Scarica il libretto - Pastorale Giovanile | Salesiani Piemonte

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Il sacramento
della Misericordia
1
L’amore più grande
(Oh oh oh….)
C’è dentro questo vento tiepido e leggero che
porta i miei respiri più lontano, via da me,
c’è la Tua voce che mi dice piano: “se…
…se verrai con me…
…c’è il mio cuore aperto che il tuo cuore aspetta e che
porta le tue mani dalla terra al cielo e in Paradiso;
c’è il mio Amore qui per te:
è passione sconfinata, è la vita mia”.
RIT. È L’Amore più grande
Lui prende per me quel legno pesante, da solo poi muore,
è l’Amore più grande: risorge con me,
Lui muore e risorge con me.
(Oh oh oh….)
C’è sopra il mio sentiero quella nuova luce che
non si spegne al soffio della notte scura e
mi guida piano: c’è il tuo Amore qui con me,
è passione infinita, nella vita mia. RIT.
Sulle tue mani due ferite
per liberare il nostro cuore dalla morte in fondo al male
e nei piedi chiodi che
hanno spezzato le catene per andare a camminare
sopra i sassi o sulle viole,
sulle strade insieme a Te,
sulle strade insieme a Te. RIT.
(Oh oh oh….)
È l’Amore più grande:
Lui muore per me,
Lui muore e risorge con me.
(Oh oh oh….)
Misericordias domini
Misericordias domini
in aeternum cantabo
3
Il sacramento della misericordia
Catechesi don Andrea Bozzolo
Dopo aver meditato nei due incontri precedenti sul volto della
misericordia di Dio, che si rivela nella storia di Gesù, e sul movimento della misericordia, che si traduce nel gesto di farsi prossimo al
fratello, vogliamo fermarci questa sera sul fatto che la misericordia
di Dio ci viene incontro - sempre e di nuovo - nel sacramento del
perdono e della riconciliazione. In esso il grande dono della vita filiale
ricevuta nel battesimo viene nuovamente offerto al discepolo che ha
sprecato o rinnegato la grazia della vita in Cristo. Nel Battesimo lo
Spirito del Risorto ha toccato sacramentalmente la nostra esistenza,
configurandola a immagine dell’umanità del Figlio; nella confessione
tale dono si ripresenta a noi, mostrandosi così più forte di qualsiasi
peccato. La misericordia di Dio si rivela così capace di vincere il nostro rifiuto e la nostra incoerenza: la luce dell’amore misericordioso di
Dio si rivela più forte di ogni buio.
1. “Io ti assolvo”: quale assoluzione?
Per parlare del sacramento della misericordia vorrei partire
dall’espressione in cui esso culmina e in cui si sintetizza tutta la sua
ricchezza: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”.
Assoluzione è un termine molto bello, che viene dal latino
“ab-solvere”, ossia “sciogliere da”. L’atto di assolvere una persona
implica di ritenere che essa era legata a qualche cosa di negativo,
che pesava su di lei; assolverla significa liberarla da questo peso,
slegarla dal laccio che la bloccava e restituirle la libertà.
Un primo ambito in cui compare il termine è quello giuridico.
Quando una persona è accusata di un reato, si fa un’indagine e poi
un processo e il giudice è chiamato a emettere una sentenza che
può essere di condanna o appunto di assoluzione. Nella sentenza di
assoluzione il giudice compie un accertamento sull’esistenza o meno
del reato contestato all’imputato e ne ricava la decisione che quest’ultimo non può essere condannato. Nel caso della giustizia umana,
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dunque, l’assoluzione non è altro che la constatazione pubblica di
una condizione d’innocenza rispetto a una certa accusa. Viene assolto colui che è innocente; non si tratta di un dono, ma di un doveroso
atto di giustizia.
Quando però l’assoluzione non è quella di un tribunale, ma quella del sacramento capiamo tutti che ciò che avviene è assai diverso.
Le parole “io ti assolvo” non si limitano a constatare uno stato di cose,
ma realizzano un atto di vera liberazione del cuore: colui che si è
accostato al sacramento gravato dalle sue colpe, ne esce libero e
trasformato. La sua coscienza che aveva realmente perso, in modo
più o meno grave, l’amicizia con Dio, che è il fondamento stesso della vita e della libertà, viene rinnovata, reintrodotta nello spazio della
luce divina, riaccolta nella casa del Padre. Qui non si tratta di una
dichiarazione doverosa, ma piuttosto di un dono di grazia, dovuto
unicamente all’infinita misericordia di Dio. Si tratta di un dono doppio
o, se volete, di un dono al quadrato, perché è donare ciò che era già
stato donato (l’alleanza con Dio, la vita nello Spirito) ed è stato sperperato con il peccato.
Cerchiamo di precisare un po’ meglio
in che cosa consista il perdono che Dio
ci dona nel sacramento. Esso non è soltanto un gesto di benevolenza, formale e
esteriore, nei confronti dell’uomo peccatore, una sorta di pacca sulla spalla, un incoraggiamento a ripartire. Questo sarebbe del tutto insufficiente, come se a una
persona che sta annegando ci si limitasse a dire: coraggio, continua a sforzarti,
perché in fondo puoi farcela. Non è neppure un atto di semplice condono, ossia una benevola concessione
con cui Dio chiude un occhio sul male che abbiamo fatto e non ne
fa pesare su di noi le conseguenze. Anche questo sarebbe assolutamente troppo poco, perché non comporterebbe ancora un vero
cambiamento del cuore, ma solo un alleggerimento dei suoi debiti. Il
perdono divino è qualche cosa di molto più profondo, che implica un
vero superamento del male: il perdono è reale guarigione dal male,
autentica trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne, vero
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ri-orientamento della libertà, effettiva trasfigurazione dell’esistenza.
Colui che era ingiusto viene realmente santificato, cioè toccato dalla
santità di Dio, raggiunto dal dono dello Spirito Santo che diviene nuovamente in lui principio di vita. E questo senza alcun suo merito, per
puro dono di misericordia.
Di fronte a questo tipo di assoluzione, che non si limita a dichiarare la giustizia di un uomo, ma restituisce la giustizia e la santità a
chi l’aveva persa, non può che sorgere una serie di domande: Che
sorta di giudizio è mai questo? Chi può fare una cosa simile? Da
dove viene un simile potere che raggiunge la persona nel centro del
suo essere, alle radici della sua libertà e la rinnova dal di dentro?
Cercando di rispondere, potremo renderci meglio conto del mistero di
grazia che si realizza nella celebrazione di questo sacramento.
2. Da dove un simile potere?
Ovviamente colui che può fare una cosa simile non è il prete,
che è un povero peccatore come il penitente e ha bisogno lui stesso
di confessarsi con regolarità. Il potere salvifico, la forza trasformante
di una simile liberazione può venire soltanto da Dio. Ecco perché la
formula di assoluzione suona così: “io ti assolvo dai tuoi peccati nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Con queste parole il prete sostanzialmente dice al penitente: Dio-Trinità agisce ora
nel tuo cuore e guarisce la tua libertà nel suo essere più profondo.
I tuoi peccati, le tue scelte di male erano come catene che trattenevano la tua libertà, la bloccavano: “chiunque commette il peccato è
schiavo del peccato” (Gv 8,34). Ora quelle catene sono spezzate e tu
puoi di nuovo camminare, con slancio, fiducia e umiltà, senza restare
per sempre prigioniero di ciò che hai fatto, senza restare nella gabbia
del tuo passato. E il liberatore è Dio che ti offre gratuitamente questo
nuovo inizio: non perché tu hai fatto qualcosa per meritartelo, ma
perché Lui è il misericordioso.
Solo Dio, che ha creato la libertà, può restituire la libertà a
se stessa. L’uomo infatti vive di una luce che non si dà da se stesso,
ma riceva da Dio; una volta che egli l’abbia rifiutata per scegliere il
buio, non può nuovamente procurarsela da solo. Soltanto se quella
luce torna a proporsi di fronte a lui, quando egli l’ha respinta e ha
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scelto il buio, egli può tornare a camminare, senza affogare nelle
sabbie mobili del male. Raggiungere con la luce dell’amore e della
verità l’uomo perso nel proprio buio è però una cosa seria: anche
per Dio. È una cosa seria perché riguarda la nostra identità, che non
è quella di un burattino o di una macchina, ma di un soggetto capace
di decidere di sé e di rispondere delle proprie azioni. L’uomo ha la
dignità e la responsabilità di un essere libero. Per questo il perdono
che Dio gli offre non può essere un colpo di bacchetta magica, che
modifica dall’esterno la natura delle cose in modo semplice e indolore. La salvezza può consistere solo in un libero incontro di amore, in
una persuasa accoglienza del dono divino, in un voler essere nella
giustizia e nella verità. Dio può riportare la luce in colui che l’ha rifiutata soltanto entrando lui stesso nel buio umano e illuminandolo dal
di dentro, con un gesto di amore che sarebbe del tutto impensabile.
Per perdonarci, dunque, Dio entra nel “dramma” del gioco
delle libertà. L’assoluzione è realmente data nel nome del Padre
e del Figlio e dello Spirito Santo perché nasce dal centro della vita
trinitaria e dal fatto che il Dio Trinità si espone nel più intimo del suo
essere all’esito dell’incontro con la ribellione dell’uomo, con la storia
dei suoi crimini, con la sua pretesa di “soffocare la verità nell’ingiustizia” (cfr. Rm 1,16).
È ciò che vediamo nella storia di Gesù, che patisce realmente
nella sua carne il conflitto con il nostro male, con le nostre indifferenze, meschinità, falsità, compromessi; con i nostri tradimenti,
le nostre viltà, la nostra illusione di essere puri senza di Lui. Tutto
il dramma della Passione è la narrazione di come il perdono di Dio
si realizza, nell’offerta all’umanità peccatrice di una misericordia che
non è una grazia a buon mercato, ma un amore che paga su di sé il
prezzo della nostra guarigione.
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I primi cristiani compresero molto bene
questa verità quando composero questo mirabile inno liturgico, che è riportato nella prima
lettera di Pietro:
Egli portò i nostri peccati nel suo corpo
sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato,
vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti
(1Pt 2,24)
Avevano visto il corpo martoriato di Gesù crocifisso e avevano compreso che in quell’umanità trafitta del male si poteva vedere
la dismisura del male, che infieriva sull’unico innocente della storia,
ma ancora di più si poteva vedere l’indomabile amore con cui Dio
mostrava all’uomo la sua assoluta fedeltà e la sua incondizionata
dedizione.
Il card. Ratzinger, proprio nell’omelia della Messa che preparava
il conclave in cui sarebbe stato eletto papa, ha sintetizzato in modo
molto bello il mistero della misericordia che riconcilia i peccatori affermando
La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua
anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e
trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente.
Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio:
egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo
toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà
con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra
carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24) (J. Ratzinger, omelia del 18 aprile 2005).1
1
Sulla stessa linea, nel libro Gesù di Nazaret, egli afferma: “Dio non può semplicemente ignorare tutta la disobbedienza degli uomini, tutto il male della storia,
non può trattarlo come cosa irrilevante ed insignificante. Una tale specie di ‘misericordia’, di ‘perdono incondizionato’ sarebbe quella ‘grazia a buon mercato’, contro la
quale Dietrich Bonhoeffer, di fronte all’abisso del male del suo tempo, si è a ragione
pronunciato. L’ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Solo questa è la vera misericordia. E che
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Anche una mistica del nostro tempo, Chiara Lubich, ha intuito in
modo mirabile quella sorta di capovolgimento delle sorti, di scambio
dei ruoli che è all’origine della nostra salvezza. Essa, in uno dei suoi
testi più limpidi e intensi, scrive, contemplando Gesù nel mistero del
suo abbandono:
Perché avessimo la Luce Ti facesti cieco.
Perché avessimo l’unione provasti la separazione dal Padre.
Perché possedessimo la Sapienza Ti facesti ‘ignoranza’.
Perché ci rivestissimo dell’innocenza, divenisti ‘peccato’.
Perché sperassimo quasi Ti disperasti…
Perché Dio fosse in noi Lo provasti lontano da Te.
Perché fosse nostro il Cielo sentisti l’Inferno.
Per darci un lieto soggiorno sulla terra, tra cento fratelli e più, fosti
estromesso dal Cielo e dalla terra, dagli uomini e dalla natura.
Sei Dio, sei il mio Dio, il nostro Dio di amore infinito (Chiara Lubich,
Scritti spirituali/1, Roma 2003, 41)
Sì, perché noi possiamo essere assolti dal male, Gesù ha accettato di essere legato, inchiodato, trafitto da esso. La trasformazione
che avviene in noi è frutto del suo mistero pasquale, della sua passione, morte e risurrezione. Scendendo nella morte si è caricato delle
nostre colpe e risorgendo ha riaperto, in mezzo a noi, il cammino
della libertà. Il perdono che ci raggiunge nel sacramento viene dalla
sua Pasqua: è per questo amore che la nostra ingiustizia può essere
toccata e guarita dalla sua santità.
Comprendiamo così perché mentre il sacerdote ci dice: “Io ti
assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo” traccia su di noi il segno della croce. Realmente qui più
che mai gesto e parola si corrispondono: il perdono che le parole
del ministro ci annunciano provengono da quella croce che nel frattempo viene tracciata su di noi, quasi a imprimere sul nostro corpo il
sigillo della nuova libertà filiale.
ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso – questa è la bontà
‘incondizionata’ di Dio, una bontà che non può mai essere in contraddizione con la
verità e la connessa giustizia”
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Si comprende così anche il senso della bellissima preghiera entro cui le parole di assoluzione sono inserite, una preghiera trinitaria
che sintetizza il mistero della redenzione come opera del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, quasi raccogliendo l’energia dell’amore
pasquale che poi si esprime nell’atto dell’assoluzione:
Dio, Padre di misericordia,
che ha riconciliato a sé il mondo
nella morte e risurrezione del suo Figlio,
e ha effuso lo Spirito Santo
per la remissione dei peccati,
ti conceda, mediante il ministero della Chiesa,
il perdono e la pace.
E io ti assolvo dai tuoi peccati
nel + nome del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo.
3. La Chiesa, il prete: perché?
Nella bella preghiera di assoluzione che abbiamo appena letto
c’è un’espressione su cui ora dobbiamo soffermarci. Si tratta dell’espressione “mediante il ministero della Chiesa”. Essa ci ricorda che il
perdono di Dio viene offerta al fedele attraverso la comunità cristiana
e all’interno di essa attraverso coloro che il Signore ha chiamato al
ministero pastorale. Ciò si fonda anzitutto su una precisa parola di
Gesù che la sera di Pasqua, mostrandosi vivo e vincitore agli apostoli, comunica loro il suo Spirito e affida loro il ministero del perdono dei
peccati. Leggiamo il testo giovanneo:
19 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse
le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei,
venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. 20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere
il Signore. 21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre
ha mandato me, anche io mando voi”. 22 Detto questo, soffiò e disse
loro: “Ricevete lo Spirito Santo. 23 A coloro a cui perdonerete i peccati,
saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,19-23).
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È molto bella la sequenza di temi e di azioni che l’evangelista ci
presenta: i discepoli chiusi nel cenacolo per la paura, la libertà con
cui il Risorto si presenta in mezzo a loro in modo inatteso, il saluto di
pace (che indica la pienezza dei beni messianici offerti nella Pasqua),
il gesto di mostrare le mani e il costato (in cui sono impressi i segni
del male che Gesù ha patito e dell’amore con cui ha vinto), la trasmissione della missione ricevuta dal Padre, il dono dello Spirito con un
soffio vitale che indica che dalla Pasqua esce una nuova creazione,
il compito di rimettere i peccati.
Cristo Risorto porta dunque in sé l’assoluzione per tutti i
peccati del mondo e affida agli apostoli il compito di distribuirne
la grazia agli uomini, così da introdurli nella nuova creazione di cui
egli, nuovo Adamo, è il principio.
Questo testo, come altri del NT che potremmo indicare, ci aiuta a
correggere la prospettiva con cui di solito noi ci poniamo la domanda
sul ruolo del ministro. Noi di solito ragioniamo a partire dalla nostra
situazione di peccatori che solito provano vergogna a confessarsi e
si chiedono perché devono andare proprio da un prete a “dire” i loro
peccati. In questa visione, tanto diffusa quanto distorta, sembra che
riconoscere i peccati sia una cosa abbastanza facile, che possiamo
gestirci da soli, e che il ricorso al sacramento sia quasi una tassa da
subire, un prezzo da pagare per strappare a Dio il suo perdono.
La logica evangelica, invece, è profondamente diversa: il perdono è un’offerta che precede la nostra conversione e la rende possibile; il ministero degli apostoli e dei loro successori è il segno del buon
pastore che va a cercare la pecorella smarrita e la riporta a casa, è il
segno che il perdono di Dio è già lì che ci aspetta. Non siamo noi che
dobbiamo attendere la grazia di una benevola attenzione da parte di
Dio, ma è Dio che ci supplica, attraverso Gesù e i suoi ministri,
di lasciarci riconciliare.
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È ciò che anche Paolo esprime in un passo molto ricco della
seconda lettera ai Corinzi
18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. 19Era Dio
infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. 20In
nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio
stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece
peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (2Cor 5,18-21)
È interessante in questa pagina notare come Paolo colleghi
strettamente tra di loro, come un’unica azione di Dio, il fatto che egli
ci ha riconciliato mediante Cristo e ha affidato agli apostoli il ministero della riconciliazione. Il ministero sorge così “dentro” l’opera
della misericordia e non “dopo” di essa. Per questo il riferimento alla
Chiesa e al prete viene “prima” del mio movimento di pentimento e
confessione e non semplicemente dopo. È grazie alla predicazione
della parola di Dio, alla preghiera e agli esempi di tante persone buone, grazie alla correzione fraterna e alla pazienza di chi mi sta vicino
che io posso arrivare al gesto della celebrazione sacramentale del
perdono.
La Chiesa è in questo senso il
grembo della nostra conversione.
Ciò suppone, però, ovviamente
che io sia un cristiano che ha già
riconosciuto nella comunità ecclesiale lo spazio dell’agire sacramentale del Risorto che, a partire
dal Battesimo, mi dona la partecipazione alla sua vita attraverso la struttura del ministero.
Capiamo dunque che l’incontro con un ministro della Chiesa nel
sacramento è realmente una benedizione, anche se implica uno sforzo e una fatica. Si tratta però di uno sforzo e di una fatica che, come
diremo tra poco, fanno già parte della guarigione del cuore e, come
tali, sono essi stessi grazia e benedizione. Prima di arrivare a questo
ulteriore tema, è però necessario dire ancora qualche cosa sul ruolo
del ministro e sull’atto della sua assoluzione, riprendendo l’analogia
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(e la differenza!) che fin dall’inizio abbiamo sviluppato tra il sacramento e il giudizio di un tribunale.
Questa analogia ci turba sempre un po’, anche perché si presta
a diversi fraintendimenti. C’è un motivo, però, per cui non possiamo
rimuoverla e abbandonarla, se non a prezzo di perdere un elemento
importante della nostra vita. Questo aspetto è che sostanzialmente
la nostra stessa coscienza ha la forma di un tribunale nel quale,
quando commettiamo una colpa, noi giochiamo allo stesso tempo il
ruolo del giudice e dell’imputato. Tale situazione genera nel nostro
cuore un cortocircuito che è davvero infernale e provoca una vera
paralisi della libertà.
Dopo una colpa, soprattutto dopo una colpa grave, noi oscilliamo in continuazione tra la tendenza (da imputati) a giustificarci,
a discolparci, a negare il male che abbiamo fatto, quasi volendoci
sottrarre alla voce interiore che ci accusa e la tendenza (da giudici)
a condannarci e cadere nello scoraggiamento fino alla disperazione
perché siamo fatti così e non ne veniamo fuori. Non possiamo fare
finta di niente, perché sappiamo che il male fatto ci ha cambiati: dopo
aver tradito un amico o una persona amata, non sono più lo stesso di
prima. Anche se lui/lei non lo sa, io lo so e non posso andare avanti
come se non fosse successo niente se non mascherandomi dietro la
menzogna. D’altra parte non posso tornare indietro; la libertà non ha
il comando “annulla” che troviamo sui nostri computer e che è così
comodo quando abbiamo fatto qualche pasticcio.
Per questo vivere nella colpa è un tormento insopportabile, è la condizione più triste che si possa immaginare. Può essere
sopportata solo cercando di evaderne: facendo finta di non sentire il
rimorso, stordendosi per non sentirlo o cercando una giustificazione
ideologica del nostro cattivo comportamento. Ma sono tutte fughe
illusorie che rinviano soltanto il problema. La coscienza rimane giudice inesorabile e ci convoca al suo tribunale.
Questo cortocircuito può essere spezzato solo dal di fuori, solo
dall’azione di un altro che introduce una parola e un’azione diversa
dalla nostra. Solo un altro può dirci una parola di assoluzione, perché
in nessun modo noi possiamo scioglierci da soli dai legacci in cui ci
siamo avviluppati, non possiamo uscire da soli dal labirinto entro cui
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la nostra coscienza rincorre se stessa. Quando dunque il Signore
ha scelto di darci la Chiesa come grembo della misericordia e il sacerdote come ministro del perdono, è venuto realmente incontro a
un’esigenza ineludibile della nostra condizione umana.
In questo senso la confessione, redimendo la nostra libertà, contribuisce non poco anche a sanare tante ferite della nostra psiche,
a partire da quelle che ci facciamo da soli quando lasciamo che, al
posto di Dio, regni su di noi il nostro insano perfezionismo.
4. Il buio del peccato
Con la luce che viene dalla misericordia di Dio e dal sacramento
che ce la offre, possiamo ora provare a dire qualcosa sul buio del
peccato, da cui dobbiamo essere liberati.
Il peccato è rifiuto di Dio, rifiuto di vivere di Lui e per Lui, rifiuto
del centro dell’esistenza. Tale rifiuto si gioca nelle cose di ogni giorno, nelle piccole scelte di una vita che spesso conduciamo vivendo
come se Dio non ci amasse, in una nebbia interiore fatta d’indifferenza e superficialità. Esso si esprime per lo più nei gesti che facciamo
nei confronti dei nostri fratelli: le parole poco benevole che usiamo,
le chiacchiere, i giudizi, le volgarità, i gesti di chiusura e egoismo, le
impazienze e la strumentalizzazione degli altri, di cui ci serviamo per
i nostri interessi, anziché donarci per il loro bene e così via.
Tutto questo è reale, terribilmente reale: anche nel cuore di tutti
noi. Ma è assai difficile da smascherare, perché una nebbia di abitudine e superficialità avvolge non di rado la nostra coscienza. Per
sapere che cosa è il peccato, non bisogna chiederlo al peccatore ma
al santo. Il santo che vive nella luce si rende conto di che cosa sia
offendere Dio, chiudergli il cuore, sottrarsi alla sua amicizia. Il peccatore, invece, tende a banalizzare il male e a minimizzarlo.
Questo avviene perché il peccato trasforma la coscienza, porta
il buio dentro di essa. Per questo nella Scrittura il peccato è costantemente descritto come tenebra. Citiamo un solo testo tra i tanti: “Chi
odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa
dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (1Gv 2,11).
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Il peccatore “non sa dove va”,
perché si è perso. Tutti sappiamo
che cosa significa perdere qualche
cosa: il cellulare, le chiavi di casa,
un oggetto caro. Possiamo anche perdere un amico, perdere del
tempo, perdere la serenità. Ma più
profondamente possiamo addirittura perdere … noi stessi. Perdersi è
non sapere più dove si è, non sapere come si è arrivati lì, non sapere
come andarsene, per tornare come prima, liberi di raggiungere la
meta. Perdersi è trovarsi senza via di uscita, prigionieri della propria
situazione, è camminare a vuoto, senza giungere mai a destinazione.
Così capita all’uomo che vive nel peccato: non sa più orientare
la sua vita. La noia, la svogliatezza, il bisogno di fuggire la realtà
diventano i compagni del suo cuore. Ma niente lo soddisfa. Ha lasciato la strada che gli sembrava troppo faticosa e che sapeva poco
di avventura, cercando di arrivare prima, per qualche scorciatoia. Ma
ha trovato solo disinganno: le cattive abitudini l’hanno reso schiavo
e non intendono in alcun modo mollare la loro preda. Il cuore è costretto a portare un peso per cui non è fatto: il peso della vergogna,
del disgusto di se stesso. E chi si è perso nel peccato non sa quale
rimedio usare. Come un uomo smarrito in un bosco, non può trovare
soluzione.
Questo mostra che il peccato non è solo uno sbaglio. Da uno
sbaglio possiamo uscire da soli, imparando a correggere l’errore che
abbiamo compiuto. Uno sbaglio non cambia me, mi fa solo fallire
in un aspetto, piccolo o grande, della mia vita. Il peccato invece mi
deforma e dal peccato posso uscire solo perché un altro mi tira fuori.
Tale gesto di redenzione è proprio ciò che ha fatto Gesù: è venuto a prendere l’umanità che era come una pecorella perduta e l’ha
riportata nell’ovile della santità di Dio, portando sulle sue spalle il
peso di tale cammino.
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Se questo è il peccato, capiamo perché la fatica del chiamare
per nome il peccato fa già parte della guarigione. Per uscire dal
buio è infatti necessario “vedere” i propri falsi, vederli in una luce
diversa. Uno che ha sbagliato strada e si è perso, ha bisogno di ritornare nel punto in cui ha lasciato il sentiero, guardare bene il passo
falso, nominarlo, così da poterlo evitare.
La “confessione” delle colpe, che rimane certamente la dimensione più complessa e faticosa di questo sacramento, è necessaria
per guarire la coscienza riportandola nell’orizzonte della luce e della
verità. E tale confessione va fatta nell’orizzonte del Vangelo: “lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105).
È la luce della parola di Dio che ci conduce a riconoscere il peccato,
a smascherare la sua inclinazione a nascondersi. È ancora il vangelo
di Giovanni ad aiutarci, affermando: “Chiunque fa il male, odia la luce
e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.
Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente
che le sue opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,27s).
L’atto di “confessare” la colpe, accusando se stessi, è dunque un
atto con cui si fa luce, guidati dallo Spirito di Dio. Tale atto appartiene
al sacramento perché appartiene al processo del perdono, cioè di
quella trasformazione interiore che la Pasqua di Gesù realizza in noi.
Se invece non ci riconosciamo peccatori, lasciamo spazio all’ombra
sul nostro cuore.
8Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità
non è in noi. 9Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto
tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. 10Se diciamo
di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non
è in noi (1Gv 1,8-10)
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5. Alcuni consigli pratici
Concludiamo la nostra catechesi, con alcuni semplici consigli
pratici, che provengono dall’esperienza spirituale e pastorale della
Chiesa.
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È importante amnzitutto non lasciarsi bloccare dalla paura
e dalla vergogna, ma attraversarla con umiltà, con grande
fiducia nella misericordia di Dio e nella comprensione del ministro del sacramento. Don Bosco aiutava i ragazzi a riconoscere con lucidità un inganno del maligno che forse qualche
volta può riguardare anche noi: quando è ora di presentare
la tentazione, il seduttore la presenta come un male piccolo,
una cosuccia che fanno tutti… quasi a dire che sei scemo
se non lo fai anche tu; quando però è ora di andare a confessarsi, invece, lo spirito del male cerca di paralizzarti con
la vergogna, dicendoti che quella cosa che hai fatto è enorme e chiedendoti come puoi avere il coraggio di andarla a
confessare. Se ci lasciamo lasciati ingannare la prima volta
(quando abbiamo peccato), cerchiamo almeno di non farlo la
seconda (quando dobbiamo confessarci).
È importante confessarsi con una certa regolarità e frequenza
e soprattutto non lasciare che situazioni di male e di peccato
si incancreniscano dentro di noi. Quando abbiamo commesso qualche colpa più grave, cerchiamo di confessarci prima
possibile, per ripartire con chiarezza e determinazione.
Quando ci confessiamo cerchiamo di presentare i peccati
con semplicità e oggettività, senza troppi giri di parole e senza cedere alla tendenza a giustificarci. C’è già il Signore che
ci giustifica. Ricordiamoci che ci mettiamo ai piedi di Colui
che ha dato la vita per noi: di fronte a un amore simile, non
abbiamo bisogno di andare alla ricerca di attenuanti. La confessione, soprattutto quando si è giovani e si ha più bisogno
di essere accompagnati nella lettura di certe situazioni, può
avere bisogno di un po’ di tempo; è bene però che non si
dilunghi troppo, diventando quasi un colloquio di analisi psi17
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cologica o uno scambio di riflessioni spirituali.
La confessione è un sacramento, ma non un colpo di bacchetta magica. Essa va dunque inserita in un vero processo
di conversione, di cui rappresenta lo snodo fondamentale.
Di questo processo fanno parte varie cose: ad es. l’esame
di coscienza quotidiano, il confronto autentico con la Parola
di Dio nella preghiera, la correzione fraterna e l’attenzione
ai consigli che riceviamo da amici, guide, educatori, le piccole forme di ascesi della vita quotidiana. Nel sacramento ci
viene indicata anche una piccola penitenza, che ha il senso
di farmi comprendere che alla guarigione dal peccato devo
collaborare anche io, con una seria “riabilitazione” del mio
cuore al movimento della fede e della carità.
Le raccomandazioni potrebbero essere molte alte, ma ultimamente una è la più importante di tutte: ricordati che la misericordia di
Dio è infinitamente più grande di quanto tu possa immaginare e che
non c’è un solo peccato che Dio non possa rimettere a colui che si
pente. Possiamo dunque rassicurare il nostro cuore, “qualunque cosa
esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,22). “Vi
sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per
novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
18
Tu sei re
Adorazione Eucaristica
Tu sei re, Tu sei re, sei re Gesù (2v.)
A te eleviamo i nostri cuori,
a te eleviam le nostre mani,
rivolti verso il tuo trono,
lodando Te. (2v.)
De noche iremos
De noche iremos, de noche,
que para encontrar la fuente.
Solo la sed nos alumbra,
solo la sed nos alumbra.
Di notte andremo, di notte,
per trovare la fonte,
solo la sete ci guida,
solo la sete ci guida.
Dal Vangelo Secondo Luca 10,25-37
«Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia
le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta
finché non la ritrova? E trovatala, tutto allegro se la mette sulle
spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro:
“Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era
perduta”. Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo
per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giu-
Silenzio
sti che non hanno bisogno di ravvedimento.
19
Muéveme Dios
Muéveme mi Dios hacia Ti
Que no me muevan los hilos de este mundo
No, muéveme
Atráeme hacia ti desde lo profundo
Preghiamo
Padre Nostro
O Padre, che nella morte e risurrezione del tuo Figlio hai redento
tutti gli uomini, custodisci in noi l’opera della tua misericordia, perché
nell’assidua celebrazione del mistero pasquale riceviamo i frutti della
nostra salvezza. Per Cristo nostro Signore.
Litanie
Benedizione Eucaristica
Dio sia benedetto
Benedetto il Suo santo Nome.
Benedetto Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo.
Benedetto il Nome di Gesù.
Benedetto il Suo sacratissimo Cuore.
Benedetto il Suo preziosissimo Sangue.
Benedetto Gesù nel SS. Sacramento dell’altare.
Benedetto lo Spirito Santo Paraclito.
Benedetta la gran Madre di Dio, Maria Santissima. Benedetta la Sua
santa e Immacolata Concezione.
Benedetta la Sua gloriosa Assunzione.
Benedetto il Nome di Maria, Vergine e Madre.
Benedetto S. Giuseppe, suo castissimo Sposo.
Benedetto Dio nei suoi Angeli e nei suoi Santi.
20
Giovane Donna
Affidamento a Maria
Giovane donna, attesa dell’umanità,
un desiderio d’amore e pura libertà.
Il Dio lontano è qui vicino a Te,
voce e silenzio annuncio di novità.
Ave Maria,
Ave Maria.
Dio t’ha prescelta qual madre piena di bellezza,
ed il suo amore ti avvolgerà con la sua ombra.
Grembo per Dio venuto sulla Terra,
Tu sarai madre di un uomo nuovo.
21
FILM
Condannato a morte - Dead Man Walking (USA, 1995 - 122 min.]
Suor Helen vive la propria vocazione in una
comunità di colore, aiutando le famiglie nel
bisogno, e occupandosi dei bambini in maggior difficoltà, in una “hope house”, casa di
speranza, come tante da noi. A lei è chiesto,
senza nessun motivo particolare, di occuparsi di assistere Matthew Poncelet, condannato
a morte per stupro e omicidio. Perché proprio
lei? Non c’è nessun motivo. Non s’interessa
di carcerati, né si tratta di una sua vocazione
particolare o del carisma dell’abito. Le è stato chiesto, ecco tutto. Questa semplice risposta ad una circostanza
che le è capitata muove tutto il film, che ha giustamente meritato
molti premi e la considerazione del grande pubblico, spesso però
riducendone il contenuto ad un discorso attorno al problema della
pena di morte. La vera protagonista, invece, è la carità.Il film ha le
caratteristiche delle storie vere, e la prima fra tutte è la mancanza di
qualsiasi accenno di sentimentalismo. Lui non è un ragazzo traviato
da cattive compagnie, ma in fondo in fondo buono d’animo, come ci
si aspetterebbe da un film americano; anzi, è proprio un delinquente,
e non merita una grossa compassione né per quel che ha fatto né per
come si comporta durante tutto il suo periodo in carcere. Si appiglia
a tutto, nega la colpevolezza, mente, non sembra capace di essere serio sul proprio destino neppure adesso che conosce il giorno
e l’ora. Strafottente, razzista, filo-nazista, violento e profondamente
stupido. E lei non avrebbe davvero alcun motivo per interessarsi a lui,
se non fosse per l’amore al suo destino; è per questo che si muove,
fregandosene di tutto il contesto che le sta attorno. Dalla derisione di
qualcuno, alla incomprensibilità dei più per quel che fa; dai consigli
di lasciar perdere perché non serve, alle lezioni di morale impartite
dal cappellano del carcere (il professionista che insegna alla pivella:
22
una donna, poi! Se proprio vuole fare, faccia, ma non si dica che non
l’avevo avvertita). In ultimo, anche il dolore della disapprovazione dei
parenti della vittima, che considerano la sua posizione quasi come
complice, ed offensiva della memoria del dramma che crederanno
sopito solo con la giustiziazione del condannato.
Ma in ballo c’è comunque il destino di un uomo, la possibilità che da
lui esca almeno un momento di vita veramente umana, affermata di
fronte all’Eterno che sta per incontrare. La grazia di questo miracolo
arriverà, in forza dell’amore ricevuto, per la prima volta nella vita, e
di fronte agli sguardi impietosi ed incapaci di misericordia dei parenti
delle vittime, non diversi comunque da tutti gli uomini, che misurano
la giustizia sulla bilancia, incapaci dell’amore misericordioso all’uomo
che solo la posizione cattolica sa esprimere.
La vicenda si dipana dentro una società americana impegnata dall’occasione ad esprimersi attorno alla pena di morte, elemento che ha
riportato il filma la grande pubblico in seguito alle vicende ultime dei
condannati a morte. Solo che nell’economia del film costituisce più
che altro la circostanza particolare dentro cui si svolge la vicenda
umana che regge tutta la storia. Anzi, la condanna a morte è. Paradossalmente, dentro l’ingiustizia ultima che rappresenta, l’occasione
di incontro con la misericordia di Dio che Matthew ha avuto in dono,
ed in forza della quale potrà compiere almeno un gesto umano di
fronte al senso della sua vita.
C’è un secondo risvolto di tutta la vicenda, un secondo miracolo: in
mezzo a tutti gli spettatori da circa che assistono indifferenti alla tragedia che si sta consumando davanti ai loro occhi, ce n’è uno che
è colpito dalla gratuità della posizione di suor Helen: il padre di una
delle due vittime, distrutto dal dolore dell’accaduto, che ha trascinato
in crisi anche l’unità famigliare. Solo, senza l’unico figlio ed abbandonato dalla moglie, anch’egli non capisce e non sa perdonare, ma
è colpito e commosso dalla fede di lei. Per lui rincontro suscita una
provocazione che si traduce in una domanda vera: “io non ho la fede
che ha lei”, le dice, e lei risponde che “la fede è un lavoro”. A questa
risposta non può sottrarsi chi abbia un desiderio reale di cambiamento per la propria vita, perché a questa risposta non esistono obiezioni.
Nella libertà dell’adesione all’incontro inizia un’altra storia, che è l’epilogo positivo della drammaticità della vita.
23
Calvario - Calvary (Gran Bretagna/Irlanda, 2014 - 104 min.]
Il padre James della pellicola di John
McDonagh (alle spalle la sceneggiatura di Ned Kelly e la regia di Un poliziotto da happy hour, sempre con Brendan
Gleeson come protagonista) ha la stoffa di certi sacerdoti di Graham Greene
o dei cristiani di Evelyn Waugh: poco
ortodossi, con una fede continuamente messa alla prova dalle circostanze e
dal carattere, drammaticamente sfidati
da un mondo che del Cristianesimo e
della Chiesa sembra non sapere più
che fare. Non a caso nella pellicola i riferimenti ai casi di pedofilia nella Chiesa irlandese e alla frattura che hanno provocato nella società sono
numerosi ed espliciti. Chi non dimentica, qui, è un uomo che è stato
un bambino ferito da chi più aveva responsabilità nei suoi confronti
e che per questo ha escogitato una vendetta a sua volta “ingiusta”
quanto spettacolare: solo la morte di un prete buono e innocente
potrà in qualche modo “pareggiare i conti” rispetto a un peccato imperdonabile e risarcire una sofferenza ingiusta che si trasforma in
rabbia cieca.
Non è una confessione quella con cui si apre il film, quanto una dichiarazione di guerra: eppure padre James (uno che di suo sa menare le mani e che ha avuto in passato problemi di alcolismo) decide di
trattarla come tale, intuendo il tremendo dolore che sta dietro questo
piano folle; proprio per questo rifiuta la via d’uscita facile e sin troppo
ragionevole offertagli dal suo superiore (denunciare e lasciare tutto
in mano alla polizia) e affronta la sfida non tanto per orgoglio quanto
nella speranza di giungere a una conversione. Se la Chiesa istituzionale, nei panni di un vescovo con più cavilli che misericordia e di un
coadiutore parrocchiale molto ragioniere, non fa di sicuro una bella
figura, la figura di un sacerdote raramente negli ultimi anni ha avuto
un trattamento così onesto e profondo.
24
Padre James dimostra per la sua vocazione e per la Chiesa in cui
essa è nata lo stesso amore burbero e tenace che ha nei confronti
dei suoi parrocchiani, un’accozzaglia realistica (ma allo stesso tempo
metaforica) dei peccati più comuni della contemporaneità (lussuria,
avidità, violenza e ateismo militante e aggressivo); uomini e donne
che sembrano scagliarsi contro quella roccia di prete nella speranza
di abbatterlo, come un padre di cui non si riconosce più l’autorità ma
a cui non si può fare a meno di guardare. Paradosso dei paradossi,
padre James è davvero un padre: la sua è una vocazione adulta e tra
i molti che nella settimana che segue la fatale confessione metteranno in crisi la sua posizione c’è anche una figlia di sangue, che non ha
mai accettato la sua scelta, che interpreta come un abbandono; per
reazione la giovane donna sfoga la sua domanda di senso in amori
sbagliati che l’hanno portata fino al tentativo di suicidio.
Sullo sfondo di un paesaggio bello e drammatico, si dipana il calvario
vero e profondo di un sacerdote che cammina verso un sacrificio volontario e apparentemente inutile sempre più solo, ferito a sua volta
fino a mettere in dubbio anche il proprio essere prete, vivendo la tentazione della fuga e ritrovando il coraggio solo attraverso l’incontro
con una donna la cui fede viene messa a dura prova, ma resta salda. La sceneggiatura di McDonagh è un misto di terragno realismo
(volutamente provocatorio) e di spiritualità drammaticamente vissuta,
intessuto di rimandi nascosti alle sacre scritture (in primis il racconto
della passione di Gesù, che scandisce i giorni verso l’appuntamento
fatale con un ritmo quasi teatrale), che non teme di mettere in scena
le domande più fondamentali per un cristiano e per l’uomo in generale: il senso del male e del peccato, la sofferenza degli innocenti, la
possibilità della redenzione e del perdono.
E alla fine, attraverso un drammatico show down che ha quasi del
western, la storia si apre ad una sorprendente speranza, dove a una
dottrina del peccato che pare senza via di salvezza si sostituisce una
misericordia che trascende l’umano e nasce dal sacrificio di sé.
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LIBRI
Delitto e Castigo (di F. Dostoevskij)
«Su, dimmi, che devo fare ora?» domandò
Raskòlnikov, rialzando di scatto la testa e guardandola, col volto contratto dalla disperazione.
«Cosa devi fare?» esclamò lei balzando in piedi;
e gli occhi, fin’allora pieni di lacrime, a un tratto
le lampeggiarono.
«Alzati!» Lo afferrò per la spalla; egli si raddrizzò,
fissandola quasi con meraviglia. «Va’ subito fuori, in questo stesso istante, fermati al crocicchio,
prosternati, bacia prima la terra che hai insozzato, e poi prosternati davanti a tutto il mondo, in
tutte e quattro le direzioni, e di’ a tutti, a voce alta: ‹Ho ucciso!› Allora
Dio ti restituirà la vita. Ci andrai? Ci andrai?» gli chiedeva, tutta tremante, come in preda a una crisi isterica, afferrandogli le mani, stringendogliele forte tra le sue e fissandolo con uno sguardo di fuoco.
Il protagonista, un ex studente squattrinato, Raskòl’nikov, uccidendo
a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole, oltre che ottenere dei
soldi, chiarire a sé stesso se è un “Napoleone” o un “pidocchio”, se
appartiene alla categoria della massa, degli “uomini comuni”, per i
quali la legge morale è sacra, o agli “uomini non comuni”, destinati a
grandi imprese, per i quali non valgono le leggi ordinarie. Per questo
può dire: “Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!”.
Questo principio è l’affermazione di una superiorità delle leggi morali,
di una superiorità di Dio che quelle leggi oggettive impone: ai personaggi di Dostoevskij che vogliono affermare la loro illimitata libertà è
chiaro il concetto che per fare ciò debbono sbarazzarsi di Dio, affermare la propria divinità, per divenire “uomo-dio” (se si scarta Dio è
l’uomo ad essere assolutizzato). Ma Raskòl’nikov fallisce: compiuto
il delitto non riesce neppure a rubare, i nervi gli cedono, è preso dal
delirio e dal panico, non ha neppure la lucidità di occultare subito
26
eventuali indizi. Diviene conscio di non essere un secondo Napoleone, e in lui rimane il vuoto, un forte senso di indegnità. Se infatti
tutta la nostra possibilità di affermarci passa per questo mondo, chi
non ottiene prestigio, potere, onore, come Napoleone, per che cosa
è vissuto? Che scopo ha raggiunto? Ma Raskòl’nikov viene cambiato dall’incontro con Sonja, una ragazza buona, dolce, intensamente
cristiana, che si prostituisce per salvare i genitori dalla mendicità.
Col tempo le cose cambieranno: “una futura redenzione”, “una nuova
concezione della vita” si affacceranno nell’animo di Raskòl’nikov. Ma
Dostoevskij accenna soltanto alla sua rinascita, al suo cambiamento:
è un’altra storia, che non racconta. Gli interessa solo un fatto: la coscienza esiste, si fa sentire, batte i suoi colpi; il Bene e la Verità non
sono relativi al capriccio dell’uomo, ma oggettivi. Ciò che è giusto, è
giusto, perché Dio esiste: ciò che è sbagliato, malvagio, cattivo, nessun uomo potrà renderlo giusto e buono, perché non è Dio ! Per concludere, in “Delitto e castigo” è presente la dialettica cristiana peccato-sofferenza che redime – misericordia. Il peccato rende impossibile
la vita a Raskòl’nikov, lo isola, lo estranea dal resto dell’umanità; la
sofferenza, la croce portata con rassegnazione e consapevolezza, è
il mezzo per la sua redenzione, come gli dice Sonia nella frase sopra
citata; la misericordia è l’amore gratuito di Sonia verso di lui che lo
stupisce e lo spinge a cambiare.
Jacques Fesch
L’avventura della fede di un condannato a morte (di R. Francavilla)
Il libro di R. Francavilla, non è solo la ricostruzione di una vita, ma anche, e soprattutto, la storia di una conversione.Jacques Fesch, nato nei
pressi di Parigi nel 1930, è un giovane, ateo e
sbandato, ossessionato da un sogno: acquistare
una barca per viaggiare fra le isole del Pacifico.
Vuole scappare da tutto e da tutti: dalla giovane
moglie, dalla piccola figlia, dal lavoro. Per ottenere i soldi necessari, minaccia un cambiavalute,
amico del padre. Nella colluttazione si ferisce un
dito e perde gli occhiali. Un poliziotto s’intromet27
te: il giovane scappa, si sente braccato, spara in preda al panico,
con la mano ferita, attraverso la tasca dell’impermeabile, miope e
senza occhiali, e sfortunatamente lo uccide. Catturato e messo in
carcere, vi rimarrà poco più di tre anni. Qui inizia la sua conversione.
Dopo circa un anno, Jacques racconta di essere stato visitato dallo
Spirito di Dio, che gli fa il dono della fede. Nei mesi seguenti, Gesù
gli parla due volte e gli confida: «Ricevi le grazie della tua morte».
Intanto la giustizia fa il suo corso e il giovane, condannato a morte,
viene ghigliottinato il 1° ottobre 1957. Non si ribellerà mai, perdonerà
tutti, convertirà anche qualche detenuto. Molte e molto diverse furono
le reazioni dell’opinione pubblica a questo «delitto di Stato». Oggi
prevalse l’idea che la giustizia francese abbia usato il caso Fesch
per dare un esempio: l’impermeabile fu fatto sparire, i testimoni a
favore di Jacques furono fatti tacere, tutte le donne della giuria furono escluse dal voto, alcuni poliziotti in borghese parteciparono al
processo con spirito da claque, gli avvocati dell’accusa gridavano in
aula all’assassino? L’uso della ghigliottina in Francia si è protratto
fino al 1981, anno in cui è stata abolita la pena di morte. Si tratta di
un’interessante biografia, basata su una testimonianza di fede viva e
forte. È interessante anche per i giovani, che possono accostare una
figura di giovane ateo e scapestrato che proprio in carcere cambia
completamente rotta e diventa capace di salvare altri atei, sbandati.
È l’occasione per entrare nell’intimità di un condannato a morte che,
invece di perdersi nella disperazione, offre la sua sofferenza per la
conversione e il bene di molti. Per Jacques Fesch il card. Lustiger ha
avviato la causa di beatificazione.
Il sacramento del perdono
Gioia e festa di Dio e dell’uomo (di A. Gasparino)
Questo libro presenta, nello stile semplice e avvincente dell’autore, il
sacramento della confessione.Oggi la Chiesa vuole che si chiami “sacramento del perdono”. Il termine confessione non era affatto indovinato perché esprimeva una caratteristica marginale del sacramento;
infatti, il confessare i peccati non è l’elemento principale. L’elemento
di fondo è un altro, è pentirsi, è riconciliarsi con Dio e coi fratelli.
Confessare i propri peccati è sempre stato una cosa pesante per
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tutti. Soprattutto il confessarli con sincerità assoluta. Confessare i
peccati non è l’elemento più gravoso al nostro orgoglio, e tuttavia non
è ancora la cosa più impegnativa per la nostra vita.
Se bastasse confessare un delitto per cancellarlo sarebbe anche
semplice!Una colpa non basta confessarla. Non basta neppure confessarla con sincerità e crudezza, è troppo poco!
Dalla colpa bisogna uscire: è questo il problema.La chiesa ha ritenuto necessario continuare a mantenere l’obbligo di confessare le colpe
gravi con sincerità, ma chi si fermasse lì non sarebbe ancora al sacramento. L’anima del sacramento è pentirsi, è rinnovarsi, è iniziare
una nuova vita.
La scuola della Parola:
riflessioni sul salmo Miserere (del card. C. M. Martini)
Il riconoscimento del proprio peccato segna l’inizio della conversione interiore. L’interiorità, luogo
decisivo per l’uomo nel cammino verso la verità, è la capacità di rientrare in se stessi, di comprendere il senso delle azioni compiute e che si
compiono, perché soltanto nell’intimo si possono
valutare e giudicare.
E l’esperienza attesta che c’è un nesso inscindibile tra la conversione del cuore e la riconciliazione sociale e politica. Non ci può essere una vera, duratura, stabile
riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni senza conversione del cuore; come pure non c’è conversione del cuore
senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione
sociale e politica.
Il tema è particolarmente importante e per comprenderlo è molto utile
riflettere sul Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica, che
inizia con l’invocazione: “Miserere”, abbi pietà. Il Salmo è di una ricchezza inesauribile e attraversa tutta la storia della Chiesa e della
spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, contemplato da Gregario Magna; è
divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate, celebri prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di
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Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che
vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza
segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi
romanzi.
Il “Miserere” è il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach,
Mozart, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato
in musica, illustri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni.
È soprattutto il Salmo che ha accompagnato le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e
chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita; e appartiene
alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore
dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità.
CANZONI
Forgivness
Elisa - Ivy (2010)
Il testo della canzone di Elisa, tratta in modo chiaro e diretto il tema
del perdono (in particolare quello in ambito affettivo). E lo fa a partire
dai sentimenti provati a causa del peccato, delle nostre cadute, delle
nostre fragilità. Il peccato, il male, la rabbia “se ne sta là...laggiù...
dentro di me”. “So che mi appartiene”: il peccato, pur andando contro
la nostra natura di figli di Dio, entra nella nostra vita attraverso le nostre scelte e ci rimane, ci appartiene fino a quando non cerchiamo il
perdono! “Abbiamo solo bisogno di perdono”. Dio, nella sua immensa
misericordia, ce lo dona! Siamo già perdonati. “Perdono ... tutto quello di cui abbiamo bisogno ... che sono pronta ad aspettare”.
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Forgiveness
I’m lost and scared to live this life
I thought I’d always be strong
This rage this dark side I don’t want to see
lays there… lays there… lays there…
There on the bottom inside looking lost like a child
but I know that you’re mine
we only need…
Forgiveness our key to the world
Forgiveness I’m frightened to deserve
Forgiveness all that we need
it’s Forgiveness I am not sure I know…
It was the love untaught trapped in your mind
so empty with me…
A silent stone that struck my heart while I looked for a sign a sign…
You felt the pain you felt the fear
but you chose not to see
made it your destiny, is it time for…
Forgiveness… for we have paid
Forgiveness is our key to the world
Forgiveness for the love untaught
It’s Forgiveness I’ll be… waiting for…
Forgiveness… for we have paid
Forgiveness is our key to the world
Forgiveness for the love untaught
It’s Forgiveness I’ll be… waiting for…
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Il perdono
Mi sono persa.
E ho paura di guardare in faccia questa vita.
Eppure ho sempre creduto che sarei stata forte.
Questa rabbia, questa zona d’ombra che non voglio vedere, se ne
sta là… Se ne sta là… Laggiù; dentro di me, ferma sul fondo, smarrita come un bambino.
Eppure so che mi appartiene.
Abbiamo solo bisogno di Perdono…
La sola nostra chiave di accesso al mondo.
Perdono… Quello che temo di meritarmi.
Perdono… tutto quello di cui abbiamo bisogno.
Perdono… che non sono certa di conoscere.
E’ stato l’amore non insegnato.
Intrappolato nella tua mente che non ne voleva sapere di me.
Una pietra silenziosa che mi ha spezzato il cuore
mentre cercavo disperatamente un segno.
Un tuo segno.
Hai provato dolore e hai provato paura. Ma hai deciso di non guardarla negli occhi.
Ci hai costruito il tuo destino.
Non è forse questo il tempo per il Perdono?
Perché abbiamo pagato.
Perdono…La sola nostra chiave di accesso al mondo.
Perdono…Per l’amore che non ci hanno insegnato.
Perdono…Che sono pronta ad aspettare.
Perdono…Perché abbiamo pagato.
Perdono…La sola nostra chiave di accesso al mondo.
Perdono…Per l’amore che non ci hanno insegnato.
Perdono…Che sono pronta ad aspettare.
Miserere – Zucchero & Pavarotti (Miserere 1992)
Il testo esprime la volontà di apprezzare il dono della vita anche nelle
situazioni umanamente più misere. Si parla, quindi, di peccatori persi nel vivere che brindano alla vita e non perdono, dinnanzi al sole
che comunque splende, la speranza di ritrovare quella gioia interna e
quella serenità smarrita nel loro percorso terreno. Magari, ritrovando
tutto ciò, sul punto di morte: “Miserere”, infatti, è anche una preghiera
di veglia per i defunti in cui si chiede la pietà di Dio, nel cancellare le
proprie colpe, secondo la sua grande misericordia.
Miserere, miserere
Miserere, misero me
Però brindo alla vita!
Ma che mistero, è la mia vita
Che mistero
Sono un peccatore dell’anno ottantamila
Un menzognero!
Ma dove sono e cosa faccio
Come vivo?
Vivo nell’anima del mondo
Perso nel vivere profondo!
Miserere, misero me
Però brindo alla vita!
Io sono il santo che ti ha tradito
Quando eri solo
E vivo altrove e osservo il mondo
Dal cielo
E vedo il mare e le foreste
Vedo me che….
Vivo nell’anima del mondo
Perso nel vivere profondo!
Miserere, misero me
Però brindo alla vita!
Se c’è una notte buia abbastanza
Da nascondermi, nascondermi
Se c’è una luce, una speranza
Sole magnifico che splendi dentro di me
Dammi la gioia di vivere che ancora non c’è
Miserere, miserere
Quella gioia di vivere (che forse)
Ancora non c’è.
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Scarica il video e i contenuti dell’incontro sul sito
www.pastorale.salesianipiemonte.it
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4 Febbraio 2016
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Buon Avvento!