Sta soprattutto nella attività poetica, da sempre coltivata, ma che
è andata soggetta, negli ultimi decenni,
a un processo di accelerazione di particolare intensità. Il ritiro anticipato dalla De Agostini, dove ha lavorato per lunghi anni, e l’abbandono di ogni iniziativa pubblica (compresa la rinuncia alla
pubblicazione della rivista “Tempo sensibile”; rinuncia che gli è particolarmente costata) hanno provocato l’emergere di uno stato di effervescenza creativa che si è tradotta nella pubblicazione di un numero sempre maggiore di liriche con una varietà di soggetti e di forme espressive davvero sorprendente. È
un vero peccato – ma anche questo
(forse) fa parte di quella diffidenza tipicamente novarese di cui si è accennato
– che non si sia trovato un editore locale disposto a raccoglierle (almeno alcune) in un testo antologico, offrendo in
questo modo ad un vasto pubblico la
possibilità di fruirne. Sì, perché Otèlo è
un vero poeta, che nasconde, sotto la
scorza apparentemente rude della sua
persona – chi lo conosce sa che questo
dipende dal suo carattere schivo e dalla sua innata timidezza – una squisita
sensibilità per le vicende degli uomini e
per i colori della natura, rivelando una
finezza d’animo non comune e una
grande capacità di trasferire sulla carta
impressioni ed emozioni, trasfigurate
grazie alla forza del suo istinto interiore. È un poeta che sa interpretare, penetrandoli, i messaggi che vengono dalle situazioni più ordinarie della vita, ricavandone suggestioni che accendono domande, antiche e nuove, di senso. È, in-
fine, un poeta che sa scavare in profondità nella memoria del passato – è questo anche frutto della sua esperienza di
esule – non per arrestarsi ad essa ma per
aprire varchi di speranza per il futuro.
Di tutto questo (e di molto altro ancora)
gli siamo sinceramente grati celebrando
con gioia i suoi ottanta anni. Ad multos
annos, Otèlo!
Pittore del silenzio,
poeta dell’essenza,
editore di cultura, per
cinquant’anni
oratore novarese:
gli ottanta
di Otello Soiatti
Di Liviano Papa
Lungo e sensibile, umile e riservato, è il
percorso silenzioso e continuo nella
cultura novarese di Otello Soiatti, che, fin
dai primissimi Anni Settanta, ha donato alla città di Novara, il suo ingegno, la
sua spontaneità, il suo slancio di grande generosità a favore di un ideale di cultura e umanesimo universale, osteggiato, nel suo cammino da incomprensioni,
inadeguatezza e mancanza di di apertura di quel lembo di cultura cittadina verso il nuovo che avanza, ad aprirsi ad esso
e non rinchiudersi a riccio, senza possibilità di dialogo. Otello Soiatti (1930, 13
ottobre), figlio di Vittoria Crismanich e
di Giorgio, profughi dell’Istria, di Pola, ha
vissuto quel fardello di atrocità che la storia, in ritardo, riconosce. Abbandona, costretto, la sua terra generatrice. A Novara, lavora come analista chimico alla Rodiatoce, successivamente all’istituto
Geografico De Agostini, come cromista;
stimato dai fratelli Baroli, Adolfo che in-
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PERSONAGGI
mi letterari, mostre, convegni a tema politico, fine pittore, meditativo e contemplativo, silenzioso. Il suo lungo percorso, felice e tortuoso, ancora oggi, che è
insigne poeta, non è accettato o compreso dalla cultura novarese, anche se negli anni, non è mai venuto meno quello
spirito poetico che fa grande la collettività, la città di appartenenza che ha un
suo Grande Figlio, non ancora scoperto
e valorizzato. Schivo e silenzioso, Otello Soiatti ci trasmette una grande lezione di vita.
Il quaderno
dei versi polensi
di Otello Soiatti
Di Licia Micovillovich
Chi volesse una volta
di più ripercorrere
idealmente le contrade di Pola e nel
contempo confrontare le proprie sensazioni con quelle di un
compagno di viaggio,
non troverebbe occasione e persona più adatte di
Otello Soiatti e del suo “Quaderno dei versi polensi”,
nel quale si intrecciano fittamente ricordi, leggenda, cronaca e Storia. Monte Zaro, San Michele,
Monte Ghiro, la Riva, i
Giardini sono “luoghi” di una leggenda
collettiva e personale inscindibile
dalla Storia antica
e recente. La nonna, gli amici, il
primo amore vivono nei nostri
Otello Soiatti
tratterrà un ottimo rapporto fiduciario
e di stima, anche quando prenderà la decisione a quella “Grande avventura culturale”, sorreggendolo sempre e da
Achille, il primo Amministratore delegato, il secondo, Presidente dell’istituto; fin
quando, convinto, compie quel generoso gesto di donarsi alla cultura, che non
è solo novarese ma universale, trascinando in questa splendida avventura la
consorte Romana Massarotto (19321988), di Rovigno, conosciuta all’età di
16 anni, lui più anziano di due, dalla quale unione nascono Daniele, Laura e Elisabetta. La moglie, per un male incurabile, dopo vicissitudini familiari (la coppia si separa), anni dopo viene a mancare. Competente, lavoratore scrupoloso,
serio, molto stimato, sente la necessità
di esternare la sua gioia di vivere, di sviluppare i suoi pensieri, di esternare le
sue capacità nell’ambito della cultura,
dell’arte (è uno dei primissimi a
credere nella pittura di Dario Brevi che, successivamente, sarà uno
degli esponenti di spicco dei nuovi futuristi, gruppo voluto dal
noto gallerista milanese Luciano Inga Pin, Alessandro Savelli e aver portato in auge alcuni artisti di grande sensibilità che hanno contribuito a fare la storia dell’arte), come il
toscano Giovanni
Acci, della musica,
della poesia, nel
mondo radiofonico. Con gli Anni
Settanta dà l’avvio
a questa avventura
culturale, caldeggiata dalla famiglia, nel promuovere premi letterari e
nello stampare la
rivista Tempo Sensibile. Organizzatore di concorsi, pre-
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Otello Soiatti
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PERSONAGGI
ricordi in questa cornice idealizzata e reale ad un tempo. I “luoghi” sono ancora
là, spesso immutati. Possiamo, rivedendoli, oscurare quanto di attuale non ci riguarda e ritrovare le nostre orme e
quelle di chi ci ha visto nascere o ci ha
accompagnato nella crescita. Possiamo
accendere un virtuale occhio di bue e
orientarlo sui segni leggibili solo per noi,
facendoci registi e attori di quella ricerca di sé che non sia contemplazione malinconica delle cose perdute ferme a quel
giorno fatidico, quanto piuttosto rivisitazione di tappe, situazioni e fatti fondamentali nella costruzione della nostra
personalità. Quasi un tornare a scuola col
nostro compagno più attento e sensibile, nel banco di una volta. Cos’è la nostra
terra se non una grande scuola dove abbiamo conquistato identità, sentimenti,
abilità indispensabili a vivere? Camminare, parlare, nuotare,capire la natura,
leggere, amare la patria. Chi ha imparato a camminare su un deserto non sarà
mai uguale a chi ha mosso i primi passi sull’erba; chi ha imparato a nuotare nel
fiume ha una conoscenza dell’acqua diversa da chi ha fatto il “cagnetto” in Mandracchio. Chi è nato in un paese sperduto non può avere innato il senso della Storia come chi ha avuto la ventura di aprire gli occhi all’ombra di monumentali vestigia di un lontanissimo e meno lontano passato. Nel percorso che Otello Soiatti ci propone il senso della Storia è dominante, espresso in toni pacati, ma netti, essa è il grembo in cui è cresciuta ogni
storia personale e quella di un popolo,
lieta, triste, tragica. E la lettura, sempre
gratificante, di questi versi armoniosi di
largo respiro riserba qualche sorpresa:
l’esule sa volgersi indietro verso amici e
conoscenti che non condivisero la sua
sorte dopo aver condiviso cultura, tradizioni, abitudini e affrontarono così un diverso esilio, riconoscendo tardi l’espropriazione.
CONCERTO
Leggo affiorante cauto dal silenzio
il modulare virtuoso del violino
nell’apparente aereità del suono
che si fa corpo e anima furtiva
da nota in nota e agile armonia
su cadenze dettate al pianoforte
nel lirico afflato strumentale
di un concerto che presto finirà.
NATALE
Vive il Natale a luci intermittenti
sull’abete da cromie inghindarlato
Qualche candela langue e si consuma
Nel riquadro festoso della sera…
Anche il presepe attende lieto
evento fissato a mezzanotte…
E all’ingiro il pacco dei regali
A soddisfare la sete dell’avere.
RISACCA
Leggo il flusso costante del pensare
che rapido s’insinua nella mente
come un’onda fremente di risacca
in spruzzi franta turbinosi e vari
nel variegare dentro la memoria
radunata allo scoglio solitario
fratello di altri scogli solitari
che il mare lambe appena e se ne va.
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C U LT U R A E D I N T O R N I
di Fiorangela Di Matteo
Oggi, così come siamo, si è nella migliore situazione possibile: si può
solo migliorare (e rubo il sillogismo a Mago Merlino quando incita Semola a lavorare per porre le basi al futuro Re Artù ch’egli già sapeva
esistere in lui).
L’argomento “culturale” questa volta prende spunto dai linguaggi che
emergono nella vita di tutti i giorni, da ciò che appare sui quotidiani,
nelle riviste, in televisione, in radio; insomma nei principali mezzi di
Altare (SV) Villa Rosa – Sede Museo dell’Arte Vetraria.( Courtesy Museo del Vetro)
Cultura è diverso da “Culturale”
Cultura è diverso da “Culturale”
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Cultura è diverso da “Culturale”
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C U LT U R A E D I N T O R N I
comunicazione. Il vocabolo è, a dir poco,
abusato. Tutto, quasi tutti gli argomenti trattati sono accompagnati dall’aggettivo “culturale”. La considerazione è
d’obbligo: se è vero che tutto è cultura
e che la “Cultura” è alla base di tutte le
manifestazioni dell’uomo è anche vero
che l’aggettivo “culturale” limita a fatto
di poco conto una cosa seppur eccezionale. Non siamo forse arrivati al punto
in cui si ricominci a chiamare le cose con
il proprio nome?
La definizione in sé poco avrebbe di irriverente, è l’abuso che l’ha banalizzata! Il
Turismo culturale, in primis, la scoperta
dell’interesse del pubblico (quindi un filone da sfruttare da un buon ufficio
Marketing) per mostre, mercati, sagre, fiere, festival ha creato la necessità di identificare un’attività che di suo avrebbe un
fine molto più generico e indefinito.
Perfino i programmi televisivi hanno modificato il modo di proporsi inserendo il
termine “culturale” in rubriche e sezioni di programma con l’ottica di rivolgersi a quella categoria di persone che
“chiedono di più” ai programmi definiti “di intrattenimento”, con il fine ultimo,
ben si badi, di omogeneizzare il tutto.
Ma tutto questo perché? Nel mondo di
oggi tutto è mercato, quindi tutto è determinato dalle leggi del mercato; i protagonisti del mercato sono: offerta e richiesta. La richiesta di qualificare un’attività rappresenta, per un buon ufficio
Marketing, la soluzione per vendere un
particolare prodotto. Il termine cultura-
le offre, in questo senso, la soluzione a
chi chiede la particolarità della cosa, il
cammeo, oggetto della qualificazione dell’offerta. Un buon ufficio marketing ha
la capacità, poi, di generare un’attesa nel
consumatore finale (in questo caso non
si parla né di visitatore né di pubblico né
di utente, bensì di “consumatore”) che si
declina attraverso foto accattivanti di
scorci e campanili, oppure tramite riproduzioni di soffitti in mattoni e/o a botte all’interno dei quali il consumatore si
sente protetto e ben custodito. A questo
riguardo il ritorno al passato è rassicurante: il passato è passato e non può presentare novità inquietanti (tipiche cose
della realtà quotidiana). Ecco allora il fiorire di resort, location simil - medievali
e case-vacanza in antiche cascine, mostre
di autori semisconosciuti, presentazioni di libri autoprodotti, convegni o conferenze intorno al pelo nell’uovo. Perché
queste cose continuano a proliferare? La
risposta è semplice: il consumatore trova un’offerta già pronta e riccamente confezionata alla quale si adatta un po’. La
cosa presenta due grandi vantaggi: il primo è la soddisfazione alla pigrizia o alla
fretta che ci accompagna attraverso
l’acquisto di un prodotto già bell’e pronto, il secondo è che in questo mondo di
solitudini ci viene prospettata una maniera per incontrare ed incontrarsi,
quindi un’occasione di comunicazione... Fino a quando? Speriamo sia una
moda passeggera e si ritorni alla cara vecchia “sostanza”.
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UNA POESIA
di Antonio Ferro
Amare così senza vederti
per ricordar soltanto
gli echi di parole amanti
quando i pugni stringevano stretti
lenzuola di flanella
ed il cielo terso
forzava le fessure
per raggiungere i tuoi occhi.
I sassolini bianchi
perduti lungo la strada
sempre conducono
al tuo verde portone
sotto portici d’ardesia,
e la mente sale
per le buie scale
cercando la luce lassù
sotto antiche tegole di tetti.
Quando i tuoi sussurri
erano le sillabe
dei miei pensieri
lo spazio lì si dilatava
e diventava immenso
come l’angoscia
che sentivo dentro
triste presagio
di perderti per sempre.
Antonio Ferro Per le antiche scale
PER LE ANTICHE SCALE
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Renzo Maggi. Le parole di Pietra
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RENZO MAGGI – LE PAROLE DI PIETRA
L’INAFFERRABILE DELLA BELLEZZA
di Roberto Valcamonici
La scorsa estate - in occasione della mostra di sculture e disegni “RENZO MAGGI – LE PAROLE DI PIETRA – L’inafferrabile della bellezza”, presso la Galleria La Meridiana di Pietrasanta (LU) - la Fondazione Henraux,
costituita di recente dall’ omonima storica azienda versiliese del marmo, ha pubblicato con lo stesso titolo una specifica monografia sull’artista versiliese che ha dato avvio alla collana “I maestri dell’Henraux”.
La Fondazione è nata dalla volontà di Paolo Carli (attuale Presidente della Henraux Spa) di recuperare e dare continuità al progetto e alla straordinaria esperienza di Erminio Cidonio, amministratore unico della società Henraux negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, che riuscì a realizzare presso gli stabilimenti di Querceta un polo internazionale di scultura, con la presenza di artisti del calibro di Henry Moore, Jean Hans Arp,
Anfitrite, bronzo, cm 70, 2010
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CRITICA
Renzo Maggi. Le parole di Pietra
Juan Mirò, Antoine Poncet, Henri Georges
Adam, Isamu Noguchi, Francois Stahly,
Emile Gilioli, GeorgesVantongerloo, Giò Pomodoro e numerosi altri, che dettero vita
a una stagione artistica e culturale di grande vitalità, i cui effetti perdurano ancora
oggi nei laboratori e negli studi di scultura di Seravezza e di Pietrasanta.
La pubblicazione, a cura di Roberto
Valcamonici e con testi di Paolo Carli,
Giuseppe Cordoni, Lodovico Gierut, Angela Lazzaretti e Roberto Valcamonici
(Bandecchi&Vivaldi, Pontedera-Pisa, 2011;
206 pagine con illustrazioni a colori e in
bicromia), è stata ufficialmente presentata il 5 agosto presso, il Salone dell’Annunziata nel Chiostro di S. Agostino a Pietrasanta, dai critici e storici dell’arte Antonella Romualdi, Fulvia Strano e Costantino Paolicchi, alla presenza del sindaco
dott. Domenico Lombardi. La monografia e la mostra, prendendo a pretesto la
vitalità creativa di Pietrasanta nel panorama dell’arte contemporanea, si sono inserite nel dibattito, fatto proprio anche
dall’ultima edizione della Biennale di Venezia, in merito alle ragioni attuali della Bellezza, se essa possa veramente esistere e cosa si debba considerare tale.
Con riferimento all’opera dello scultore
Renzo Maggi, è ben evidente che la poetica impregnata del mito greco-ellenista
delle sue opere deve molto alla purezza
del marmo dalla quale egli fa nascere il suo
straordinario virtuosismo espressivo. Vi è,
dunque, come sostiene Giuseppe Cordoni nel testo pubblicato nel volume, un “bello naturale” che lo scultore avverte preesistere nell’ordine stesso del Cosmo e nei
materiali ch’egli presceglie. La scultura di
Maggi, attraverso la sua raffinata distillazione formale, non fa che portare a compimento una metamorfosi del lutto in luce,
attraverso una Natura capace di trasmutare nel suo grembo il nero del dolore in
candore assoluto. A fornirgliene la chiave è il classico mito della Niobe mutilata
dei suoi figli che del marmo sostanzia la
stessa genesi; attraverso un’interessante
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Il sogno di Selene, 2011
marmo statuario Altissimo cm. 30
poetica del frammento, ove le sue figurevisioni balenano come catturate sul filo del
sogno-mito-ricordo, pervase da un’aura lunare che ne determina la matrice formale e il sentimento. Sottili scaglie di statuario purissimo della Cava delle Cervaiole (le
ultime lacrime della Niobe) danno origine,
allora, ai suggestivi “stiacciati” delle sue
“donne-luna”. Come se soltanto dinnanzi
all’amoroso sguardo di Selene l’uomo
potesse ritrovare quella giusta disposizione d’animo che gli consente di tornare a
contemplare e a riflettere.
Stante l’ampiezza del volume, che si snoda su un’intervista all’artista e ben cinque
saggi, proponiamo al lettore una sintesi dell’intervento di apertura di Roberto Valcamonici L’inafferrabile della Bellezza (nel volume è ciò che appare come sintesi del saggio in inglese). Il libro ha un costo di 20 euro
e può essere richiesto direttamente alla Fondazione ([email protected]).
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Renzo Maggi. L’inafferrabile della bellezza
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CRITICA
L’INAFFERRABILE
DELLA BELLEZZA
La storia della formazione del pensiero
estetico moderno è lunga e complessa e
non è certo possibile ripercorrerla in questo breve testo se non limitandoci a richiamare solo le linee di fondo e i concetti fondamentali che possono essere di
utilità a capire e a formarci un’idea
personale sul tema tanto dibattuto della bellezza nell’arte.
Riferendosi al ruolo dell’arte nella società, Freud sosteneva che l’utilità della
bellezza non fosse evidente e che, a prima vista, essa nemmeno risultasse necessaria alla civiltà, ma che, nonostante ciò,
la civiltà non avrebbe potuto farne a meno.
La scienza dell’estetica studia le condizioni per cui il bello è sentito tale, ma i più
argomentano che tale scienza non è stata in grado di fornire spiegazione alcuna
circa la natura e l’origine della bellezza.
La complessità e anche, in certa misura,
l’equivocità insite nel binomio “artebellezza” sono ben espresse nel sopra richiamato pensiero di Freud, secondo il
quale il vero scopo dell’arte è la liberazione delle tensioni presenti nella nostra
anima e che la sua forma visibile è soltanto un prodotto secondario in un
processo rivolto a obiettivi che con la bellezza non hanno niente a che vedere. Secondo il padre della psicoanalisi, dunque,
la bellezza non fa parte in nessun caso
degli obiettivi immediati dell’artista; ciò
a cui egli è veramente interessato sono
i problemi della vita: la bellezza gli serve soltanto come arma, come difesa e sedativo nella lotta con la realtà.
Da quando Platone e Aristotele definirono l’arte una “imitazione della natura” e
svilupparono le prime idee generali sulla bellezza - secondo le quali il “bello” veniva considerato come uno dei caratteri costitutivi dell’essere, i loro successori non hanno cessato di confermare, negare, o precisare questa definizione.
E’ nel secolo XVIII che, con riferimento
all’estetica, inizia una riflessione critica
nuova e si sviluppa una teoria secondo
la quale la bellezza non è una proprietà oggettiva delle cose, ma soltanto il frutto di un incontro del nostro spirito con
esse, cioè qualcosa che nasce solo per la
mente e in rapporto alla mente. Bellezza, quindi, come ideale che si rivela nel
sentimento e che identifica, o per lo
meno riavvicina, i sentimenti estetici a
quelli etici.
Sul piano pratico, lo svolgersi del pensiero filosofico-estetico, a cui si è accennato, ha fatto da cornice alla nascita e all’evoluzione degli stili artistici negli oltre due millenni che ci separano dalle prime formulazioni del pensiero estetico da
parte dei filosofi greci. Si è passati da un
concetto di Bellezza che esiste fuori di
noi, come pensava Platone, a una Bellezza che è proiezione del nostro spirito,
come pensava Kant; al superamento
con il Rinascimento della concezione medievale dell’arte come attività manuale
e meccanica, dove l’artista è autonomo
nel determinare l’orientamento ideologico e culturale del proprio lavoro; dalla grigia uniformità accademica del Neoclassicismo agli impulsi innovatori del
Romanticismo; dal linguaggio impressionista, basato sull’uso della luce e del colore per una rappresentazione della realtà esteriore, all’ Espressionismo che
sposta la visione dell’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano e alla
carica sovversiva delle avanguardie del
secolo scorso che, nel voler disvelare i
sentimenti più reconditi dell’animo umano, sembrano bandire la Bellezza dall’orizzonte estetico e rivalutare la disarmonia e il fascino del Brutto, come Bacon fa, ad esempio, deformando il dipinto di Papa Innocenzo X di Velazquez.
Questa esperienza ci dice, innanzitutto,
che ogni forma di arte dipende in gran
parte dalla sensibilità del suo tempo e
che ogni generazione ha guardato l’arte
con occhi nuovi e diversi e che, quindi,
è soltanto dall’accumularsi delle diver-
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CRITICA
se interpretazioni che risulta il senso pieno di un’opera d’arte per la generazione successiva. Emerge, inoltre, che il concetto del bello è fatalmente generico e penosamente vacuo. Si ritiene, infatti, comunemente bello quello che piace agli occhi e che viene osservato con piacere, senza però considerare che il piacere offerto dalla natura è di specie diversa dal godimento artistico.
Dunque, poiché c’è un abisso fra bellezza naturale e pregio artistico, da molte
parti si sostiene che andrebbe evitato il
temine “bello” nel giudizio sull’arte e considerato che per poter correttamente in-
Renzo Maggi. L’inafferrabile della bellezza
Niobe mutilata dei suoi figli, 2011
marmo statuario Carrara cm 90
terpretare e penetrare nel processo di formazione dell’opera d’arte è assolutamente indispensabile che questa venga letta nel punto di vista dell’artista. Un’opera d’arte, per sua stessa natura, non è né
una componente, né una copia del mondo della realtà, ma un mondo a sé stante, libero, completo, autonomo e per comprenderla a fondo è necessario entrare
in quel mondo, conformarsi alle sue leggi e ignorare al contempo le credenze, gli
obiettivi e le condizioni che ci sono proprie nel mondo della realtà.
Nella concezione estetica moderna, sempre più si va affermando che l’arte si è
trasposta dal piano della contemplazione e rappresentazione dell’ordine del
creato a quello della ricerca e del dibattito e, quindi, che la bellezza non sta tanto in ciò che si vede, ma piuttosto nel
messaggio di cui l’opera è portatrice. Tale
messaggio, spesso anche provocatorio,
va decifrato e se noi non sappiamo
niente o non vogliamo saper niente del
fine che l’artista ha voluto perseguire, la
sua arte non ci potrà dire molto.
Il giudizio di ciò che individualmente consideriamo bello dovrebbe, dunque, poter
scaturire da una libera, ma penetrante attività di interpretazione del lavoro dell’artista, capace di far emergere il suo spirito creativo e di decifrare il più possibile correttamente il contenuto del suo
messaggio artistico.
In conclusione, possiamo affermare che
la Bellezza è dappertutto: è nella realtà,
è nelle schegge di vita che gli artisti trasformano in opere, è nella memoria di
immagini che si alimenta dal vissuto di
ogni artista, è nell’altrove dell’artista che
per mezzo di essa definisce e interpreta il mondo. La Bellezza, con la sua dimensione etica ed enigmatica, rimane comunque sempre l’interrogativo fondamentale dell’arte e un’urgenza dell’arte
contemporanea.
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Carlo Serra La voce e lo spazio
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IL LIBRO
CARLO SERRA
LA VOCE E LO SPAZIO - per un’estetica della voce
di Delia Dattilo
Carlo Serra è nato a Milano nel 1959 dove, a conclusione del suo percorso accademico presso l’Università Statale di Milano, si è laureato
in filosofia, su relazione di Giovanni Piana, con una tesi su La concezione dello spazio musicale nel pensiero di Jacques Chailley.
Sin dagli esordi, partendo dai paradigmi metamorfici della fenomenologia husserliana, lo studioso ha inteso improntare la sua ricerca sulle strutture simboliche del suono, le morfologie dello spazio musicale e l’analisi delle strutture ritmiche, privilegiando le osservazioni sul
rapporto tra il suono e lo spazio e tenendo conto di alcuni esempi del
repertorio artistico figurativo occidentale, ma anche di certi eventi performativi novecenteschi, di cui si è servito per corroborare le sue argomentazioni sulle relazioni acustico-spaziali date e poi organizzate, quindi intenzionali.
In Musica Corpo Espressione (Quodlibet Studio, 2008) si è occupato
dei rapporti che la musica organizza con lo spazio in cui si trova a risuonare; lo ha fatto sondando sia le riflessioni sugli attributi acustici in sé, che sulle modalità espressive, narrative della qualità timbrica dell’entità sonora, per cui - e con cui - nel
Novecento sono andate delineandosi delle precise prospettive di elaborazione della nozione di corpo sonoro.
L’orientamento fenomenologico della sua ricerca è chiaro sin dalle prime pagine del testo del 2008, quando asserisce che «la musica […] non è primitiva ed elementare sulla sua superficie, ma lo è essenzialmente: il
suo corpo tiene assieme elementi semplici ed oggettivi quali le note, i timbri, i ritmi, e li porta ad evidenza, rendendo possibile il concretizzarsi delle sue strutture
sul piano dell’ascolto» (Serra, 2008, p. 10).
Sembra riaffiorare la Filosofia Prima
dove, per Husserl, «noi, in quanto filosofi agli inizi, essendo dunque involontariamente diretti all’idea di una conoscenza universale […] vogliamo seguire il principio dell’ “evidenza” pura,
nella più stretta universalità del volere. […] Non vogliamo riconoscere
nulla definitivamente come esistente o esistente così, in qualsivoglia
modo d’essere, che non ci stia da-
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IL LIBRO
Carlo Serra La voce e lo spazio
vanti agli occhi come esistente così o
come esistente nel suo modo d’essere,
che non cogliamo in se stesso esattamente come è stato inteso e posto nella nostra credenza conoscitiva».
Elaborando i temi relativi all’organizzazione della scansione ritmica e le relazioni entro cui avviene il confronto tra
il timbro vocale e il rumore, la nozione
di corpo sonoro diventa il riferimento
tangibile attraverso cui lo stesso evento sonoro si manifesta; in altre parole
«il corpo […] è il suono, inteso come una
materica concretezza attraverso cui si
rende visibile un gioco di forme» (Serra, 2008, p. 10).
La riflessione che accompagna a posteriori questa definizione gravita attorno all’idea dei rapporti tra il timbro e la forma
simbolica, che ad esso va integrandosi culturalmente, in particolar modo nell’interazione del suono con lo spazio, dalla quale sorge inevitabile una matrice narrativa,
tale perché del tutto pertinente e compresente alla qualità del segnale acustico,
quindi materiale concreto che rimanda all’idea di ciò che è in sé e di ciò che diventa nel farsi mondo.
Nel testo pubblicato da il Saggiatore (La
voce e lo spazio, per un’estetica della
voce, 2011), Serra torna ad affrontare la
questione dei rapporti intercorrenti tra
i suoni e lo spazio, ridefinendo e individuando nella voce umana il soggetto della sua riflessione («Il mondo raccontato
attraverso la vocalità»): le considerazioni si infittiscono e specializzano non certo per un puro manierismo accademico,
né perché sia ritenuto concluso un percorso d’indagine più generico relativo al
corpo sonoro, al contrario, e in assoluta coerenza con le dissertazioni precedenti, l’ultima fatica si stringe intimamente attorno alla dimensione vocale, descrivendone la struttura senza pretendere di
consegnarsi al pubblico attraverso una
pretesa teoretica assolutistica, ma confessando immediatamente la sua natura interpretativa.
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La voce è trattata come evento non
esclusivo dell’organo auditivo che la
percepisce, o dell’apparato che la produce, ma come epifania interagente con lo
spazio: suscettibile alla disciplina.
La sottomissione della voce alla regola formale e stilistica, nel corso della storia, ha
sospinto il pensiero filosofico a porre - e
porsi - una serie di problematiche - di natura ora qualitativa (Aristosseno), ora etica (Platone), ora rappresentativa (Schopenhauer) - gravitanti attorno la sua effettualità, sia nel sistema spaziale sia in quello iconico. In quanto evocazione la voce
è un atto cerimoniale che si estrinseca nei
termini di un relazione instaurata sulle
fondamenta dell’espressività che, pertanto, sottintende la necessaria presenza del
carattere di un io coestensivo.
Ne La voce e lo spazio l’operazione compiuta è quella della costruzione di una vasta rete di sottilissime analogie e analisi
di alcune eventualità vocali appartenenti
alla sfera dell’oralità, nelle quali è possibile scorgere l’oggetto delle meditazioni
sulla materia vocale che ha permeato il Novecento - da Schoenberg a Bartók, da Nono
a Ligeti.
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Roberta Buttini
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VETRINA
ROBERTA BUTTINI
di Giorgio Di Genova
In Liguria, e precisamente a Genova, anche la toscana Roberta Buttini dal 1970, cioè quasi in contemporanea con Costa, s’è applicata allo
studio dell’evoluzione umana, rivolgendo il suo interesse all’antropologia sociale e culturale dei miti e dei rituali dalla preistoria all’archeologia industriale, non senza affondi nella comunicazione.
Pertanto nel suo lavoro ella accoglie reperti del neolitico e oggetti d’uso
quotidiano, considerati come i totem del nostro tempo, nonché oggetti
di archeologia industriale. Nell’ambito di tale ricerca nascono, nel ‘73, Consumismo, sorta di mostro inghiottitore, realizzato con una dentata bocca, spalancata sistemata su un w.c. ed un paio d’occhiali da sole; nel ‘74,
i dipinti Ipotetici segni comunicativi, tavole sinottiche con elementi neolitici e fossili o con segni grafici primordiali; nel ‘75, l’ambiente Evoluzione, impostato sulle “radiografie” dei crani dell’homo sapiens attuale
e dell’homo futurus-umanoidi sulle pareti e gli oggetti e apparecchi relativi al suo habitat, telefono compreso: nel ‘76, in agosto, all’interno del
capannone dell’Officina Trasformatori della Compagnia Italiana Elettricità Ligure, Carro ponte, una performance con protagonista un gancio
Arte maschile, juta, cuoio, legno su tela, cm 130x150, 1990
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del segnismo che dall’impianto scritturale dei lavori del ciclo Artificio comunicativo n.2 del 1980, in cui non mancano epidemie di papiri con geroglifici, slitta negli esiti decorativi del ciclo Segni comunicativi del 1996-97, ciclo che giunge addirittura a far ricondurre i segni verso l’ideografia, com’è nella tavole delle
81 “piastrelle incorniciata da un alfabeto astruso (Segni comunicativi, 1997).
Ovviamente la comunicatività di tali artifici e segni è comunemente frutto di una
personale rielaborazione fantastica dell’artista quale a furia di praticare l’antropologia assorbe l’immaginario magico oscillante tra il grafico-simbolico e l’iconismo
semplificato per suggestioni neolitiche o
tribali in composizioni affollate e non di
rado pletoricamente riccamente affastellate in atmosfere in cui le parti in luce evidenziano immagini, disegni e segni, che
nelle parti in ombra vengono assorbiti (Magia del segno, 1996).
La Buttini, tuttavia, mescola all’antropologia culturale dei miti e dei rituali gli oggetti d’uso quotidiano e dell’archeologia
industriale cui reperti considera totem
del nostro tempo, con palese contaminatio di pensiero tribale e post-moderno
con risultati di adattamento dell’ottica
dell’arte antropologica al versante particolarissimo dell’industrial art, per così
dire. (www.robertabuttini.com)
Ipotetico alfabeto, olio su tela, cm 119x141, 1980
Roberta Buttini
bicorne, a voler testimoniare l’agonia e la
morte del vecchio oggetto industriale
(198); nel ‘77, l’installazione Equazione, costituita da immagini su fondo rosso e fondo bianco, abbinate a coppia e appese alle
pareti, poste in rapporto dialogico con la
bipartita Oppressione del ‘75, sistemata
inclinata a terra. (...)
La performance è stata poi presentata nell’ottobre dello stesso anno alla Galleria LR
di Genova. Altri lavori di archeologia industriale sono Per la ricostruzione europea, Alchimia e galvanizzazione Allarmi,
gli ultimi due relativi a impianti industriali sorpassati, come Centrale termica, costituita da fotografie della vecchia centrale termica di Canevari, che fu la prima del
tipo costruita dall’Ansaldo di Genova,
utilizzata per l’illuminazione stradale,
l’alimentazione del tram e le piccole utenze domestiche privilegiate di Genova. (...)
L’arte antropologica di Roberta Buttini presenta analogie e divergenze con quanto ha
fatto Costa. Infatti anch’ella recupera materiali poveri, dal legno al tessuto, alle conchiglie ed altro, ma li mette in rapporto con
la pittura, nonché con la scrittura tra
ideografica e cuneiforme che non di rado
assume forme pittografiche. Inoltre i suoi
bacini di riferimento sono altre culture, da
quelle dell’America Centrale a quelle dell’Oriente, anche estremo, passando per
quelle aborigene dell’Australia. La sua
produzione, come ha osservato Beringheli, “nasce dal proposito di creare una
struttura formale adatta a comunicare un
sostrato, un riferimento emozionale o
sensibile, come è nel caso in cui “inventa”
un alfabeto probabile, proponendo addirittura una inevitabile vertigine mentale che
tiene conto della fonologia e delle differenti pronunce. O laddove trasforma il passato magico e rimosso della primitività in un
“figurato” che sollecita aree tipiche della
mitologia pagana o della ritualità tribale”.
La Buttini in realtà più che proseguire il
discorso antropologico/artistico di Costa lo sposta nell’ambito della pittura, in
cui affoga talvolta i reperti oggettuali, e
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Oretta Cassisi
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ORETTA CASSISI
di Francesca Tosa
Oretta Cassisi, allieva di Scanavino, Garaventa, Verzetti e Fieschi ha
vissuto e lavorato a Milano e Roma. Artista d’esperienza, in continua
evoluzione artistica, si muove attualmente nel panorama italiano, proponendo lavori dalle diverse sfumature sia tematiche che tecniche. Dalla sua prima personale del ‘76 in piazza di Spagna non si è mai fermata: esposizioni, mostre e vernissage. Fa parte dei 100 Pittori di via
Margutta fino al 1980, in seguito del gruppo “Pittori del Naviglio” di
Milano. Nel 1977 è la volta della sua Personale a Roma nella Galleria
“Cedimarte” di Sinibaldi. Con la “Numana Ars” di Roma partecipa a
numerose collettive conseguendo premi e segnalazioni. Nel 1979 Realizza un’opera, “Il Baccanale”, per l’Accademia della Marca di Ascoli
Piceno. Si susseguono numerose Personali, a Siena, Genova e Milano.
Nel 1982 consegue il Secondo Premio Accademia Internazionale Arte
Moderna di Roma. Poi Ginevra e di nuovo Milano. Un turbinio di colori ed emozioni per un’artista attenta ai temi sociali, etnici, urbanistici. Dà voce a quell’inconscio che silenziosamente domina le nostre
esistenze, architetture antropomorfizzate, città sommerse e metafore irriverenti. Inizia un periodo di studio e sperimentazione artistica;
l’evoluzione della tecnica pittorica porta la pittrice ad una nuova “per-
Cubo tavolino, plexi stampato, cm 40x40x40, designer Federico Ruggiero
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sonale” dopo circa sei anni. Dal 1996, la
Galleria Nazionale d’Arte Moderna di
Roma conserva alcuni dei suoi lavori e
alcune opere sono tuttora in permanenza nello spazio espositivo di Viale Vittorio Veneto e nello spazio espositivo
presso lo studio dell’architetto Bruna Solinas. Dal 2001 espone alla III° Biennale
d’Arte Moderna di Firenze; a Genova in
occasione della “Mostra del Collezionismo e Luministica”, “Non solo moda” arte
e spettacolo e Fiera d’Arte Contemporanea. Poi la I° Triennale d’Arte Contemporanea a Parigi. Dal 2006 Collettiva “Eccentriche Visioni” Castello della Lucertola ad
Apricale, “MACEF”, Personale d’Arte
Contemporanea a Palazzo Ducale di
Genova e collettiva sulla Shoa. Rassegna
d’Arte Contemporanea “Probabili Indizi”
- Galleria Satura – Palazzo Stella a Genova. Nelle sue opere, legate a doppio filo
tra immaginario e realtà, si evidenzia una
Figura, olio su tavola, cm 70x50, 1999
Oretta Cassisi
Architettura metafisica con testa di donna, olio
su cartone cm 102 x 72, 1999
particolare attenzione al colore e all’utilizzo dei materiali. Di formazione pittorica e grafica, l’artista ha talvolta inserito nei suoi quadri elementi scritturali che
fondendosi con l’immagine rendono immediatamente l’idea di un arte improntata non solo sull’aspetto estetico ma di
un’arte umana, intrisa di sentimento ma
anche d’ironia. Dimostra notevole padronanza nella tecnica del collage, negli interventi ad acrilico su fondo di giornale e di carta di recupero, ricorrendo spesso ad applicazioni con materiali di diversa natura. Nell’ “L’ora del bisogno” ad
esempio, opera eseguita con tecnica
mista, sono stati attaccati pezzi di orologi e carte da gioco sulla tavoletta del
WC. Le protagoniste delle riviste patinate assumono tutt’atra posa dopo l’intervento interessante dell’artista, Oretta
stravolge l’ordinario e lo fa bene. Servendosi di tutta quell’esperienza tecnica, maturata in anni di studio e in una vita dedicata all’arte.
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Pillino Donati
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VETRINA
PILLINO DONATI
Presenze
di Angelo Mistrangelo
Attraverso la sequenza delle “Presenze”, Pillino Donati offre ancora
una volta il segno di una ricerca pittorica caratterizzata dalla trasformazione della tela in una superficie che ha il fascino di antiche mura
corrose dal tempo, di luoghi legati alla memoria, di una gestualità anonima che traccia frasi, parole, disegni capaci di sottolineare una situazione, di chiedere aiuto, di rivelare un amore.
Muri, quindi, come documenti di lotte a volte impossibili, di vibranti richiami a una società assente, consumistica, lacerante; di sottili inquietudini che
Presenze 3, tecnica mista, cm 100x100, 2012
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VETRINA
s’insinuano nel tessuto di un intonaco ormai sgretolato, ma pronto ad assorbire una
linea incerta, misteriosa, scandita da
un’energia che scaturisce da una comunicazione immediata e non condizionata.
In tale angolazione la pittura di Donati assume una propria capacità evocativa, una
possibilità di suggerire una situazione, di
tracciare le mappe di un percorso che prevarica ogni semplicistica o riduttiva interpretazione delle frasi sui muri per, viceversa, avvertirne tutta la straordinaria magia.
A queste sue “Presenze” Donati affida il
messaggio di una umanità che avverte l’inclinazione dell’era tecnologica, delle problematiche sul nucleare, di una dimensione politica legata alla figura di Mandela o
al dramma de “la fame del mondo”.
Donati, perciò, sottolinea questi aspetti attraverso una pittura che nulla concede a troppo facili risvolti figurali, ma
tutto appare scandito dall’insegna di una
denuncia sociale che sembra un urlo liberatorio, un segnale, una protesta.
Il suo dettato si snoda con continuità, con
una vibrazione della materia che sancisce
il valore di un “dire” che non è mai solamente grafia, ma ideale congiunzione fra
le antiche grotte di Altamira e questi muri
ricchi di parvenze fluttuanti nell’atmosfera come un ricordo lieve e incorporeo.
Il suo discorso – ha scritto Franco Marchiaro – è contraddistinto da una “ricerca culturale che proprio tra le vecchie
case addossate sul porto ha trovato la
Pillino Donati
Presenze 4, tecnica mista, cm 100x100, 2012
sua ispirazione: il muro. Ed ecco che messaggi di protesta, speranza, lotta, amore vengono assimilati e trasposti su
grandi pannelli dove appaiono, ma più
spesso si intuiscono, i grandi travagli della società contemporanea…”.
E in questi pannelli si legge la storia dell’uomo che fluisce attraverso “tracce” indelebili, profondi silenzi, segni che talora perdono il loro significato di denuncia per divenire il protesto per “fare” pittura, per una poetica che va al di là del
dato conoscitivo per trasmettere il clima
di un dipingere intessuto di luce.
In effetti Donati ha raggiunto, dopo alcune fasi di sperimentazione, un linguaggio in cui le zone di colore determinano
un alternarsi di momenti, di sensazioni,
di emozioni.
Un colore raggrumato, dilavato, inciso.
Un colore che assorbe la luce e la restituisce attraverso l’impasto in una sorta di riscoperta del territorio, di un frammento di
identità, di affreschi che affiorano con tutta la loro carica di “classicità”, ma soprattutto con la suggestione di un tempo remoto che ancora ci appartiene e ci seduce.
Tra le pieghe di queste superfici si profilano lettere incompiute, imprecazioni,
esclamazioni che riconducono l’attenzione intorno all’indagine fotografica di Dario Lanzardo, alle periferie buie delle
grandi città, ai muri di cinta di palazzi
esclusivi e alle case del centro storico con
brandelli di manifesti.
In ogni caso è la parola l’insostituibile artefice dei lavori di Donati, la pulsante tensione espressiva mediante la quale conferisce alle proprie “tavole” il valore di
messaggio anche dove il tessuto informale prende il sopravvento e i segni vengono annullati, sconfitti, inglobati nel magma di una materia mai greve. Una materia, la sua, elaborata con controllata misura, con la volontà di conferire alla propria tematica una linfa vitale, approdando così a una realtà espressiva che si fa
veicolo della forma sostenuta dalla profondità dei contenuti sociali e culturali.
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Luisa Giovagnoli
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VETRINA
LUISA GIOVAGNOLI
Un postulato di luce e colore,
di geometrie e di simboli.
di Silvia Bottaro
Luisa Giovagnoli non ha mai smesso di compiere un approfondimento forte dentro sé e fuori per cercare di descrivere, narrare il “paesaggio” sia esso quello mentale, sia quello urbano della vita quotidiana.
Definire, in un certo senso, “postulati” i suoi lavori significa considerarne l’origine, l’idea, nata da un principio che non è dimostrato né
ha in sé necessità intrinseca, ma che si ritiene, comunque, necessario
ammettere per spiegare fatti non contestati, oppure affermazioni non
messe in dubbio, che senza tale principio non si potrebbero spiegare. Seguendo Kant sono “postulati” l’esistenza della libertà umana, l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima. Teoricamente essi sono semplici “ipotesi” che sono necessarie per la ragion pratica e, pur non essendo dimostrabili, sono l’oggetto di una “fede razionale”.
La Giovagnoli nelle sue infinite analisi labirintiche e vorticose nei segni,
nelle figurazioni geometriche, negli innesti, quasi fossero un gioco enigmatico, nelle valenze fortemente simboliche del colore ha una “fede razionale”, dalla quale emerge la forte sua personalità. Ascolta, vive il dramma del territorio urbano, è vicina al simbolismo delle sue città, quella
Mutazione, olio su tela, cm 70x100, 2008
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di Dio e quella dell’uomo, nel solco del
contrasto fra la trascendenza e la storia,
l’utopia e la realtà, la tensione progettuale e l’inerzia attuale ed eventuale. Le sue
tele ci parlano del respiro della sofferenza della città, del disagio, dalla mancanza, molto spesso, di felicità. Guardando
il tessuto antico delle strade, delle facciate dei palazzi storici si sente l’equilibrio
tra la natura e l’uomo con le sue creazioni, la calma delle strade e la loro sicurezza. È un richiamo, invece, alla paura
contemporanea che si vive nelle nostre
metropoli, tanto ansiose di sicurezza, ma
incapaci di tessere, di tracciare positive
relazioni di amicizia, di dialogo.
Luisa Giovagnoli scompone i vari elementi ben sapendo che le città antiche erano spazialmente centrate sulla cattedrale. Oggi, invece, hanno perso tale asse “sacro”: si è smarrito, in un certo senso e, consumata la scintilla della spiritualità, oggi
il territorio urbano si riduce a una regione senza poesia, senza luce, non vogliamo
credere senza speranza.
Abraham Cowley, scrittore inglese del Seicento, nel suo saggio Il giardino affermava che “Dio fece il primo giardino e Caino la prima città”, ed Erskin Caldwell nella sua Via del tabacco (1932) scriveva: “la
Parole al vento, olio su tela, 50x45, 2011
Luisa Giovagnoli
Freedom, olio su tela, cm 50x50, 2010
vita della città non è stata creata da Dio”.
La nostra Pittrice è in equilibrio tra storia e futuro e si confronta con uno dei temi
della nostra generazione: la città nella città che cresce su se stessa trasformandosi, il ricordo corre alle tante aree industriali dimesse, chiamate ad accogliere nuove
funzioni. La memoria, la storia sono il nostro vero tesoro: si deve mantenere, pur
nelle trasformazioni, l’identità storica. In
tale contesto generale si muove la pennellata sicura, ricca, fenomenica della Giovagnoli dove, in una sorta di gorgo caotico,
effettua una specie di crasi vegetale, architettonica, mentale.
Il cammino della pittrice è felice e pone l’osservatore davanti ad una ricerca sì inquietante, ma riflessiva e coinvolgente. Emozioni legate al colore che diventa elemento cromatico del suo linguaggio persuasivo, accompagnato da una rara maestria del segno, sempre netto, deciso, tagliente. La luce
e la vivacità cromatica sono una sua caratteristica che contraddistingue lo sforzo compiuto dalla Giovagnoli della ricerca di una
sintesi, in un certo modo, di una musicalità intrinseca del suo stendere la materia ad
olio sulla tela. Immagini sempre dinamiche,
vitali che prendono corpo, vita, nella presenza geometrica del suo orizzonte.
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Grazia Lavia
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VETRINA
GRAZIA LAVIA
Visioni fra(me)s
di Viola Lilith Russi
Immagini dalla tv. Ci scandiscono il tempo e in un battibaleno la serata è finita, la luce inghiottita. Fluida e caotica sequela di forme che
penetra dalla retina alle ossa, dalle papille gustative allo stomaco. Entreranno nei nostri sogni, si dissolveranno nel sangue. Le Immagini.
Ci sono quelle viste dal treno, osservate dal tram. Quale sarà il canale di scolo, quale il fiume che ne ospiterà il peso? Restano immagini
se non le si attende al varco…perché altrimenti si trasformano in Visioni. Dal passivo all’attivo la prospettiva dello sguardo ribalta le percezioni e dall’invasione si passa al nutrimento. Visioni fra(me)s è il progetto di Grazia Lavia che dà corpo all’etereo e restituisce alle immagini la necessità di esistere. Soffermandosi su quello che sfugge, l’artista offre un tetto allo straniero, lo ama. Dà la possibilità all’immagine in fuga e a se stessa di nutrirsi. Di allargare la sua casa, arricchirla dei segni che le mancavano. Se non si pescano dal mare i tesori che
solo per noi e in quell’istante luccicano, si rischia di non vedere. Di assistere passivi alla danza dei frames senza che si crei una parentesi
di accoglienza, calore, nutrimento fra-(me), fra-(te). Solo alcune meri-
Visioni fra(me) 1, foto da video, cm 20x30, 2011
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Grazia Lavia
Visioni fra(me) 2, foto da video, cm 20x30, 2011
tano il colpo di fulmine, lo scatto voluto o casuale. Parole scritte su un muro,
un manifesto strappato, le sagome di un
cartone animato vengono immortalati
dall’occhio che fotografa per poi accorgersi, in un secondo momento, del loro
aver cambiato vita. Cos’è accaduto nel
passaggio da immagine a visione, cosa c’è
nel filtro ottico emotivo che ha pescato
e poi osservato? Il loro viaggio nello spazio, nel tempo, nel ricordo, nella piazza.
Per il momento. La possibilità di un ulteriore innamoramento di chi passa e che,
catturato dalla nuova forma, dia loro un
passaggio. Una sorta di autostop che gentilmente ci chiedono. Le immagini. Grazia Lavia le accompagna, si fa da loro accompagnare, porgendo ai viandanti l’occasione di continuare a viaggiare.
Visioni fra(me) 2, foto da video,
cm 30x20, 2012
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Luciana Libralon
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LUCIANA LIBRALON
di Elisa Aste
“Dagli occhi delle donne derivo la mia dottrina: essi brillano ancora
del vero fuoco di Prometeo, sono i libri, le arti, le accademie, che mostrano, contengono e nutrono il mondo” William Shakespeare
Che cos’è uno sguardo se non l’espressione di un pensiero talvolta volutamente celato. Intimi archetipi divenuti essenziali nelle rappresentazioni della pittrice Luciana Libralon: interprete delle gesta quotidia-
Il desiderio, acrilico su tela, cm. 120x100, 2012
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Il golfino rosso, acrilico su tela cm 120x100, 2012
Lo stupore, acrilico su tela cm. 120x100, 2012
ne del mondo femminile e attenta a quel
dettaglio capace di rendere “nomade” un
routinario percorso.
Ammirando le opere di Libralon si diventa compagni di viaggio: l’itinerario è il globo, osservato attraverso i leggeri atteggiamenti di donna, che possono differire per regole e celerità, ma che rimangono immutati nell’anima.
Il taglio è fotografico, quasi a rappresentare un attimo di pausa vissuto con orgoglio, per concedersi “all’obbiettivo”. Le
sue opere sono poesie sognate in bianco e nero, materializzate in figurazioni
dai vividi colori.
La pittura di Libralon è puro istinto , sono
le casuali emozioni dell’artista ad essere poste su tela, attraverso un’indagine
su fascino ed eleganza, ben evidenti nelle rappresentazioni “liberty”, dove sono
leggiadria e sensualità le principali protagoniste.
Luciana Libralon
Il percorso espressivo dell’artista piemontese, dominato dall’immagine della donna, manifesta volontà di ricerca. Ricordo della corrente romantica combinata
a tendenze liberty: l’immagine appare
soggettiva ed ogni opera é esperienza.
L’evidente attenzione all’espressività dello sguardo parla dell’anima: occhiata rivolta all’osservatore; quegli occhi parlano, forse di noi che ne decidiamo il senso.
Il trionfo del corpo viene meno, anche laddove la materialità sia espressa con eros,
perché la psiche ti riconduce all’arcano dubbio dell’essere.
In generale la produzione dell’artista trae
ispirazione dalla natura, che é anch’essa
donna, dalla bellezza eterea; non sottrae
fascino al soggetto, ma anzi diviene soggetto in parallelo, con i suoi colori e il miracolo della nascita di un nuovo fiore.
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Bruna Milani
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BRUNA MILANI
di Elena Colombo
Con i suoi acquarelli ispirati ai quattro elementi, l’artista romana Bruna Milani rappresenta le emozioni dell’Uomo inserito nella Natura.
La serie “Acqua” trasporta lo spettatore in un mondo essenziale, a volte fiabesco a volte irruente. È una pittura liquida e forte: la poetica romantica di William Turner unita alla visione onirica di un bambino e
agli Oscuri Presagi delle nuvole sul Campo di Grano con Corvi di Van
Gogh. Lentamente, con sequenze cinematografiche, i paesaggi brumosi si trasformano in puri concetti, che raffigurano Riflessi mossi come
un diagramma sismico o la casuale esplosione di colori che s’inseguono sulla stessa scala cromatica. Fuoco è una collezione di eruzioni. In
Passione e Specchio di Passione la luce richiama l’impatto moderno
e drammatico di Lorenzo Mattotti, riletti secondo l’esperienza trascendente della Divina Commedia di William Blake. Il prisma solare si scompone nelle sue componenti primarie: non c’è linearità ma un’irrequieta morbidezza che sembra stemperare la concezione artistica di Kandinskj per mostrare un flusso di coscienza instabile: la quiete sinuosa del blu e del verde si accosta all’energia del rosso e dell’arancio, la
densità del movimento fugge verso la rarefazione del bianco. Nel quadro Voglio Vederti Danzare si materializza l’esperienza musicale di
Franco Battiato.
Lampi di nostalgia_fuoco, acquarello, cm 36x48, 2008
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Bruna Milani
Mutamenti-terra, acquarello, cm 36x48, 2009
Voglio vederti danzare, acquarello, cm 72x35, 2011
Le sensazioni si fondono nella serie Aria, in cui
gocce-stella bianche s’irradiano su sfondi siderali, misteriosi e suggestivi come le fotografie satellitari dello spazio profondo. Spazi di calma punteggiati di luce meditativa (Infinito) o vortici di pennellate disciolte in cui riecheggia ancora un
post-impressionismo macchiato d’astrazione
(Notte di Stelle).
La successione delle opere costituisce un percorso che si allontana dal “qui” per disegnare un “là”,
un’ipotesi personale che si muove dall’interiorità all’esterno e traccia cammini interpretabili soggettivamente.
Un ultimo guizzo (Mutamenti) e il pubblico torna sulla Terra. Lo sguardo fatica a rimettersi a fuoco, i colori sono ancora irreali, frutto di un sogno
à la Chagall (Foglie Blu) … infine si ferma su dettagli specifici, fiori, steli e corolle: dall’universo
individuale alle piccole realtà frammentate e facilmente riconoscibili.
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Isabella Ramondini
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VETRINA
ISABELLA RAMONDINI
di Andrea Rossetti
L’universo artistico di Isabella Ramondini è fatto di volumi morbidi,
avvolgenti, animati da luci colorate, delicate e sfumate, con cui l’artista gioca, utilizzandole come delle pennellate di colore “virtuale”; un
colore mobile nella sua possibilità di esserci e sparire a seconda della volontà del fruitore, o cangiante, come nell’imponente installazione “La casa nell’albero” del 2008, nella quale l’illuminazione varia dal
verde al bianco. Quest’opera (realizzata in ferro, lexan, tessuto resinato, led e un pannello fotovoltaico), essendo composta principalmente di materiali riciclati e riciclabili, caratteristica che contraddistingue
tutte le creazioni dell’artista, consente d’inserire pienamente la Ramondini all’interno di un “fare arte” realmente contemporaneo; la sua è
un’arte che dialoga con il mondo che la circonda e non diventa un’espressione avulsa, s’inserisce energicamente nella tematica del basso im-
La casa nell’albero, installazione luminosa, materiali riciclati e riciclabili, m. 5,50x5, 2008
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VETRINA
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Isabella Ramondini
Astra particolare soffitto, installazione luminosa, alluminio e lampadine a incandescenza, m 7x2,5, 2005
La casa nell’albero, installazione luminosa, materiali
riciclati e riciclabili, m. 4,50x4, 2009
patto ambientale, di grande importanza
e interesse di questi tempi.
La Ramondini è riuscita a coniugare con
grande sensibilità uno dei simboli naturali per eccellenza, l’albero, all’artificialità dell’illuminazione elettrica, in un’installazione alimentata con energia solare;
un’opera quindi “ecologica”, il cui consumo complessivo è pari ad una lampadina da 120 watt, grazie all’utilizzo di led.
Soffermarsi su questa installazione, andando oltre ai soli valori formali di cui si
fa portatrice, permette di comprendere a
pieno la poetica dell’artista: la “casa” e
l’“albero”, sono elementi entrambi portatori di un concetto di stabilità, di appartenenza ad un proprio ambiente. Per la Ramondini diventano un tutt’uno, sono entrambi radicati nel terreno dove poggia-
no, inamovibili elementi primigeni, rappresentanti del solo rifugio in cui l’uomo
può nascondersi. Una scala appoggiata all’albero è il mezzo che permette di riuscire nell’impresa, di entrare nella casa-albero per estraniarsi dal mondo esterno e ritrovare se stessi.
Isabella Ramondini mostra la spiccata capacità di infondere alle proprie creazioni una delicatezza, un’eleganza fatta da
giochi di luci eteree che danno vita alle
superfici in cui sono inserite, fluttuanti
quasi fossero mosse dal vento, pienamente padrone dell’ambiente in cui sono inserite; al contempo, come in un movimento di contrappunto, espone una
personalità forte e decisa, indagatrice dell’umanità circostante e delle tematiche
più attuali.
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Rosanna Zucchelli
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VETRINA
ROSANNA ZUCCHELLI
di Nicola Davide Angerame
Disegnare mondi invisibili è da sempre una delle ossessioni preferite
degli artisti, soprattutto da quando Vasily Kandinsky inventa l’arte
astratta nei primi anni del Novecento. Il mito ne tramanda la nascita
narrando come il padre dell’arte spirituale, entrando un giorno nel suo
studio, si sorprendesse ad ammirare un quadro a testa in giù,
diventato “irriconoscibile” dal punto di vista descrittivo e trasformatosi
in una possente impressione emotiva. Da allora l’arte compie spesso
accelerazioni ispirate a quella liberazione del linguaggio pittorico, che
ancora oggi è foriera di nuovi generi e specie artistiche.
La proposta di Rosanna Zucchelli beneficia di questa libertà e ne adotta
la radicalità, costruendo dimensioni visive che mirano a raggiungere gradi
elevati di complessità e muovendosi dentro una proliferazione di forme
e di colori, spesso dotati di un’armonia complessiva che li tiene insieme.
Pittura e disegno qui sono alleate e non conosco prevaricazione.
L’equilibrio permette loro di edificare sempre nuove composizioni, le quali
appaiono però in sintonia come i pezzi di un puzzle infinito. La loro
ripetizione nella differenza provoca effetti di distorsione, spesso
musicale, di una realtà che altrimenti appare monocorde, sempre uguale
a se stessa e chiusa nella certezza di leggi fisiche insuperabili. Zucchelli
Senza Titolo, acrilico su tela, cm 40x80, 2011
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evade da questo mondo e trova nella
propria interiorità quelle luci, quei colori
e quelle forme che ricordano in parte la
grande infatuazione che gli anni Sessanta
hanno conosciuto nei confronti della
psichedelia, la quale prometteva una
moltiplicazione dei mondi visivi ed una
intensificazione delle sensazioni a partire
da un allargamento della coscienza grazie
all’aiuto che le sostanze psicotrope
potevano apportare alla percezione. Ma
l’arte, che è più forte di qualsiasi sostanza,
può fare di meglio e portare sul piano di
una superficie una moltitudine di
sollecitazioni sensibili che ciascuno di
noi è chiamato a colmare di senso. Un senso
che non è prettamente quello offerto
dall’intelletto, attraverso il significato, ma
è quello più ricco e mobile del sentimento,
della sensazione, dell’emozione.
Zucchelli lavora su questi elementi,
cercando di costituire una nuova sintassi
per un nuovo lessico di forme e di
prospettive chiamate a tradurre nel visibile
una vita interiore piena di desiderio,
caratterizzata da una potente fascinazione
per il dettaglio, il quale non appare fine a
se stesso ma immerso dentro un magma
di vita in perenne movimento.
Il fascino di queste composizioni è dato
spesso dalla loro illimitatezza. Il dialogo
che le figure e le tinte instaurano tra loro
appare come un illimitato fluire, il cui
Rosanna Zucchelli
Senza Titolo, tecnica mista su carta, cm 30x50,
2007
confine è solo quello accidentale della
superficie su cui giacciono come
intrappolati. C’è un qualcosa di
potentemente biologico in queste forme
morbide e curvilinee, che spesso si
chiudono in cerchi e che, meno sovente,
diventano rette in grado di trafiggere lo
spazio, ponendo come delle barriere
precarie attraverso cui l’occhio del
fruitore riconosce, forse con sollievo, un
ordine pre-stabilito. Ma Zucchelli non è
un’artista autoritaria. Le rigidità che
inserisce nelle sue composizioni sono
sempre imperfette, come non previste e
non definitive. In realtà nulla è
predeterminato. È una pittura, la sua, che
sembra “riprodursi per mitòsi”, termine
scientifico con cui si indica la
riproduzione delle cellule per scissione
binaria, ovvero per duplicazione. I quadri
offrono così un‘impressione dinamica,
che aiuta ad aprire lo spazio. Anzi,
sono le stesse forme a creare lo spazio.
A differenza di molta pittura, in cui le
forme trovano riparo dentro lo spazio
preesistente della tela, usata come una
protesi della realtà, in questi lavori lo
spazio viene creato a partire dalla
moltiplicazione e dalla crescita di forme
che sembrano indifferenti alla volontà
umana. Esse possono crescere, e
continuare a riprodursi, anche al di là del
confine fisico della tela. Ciò può suscitare
un disorientamento, al quale Zucchelli
oppone un ordine che è quello di una
tessitura di luci e di ombre che in alcune
occasioni accolgono al loro interno un
volto, uno sguardo. Ma la figurazione è
appena accennata, come se facesse
fatica, il mondo del reale che essa
rappresenta, a farsi largo in quella
ricchezza esuberante e squillante che
Zucchelli porta alla luce a partire da un
“fare” che viene alimentato dalla
spontaneità e dall’immediatezza. Senza
alterare, ma anzi esaltando l’attenzione
per il dettaglio, l’amore per la singolarità
che viene riconfermato in ogni forma e
in ogni colore.
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SaturARTE
17° Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea
in concomitanza con la Notte Bianca Genovese
Genova Palazzo Stella 08 - 22 settembre 2012
Giunto alla sua diciassettesima edizione, il Concorso Nazionale d’Arte
Contemporanea SaturARTE si conferma appuntamento ormai consolidato nell’ambito della promozione e dello sviluppo della ricerca artistica e punto di riferimento nel panorama artistico ligure e
nazionale. La costante attenzione della critica, la qualità e l’impegno
organizzativo oltre che l’alto livello di partecipazione lo rendono
anno dopo anno un appuntamento di prestigio. Il concorso, patrocinato da Istituzioni pubbliche e private, vuole essere un momento di
incontro oltre che riflessione tra artisti, critici e pubblico interessato
agli eventi culturali; un’occasione per allacciare nuovi contatti nel comune interesse per l’arte. La rassegna si svolgerà come sempre nella
splendida cornice di Palazzo Stella, che vanta una superficie espositiva di oltre 500 mq. L’inaugurazione come ogni anno coinciderà con
la Notte Bianca genovese.
REGOLAMENTO
Con il Patrocinio di Regione Liguria, Provincia e Comune di Genova, Municipio
1 Centro Est, SATURA art gallery - centro per la promozione e la divulgazione
delle arti, con sede in Genova, indice il 17° Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea SaturARTE.
Art. 1 Destinatari del concorso
Il concorso è rivolto ad artisti di tutte le nazionalità operanti in Italia nelle discipline di: pittura e fotografia.
Art. 2 Tecniche, formato e tema
Ciascun artista può partecipare con una sola opera, in piena libertà stilistica
e tecnica (tempera, olio, inchiostro, acrilico, vinile, acquerello, grafite, collage,
fotografia, ecc.) e su qualsiasi supporto (tela, carta, legno, ferro, plastica, ecc.).
Le dimensioni sono libere purché dentro le misure massime di cm. 100x100.
Il tema è libero.
Art. 3 Come partecipare
È necessario inviare una fotografia a colori di dimensioni non inferiori a cm.
12x18 e non superiori a cm. 24x30 o tramite CD. La fotografia potrà essere inviata anche per posta elettronica in formato jpeg (almeno 300 dpi).
Il modulo di partecipazione, la fotografia, la ricevuta dell’avvenuto pagamento
ed eventuale materiale documentario/biografico dovrà pervenire entro il 30
aprile 2012 a: SATURA art gallery, Piazza Stella 5/1 - 16123 Genova o all’indirizzo di posta elettronica [email protected]
Dal momento che la selezione avverrà sulla base delle fotografie ricevute, si
consiglia l’invio di fotografie professionali.
Le fotografie e tutto il materiale documentativo non sarà restituito.
Per consentire un coordinamento organizzativo adeguato s’invita ad inviare nel
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Art. 4 Prima selezione
La selezione di tutte le fotografie ricevute avviene attraverso il vaglio della Giuria del concorso, il cui giudizio è insindacabile ed i cui
nomi saranno resi noti il giorno dell’inaugurazione.
Le opere così selezionate parteciperanno alla
17^ rassegna d’arte contemporanea SaturARTE ospitata negli splendidi locali di Palazzo Stella. Alla rassegna parteciperanno,
inoltre, artisti invitati direttamente dal comitato organizzatore per i quali non è prevista
alcuna selezione.
La rassegna s’inaugurerà sabato 08 settembre
2012 in concomitanza della notte bianca genovese e rimarrà aperta fino al 22 settembre
2012.
Data la natura spiccatamente culturale del
Concorso, è richiesto un contributo di € 20,00
per spese di segreteria ed organizzative.
Il versamento potrà essere effettuato con bonifico bancario intestato a: Associazione Culturale Satura, Banca Intesa, Piazza Leonardo
da Vinci 9/R Genova (IBAN IT37 G030 6901
4950 5963 0260 158) o tramite vaglia postale intestato a: Associazione Culturale Satura, piazza Stella 5/1 16123 Genova,
oppure assegno circolare non trasferibile inviato all’indirizzo dell’Associazione.
In caso di mancata selezione per l’evento
espositivo, il contributo per le spese di segreteria non sarà restituito.
Art. 5 Presentazione delle opere
Agli artisti selezionati sarà richiesta l’opera
originale. L’opera dovrà essere senza vetro,
senza cornice e provvista di un’unica attaccaglia, (le opere fotografiche potranno essere
presentate con vetro). Le opere dovranno
giungere presso SATURA art gallery, (piazza
Stella 5/1 16123 Genova) entro la data che
sarà successivamente comunicata agli artisti
selezionati. Le opere inviate per corrispondenza saranno accettate solo con spese e rischio a carico del partecipante, sia per
l’andata sia per il ritorno (restituzione).
Art. 6 Premi
Una Giuria altamente qualificata, i cui nomi
saranno resi noti il giorno dell’inaugurazione, sceglierà le opere vincitrici e il suo
giudizio sarà insindacabile e inoppugnabile,
ogni possibilità di ricorso è perciò esclusa.
Sarà individuato tra i partecipanti un primo
premio assoluto nelle diverse sezioni: pittura e fotografia, cui sarà offerto una mostra
personale nel corso del 2013, un servizio ad
hoc di tre pagine, con intervista e pubblicazione delle opere, sulla rivista SATURA arte
letteratura spettacolo.
Al secondo e al terzo classificato saranno dedicati, nel corso del 2013, una mostra collettiva presso la sede dell’Associazione e un
servizio di due pagine, con intervista e pubblicazione delle opere, sulla rivista SATURA
arte letteratura spettacolo.
La rivista SATURA arte letteratura spettacolo
dedicherà ampie rubriche dedicate al premio.
Il montepremi complessivo sarà arricchito
da premi istituzionali che saranno resi noti
il giorno della premiazione. Il Comitato Organizzatore si riserva di individuare, tra i
partecipanti, artisti emergenti, cui proporre
possibilità espositive personalizzate. Le
esposizioni sopra indicate sono comprensive
di allestimento, vernice e comunicati stampa
che verranno realizzati a cura della segreteria organizzativa del premio. Le spese di trasporto (andata e ritorno) e le eventuali
assicurazioni delle opere saranno a carico e
cura degli Artisti. Le opere rimarranno di
proprietà degli Artisti.
Art. 7 Catalogo
Tutti gli artisti che supereranno la prima selezione (Art. 4) saranno ammessi alla 17^
rassegna d’arte contemporanea SaturARTE,
dovranno versare un contributo di € 60,00 a
parziale copertura delle spese per il catalogo
della mostra e per quelle organizzative, con
le medesime modalità elencate all’art. 5. Una
copia del catalogo sarà data gratuitamente a
ogni artista partecipante che potrà essere ritirata durante i giorni dell’esposizione;
l’eventuale spesa di spedizione postale del
catalogo nei giorni successivi alla chiusura
della rassegna sarà a carico dell’artista.
Art. 8 Premiazione
La premiazione dei vincitori avverrà presso
Palazzo Stella sabato 08 settembre 2012 alle
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più breve tempo possibile il modulo di partecipazione.
Il modulo di partecipazione è scaricabile dal
sito: www.satura.it
o www.facebook.com/satura.genova
oppure può essere richiesto presso la segreteria del premio.
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ore 17.00, in concomitanza con l’inaugurazione della rassegna e nella giornata della
Notte Bianca genovese, alla presenza delle
Autorità invitate e di personalità di spicco
del mondo artistico e culturale.
Art. 9 Restituzione delle opere ammesse
Le opere ammesse alla mostra potranno essere ritirate personalmente dall’artista, o da
un suo incaricato munito di delega, dal 22 al
29 settembre 2012 durante l’orario di apertura della Segreteria.
Gli artisti che faranno pervenire le loro opere
tramite corriere espresso, dovranno richiederne la restituzione incaricando un loro
corriere di fiducia ed a proprie spese.
Le opere dovranno essere inviate in un’apposita cassa con viti riutilizzabile per il ritorno. Le opere non ritirate entro i termini
stabiliti saranno considerate lascito degli artisti all’Associazione Culturale Satura.
Art. 10 Liberatoria
Gli organizzatori, pur avendo la massima
cura delle opere ricevute, non si assumono
alcuna responsabilità per eventuali danni di
trasporto, manomissioni, incendio, furto o
altre cause durante il periodo della manifestazione, del magazzinaggio, dell’esposizione e della giacenza. Agli artisti è
demandata la facoltà di stipulare eventuali
assicurazioni contro tutti i danni che le
opere potrebbero subire.
Art. 11 Accettazione delle condizioni
Gli artisti sono garanti dell’originalità dell’opera che presentano e partecipando al 17°
Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea
SaturARTE accettano implicitamente tutte le
norme contenute nel presente regolamento,
nessuna esclusa.
Art. 12 Immagine delle opere
Il Concorso sarà largamente pubblicizzato
sia in ambito locale sia nazionale e, a tal fine,
lo sfruttamento delle immagini delle opere
esposte resterà ad esclusivo vantaggio degli
organizzatori.
Art. 13 Privacy
Le informazioni custodite nell’archivio dell’associazione verranno utilizzate per la partecipazione al concorso e per l’invio del
materiale informativo. È prevista la possibi-
lità di richiederne la rettifica o cancellazione,
come previsto dalla legge 675/96 sulla tutela
dei dati personali.
Organizzazione Generale:
SATURA ART GALLERY
Associazione culturale – centro per la
promozione e divulgazione delle arti
Direzione artistica
ed organizzazione: Mario Napoli
Coordinamento artistico:
Milena Mallamaci, Mario Pepe
Coordinamento organizzativo:
Virginia Cafiero, Flavia Motolese
Segreteria organizzativa:
Federica Postani, Andrea Rossetti,
Francesca Tosa
Addetto stampa:
Maura Ghiselli
Termini di scadenza:
30 aprile 2012
Sede della mostra:
Palazzo Stella, Genova
Date della mostra:
08 – 22 settembre 2012
Riferimenti telefonici:
010.246.82.84 - cell. 338.291.62.43
E-mail: [email protected]
http://www.satura.it
www.facebook.com/satura.genova
Con il patrocinio e la partecipazione
finanziaria di
Regione Liguria
Provincia
di Genova
Comune di Genova
Municipio 1 Centro Est
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PRESENT’ART COMMUNITY
di Mario Napoli
La Present’Art Community è una comunità virtuale dedicata all’arte e alle sue
molteplici sfaccettature, volta ad offrire
sostegno e visibilità a tutti coloro che
gravitano attorno al mondo artistico e
culturale: creativi, artisti, designer, galleristi, curatori, critici, collezionisti, mecenati e aziende.
Realizzata dalla società cinese Present
Contemporary Art con base a Shanghai
e dall’italiana Present Art Associazione di Collezionisti e Mecenati, la
Present’Art Community è un’importante occasione di contatto con il
pubblico internazionale, un ponte di comunicazione e di concreti
scambi culturali ed economici tra Oriente e Occidente.
La pluriennale attività ed esperienza della Present Contemporary Art
– che nei suoi progetti si avvale del costante coinvolgimento di influenti personalità del mondo dell’arte, della cultura, dell’economia,
e della collaborazione con esperti di diversi settori socio-economici
ed istituzioni pubbliche e private – fanno della Present’Art Community un sicuro riferimento e un mezzo funzionale per la creazione di
sinergie e opportunità di lavoro a livello internazionale.
Tra i principali obiettivi della Community vi è quello di dare voce ai
diversi linguaggi dell’arte, supporto e visibilità a coloro che operano
in questo settore, con la determinazione di creare un’ampia vetrina
in grado di valorizzare e promuovere l’operato dei singoli all’interno
del panorama artistico cinese ed internazionale.
Oltre ad essere un’utile piattaforma d’informazione e d’opportunità,
la Present’Art Community offre una serie di servizi che garantiscono
ai suoi iscritti un sostegno concreto per le loro attività professionali
quotidiane.
Specificare all’atto dell’iscrizione segnalato da Satura art gallery
Join us!
www.wepresentart.com
Present’Art Community
Dal WEB
Present’Art Community
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Premio di poesia inedita “Satura - Città di Genova”
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“ S AT U R A -
C I T T À D I G E N O VA ”
SATURA arte letteratura spettacolo
3^ Edizione Premio di Poesia Inedita
“Satura - Città di Genova”
deadline 30 giugno 2012
Con il Patrocinio di Regione Liguria, Provincia e Comune di Genova,
Municipio 1 Centro Est, la rivista “SATURA arte letteratura spettacolo”
è lieta d’annunciare la terza edizione del Premio di poesia inedita “Satura – Città di Genova”. Un concorso a tema libero e aperto a tutti, finalizzato a dare visibilità all’attività poetica, la meno mercificata delle
arti, e, negli ultimi tempi, troppo spesso relegata in angusti spazi del
panorama culturale italiano. Noi riteniamo invece che la poesia sia l’attività umana che più di ogni altra tende, in mezzo al trionfo dell’inautentico, a restituirci quello che ci è stato sottratto, a dare un senso non
effimero alla nostra esistenza, a porsi come un itinerario verso la verità
attraverso la Parola. E la nostra Associazione – interdisciplinare nel
campo artistico, occupandosi anche di narrativa, arti figurative e musica, - vuole anche testimoniare la crescente sensibilità che all’arte poetica rivolge la città di Genova, dove ha luogo ogni anno, nel mese di
giugno, un Festival Internazionale della Poesia. La Liguria è terra di
poeti: molti vi ebbero i natali e, altrettanti, giungendo da luoghi lontani, se ne innamorarono e le dedicarono il loro canto. In questo solco
vuole porsi, con umiltà il premio “Satura – Città di Genova”.
Per il Regolamento completo rimandiamo al sito
www.satura.it
Organizzazione generale: “SATURA arte letteratura spettacolo”
Direzione artistica ed organizzazione:
Associazione Culturale Satura
Coordinamento organizzativo: Flavia Motolese
Segreteria organizzativa: Virginia Cafiero, Elena Colombo
Addetto stampa: Maura Ghiselli
Termini di scadenza: 30 giugno 2012
Premiazione: 15 dicembre 2012
Riferimenti telefonici:
010.246.82.84 – 010.66.29.17 cell. 338.291.62.43
e-mail: [email protected]
http://www.satura.it www.facebook.com/satura.genova
Con il patrocinio e la partecipazione finanziaria di:
Regione Liguria
Provincia
di Genova
Comune di Genova
Municipio 1 Centro Est