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Ibrahima Sow
L’io culturale
Dall’etnopsichiatria alla transcultura
a cura di Elisa D’Ippolito
Armando
editore
Sommario
Introduzione
Dalla psiche africana a una visione transculturale dell’uomo:
l’apporto di Ibrahima Sow
Rosalba Terranova Cecchini, Eleonora Riva
9
L’IO CULTURALE
Traduzione a cura di Annalisa Romani
17
Introduzione
19
Capitolo I
Alla ricerca di un’ipotesi di lavoro: verso la nozione
di campo conflittuale dinamico in un contesto tradizionale
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Capitolo II
Pensiero «normale», produzioni immaginarie ed esperienze
psicotiche. Il problema dell’unità dello psichismo
in ambito tradizionale
52
Capitolo III
Schema della struttura dinamica della persona ed elaborazione
diagnostica dei disturbi di personalità
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Postfazione: DALL’ETNOPSICHIATRIA ALLA TRANSCULTURA 117
Elisa D’Ippolito
Bibliografia
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Introduzione
Dalla psiche africana a una visione transculturale
dell’uomo: l’apporto di Ibrahima Sow
Rosalba Terranova Cecchini1, Eleonora Riva2
La psichiatria è una branca della medicina che non può avere la chiarezza diagnostica raggiunta da altre specialità mediche grazie all’affinarsi
delle strumentazioni e della ricerca. Il funzionamento psichico sfugge a
ogni metodo investigativo anche se dal punto di vista neuro-scientifico la
“materia cerebrale” viene indagata e conosciuta in tutti i suoi aspetti sia
costitutivi sia di connessione tra i neuroni: la rete neuronale.
Ne è derivato così il trattamento farmacologico dei disturbi mentali con
le categorie dei sedativi, degli antiallucinogeni, degli antidepressivi con
modulazioni terapeutiche ampie e raffinate.
Ciò ha provocato minore attenzione allo studio della mente come produttrice degli affetti, dei sentimenti, del pensiero e di tutti quegli aspetti
della vita umana che permettono le relazioni tra le persone, lo sviluppo delle propensioni e degli attaccamenti diversi per ciascuno di noi, che fanno di
noi – come dice Sow – “una persona – personalità”.
Sow vuole sottolineare infatti questi due aspetti: essere persona con tutte le caratteristiche biologiche dell’animale uomo, essere personalità con
caratteristiche uniche per ogni soggetto; con ciò Sow sottolinea la libertà
per ciascuno di noi di utilizzare in modo unico, personale appunto, le potenzialità del bios umano.
1 Medico Psichiatra, pioniere della psichiatria transculturale sia in progetti nei Paesi
in via di sviluppo sia nell’ambito degli ospedali psichiatrici italiani, ha creato a Milano
nel 1993 la Fondazione Cecchini-Pace – Istituto Transculturale per la Salute, e nel 2001 il
Corso di Specializzazione in Psicoterapia Transculturale.
2 Psicologa sociale e psicoterapeuta transculturale, è ricercatore presso l’Università degli studi di Milano e direttore del Corso di Psicoterapia Transculturale della Fondazione
Cecchini-Pace.
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Ciò che deve essere sottolineato è proprio questo punto del pensiero di
Sow: la libertà – ciò che a noi sembra libertà – ha, per così dire, un’interpretazione culturale. Ciò non è detto esplicitamente ma si deduce dalla
modalità di costituzione e funzionamento dell’Io che è la proposta innovativa ed efficace operativamente. Ed è questa la proposta di Sow contenuta
nelle prime cento pagine del libro Psychiatrie Dynamique Africaine oggetto della presente traduzione, sulla quale il nostro gruppo di Psicoterapia
Transculturale riflette da anni e che ha messo in pratica con i pazienti
(Inghilleri, Terranova Cecchini, 1991), come ben emerge dal capitolo di
presentazione a cura di Elisa D’Ippolito.
Il profilo dell’Io che l’autore senegalese ci offre permette al terapeuta
di contestualizzare il problema psichico nella cultura d’appartenenza del
soggetto e dunque di dipanare il colloquio psicoterapeutico con il paziente,
con la sua esperienza e i suoi vissuti senza costringere il soggetto a essere
un “caso” ma rendendolo consapevole del suo conflitto nei confronti della
sua conformazione culturale.
Questo concetto dà forza e motivazione per ricomporre le lacerazioni dei vissuti, nell’alveo culturale dell’identità e quindi di sviluppare le
personali propensioni con l’aiuto dell’esperienza condensata nella cultura
d’appartenenza. Il punto cruciale della cura è questo: non la prospettiva del
terapeuta ma quella del paziente; non solo la tecnica del terapeuta ma il suo
lavoro di conoscenza della cultura di quel paziente; non la “presa in carico”
della sola patologia del paziente ma di quella patologia rispetto al gradiente
di conflitto con la cultura alla quale il paziente appartiene.
Su questi aspetti insiste Georges Devereux nelle sue opere che costituiscono la base della linea terapeutica transculturale: “trans” come al-di-là,
oltre la cultura, o come “attraversamento, transito” attraverso le varie culture che i pazienti portano nello spazio terapeutico? Devereux non ha osato
precisare lo spostamento dai concetti freudiani ma la sua frase “Marchesa
parigina…” pone inequivocabilmente in primo piano il peso delle forme
culturali nelle quali gli esseri umani si formano. Molto significativa è poi
la descrizione di un comportamento e il legame tra tale comportamento e
la cultura oltre che con le forze pulsionali. È l’esempio del ragazzo in fase
di corteggiamento di una giovane: Devereux divide in quattro punti la spiegazione del comportamento appoggiandosi al concetto di “asse”, lo stesso
che viene usato da Sow.
La situazione è molto banale: un ragazzo americano offre un mazzo di
fiori alla ragazza che corteggia. Devereux individua un primo asse che è
biologico, ovvero l’impulso sessuale che spinge il ragazzo al corteggiamento. Il secondo asse è molto interessante: è quello dell’esperienza: il
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ragazzo sa che nella sua cultura si possono regalare solo libri, fiori o cioccolatini. È dunque l’esperienza concreta nel sociale che determina la scelta
del tipo di dono. Il terzo asse riguarda l’attenzione alle regole locali ovvero
alle modalità culturali del gruppo di appartenenza. In questo senso agisce
la scelta del momento nel quale fare il regalo, che è il Natale, mentre, sottolinea Devereux, un francese avrebbe scelto il Capodanno. Infine l’asse
nevrotico: dal punto di vista inconscio il ragazzo esclude il cioccolatino
perché non si sente ancora pronto a intraprendere una relazione nella quale
poter dare “mantenimento”, ed esclude i libri, perché non desidera portare
la relazione sul piano intellettuale. Sceglie dunque i fiori, che lo coinvolgono minormente e simboleggiano altresì il suo Desiderio di portare la
relazione su di un piano fisico/sessuale (deflorazione) (Devereux, 1952)3.
Il concetto di asse che parte dal corpus del pensiero culturale e si riverbera sia nella famiglia sia nella comunità, e soprattutto nella struttura
più profonda dell’inconscio, è invece proposto da Ibrahima Sow come elemento formativo non di comportamenti ma bensì della struttura psichica
del soggetto.
Il soggetto appartiene alla cultura dove è nato soprattutto per la modulazione del suo Io che parte dal corpus del pensiero culturale (come
possiamo anche definire la formulazione culturale della psiche – dell’Io
– proposta da Sow). L’indicazione che dà Sow circa le modalità di trasmissione è decisiva per l’attività terapeutica, in quanto dà all’operatore
psichiatrico tre aree fondamentali di indagine. Il primo di questi elementi
è il biolignaggio, ovvero la famiglia. È da sottolineare che attualmente il
biolignaggio è, per così dire, “a geometria variabile” (Moro, 1994; 1998;
2007), ossia ha acquisito caratteristiche di sempre maggiore plasticità, e
variabilità sia nella struttura sia nella sua costanza nel tempo. Il che vuol
dire che è possibile una variazione culturale nella quale i figli dovranno
articolarsi attraverso scelte personali, confermate in primo luogo dal sistema sociale più che dalla famiglia stessa. A nostro parere questo asse,
asse “esistenziale”, diviene sempre più importante per la costruzione della
persona/personalità proprio in virtù di questa sua capacità di accogliere i
cambiamenti sempre più rapidi dei valori sociali e culturali. Allora si tratta
di lavorare non tanto e solamente sulla relazione genitori/figli, ma anche
e soprattutto sulla cultura che i genitori inseriscono nella quotidianità della relazione genitoriale. La cultura trasmessa transgenerazionalmente dai
genitori come insieme di artefatti socio-culturali (Inghilleri, 2009) diviene
3 Devereux G. (1952), L’etnopsichiatria come quadro di riferimento nella ricerca e
nella pratica clinica, in Devereuw G., Saggi di Etnopsichiatria generale, Armando, Roma
2007, p. 98.
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quindi una variabile fondamentale per lo sviluppo di una personalità forte
e complessa oppure fragile e poco flessibile, e fornisce un ambito pieno di
stimoli importanti per il terapeuta.
Considerando l’asse principale, verticale, che “trasporta” direttamente
nel profondo dell’Io, nell’inconscio, i valori della cultura, dobbiamo sottolineare il radicamento di qualcosa di “esterno” (la cultura) all’interno della
soggettività della “persona”, costituendone dunque la “personalità”.
Il terzo collegamento del corpus del pensiero culturale si riferisce
all’“impregnazione” dell’ambiente sociale, dell’ambiente comunitario,
delle “leggi” della cultura. Per evidenziare la valenza psichica delle strutture e delle relazioni sociali si è recentemente espresso anche lo psicanalista Rene Kaës (2007), che propone, accanto alle due topiche classiche
della psicanalisi freudiana e post-freudiana, una terza topica, che alloca
parte della psiche individuale al di là della persona, nelle relazioni sociali,
e pone come garanti (metasociali, appunto) dell’equilibrio identitario le
istituzioni e gli artefatti sociali propri della cultura di cui l’individuo fa
parte. Attraverso il terzo asse il soggetto è continuamente in relazione con
la sua comunità e dunque, confrontandosi con le regole culturali, risente di
una sincronia assolutamente appagante nel caso che il sistema famiglia/inconscio/società parlino lo stesso “linguaggio”. È evidente che oggi molto
spesso si rischia l’asincronia e quindi il disagio esistenziale. Nel senso che
il giovane entra nelle relazioni sociali con regole culturali che rischiano
di diventare obsolete in tempi brevissimi. Tuttavia, grazie alla plasticità
appresa durante le prime fasi della crescita e della socializzazione, i giovani contemporanei sono spesso in grado di affrontare questa asincronia
trasformandola in uno stimolo positivo (“asincronia feconda”) e utilizzare
le differenti visioni del mondo che incontrano nel sistema socio-culturale
come promotori di sviluppo creativo della propria personalità (Gardner,
1993).
Il modello di psiche proposto da Sow, nell’ottica in cui è stata interpretata negli ultimi tre decenni dal nostro gruppo di ricerca, non è più da considerarsi un modello etnico, specifico dei sistemi culturali africani, ma un
modello nosografico universale, che fornisce i parametri e gli strumenti per
inquadrare da un punto di vista culturale la struttura e i processi psichici di
pazienti di qualunque origine e appartenenza. Perché tutti noi proveniamo
da un sistema culturale, al quale partecipiamo e nel quale introiettiamo e
incorporiamo. E la relazione con la cultura plasma la mente in termini di
forma, e non solo di contenuti (Shweder, 1984; 1991). L’Io culturale di
Sow mette in luce con chiarezza e completezza le complesse interazioni tra
cultura e individuo che concorrono a formarne la mente e la personalità, e
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propone un’esaustiva indagine lungo tre assi esistenziali per far emergere
tanto fattori ezio-patogenetici quanto strumenti e processi per la cura.
La mente, lo strumento costruito filogeneticamente dall’uomo per conoscere il mondo (Bruner, 1986; 1990), è a sua volta da esso storicamente
e culturalmente costruita. In questo senso deve essere vista, dal terapeuta
transculturale, come un artefatto culturale specifico, complesso e articolato. Essa contiene i significati, i modelli e le strutture che la persona-personalità ha potuto/saputo integrare durante la propria esperienza quotidiana,
di filiazione, di socializzazione. È pertanto attraverso la ricostruzione della
relazione dell’individuo con i propri fondanti culturali che il terapeuta viene messo in grado di comprendere l’esperienza del paziente, le sue caratteristiche idiosincratiche, le sue competenze e le sue fragilità. È attraverso la
lettura della mente dell’altro come un artefatto culturale, che al terapeuta
viene dato l’accesso alla sua verità. La mente/artefatto contiene e trasmette
i significati essenziali per la sopravvivenza dell’individuo, e attraverso di
essi si lega nel bene (creatività) o nel male (patologia), ma in ogni caso
con forza, al contesto storico culturale dove ha avuto origine, ed è a partire dalla comprensione di questi legami di significato, e della loro storia
individuale, che inizia la relazione di cura, e il processo di guarigione/
evoluzione del paziente che si trova in una condizione di sofferenza che lo
ha reso statico e incapace di crescere.
L’“artefatto etno-clinico di Sow” ci permette non solo di comprendere l’esperienza culturale del nostro paziente, ma anche, come evidenzia
bene D’Ippolito, di essere traghettati dall’etnopsichiatria alla transcultura.
Il terapeuta transculturale, nell’“attraversare” il ponte che gli permette di
entrare in empatia con il paziente, riesce anche, come emerge chiaramente
nella nostra esperienza di gruppo di ricerca, a unire quel gap tra practicioner e clinician che Sow stesso solleva nelle prime pagine del testo qui
presentato. Egli è, come lo stesso autore auspica, un “praticante” che si
sporca le mani con le esperienze quotidiane delle persone di cui si-prendecura. Non si occupa solo della diagnosi e della risoluzione della patologia
e della sofferenza, ma anche e soprattutto dell’essere umano che ha davanti
nella sua unicità e complessità. Questo costante processo di ri-definizione
della realtà attraverso le parole dell’altro lo porta, tuttavia, ad acquisire
una competenza “clinica” che gli permette di decentrarsi (Moro, 1994;
1998; 2007), e prendere distanza dal paziente con il quale sta lavorando per
entrare in un’ottica diagnostica attraverso cui curare (De cordova, 2009;
Shorter, 1985) la personalità-persona del suo paziente.
Questa divisione delle visioni, tra practicioner e clinician, tra asse biogenetico, storico ed esistenziale, ci permette di affrontare il sistema cultura
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nella sua essenza plurale. Questo processo di complessificazione della realtà si avvicina al concetto di complementarismo promosso da Devereux
(1961; 1967) e dai suoi seguaci, ma mentre in quest’ultimo diviene infine
necessario arrendersi alla inconciliabilità di visioni storico-antropologiche
ed eziologiche di natura strutturalmente differente, che arricchiscono la
comprensione del clinico rispetto alla situazione esistenziale e alla patologia del paziente, ma non possono essere utilizzate unitamente nella pratica terapeutica, nella psiche culturale di Sow i tre assi e le due visioni
professionali concorrono a una visione a tutto tondo della persona nella
sua sofferenza. Questo processo di apprendimento che il terapeuta transculturale necessariamente deve percorrere per entrare in relazione con il
paziente e il significato dei sintomi che egli porta, facilita e supporta il collaterale processo di decentramento, come definito da Moro (1994; 1998;
2007). Questa posizione psichica, culturale e metodologica è un necessario
spostamento che il terapeuta deve sforzarsi di fare rispetto alle proprie conoscenze, ai propri orientamenti culturali e alle proprie abitudini, per affrontare con occhi e cuore liberi i valori e i significati incarnati dal paziente
inteso come Altro, come portatore di una cultura solo in parte conoscibile,
che sia essa lontana o meno. Il viaggio del terapeuta all’interno della psiche culturale del paziente, per come Sow la intende, necessariamente porta
il terapeuta alla scoperta di una personalità-persona come intrinsecamente
Altro da Sé, come essere culturale unico e irripetibile. È così che il pluralismo eziologico ed escatologico presentato dal modello di Io culturale
di Sow, anziché promuovere una divisione tra teoria e pratica, tra letture
scientifiche, culturali e storiche, riesce a interpretare una visione olistica
della persona. Partendo dall’esperienza africana di uomo, che non conosce
una divisione tra corpo e anima, tra spirito e mente, tra individuo, società
e Ancestri/Antenati, l’autore di Psychiatrie Dynamique Africaine sviluppa
una modello olistico della relazione, strutturale e funzionale, tra cultura e
persona che ben risponde alle esigenze del terapeuta (e del ricercatore) in
qualsivoglia contesto culturale.
Bibliografia
Bruner J.S. (1986), La mente a più dimensioni, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1988.
Bruner J.S. (1990), La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, tr. it.
Bollati Boringhieri, Torino 1992.
De Cordova F. (2009), Psicologia culturale e cura, in Inghilleri P. (a cura di),
Psicologia culturale, Raffaello Cortina, Milano.
14
Devereaux G. (1952), L’etnopsichiatria come quadro di riferimento nella ricerca e nella pratica clinica, in Devereux G., Saggi di Etnopsichiatria generale,
Armando, Roma.
Devereux G. (1961), Mohave Ethnopsychiatry and Suicide, Smithsonian Institution,
Bureau of American Ethnology Bulletin 175, Washington, DC.
Devereux G. (1967), Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento,
tr. it. Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1984.
Gardner H. (1993), Intelligenze creative, tr. it. Feltrinelli, Milano 1994.
Kaës R. (2007), Un singolare plurale, tr. it. Borla, Roma 2007.
Inghilleri P. (2009), Psicologia culturale, Raffaello Cortina, Milano.
Inghilleri P., Terranova-Cecchini R. (1991), Avanzamenti in psicologia transculturale. Nuove frontiere della cooperazione, FrancoAngeli, Milano.
Moro M.R. (1994), Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazioni, tr. it. Raffaello
Cortina, Milano 2002.
Moro M.R. (1998), Bambini immigrati in cerca di aiuto, tr. it. Utet, Torino 2001.
Moro. M.R. (2007), Maternità e amore. Quello di cui hanno bisogno i bambini per
crescere bene qui e altrove, tr. it. Frassinelli, Milano 2008.
Shorter E. (1985), La tormentata storia medico-paziente, tr. it. Feltrinelli, Milano
1986.
Shweder R.A. (1984), La ribellione romantica dell’antropologia nei confronti dell’Illuminismo, o del pensare al di là della ragione e dell’esperienza, in
Shweder R.A., LeVine R.A. (a cura di), Mente, sé, emozioni. Per una teoria
della cultura, tr. it. Argo, Lecce 1997.
Shweder R.A. (1991), Thinking through Cultures: Expeditions in Cultural
Psychology, Harvard University Press, Cambridge (ma).
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Introduzione
Nella pratica psichiatrica non vi è alcun mistero né segreto «clinico»
nel momento in cui, grazie all’aiuto di un paziente, poniamo una diagnosi
in conformità al criterio medico. Questo vale sia per una diagnosi clinica
elaborata in seguito a colloqui frequenti, ad «ascolti» pazienti e all’osservazione minuziosa dei «fatti psichici», delle condotte, ecc. – che raccogliamo in una o molteplici costellazioni significative di una sindrome o di una
malattia determinata – sia per una diagnosi detta di «struttura», ricavata
partendo da evidenti segnali-sintomi, indicativi della struttura latente della
personalità che vi soggiace e che li fonda o li illumina, e che permette di
ricostruire, in modo sintetico, i legami esistenti tra la personalità globale
e alcuni elementi della condotta di un paziente. Non c’è in questo caso
alcun mistero né segreto «clinico». Facciamo costantemente riferimento
a uno schema teorico – o prototeorico – che è semplicemente una ricostruzione dei «fatti», secondo un certo ordine e in un determinato schema
intellettuale, che permette una certa intelligibilità dei sintomi e dei meccanismi psicopatologici. Ciò che invece sembra evidente – ma si dimentica
di sottolinearlo – è che l’attuazione di questi strumenti concettuali è fatta,
dall’inizio, in condizioni specifiche ben determinate.
Che cosa possiamo dedurre da ciò? Senza porre qui il problema della
loro validità – nel senso della metodologia sperimentale – insisitiamo in
particolar modo sul fatto che tali costruzioni, che costituiscono una parte
importante del «sapere medico» dei clinici, sono state realizzate a partire
da una pratica, sul campo, e messe a disposizione dei praticanti1 che avranno tutto il tempo, sia nella formazione professionale che nella loro pratica,
di testarne, caso dopo caso, se non la validità almeno il valore euristico. In
1
Con il termine praticien in francese si intende «la persona che conosce la pratica di
un’arte o di una teoria». Il praticien en soins infirmiers, per esempio, è l’infermiere addetto
alla cura del paziente, così come le praticien dans l’art dentaire è il dentista. Praticien è anche usato per indicare qualsiasi medico specialista che eserciti la sua professione (N.d.T.).
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questo caso, però, si omette di specificare ai futuri clinici che questi schemi, fondamenti comuni del loro sapere teorico, sono stati costruiti non soltanto all’interno di un determinato schema intellettuale e di un linguaggio
specifico, ma anche in riferimento a un implicito orizzonte antropologico
– che comporta necessariamente una concezione precisa della nozione di
malattia mentale – e in riferimento a una determinata teoria dell’organizzazione e della dinamica della personalità – ovvero a partire dalla concezione
che si ha della sua struttura intima, della sua genesi, delle sue motivazioni,
dei suoi scopi, delle sue finalità, ecc. È innegabile che lo schema teorico di
riferimento, che con ogni evidenza serve a organizzare secondo un certo
ordine i «fatti clinici» al fine di renderli intelligibili, si articola esso stesso
esplicitamente o implicitamente in una dottrina della personalità e che, di
conseguenza, reinvia a tutta una totalità metateorica ancora più vasta, e di
fatto di natura propriamente antropologica.
Riprendiamo con più chiarezza il problema dall’inizio: ci sembra che la
diagnosi del clinico, in psicopatologia, divenga tanto più coerente, euristica e «valida» se lui stesso si riferisce, nei fondamenti, allo stesso sistema
di pensiero del suo paziente e se le loro rispettive produzioni reinviano,
alla fine, alla medesima totalità metateorica. Detto in altri termini: il sapere psicopatologico del praticante e il linguaggio dei sintomi clinici del
paziente procedono da una stessa lingua madre che, essa sola, può rendere
possibile tra loro una comunicazione e un dialogo biunivoci e reciproci. Si
può anche formulare il problema in questi termini: è possibile affermare
l’esistenza di fatti psichici umani allo stato grezzo? Vale a dire: il «fatto
grezzo» in questione non è, necessariamente, già pre-elaborato dal paziente e poi, in quanto tale, ripreso e «schematizzato» dal praticante? Non vi è
una concezione meta-teorica più o meno elaborata, il più delle volte implicita, che forse presiede, costantemente, alla produzione e alla sistemazione
dei «fatti grezzi»? Il «fatto grezzo» non è, di colpo e in modo univoco,
una totalità già complessa? Come ridefinire, in questo caso, l’obiettività
scientifica?
Vi è qui, su un piano epistemologico, un problema – allo stesso tempo
teorico e pratico – di un’importanza fondamentale, che concerne nozioni
classiche come: la semplicità, la generalità, l’esteriorità, ecc…, dei «fatti»
immediati e, di conseguenza, l’oggettività – nella sua accezione comune –
dei fatti psichici umani, perfino osservati «inconsapevolmente». È possibile, con serietà, grazie all’aiuto di categorie generali, astratte, razionali, universali, che sarebbero esterne al sistema d’insieme che le produce, cogliere
e spiegare in tutta la loro profondità dei fatti inerenti a condotte personali
o collettive «non razionali»? Più precisamente: sarebbe possibile fare ciò
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senza situarsi, di colpo, sul piano dell’interpretazione «partigiana» o dello
stesso sistema che interpreta questi fatti? Riassumendo: non siamo condannati a interpretare le interpretazioni del paziente – i fatti psichici sono delle
produzioni – con l’aiuto del suo stesso sitema d’interpretazione?
Si percepisce qui, in ogni caso, la deiscenza teorico-semantica che si
verifica, al livello della spiegazione-interpretazione, tra il «sistema» detto
«obiettivo» dello studioso che vorrebbe essere all’interno e contemporaneamente al di fuori delle situazioni, e il sistema o «bagaglio esistenziale» di
un paziente che soffre e che, in condizioni e circostanze determinate, in fin
dei conti produce effettivamente i «fatti grezzi» sottomessi all’osservazio
ne sistematica dello studioso.
Non c’è, a ben vedere, nessuna ragione seria (epistemologica, antropologica, culturale, «psicologica» pura, ecc.) per trasferire le proprie costruzioni teoriche e i propri schemi allo studio e alla comprensione dei fatti
psichici «grezzi » prodotti dai non occidentali. A meno che non si privilegino, in nome di un assunto imposto in modo puramente dogmatico e che
poi verrebbe generalizzato, le conoscenze psicologiche e psicopatologiche
occidentali perché esse sono, attualmente, le più sistematizzate, almeno
all’interno della loro frontiera di validità.
Spingiamoci ancora oltre e chiediamoci: con quale diritto, teoricamente
e praticamente, un ricercatore potrebbe, attualmente, costruire un meta-sistema che ingloberebbe, di colpo e tutte insieme, le totalità meta-teoriche:
occidentale, hindu, africana, ecc.? In effetti, ognuno di questi sistemi antropologici globali sviluppa, con una tecnicità più o meno elaborata, una
dottrina e una teoria della personalità in coerenza con i fatti delle condotte
reali, immaginari e ecc., di ordine psichico totale. Sappiamo inoltre che le
dottrine e le teorie psicologiche sorte dal sistema sono anche dei principi
interni che strutturano, dall’inizio, le condotte globali, particolari o individuali: relazioni familiari, legami psico-sociali, sistema d’educazione, credenze, valori, attitudini, ecc.
All’interno di ognuna di queste totalità antropologiche, la verifica
scientifica delle ipotesi fornite dalle teorie psicologiche, quando esistono
e se hanno una coerenza, ci informa soprattutto sulla validità del sistema e
sulla coerenza della dottrina antropologica di base. Detto in altri termini,
si può azzardare l’ipotesi che se «tutto funziona bene», si dovrebbe ritrovare alla fine ciò che già si aveva in partenza, in modo più o meno latente,
diffuso e non sistematizzato. Una verifica di tipo sperimentale, in questo
caso, sfocia nel migliore dei casi nel collegare il «fatto grezzo», apparente,
con la teoria e, su di un altro piano, con la meta-teoria. Questo significa, in
fondo, evidenziare gli anelli intermedi. Sul piano della ricerca, in sintesi,
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l’approccio analitico e l’approccio sintetico devono coesistere e controllarsi reciprocamente all’interno di uno stesso orizzonte interno di validità,
elaborato in precedenza.
Possiamo allora notare come la psicoanalisi occidentale, in quanto dottrina e teoria generale dell’uomo, sia anche produttrice di «fatti psichici
grezzi», come lo è, d’altronde, ogni meta-teoria integrata alla totalità di un
sistema antropologico coerente. È noto il modo in cui essa s’insinua così
profondamente in tutta l’esistenza mentale dell’Occidente contemporaneo
(culturale, sociale, individuale, pedagogica, ecc.), in misura maggiore di
una pura e semplice costruzione teorica. E come, all’interno di un sistema
antropologico occidentale, è perfino contraddittorio cercare di confutarla.
Considerato che la psicoanalisi non è una semplice meta-teoria scientifica
– anche se in parte lo è – essa non potrebbe suddividersi in semplici teorie
e ipotesi «obiettive» come qualsiasi altra meta-teoria scientifica costruita
da specialisti «neutri» e competenti. Essa non potrebbe neanche essere una
mistificazione teorica, imposta dall’alto da menti maligne, perché la dottrina che la anima è ancora integrata, attualmente, al sistema antropologico
occidentale, di cui essa traduce una delle prospettive essenziali. La relazione psicoanalitica è feconda solo se il linguaggio dell’analizzante e quello
dell’analizzato reinviano alla stessa totalità simbolica fondamentale.
La psicoanalisi, in questo modo, fa parte integrante della cultura occidentale contemporanea che l’ha prodotta e di cui essa produce a sua volta
la parte predominante, o almeno la più feconda. Nel produrre i suoi «modelli relazionali», la psicoanalisi costituisce piuttosto l’espressione della
realtà attuale, in un momento «tumultuoso» delle relazioni tra gli uomini
e più generalmente delle relazioni dette di oggetto tra l’uomo occidentale
e l’universo occidentale che l’ha costruito storicamente. Come indicato
precedentemente, è proprio nell’universo antropologico occidentale attuale che le dottrine, le teorie, i «modelli» e le pratiche psicoanalitiche trovano
effettivamente le loro migliori applicazioni, così come la loro più grande
coerenza.
I «segreti» della psicoanalisi – ammesso che esistano – si trovano, a rigore, esclusivamente nel tessuto della storia e della cultura occidentali. In fin
dei conti il momento storico dell’evoluzione delle strutture relazionali occidentali, teorizzato dalla psicoanalisi, è e resterà una tappa capitale dell’antropologia del soggetto nell’evoluzione storica dell’uomo occidentale.
In coerenza con la linea metodologica generale dell’analisi regressiva,
che mira a collegare dapprima il «fatto grezzo» alla sua sub-struttura al
fine di illuminarlo meglio in seguito, attraverso la totalità strutturale alla
quale appartiene – e nella quale si «racchiude» – apparirà allora evidente
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al lettore che ciò che si vuole realizzare all’interno di questo lavoro, è
mostrare i legami profondi che esistono tra la nozione di malattia mentale
nelle società tradizionali e gli elementi secondo noi più fondamentali nelle
strutture antropologiche (socio-culturali) africane.
L’analisi dei numerosi lavori dedicati alle pratiche tradizionali in Africa
nera permette di rilevare alcune linee direttrici che mostrano l’originalità
propria di un sapere psichiatrico africano. Se in certe aree culturali si osservano delle differenze di tecnica sul piano della pratica, in certi punti del
continente fortemente lontani geograficamente gli uni dagli altri si nota
soprattutto una profonda identità al livello della rappresentazione, della
tematizzazione e della concettualizzazione del disordine mentale.
Riassumendo si può dire che: se esiste di fatto un sapere psichiatrico
africano originale, la nostra ambizione sarà di contribuire qui a schizzarne
i suoi fondamenti teorici.
Sul piano generale del metodo cerchiamo di rendere conto, senza ricorrere a meta-teorie costituite a partire da specifiche esperienze antropologiche esogene, delle conoscenze particolari degli africani, partendo dalle
loro prospettive e da esperienze a loro proprie, concepite e rappresentate
da loro stessi, vale a dire in qualche modo «dal di dentro». Si tratterà, in
fin dei conti, di analizzare in modo sistematico il sapere psicopatologico
africano senza pretendere per questo, in alcun modo, di universalizzarne i
dati e i risultati. Così facendo, cercheremo di evitare la trappola del discorso dogmatico chiuso, che ha uno sguardo induttore e amplificante. Poiché,
come è stato scritto precedentemente, un discorso simile, allo stato attuale
delle cose, può essere formulato solo da modelli elaborati a partire da realtà culturali e storiche regionali. Questo implicherebbe, a un livello più
generale, che il «sapere antropologico regionale» così elaborato all’interno
di società determinate – e che alimentano tali discorsi – potrebbe costituire,
a priori, un oggetto universalizzabile nei suoi risultati teorici e, di conseguenza, che i «fatti psichici grezzi» non solo esisterebbero, in se stessi, al
di fuori di tutte le realtà antropologiche che conferiscono loro una struttura,
ma che questi sarebbero, sempre e ovunque, identici. Alla base di un tale
orientamento teorico esiste la concezione – che è una convinzione e/o un
atto di fede – secondo la quale è possibile fin dall’inizio una conoscenza
universale e scientifica presente, passata o futura… dell’uomo in generale,
ossia in ultima analisi una conoscenza di una Natura Umana o di un uomo
detto, da sempre e ovunque, «Naturale», e di un’essenza naturale alla base
(praticamente come in biologia). La questione principale resta sapere se
sia possibile fare una psicologia – e forse, più generalmente, una scienza
umana – basata su questa «essenza unitaria» e dogmatica degli inizi.
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Alcuni illustri discorsi antropologici sistematizzati hanno avuto, modestamente e senza esserne coscienti, come motore principale e come vero
epicentro, esclusivamente la conoscenza dell’uomo occidentale, considerato soprattutto in una prospettiva storica evoluzionista o neoevoluzionista,
e considerato come grado ultimo dell’umanità, e della razionalità. I popoli
detti «primitivi», in una tale prospettiva, sono oggetto in ogni caso di una
manipolazione teorica da parte di tutti coloro che vedono in essi solo gli
originali protostorici, devalorizzati, sub-umani, della Natura Umana, ordinata secondo una scala biologica dell’Evoluzione, il cui apice sarebbe
detenuto dall’uomo occidentale istruito!
Alcuni studi scientifici, viceversa – ma secondo la stessa logica – danno l’impressione di operare una rivoluzione copernicana volta a fare delle
strutture di pensiero degli indiani d’America, degli africani o degli australiani, ecc. il luogo intimo e attivo di ciò che resterebbe della Cultura
Umana. È forse anche questo, in fondo, dell’evoluzionismo al contrario.
Se effettivamente esistono delle culture, la Cultura Umana, secondo noi,
rimarrà ancora a lungo un obiettivo da realizzare storicamente.
Il presente lavoro non consisterà nel negare il valore intrinseco di tutti
i super-sistemi, ma nel «sospenderli» sul piano del metodo, così come si
sospenderebbe un dogmatismo totalitario costruito dal di fuori, e che pertanto corrisponde a una razionalità posta a priori, la quale pretenderebbe di
giudicare, in base a criteri e caratteristiche proprie, se tutti gli altri sistemi
concettuali o rappresentativi le sono o meno adeguati.
Ai fini del nostro discorso, poniamo con precisione il principio che
qualsiasi formalizzazione dei pensieri e delle pratiche africane, per quanto
efficace, non può essere in ultima analisi che arbitraria se non si parte, prima di tutto, dall’interno delle strutture africane. Ci sembra che qui risieda
il problema essenziale.
Per questo motivo bisognerà, per quel che riguarda una visione d’insieme dei problemi, non solo illuminare e descrivere le strutture concrete
specifiche, i contesti intellettuali e culturali originali, che sono regolatori
della psicologia e della psicopatologia in Africa Nera – e scoprire, in questo modo, i loro meccanismi e legami interni specifici – ma anche costruire
o ricostruire i modelli genetici e strutturali originali. È a partire da questi
ultimi, infatti, che si illuminano le condotte e i fatti psichici africani, al fine
di comprendere come si sviluppano i sintomi, le loro policromie e tonalità
emozionali, le rappresentazioni, ecc. all’interno delle stesse strutture antropologiche africane nelle quali sono stati prodotti.
Detto altrimenti, e in modo più schematico, la nostra domanda sarà
questa:
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Quali sono gli elementi, le potenzialità intime e i meccanismi propri
della psicologia e della psicopatologia africane nella vita quotidiana, in rapporto allo specifico e preciso progetto antropologico che le presuppone?
E non questa:
I pensieri e le pratiche africane rispondono o no alla «razionalità» dei
modelli che gli sono proposti – o imposti – dall’esterno?
L’intelligibilità delle condotte, delle operazioni, delle rappresentazioni,
dei pensieri e, quindi, dei modelli africani tradizionali, sarà assunta come
autosufficiente e auto-fondatrice, alla luce dei temi e dei simboli fondamentali dello stesso universo culturale africano…
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