Scarica il libretto - Pastorale Giovanile | Salesiani Piemonte
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Il sacramento della Misericordia 1 L’amore più grande (Oh oh oh….) C’è dentro questo vento tiepido e leggero che porta i miei respiri più lontano, via da me, c’è la Tua voce che mi dice piano: “se… …se verrai con me… …c’è il mio cuore aperto che il tuo cuore aspetta e che porta le tue mani dalla terra al cielo e in Paradiso; c’è il mio Amore qui per te: è passione sconfinata, è la vita mia”. RIT. È L’Amore più grande Lui prende per me quel legno pesante, da solo poi muore, è l’Amore più grande: risorge con me, Lui muore e risorge con me. (Oh oh oh….) C’è sopra il mio sentiero quella nuova luce che non si spegne al soffio della notte scura e mi guida piano: c’è il tuo Amore qui con me, è passione infinita, nella vita mia. RIT. Sulle tue mani due ferite per liberare il nostro cuore dalla morte in fondo al male e nei piedi chiodi che hanno spezzato le catene per andare a camminare sopra i sassi o sulle viole, sulle strade insieme a Te, sulle strade insieme a Te. RIT. (Oh oh oh….) È l’Amore più grande: Lui muore per me, Lui muore e risorge con me. (Oh oh oh….) Misericordias domini Misericordias domini in aeternum cantabo 3 Il sacramento della misericordia Catechesi don Andrea Bozzolo Dopo aver meditato nei due incontri precedenti sul volto della misericordia di Dio, che si rivela nella storia di Gesù, e sul movimento della misericordia, che si traduce nel gesto di farsi prossimo al fratello, vogliamo fermarci questa sera sul fatto che la misericordia di Dio ci viene incontro - sempre e di nuovo - nel sacramento del perdono e della riconciliazione. In esso il grande dono della vita filiale ricevuta nel battesimo viene nuovamente offerto al discepolo che ha sprecato o rinnegato la grazia della vita in Cristo. Nel Battesimo lo Spirito del Risorto ha toccato sacramentalmente la nostra esistenza, configurandola a immagine dell’umanità del Figlio; nella confessione tale dono si ripresenta a noi, mostrandosi così più forte di qualsiasi peccato. La misericordia di Dio si rivela così capace di vincere il nostro rifiuto e la nostra incoerenza: la luce dell’amore misericordioso di Dio si rivela più forte di ogni buio. 1. “Io ti assolvo”: quale assoluzione? Per parlare del sacramento della misericordia vorrei partire dall’espressione in cui esso culmina e in cui si sintetizza tutta la sua ricchezza: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”. Assoluzione è un termine molto bello, che viene dal latino “ab-solvere”, ossia “sciogliere da”. L’atto di assolvere una persona implica di ritenere che essa era legata a qualche cosa di negativo, che pesava su di lei; assolverla significa liberarla da questo peso, slegarla dal laccio che la bloccava e restituirle la libertà. Un primo ambito in cui compare il termine è quello giuridico. Quando una persona è accusata di un reato, si fa un’indagine e poi un processo e il giudice è chiamato a emettere una sentenza che può essere di condanna o appunto di assoluzione. Nella sentenza di assoluzione il giudice compie un accertamento sull’esistenza o meno del reato contestato all’imputato e ne ricava la decisione che quest’ultimo non può essere condannato. Nel caso della giustizia umana, 4 dunque, l’assoluzione non è altro che la constatazione pubblica di una condizione d’innocenza rispetto a una certa accusa. Viene assolto colui che è innocente; non si tratta di un dono, ma di un doveroso atto di giustizia. Quando però l’assoluzione non è quella di un tribunale, ma quella del sacramento capiamo tutti che ciò che avviene è assai diverso. Le parole “io ti assolvo” non si limitano a constatare uno stato di cose, ma realizzano un atto di vera liberazione del cuore: colui che si è accostato al sacramento gravato dalle sue colpe, ne esce libero e trasformato. La sua coscienza che aveva realmente perso, in modo più o meno grave, l’amicizia con Dio, che è il fondamento stesso della vita e della libertà, viene rinnovata, reintrodotta nello spazio della luce divina, riaccolta nella casa del Padre. Qui non si tratta di una dichiarazione doverosa, ma piuttosto di un dono di grazia, dovuto unicamente all’infinita misericordia di Dio. Si tratta di un dono doppio o, se volete, di un dono al quadrato, perché è donare ciò che era già stato donato (l’alleanza con Dio, la vita nello Spirito) ed è stato sperperato con il peccato. Cerchiamo di precisare un po’ meglio in che cosa consista il perdono che Dio ci dona nel sacramento. Esso non è soltanto un gesto di benevolenza, formale e esteriore, nei confronti dell’uomo peccatore, una sorta di pacca sulla spalla, un incoraggiamento a ripartire. Questo sarebbe del tutto insufficiente, come se a una persona che sta annegando ci si limitasse a dire: coraggio, continua a sforzarti, perché in fondo puoi farcela. Non è neppure un atto di semplice condono, ossia una benevola concessione con cui Dio chiude un occhio sul male che abbiamo fatto e non ne fa pesare su di noi le conseguenze. Anche questo sarebbe assolutamente troppo poco, perché non comporterebbe ancora un vero cambiamento del cuore, ma solo un alleggerimento dei suoi debiti. Il perdono divino è qualche cosa di molto più profondo, che implica un vero superamento del male: il perdono è reale guarigione dal male, autentica trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne, vero 5 ri-orientamento della libertà, effettiva trasfigurazione dell’esistenza. Colui che era ingiusto viene realmente santificato, cioè toccato dalla santità di Dio, raggiunto dal dono dello Spirito Santo che diviene nuovamente in lui principio di vita. E questo senza alcun suo merito, per puro dono di misericordia. Di fronte a questo tipo di assoluzione, che non si limita a dichiarare la giustizia di un uomo, ma restituisce la giustizia e la santità a chi l’aveva persa, non può che sorgere una serie di domande: Che sorta di giudizio è mai questo? Chi può fare una cosa simile? Da dove viene un simile potere che raggiunge la persona nel centro del suo essere, alle radici della sua libertà e la rinnova dal di dentro? Cercando di rispondere, potremo renderci meglio conto del mistero di grazia che si realizza nella celebrazione di questo sacramento. 2. Da dove un simile potere? Ovviamente colui che può fare una cosa simile non è il prete, che è un povero peccatore come il penitente e ha bisogno lui stesso di confessarsi con regolarità. Il potere salvifico, la forza trasformante di una simile liberazione può venire soltanto da Dio. Ecco perché la formula di assoluzione suona così: “io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Con queste parole il prete sostanzialmente dice al penitente: Dio-Trinità agisce ora nel tuo cuore e guarisce la tua libertà nel suo essere più profondo. I tuoi peccati, le tue scelte di male erano come catene che trattenevano la tua libertà, la bloccavano: “chiunque commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34). Ora quelle catene sono spezzate e tu puoi di nuovo camminare, con slancio, fiducia e umiltà, senza restare per sempre prigioniero di ciò che hai fatto, senza restare nella gabbia del tuo passato. E il liberatore è Dio che ti offre gratuitamente questo nuovo inizio: non perché tu hai fatto qualcosa per meritartelo, ma perché Lui è il misericordioso. Solo Dio, che ha creato la libertà, può restituire la libertà a se stessa. L’uomo infatti vive di una luce che non si dà da se stesso, ma riceva da Dio; una volta che egli l’abbia rifiutata per scegliere il buio, non può nuovamente procurarsela da solo. Soltanto se quella luce torna a proporsi di fronte a lui, quando egli l’ha respinta e ha 6 scelto il buio, egli può tornare a camminare, senza affogare nelle sabbie mobili del male. Raggiungere con la luce dell’amore e della verità l’uomo perso nel proprio buio è però una cosa seria: anche per Dio. È una cosa seria perché riguarda la nostra identità, che non è quella di un burattino o di una macchina, ma di un soggetto capace di decidere di sé e di rispondere delle proprie azioni. L’uomo ha la dignità e la responsabilità di un essere libero. Per questo il perdono che Dio gli offre non può essere un colpo di bacchetta magica, che modifica dall’esterno la natura delle cose in modo semplice e indolore. La salvezza può consistere solo in un libero incontro di amore, in una persuasa accoglienza del dono divino, in un voler essere nella giustizia e nella verità. Dio può riportare la luce in colui che l’ha rifiutata soltanto entrando lui stesso nel buio umano e illuminandolo dal di dentro, con un gesto di amore che sarebbe del tutto impensabile. Per perdonarci, dunque, Dio entra nel “dramma” del gioco delle libertà. L’assoluzione è realmente data nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo perché nasce dal centro della vita trinitaria e dal fatto che il Dio Trinità si espone nel più intimo del suo essere all’esito dell’incontro con la ribellione dell’uomo, con la storia dei suoi crimini, con la sua pretesa di “soffocare la verità nell’ingiustizia” (cfr. Rm 1,16). È ciò che vediamo nella storia di Gesù, che patisce realmente nella sua carne il conflitto con il nostro male, con le nostre indifferenze, meschinità, falsità, compromessi; con i nostri tradimenti, le nostre viltà, la nostra illusione di essere puri senza di Lui. Tutto il dramma della Passione è la narrazione di come il perdono di Dio si realizza, nell’offerta all’umanità peccatrice di una misericordia che non è una grazia a buon mercato, ma un amore che paga su di sé il prezzo della nostra guarigione. 7 I primi cristiani compresero molto bene questa verità quando composero questo mirabile inno liturgico, che è riportato nella prima lettera di Pietro: Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti (1Pt 2,24) Avevano visto il corpo martoriato di Gesù crocifisso e avevano compreso che in quell’umanità trafitta del male si poteva vedere la dismisura del male, che infieriva sull’unico innocente della storia, ma ancora di più si poteva vedere l’indomabile amore con cui Dio mostrava all’uomo la sua assoluta fedeltà e la sua incondizionata dedizione. Il card. Ratzinger, proprio nell’omelia della Messa che preparava il conclave in cui sarebbe stato eletto papa, ha sintetizzato in modo molto bello il mistero della misericordia che riconcilia i peccatori affermando La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24) (J. Ratzinger, omelia del 18 aprile 2005).1 1 Sulla stessa linea, nel libro Gesù di Nazaret, egli afferma: “Dio non può semplicemente ignorare tutta la disobbedienza degli uomini, tutto il male della storia, non può trattarlo come cosa irrilevante ed insignificante. Una tale specie di ‘misericordia’, di ‘perdono incondizionato’ sarebbe quella ‘grazia a buon mercato’, contro la quale Dietrich Bonhoeffer, di fronte all’abisso del male del suo tempo, si è a ragione pronunciato. L’ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Solo questa è la vera misericordia. E che 8 Anche una mistica del nostro tempo, Chiara Lubich, ha intuito in modo mirabile quella sorta di capovolgimento delle sorti, di scambio dei ruoli che è all’origine della nostra salvezza. Essa, in uno dei suoi testi più limpidi e intensi, scrive, contemplando Gesù nel mistero del suo abbandono: Perché avessimo la Luce Ti facesti cieco. Perché avessimo l’unione provasti la separazione dal Padre. Perché possedessimo la Sapienza Ti facesti ‘ignoranza’. Perché ci rivestissimo dell’innocenza, divenisti ‘peccato’. Perché sperassimo quasi Ti disperasti… Perché Dio fosse in noi Lo provasti lontano da Te. Perché fosse nostro il Cielo sentisti l’Inferno. Per darci un lieto soggiorno sulla terra, tra cento fratelli e più, fosti estromesso dal Cielo e dalla terra, dagli uomini e dalla natura. Sei Dio, sei il mio Dio, il nostro Dio di amore infinito (Chiara Lubich, Scritti spirituali/1, Roma 2003, 41) Sì, perché noi possiamo essere assolti dal male, Gesù ha accettato di essere legato, inchiodato, trafitto da esso. La trasformazione che avviene in noi è frutto del suo mistero pasquale, della sua passione, morte e risurrezione. Scendendo nella morte si è caricato delle nostre colpe e risorgendo ha riaperto, in mezzo a noi, il cammino della libertà. Il perdono che ci raggiunge nel sacramento viene dalla sua Pasqua: è per questo amore che la nostra ingiustizia può essere toccata e guarita dalla sua santità. Comprendiamo così perché mentre il sacerdote ci dice: “Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” traccia su di noi il segno della croce. Realmente qui più che mai gesto e parola si corrispondono: il perdono che le parole del ministro ci annunciano provengono da quella croce che nel frattempo viene tracciata su di noi, quasi a imprimere sul nostro corpo il sigillo della nuova libertà filiale. ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso – questa è la bontà ‘incondizionata’ di Dio, una bontà che non può mai essere in contraddizione con la verità e la connessa giustizia” 9 Si comprende così anche il senso della bellissima preghiera entro cui le parole di assoluzione sono inserite, una preghiera trinitaria che sintetizza il mistero della redenzione come opera del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, quasi raccogliendo l’energia dell’amore pasquale che poi si esprime nell’atto dell’assoluzione: Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace. E io ti assolvo dai tuoi peccati nel + nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. 3. La Chiesa, il prete: perché? Nella bella preghiera di assoluzione che abbiamo appena letto c’è un’espressione su cui ora dobbiamo soffermarci. Si tratta dell’espressione “mediante il ministero della Chiesa”. Essa ci ricorda che il perdono di Dio viene offerta al fedele attraverso la comunità cristiana e all’interno di essa attraverso coloro che il Signore ha chiamato al ministero pastorale. Ciò si fonda anzitutto su una precisa parola di Gesù che la sera di Pasqua, mostrandosi vivo e vincitore agli apostoli, comunica loro il suo Spirito e affida loro il ministero del perdono dei peccati. Leggiamo il testo giovanneo: 19 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. 20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. 22 Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. 23 A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,19-23). 10 È molto bella la sequenza di temi e di azioni che l’evangelista ci presenta: i discepoli chiusi nel cenacolo per la paura, la libertà con cui il Risorto si presenta in mezzo a loro in modo inatteso, il saluto di pace (che indica la pienezza dei beni messianici offerti nella Pasqua), il gesto di mostrare le mani e il costato (in cui sono impressi i segni del male che Gesù ha patito e dell’amore con cui ha vinto), la trasmissione della missione ricevuta dal Padre, il dono dello Spirito con un soffio vitale che indica che dalla Pasqua esce una nuova creazione, il compito di rimettere i peccati. Cristo Risorto porta dunque in sé l’assoluzione per tutti i peccati del mondo e affida agli apostoli il compito di distribuirne la grazia agli uomini, così da introdurli nella nuova creazione di cui egli, nuovo Adamo, è il principio. Questo testo, come altri del NT che potremmo indicare, ci aiuta a correggere la prospettiva con cui di solito noi ci poniamo la domanda sul ruolo del ministro. Noi di solito ragioniamo a partire dalla nostra situazione di peccatori che solito provano vergogna a confessarsi e si chiedono perché devono andare proprio da un prete a “dire” i loro peccati. In questa visione, tanto diffusa quanto distorta, sembra che riconoscere i peccati sia una cosa abbastanza facile, che possiamo gestirci da soli, e che il ricorso al sacramento sia quasi una tassa da subire, un prezzo da pagare per strappare a Dio il suo perdono. La logica evangelica, invece, è profondamente diversa: il perdono è un’offerta che precede la nostra conversione e la rende possibile; il ministero degli apostoli e dei loro successori è il segno del buon pastore che va a cercare la pecorella smarrita e la riporta a casa, è il segno che il perdono di Dio è già lì che ci aspetta. Non siamo noi che dobbiamo attendere la grazia di una benevola attenzione da parte di Dio, ma è Dio che ci supplica, attraverso Gesù e i suoi ministri, di lasciarci riconciliare. 11 È ciò che anche Paolo esprime in un passo molto ricco della seconda lettera ai Corinzi 18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. 19Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. 20In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (2Cor 5,18-21) È interessante in questa pagina notare come Paolo colleghi strettamente tra di loro, come un’unica azione di Dio, il fatto che egli ci ha riconciliato mediante Cristo e ha affidato agli apostoli il ministero della riconciliazione. Il ministero sorge così “dentro” l’opera della misericordia e non “dopo” di essa. Per questo il riferimento alla Chiesa e al prete viene “prima” del mio movimento di pentimento e confessione e non semplicemente dopo. È grazie alla predicazione della parola di Dio, alla preghiera e agli esempi di tante persone buone, grazie alla correzione fraterna e alla pazienza di chi mi sta vicino che io posso arrivare al gesto della celebrazione sacramentale del perdono. La Chiesa è in questo senso il grembo della nostra conversione. Ciò suppone, però, ovviamente che io sia un cristiano che ha già riconosciuto nella comunità ecclesiale lo spazio dell’agire sacramentale del Risorto che, a partire dal Battesimo, mi dona la partecipazione alla sua vita attraverso la struttura del ministero. Capiamo dunque che l’incontro con un ministro della Chiesa nel sacramento è realmente una benedizione, anche se implica uno sforzo e una fatica. Si tratta però di uno sforzo e di una fatica che, come diremo tra poco, fanno già parte della guarigione del cuore e, come tali, sono essi stessi grazia e benedizione. Prima di arrivare a questo ulteriore tema, è però necessario dire ancora qualche cosa sul ruolo del ministro e sull’atto della sua assoluzione, riprendendo l’analogia 12 (e la differenza!) che fin dall’inizio abbiamo sviluppato tra il sacramento e il giudizio di un tribunale. Questa analogia ci turba sempre un po’, anche perché si presta a diversi fraintendimenti. C’è un motivo, però, per cui non possiamo rimuoverla e abbandonarla, se non a prezzo di perdere un elemento importante della nostra vita. Questo aspetto è che sostanzialmente la nostra stessa coscienza ha la forma di un tribunale nel quale, quando commettiamo una colpa, noi giochiamo allo stesso tempo il ruolo del giudice e dell’imputato. Tale situazione genera nel nostro cuore un cortocircuito che è davvero infernale e provoca una vera paralisi della libertà. Dopo una colpa, soprattutto dopo una colpa grave, noi oscilliamo in continuazione tra la tendenza (da imputati) a giustificarci, a discolparci, a negare il male che abbiamo fatto, quasi volendoci sottrarre alla voce interiore che ci accusa e la tendenza (da giudici) a condannarci e cadere nello scoraggiamento fino alla disperazione perché siamo fatti così e non ne veniamo fuori. Non possiamo fare finta di niente, perché sappiamo che il male fatto ci ha cambiati: dopo aver tradito un amico o una persona amata, non sono più lo stesso di prima. Anche se lui/lei non lo sa, io lo so e non posso andare avanti come se non fosse successo niente se non mascherandomi dietro la menzogna. D’altra parte non posso tornare indietro; la libertà non ha il comando “annulla” che troviamo sui nostri computer e che è così comodo quando abbiamo fatto qualche pasticcio. Per questo vivere nella colpa è un tormento insopportabile, è la condizione più triste che si possa immaginare. Può essere sopportata solo cercando di evaderne: facendo finta di non sentire il rimorso, stordendosi per non sentirlo o cercando una giustificazione ideologica del nostro cattivo comportamento. Ma sono tutte fughe illusorie che rinviano soltanto il problema. La coscienza rimane giudice inesorabile e ci convoca al suo tribunale. Questo cortocircuito può essere spezzato solo dal di fuori, solo dall’azione di un altro che introduce una parola e un’azione diversa dalla nostra. Solo un altro può dirci una parola di assoluzione, perché in nessun modo noi possiamo scioglierci da soli dai legacci in cui ci siamo avviluppati, non possiamo uscire da soli dal labirinto entro cui 13 la nostra coscienza rincorre se stessa. Quando dunque il Signore ha scelto di darci la Chiesa come grembo della misericordia e il sacerdote come ministro del perdono, è venuto realmente incontro a un’esigenza ineludibile della nostra condizione umana. In questo senso la confessione, redimendo la nostra libertà, contribuisce non poco anche a sanare tante ferite della nostra psiche, a partire da quelle che ci facciamo da soli quando lasciamo che, al posto di Dio, regni su di noi il nostro insano perfezionismo. 4. Il buio del peccato Con la luce che viene dalla misericordia di Dio e dal sacramento che ce la offre, possiamo ora provare a dire qualcosa sul buio del peccato, da cui dobbiamo essere liberati. Il peccato è rifiuto di Dio, rifiuto di vivere di Lui e per Lui, rifiuto del centro dell’esistenza. Tale rifiuto si gioca nelle cose di ogni giorno, nelle piccole scelte di una vita che spesso conduciamo vivendo come se Dio non ci amasse, in una nebbia interiore fatta d’indifferenza e superficialità. Esso si esprime per lo più nei gesti che facciamo nei confronti dei nostri fratelli: le parole poco benevole che usiamo, le chiacchiere, i giudizi, le volgarità, i gesti di chiusura e egoismo, le impazienze e la strumentalizzazione degli altri, di cui ci serviamo per i nostri interessi, anziché donarci per il loro bene e così via. Tutto questo è reale, terribilmente reale: anche nel cuore di tutti noi. Ma è assai difficile da smascherare, perché una nebbia di abitudine e superficialità avvolge non di rado la nostra coscienza. Per sapere che cosa è il peccato, non bisogna chiederlo al peccatore ma al santo. Il santo che vive nella luce si rende conto di che cosa sia offendere Dio, chiudergli il cuore, sottrarsi alla sua amicizia. Il peccatore, invece, tende a banalizzare il male e a minimizzarlo. Questo avviene perché il peccato trasforma la coscienza, porta il buio dentro di essa. Per questo nella Scrittura il peccato è costantemente descritto come tenebra. Citiamo un solo testo tra i tanti: “Chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (1Gv 2,11). 14 Il peccatore “non sa dove va”, perché si è perso. Tutti sappiamo che cosa significa perdere qualche cosa: il cellulare, le chiavi di casa, un oggetto caro. Possiamo anche perdere un amico, perdere del tempo, perdere la serenità. Ma più profondamente possiamo addirittura perdere … noi stessi. Perdersi è non sapere più dove si è, non sapere come si è arrivati lì, non sapere come andarsene, per tornare come prima, liberi di raggiungere la meta. Perdersi è trovarsi senza via di uscita, prigionieri della propria situazione, è camminare a vuoto, senza giungere mai a destinazione. Così capita all’uomo che vive nel peccato: non sa più orientare la sua vita. La noia, la svogliatezza, il bisogno di fuggire la realtà diventano i compagni del suo cuore. Ma niente lo soddisfa. Ha lasciato la strada che gli sembrava troppo faticosa e che sapeva poco di avventura, cercando di arrivare prima, per qualche scorciatoia. Ma ha trovato solo disinganno: le cattive abitudini l’hanno reso schiavo e non intendono in alcun modo mollare la loro preda. Il cuore è costretto a portare un peso per cui non è fatto: il peso della vergogna, del disgusto di se stesso. E chi si è perso nel peccato non sa quale rimedio usare. Come un uomo smarrito in un bosco, non può trovare soluzione. Questo mostra che il peccato non è solo uno sbaglio. Da uno sbaglio possiamo uscire da soli, imparando a correggere l’errore che abbiamo compiuto. Uno sbaglio non cambia me, mi fa solo fallire in un aspetto, piccolo o grande, della mia vita. Il peccato invece mi deforma e dal peccato posso uscire solo perché un altro mi tira fuori. Tale gesto di redenzione è proprio ciò che ha fatto Gesù: è venuto a prendere l’umanità che era come una pecorella perduta e l’ha riportata nell’ovile della santità di Dio, portando sulle sue spalle il peso di tale cammino. 15 Se questo è il peccato, capiamo perché la fatica del chiamare per nome il peccato fa già parte della guarigione. Per uscire dal buio è infatti necessario “vedere” i propri falsi, vederli in una luce diversa. Uno che ha sbagliato strada e si è perso, ha bisogno di ritornare nel punto in cui ha lasciato il sentiero, guardare bene il passo falso, nominarlo, così da poterlo evitare. La “confessione” delle colpe, che rimane certamente la dimensione più complessa e faticosa di questo sacramento, è necessaria per guarire la coscienza riportandola nell’orizzonte della luce e della verità. E tale confessione va fatta nell’orizzonte del Vangelo: “lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105). È la luce della parola di Dio che ci conduce a riconoscere il peccato, a smascherare la sua inclinazione a nascondersi. È ancora il vangelo di Giovanni ad aiutarci, affermando: “Chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,27s). L’atto di “confessare” la colpe, accusando se stessi, è dunque un atto con cui si fa luce, guidati dallo Spirito di Dio. Tale atto appartiene al sacramento perché appartiene al processo del perdono, cioè di quella trasformazione interiore che la Pasqua di Gesù realizza in noi. Se invece non ci riconosciamo peccatori, lasciamo spazio all’ombra sul nostro cuore. 8Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. 9Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. 10Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi (1Gv 1,8-10) 16 5. Alcuni consigli pratici Concludiamo la nostra catechesi, con alcuni semplici consigli pratici, che provengono dall’esperienza spirituale e pastorale della Chiesa. • • • È importante amnzitutto non lasciarsi bloccare dalla paura e dalla vergogna, ma attraversarla con umiltà, con grande fiducia nella misericordia di Dio e nella comprensione del ministro del sacramento. Don Bosco aiutava i ragazzi a riconoscere con lucidità un inganno del maligno che forse qualche volta può riguardare anche noi: quando è ora di presentare la tentazione, il seduttore la presenta come un male piccolo, una cosuccia che fanno tutti… quasi a dire che sei scemo se non lo fai anche tu; quando però è ora di andare a confessarsi, invece, lo spirito del male cerca di paralizzarti con la vergogna, dicendoti che quella cosa che hai fatto è enorme e chiedendoti come puoi avere il coraggio di andarla a confessare. Se ci lasciamo lasciati ingannare la prima volta (quando abbiamo peccato), cerchiamo almeno di non farlo la seconda (quando dobbiamo confessarci). È importante confessarsi con una certa regolarità e frequenza e soprattutto non lasciare che situazioni di male e di peccato si incancreniscano dentro di noi. Quando abbiamo commesso qualche colpa più grave, cerchiamo di confessarci prima possibile, per ripartire con chiarezza e determinazione. Quando ci confessiamo cerchiamo di presentare i peccati con semplicità e oggettività, senza troppi giri di parole e senza cedere alla tendenza a giustificarci. C’è già il Signore che ci giustifica. Ricordiamoci che ci mettiamo ai piedi di Colui che ha dato la vita per noi: di fronte a un amore simile, non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di attenuanti. La confessione, soprattutto quando si è giovani e si ha più bisogno di essere accompagnati nella lettura di certe situazioni, può avere bisogno di un po’ di tempo; è bene però che non si dilunghi troppo, diventando quasi un colloquio di analisi psi17 • cologica o uno scambio di riflessioni spirituali. La confessione è un sacramento, ma non un colpo di bacchetta magica. Essa va dunque inserita in un vero processo di conversione, di cui rappresenta lo snodo fondamentale. Di questo processo fanno parte varie cose: ad es. l’esame di coscienza quotidiano, il confronto autentico con la Parola di Dio nella preghiera, la correzione fraterna e l’attenzione ai consigli che riceviamo da amici, guide, educatori, le piccole forme di ascesi della vita quotidiana. Nel sacramento ci viene indicata anche una piccola penitenza, che ha il senso di farmi comprendere che alla guarigione dal peccato devo collaborare anche io, con una seria “riabilitazione” del mio cuore al movimento della fede e della carità. Le raccomandazioni potrebbero essere molte alte, ma ultimamente una è la più importante di tutte: ricordati che la misericordia di Dio è infinitamente più grande di quanto tu possa immaginare e che non c’è un solo peccato che Dio non possa rimettere a colui che si pente. Possiamo dunque rassicurare il nostro cuore, “qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,22). “Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). 18 Tu sei re Adorazione Eucaristica Tu sei re, Tu sei re, sei re Gesù (2v.) A te eleviamo i nostri cuori, a te eleviam le nostre mani, rivolti verso il tuo trono, lodando Te. (2v.) De noche iremos De noche iremos, de noche, que para encontrar la fuente. Solo la sed nos alumbra, solo la sed nos alumbra. Di notte andremo, di notte, per trovare la fonte, solo la sete ci guida, solo la sete ci guida. Dal Vangelo Secondo Luca 10,25-37 «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta”. Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giu- Silenzio sti che non hanno bisogno di ravvedimento. 19 Muéveme Dios Muéveme mi Dios hacia Ti Que no me muevan los hilos de este mundo No, muéveme Atráeme hacia ti desde lo profundo Preghiamo Padre Nostro O Padre, che nella morte e risurrezione del tuo Figlio hai redento tutti gli uomini, custodisci in noi l’opera della tua misericordia, perché nell’assidua celebrazione del mistero pasquale riceviamo i frutti della nostra salvezza. Per Cristo nostro Signore. Litanie Benedizione Eucaristica Dio sia benedetto Benedetto il Suo santo Nome. Benedetto Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Benedetto il Nome di Gesù. Benedetto il Suo sacratissimo Cuore. Benedetto il Suo preziosissimo Sangue. Benedetto Gesù nel SS. Sacramento dell’altare. Benedetto lo Spirito Santo Paraclito. Benedetta la gran Madre di Dio, Maria Santissima. Benedetta la Sua santa e Immacolata Concezione. Benedetta la Sua gloriosa Assunzione. Benedetto il Nome di Maria, Vergine e Madre. Benedetto S. Giuseppe, suo castissimo Sposo. Benedetto Dio nei suoi Angeli e nei suoi Santi. 20 Giovane Donna Affidamento a Maria Giovane donna, attesa dell’umanità, un desiderio d’amore e pura libertà. Il Dio lontano è qui vicino a Te, voce e silenzio annuncio di novità. Ave Maria, Ave Maria. Dio t’ha prescelta qual madre piena di bellezza, ed il suo amore ti avvolgerà con la sua ombra. Grembo per Dio venuto sulla Terra, Tu sarai madre di un uomo nuovo. 21 FILM Condannato a morte - Dead Man Walking (USA, 1995 - 122 min.] Suor Helen vive la propria vocazione in una comunità di colore, aiutando le famiglie nel bisogno, e occupandosi dei bambini in maggior difficoltà, in una “hope house”, casa di speranza, come tante da noi. A lei è chiesto, senza nessun motivo particolare, di occuparsi di assistere Matthew Poncelet, condannato a morte per stupro e omicidio. Perché proprio lei? Non c’è nessun motivo. Non s’interessa di carcerati, né si tratta di una sua vocazione particolare o del carisma dell’abito. Le è stato chiesto, ecco tutto. Questa semplice risposta ad una circostanza che le è capitata muove tutto il film, che ha giustamente meritato molti premi e la considerazione del grande pubblico, spesso però riducendone il contenuto ad un discorso attorno al problema della pena di morte. La vera protagonista, invece, è la carità.Il film ha le caratteristiche delle storie vere, e la prima fra tutte è la mancanza di qualsiasi accenno di sentimentalismo. Lui non è un ragazzo traviato da cattive compagnie, ma in fondo in fondo buono d’animo, come ci si aspetterebbe da un film americano; anzi, è proprio un delinquente, e non merita una grossa compassione né per quel che ha fatto né per come si comporta durante tutto il suo periodo in carcere. Si appiglia a tutto, nega la colpevolezza, mente, non sembra capace di essere serio sul proprio destino neppure adesso che conosce il giorno e l’ora. Strafottente, razzista, filo-nazista, violento e profondamente stupido. E lei non avrebbe davvero alcun motivo per interessarsi a lui, se non fosse per l’amore al suo destino; è per questo che si muove, fregandosene di tutto il contesto che le sta attorno. Dalla derisione di qualcuno, alla incomprensibilità dei più per quel che fa; dai consigli di lasciar perdere perché non serve, alle lezioni di morale impartite dal cappellano del carcere (il professionista che insegna alla pivella: 22 una donna, poi! Se proprio vuole fare, faccia, ma non si dica che non l’avevo avvertita). In ultimo, anche il dolore della disapprovazione dei parenti della vittima, che considerano la sua posizione quasi come complice, ed offensiva della memoria del dramma che crederanno sopito solo con la giustiziazione del condannato. Ma in ballo c’è comunque il destino di un uomo, la possibilità che da lui esca almeno un momento di vita veramente umana, affermata di fronte all’Eterno che sta per incontrare. La grazia di questo miracolo arriverà, in forza dell’amore ricevuto, per la prima volta nella vita, e di fronte agli sguardi impietosi ed incapaci di misericordia dei parenti delle vittime, non diversi comunque da tutti gli uomini, che misurano la giustizia sulla bilancia, incapaci dell’amore misericordioso all’uomo che solo la posizione cattolica sa esprimere. La vicenda si dipana dentro una società americana impegnata dall’occasione ad esprimersi attorno alla pena di morte, elemento che ha riportato il filma la grande pubblico in seguito alle vicende ultime dei condannati a morte. Solo che nell’economia del film costituisce più che altro la circostanza particolare dentro cui si svolge la vicenda umana che regge tutta la storia. Anzi, la condanna a morte è. Paradossalmente, dentro l’ingiustizia ultima che rappresenta, l’occasione di incontro con la misericordia di Dio che Matthew ha avuto in dono, ed in forza della quale potrà compiere almeno un gesto umano di fronte al senso della sua vita. C’è un secondo risvolto di tutta la vicenda, un secondo miracolo: in mezzo a tutti gli spettatori da circa che assistono indifferenti alla tragedia che si sta consumando davanti ai loro occhi, ce n’è uno che è colpito dalla gratuità della posizione di suor Helen: il padre di una delle due vittime, distrutto dal dolore dell’accaduto, che ha trascinato in crisi anche l’unità famigliare. Solo, senza l’unico figlio ed abbandonato dalla moglie, anch’egli non capisce e non sa perdonare, ma è colpito e commosso dalla fede di lei. Per lui rincontro suscita una provocazione che si traduce in una domanda vera: “io non ho la fede che ha lei”, le dice, e lei risponde che “la fede è un lavoro”. A questa risposta non può sottrarsi chi abbia un desiderio reale di cambiamento per la propria vita, perché a questa risposta non esistono obiezioni. Nella libertà dell’adesione all’incontro inizia un’altra storia, che è l’epilogo positivo della drammaticità della vita. 23 Calvario - Calvary (Gran Bretagna/Irlanda, 2014 - 104 min.] Il padre James della pellicola di John McDonagh (alle spalle la sceneggiatura di Ned Kelly e la regia di Un poliziotto da happy hour, sempre con Brendan Gleeson come protagonista) ha la stoffa di certi sacerdoti di Graham Greene o dei cristiani di Evelyn Waugh: poco ortodossi, con una fede continuamente messa alla prova dalle circostanze e dal carattere, drammaticamente sfidati da un mondo che del Cristianesimo e della Chiesa sembra non sapere più che fare. Non a caso nella pellicola i riferimenti ai casi di pedofilia nella Chiesa irlandese e alla frattura che hanno provocato nella società sono numerosi ed espliciti. Chi non dimentica, qui, è un uomo che è stato un bambino ferito da chi più aveva responsabilità nei suoi confronti e che per questo ha escogitato una vendetta a sua volta “ingiusta” quanto spettacolare: solo la morte di un prete buono e innocente potrà in qualche modo “pareggiare i conti” rispetto a un peccato imperdonabile e risarcire una sofferenza ingiusta che si trasforma in rabbia cieca. Non è una confessione quella con cui si apre il film, quanto una dichiarazione di guerra: eppure padre James (uno che di suo sa menare le mani e che ha avuto in passato problemi di alcolismo) decide di trattarla come tale, intuendo il tremendo dolore che sta dietro questo piano folle; proprio per questo rifiuta la via d’uscita facile e sin troppo ragionevole offertagli dal suo superiore (denunciare e lasciare tutto in mano alla polizia) e affronta la sfida non tanto per orgoglio quanto nella speranza di giungere a una conversione. Se la Chiesa istituzionale, nei panni di un vescovo con più cavilli che misericordia e di un coadiutore parrocchiale molto ragioniere, non fa di sicuro una bella figura, la figura di un sacerdote raramente negli ultimi anni ha avuto un trattamento così onesto e profondo. 24 Padre James dimostra per la sua vocazione e per la Chiesa in cui essa è nata lo stesso amore burbero e tenace che ha nei confronti dei suoi parrocchiani, un’accozzaglia realistica (ma allo stesso tempo metaforica) dei peccati più comuni della contemporaneità (lussuria, avidità, violenza e ateismo militante e aggressivo); uomini e donne che sembrano scagliarsi contro quella roccia di prete nella speranza di abbatterlo, come un padre di cui non si riconosce più l’autorità ma a cui non si può fare a meno di guardare. Paradosso dei paradossi, padre James è davvero un padre: la sua è una vocazione adulta e tra i molti che nella settimana che segue la fatale confessione metteranno in crisi la sua posizione c’è anche una figlia di sangue, che non ha mai accettato la sua scelta, che interpreta come un abbandono; per reazione la giovane donna sfoga la sua domanda di senso in amori sbagliati che l’hanno portata fino al tentativo di suicidio. Sullo sfondo di un paesaggio bello e drammatico, si dipana il calvario vero e profondo di un sacerdote che cammina verso un sacrificio volontario e apparentemente inutile sempre più solo, ferito a sua volta fino a mettere in dubbio anche il proprio essere prete, vivendo la tentazione della fuga e ritrovando il coraggio solo attraverso l’incontro con una donna la cui fede viene messa a dura prova, ma resta salda. La sceneggiatura di McDonagh è un misto di terragno realismo (volutamente provocatorio) e di spiritualità drammaticamente vissuta, intessuto di rimandi nascosti alle sacre scritture (in primis il racconto della passione di Gesù, che scandisce i giorni verso l’appuntamento fatale con un ritmo quasi teatrale), che non teme di mettere in scena le domande più fondamentali per un cristiano e per l’uomo in generale: il senso del male e del peccato, la sofferenza degli innocenti, la possibilità della redenzione e del perdono. E alla fine, attraverso un drammatico show down che ha quasi del western, la storia si apre ad una sorprendente speranza, dove a una dottrina del peccato che pare senza via di salvezza si sostituisce una misericordia che trascende l’umano e nasce dal sacrificio di sé. 25 LIBRI Delitto e Castigo (di F. Dostoevskij) «Su, dimmi, che devo fare ora?» domandò Raskòlnikov, rialzando di scatto la testa e guardandola, col volto contratto dalla disperazione. «Cosa devi fare?» esclamò lei balzando in piedi; e gli occhi, fin’allora pieni di lacrime, a un tratto le lampeggiarono. «Alzati!» Lo afferrò per la spalla; egli si raddrizzò, fissandola quasi con meraviglia. «Va’ subito fuori, in questo stesso istante, fermati al crocicchio, prosternati, bacia prima la terra che hai insozzato, e poi prosternati davanti a tutto il mondo, in tutte e quattro le direzioni, e di’ a tutti, a voce alta: ‹Ho ucciso!› Allora Dio ti restituirà la vita. Ci andrai? Ci andrai?» gli chiedeva, tutta tremante, come in preda a una crisi isterica, afferrandogli le mani, stringendogliele forte tra le sue e fissandolo con uno sguardo di fuoco. Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl’nikov, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei soldi, chiarire a sé stesso se è un “Napoleone” o un “pidocchio”, se appartiene alla categoria della massa, degli “uomini comuni”, per i quali la legge morale è sacra, o agli “uomini non comuni”, destinati a grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie. Per questo può dire: “Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!”. Questo principio è l’affermazione di una superiorità delle leggi morali, di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire “uomo-dio” (se si scarta Dio è l’uomo ad essere assolutizzato). Ma Raskòl’nikov fallisce: compiuto il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito 26 eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa è vissuto? Che scopo ha raggiunto? Ma Raskòl’nikov viene cambiato dall’incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità. Col tempo le cose cambieranno: “una futura redenzione”, “una nuova concezione della vita” si affacceranno nell’animo di Raskòl’nikov. Ma Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento: è un’altra storia, che non racconta. Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio ! Per concludere, in “Delitto e castigo” è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime – misericordia. Il peccato rende impossibile la vita a Raskòl’nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell’umanità; la sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra citata; la misericordia è l’amore gratuito di Sonia verso di lui che lo stupisce e lo spinge a cambiare. Jacques Fesch L’avventura della fede di un condannato a morte (di R. Francavilla) Il libro di R. Francavilla, non è solo la ricostruzione di una vita, ma anche, e soprattutto, la storia di una conversione.Jacques Fesch, nato nei pressi di Parigi nel 1930, è un giovane, ateo e sbandato, ossessionato da un sogno: acquistare una barca per viaggiare fra le isole del Pacifico. Vuole scappare da tutto e da tutti: dalla giovane moglie, dalla piccola figlia, dal lavoro. Per ottenere i soldi necessari, minaccia un cambiavalute, amico del padre. Nella colluttazione si ferisce un dito e perde gli occhiali. Un poliziotto s’intromet27 te: il giovane scappa, si sente braccato, spara in preda al panico, con la mano ferita, attraverso la tasca dell’impermeabile, miope e senza occhiali, e sfortunatamente lo uccide. Catturato e messo in carcere, vi rimarrà poco più di tre anni. Qui inizia la sua conversione. Dopo circa un anno, Jacques racconta di essere stato visitato dallo Spirito di Dio, che gli fa il dono della fede. Nei mesi seguenti, Gesù gli parla due volte e gli confida: «Ricevi le grazie della tua morte». Intanto la giustizia fa il suo corso e il giovane, condannato a morte, viene ghigliottinato il 1° ottobre 1957. Non si ribellerà mai, perdonerà tutti, convertirà anche qualche detenuto. Molte e molto diverse furono le reazioni dell’opinione pubblica a questo «delitto di Stato». Oggi prevalse l’idea che la giustizia francese abbia usato il caso Fesch per dare un esempio: l’impermeabile fu fatto sparire, i testimoni a favore di Jacques furono fatti tacere, tutte le donne della giuria furono escluse dal voto, alcuni poliziotti in borghese parteciparono al processo con spirito da claque, gli avvocati dell’accusa gridavano in aula all’assassino? L’uso della ghigliottina in Francia si è protratto fino al 1981, anno in cui è stata abolita la pena di morte. Si tratta di un’interessante biografia, basata su una testimonianza di fede viva e forte. È interessante anche per i giovani, che possono accostare una figura di giovane ateo e scapestrato che proprio in carcere cambia completamente rotta e diventa capace di salvare altri atei, sbandati. È l’occasione per entrare nell’intimità di un condannato a morte che, invece di perdersi nella disperazione, offre la sua sofferenza per la conversione e il bene di molti. Per Jacques Fesch il card. Lustiger ha avviato la causa di beatificazione. Il sacramento del perdono Gioia e festa di Dio e dell’uomo (di A. Gasparino) Questo libro presenta, nello stile semplice e avvincente dell’autore, il sacramento della confessione.Oggi la Chiesa vuole che si chiami “sacramento del perdono”. Il termine confessione non era affatto indovinato perché esprimeva una caratteristica marginale del sacramento; infatti, il confessare i peccati non è l’elemento principale. L’elemento di fondo è un altro, è pentirsi, è riconciliarsi con Dio e coi fratelli. Confessare i propri peccati è sempre stato una cosa pesante per 28 tutti. Soprattutto il confessarli con sincerità assoluta. Confessare i peccati non è l’elemento più gravoso al nostro orgoglio, e tuttavia non è ancora la cosa più impegnativa per la nostra vita. Se bastasse confessare un delitto per cancellarlo sarebbe anche semplice!Una colpa non basta confessarla. Non basta neppure confessarla con sincerità e crudezza, è troppo poco! Dalla colpa bisogna uscire: è questo il problema.La chiesa ha ritenuto necessario continuare a mantenere l’obbligo di confessare le colpe gravi con sincerità, ma chi si fermasse lì non sarebbe ancora al sacramento. L’anima del sacramento è pentirsi, è rinnovarsi, è iniziare una nuova vita. La scuola della Parola: riflessioni sul salmo Miserere (del card. C. M. Martini) Il riconoscimento del proprio peccato segna l’inizio della conversione interiore. L’interiorità, luogo decisivo per l’uomo nel cammino verso la verità, è la capacità di rientrare in se stessi, di comprendere il senso delle azioni compiute e che si compiono, perché soltanto nell’intimo si possono valutare e giudicare. E l’esperienza attesta che c’è un nesso inscindibile tra la conversione del cuore e la riconciliazione sociale e politica. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni senza conversione del cuore; come pure non c’è conversione del cuore senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica. Il tema è particolarmente importante e per comprenderlo è molto utile riflettere sul Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica, che inizia con l’invocazione: “Miserere”, abbi pietà. Il Salmo è di una ricchezza inesauribile e attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, contemplato da Gregario Magna; è divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate, celebri prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di 29 Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi. Il “Miserere” è il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach, Mozart, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato in musica, illustri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni. È soprattutto il Salmo che ha accompagnato le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita; e appartiene alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità. CANZONI Forgivness Elisa - Ivy (2010) Il testo della canzone di Elisa, tratta in modo chiaro e diretto il tema del perdono (in particolare quello in ambito affettivo). E lo fa a partire dai sentimenti provati a causa del peccato, delle nostre cadute, delle nostre fragilità. Il peccato, il male, la rabbia “se ne sta là...laggiù... dentro di me”. “So che mi appartiene”: il peccato, pur andando contro la nostra natura di figli di Dio, entra nella nostra vita attraverso le nostre scelte e ci rimane, ci appartiene fino a quando non cerchiamo il perdono! “Abbiamo solo bisogno di perdono”. Dio, nella sua immensa misericordia, ce lo dona! Siamo già perdonati. “Perdono ... tutto quello di cui abbiamo bisogno ... che sono pronta ad aspettare”. 30 Forgiveness I’m lost and scared to live this life I thought I’d always be strong This rage this dark side I don’t want to see lays there… lays there… lays there… There on the bottom inside looking lost like a child but I know that you’re mine we only need… Forgiveness our key to the world Forgiveness I’m frightened to deserve Forgiveness all that we need it’s Forgiveness I am not sure I know… It was the love untaught trapped in your mind so empty with me… A silent stone that struck my heart while I looked for a sign a sign… You felt the pain you felt the fear but you chose not to see made it your destiny, is it time for… Forgiveness… for we have paid Forgiveness is our key to the world Forgiveness for the love untaught It’s Forgiveness I’ll be… waiting for… Forgiveness… for we have paid Forgiveness is our key to the world Forgiveness for the love untaught It’s Forgiveness I’ll be… waiting for… 31 Il perdono Mi sono persa. E ho paura di guardare in faccia questa vita. Eppure ho sempre creduto che sarei stata forte. Questa rabbia, questa zona d’ombra che non voglio vedere, se ne sta là… Se ne sta là… Laggiù; dentro di me, ferma sul fondo, smarrita come un bambino. Eppure so che mi appartiene. Abbiamo solo bisogno di Perdono… La sola nostra chiave di accesso al mondo. Perdono… Quello che temo di meritarmi. Perdono… tutto quello di cui abbiamo bisogno. Perdono… che non sono certa di conoscere. E’ stato l’amore non insegnato. Intrappolato nella tua mente che non ne voleva sapere di me. Una pietra silenziosa che mi ha spezzato il cuore mentre cercavo disperatamente un segno. Un tuo segno. Hai provato dolore e hai provato paura. Ma hai deciso di non guardarla negli occhi. Ci hai costruito il tuo destino. Non è forse questo il tempo per il Perdono? Perché abbiamo pagato. Perdono…La sola nostra chiave di accesso al mondo. Perdono…Per l’amore che non ci hanno insegnato. Perdono…Che sono pronta ad aspettare. Perdono…Perché abbiamo pagato. Perdono…La sola nostra chiave di accesso al mondo. Perdono…Per l’amore che non ci hanno insegnato. Perdono…Che sono pronta ad aspettare. Miserere – Zucchero & Pavarotti (Miserere 1992) Il testo esprime la volontà di apprezzare il dono della vita anche nelle situazioni umanamente più misere. Si parla, quindi, di peccatori persi nel vivere che brindano alla vita e non perdono, dinnanzi al sole che comunque splende, la speranza di ritrovare quella gioia interna e quella serenità smarrita nel loro percorso terreno. Magari, ritrovando tutto ciò, sul punto di morte: “Miserere”, infatti, è anche una preghiera di veglia per i defunti in cui si chiede la pietà di Dio, nel cancellare le proprie colpe, secondo la sua grande misericordia. Miserere, miserere Miserere, misero me Però brindo alla vita! Ma che mistero, è la mia vita Che mistero Sono un peccatore dell’anno ottantamila Un menzognero! Ma dove sono e cosa faccio Come vivo? Vivo nell’anima del mondo Perso nel vivere profondo! Miserere, misero me Però brindo alla vita! Io sono il santo che ti ha tradito Quando eri solo E vivo altrove e osservo il mondo Dal cielo E vedo il mare e le foreste Vedo me che…. Vivo nell’anima del mondo Perso nel vivere profondo! Miserere, misero me Però brindo alla vita! Se c’è una notte buia abbastanza Da nascondermi, nascondermi Se c’è una luce, una speranza Sole magnifico che splendi dentro di me Dammi la gioia di vivere che ancora non c’è Miserere, miserere Quella gioia di vivere (che forse) Ancora non c’è. 33 34 35 Scarica il video e i contenuti dell’incontro sul sito www.pastorale.salesianipiemonte.it Iscriviti al Gruppo FB Prossimo appuntamento 4 Febbraio 2016 36 Buon Avvento!