Egitto: cinque possibili candidati per una pesante eredità

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Egitto: cinque possibili candidati per una pesante eredità
21 maggio 2012
Egitto: cinque possibili candidati per una pesante eredità
Elisa Ferrero(*)
Dopo una lunga e travagliata fase di transizione, con forti contrasti tra militari, islamisti e forze
secolari, continue proteste popolari ed episodici scoppi di violenza, l’Egitto si sta finalmente
avviando alle elezioni presidenziali del 23 e 24 maggio. I candidati sono tredici, ma secondo i
sondaggi (la cui affidabilità è da verificare) la rosa dei favoriti è ristretta a cinque nomi.
Il primo (secondo un sondaggio dell’Ahram Center for Political Studies del 14 maggio) è Amr
Moussa, ex presidente della Lega Araba ed ex ministro degli Esteri di Mubarak. Considerato dai
rivoluzionari un uomo del vecchio regime, secondo altri non è mai stato veramente assimilato dal
sistema dittatoriale. Liberale moderato, favorevole ai militari e politico navigato, è probabile che
attirerà i voti di molti secolari (cioè non-islamisti) e di numerosi cristiani che, pur non amando il
vecchio regime, desiderano stabilità e continuità, temendo soprattutto il prevalere degli islamisti.
Il secondo favorito è Ahmed Shafiq, ex ministro dell’Aviazione civile di Mubarak e primo ministro
nei giorni della rivolta del 2011. Proveniente dalle forze armate, rappresenta più di tutti il candidato
dell’establishment militare e dei nostalgici del vecchio regime. Su di lui, tuttavia, incombono accuse
di corruzione e la possibile squalifica retroattiva dalle elezioni, se la Corte costituzionale approverà
la legge che esclude dalla politica gli uomini di Mubarak.
Il terzo favorito è Abdel Moneim Abul Fotouh, medico e dissidente della Fratellanza musulmana.
Con la sua proposta d’islamismo liberale, si presenta come l’anello di congiunzione fra secolari e
islamisti. Vicino alle forze rivoluzionarie, su di lui pesa il sospetto di essere ancora legato ai Fratelli
musulmani. La sua candidatura ha diviso il voto islamista, guadagnando il sostegno di una parte
dei salafiti, del partito al-Wasat, di molti giovani della Fratellanza musulmana e di alcuni leader
dello stesso movimento. Potrebbe inoltre ottenere il voto di quei liberali che lo ritengono l’unico
candidato pro-rivoluzione con reali possibilità di vincere, così come il voto di alcuni cristiani che
pensano che Abul Fotouh sia il solo islamista disposto a tutelare i loro diritti.
Il quarto favorito è Mohammed Morsy, candidato dei Fratelli musulmani, che ha sostituito il
carismatico boss del movimento Khayrat al-Shater, dopo la squalifica di quest’ultimo per
mancanza dei requisiti legali. I Fratelli musulmani hanno proposto un proprio candidato dopo aver
compreso che il Parlamento, di cui detengono la maggioranza, non ha poteri reali. Questa mossa
ha rappresentato la rottura della tacita alleanza con il Consiglio militare. Morsy non sembra avere
grandi possibilità di vincere, ma la ferrea organizzazione della Fratellanza potrebbe fare la
differenza.
L’ultimo tra i favoriti è Hamdeen Sabbahi, socialista nasseriano coinvolto nella rivolta del 2011.
Ultimamente sta raccogliendo molti consensi tra gli intellettuali laici, presentandosi come una
valida alternativa agli islamisti e ai lealisti (o presunti tali) del vecchio regime.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Elisa Ferrero, giornalista freelance, autrice di Cristiani e musulmani, una sola mano, EMI, 2012.
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Gli altri otto candidati hanno minori probabilità di vincere: Mohammed
Selim el-Awa (islamista), Abul Ezz el-Hariri (sinistra), Khaled Ali
(sinistra), Hisham al-Bastawisi (sinistra, giudice riformista), Hossam
Khayrallah (ex ufficiale dell’intelligence), Mahmoud Hossam (ex
ufficiale di polizia), Mohammed Fawzi Eissa (avvocato, ex ufficiale di
polizia) e Abdallah al-Ashaal (diplomatico, liberale).
Nessun candidato, neanche tra quelli dichiaratamente ostili al
governo dei generali, ha proposto un programma concreto di
smilitarizzazione dello stato egiziano (il vero ostacolo alla
democratizzazione). È improbabile dunque che il nuovo presidente
oserà abolire i privilegi della casta militare. La speranza è invece in
un graduale ridimensionamento di tali privilegi che eviti lo scontro
diretto con i militari, operazione, tuttavia, che dipenderà molto dalla
perseveranza della pressione popolare.
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21 maggio 2012
Gli incerti poteri costituzionali del nuovo presidente egiziano
Pietro Longo(*)
Le elezioni presidenziali egiziane si collocano nel contesto della road map che condurrà il paese al
completo rinnovamento dei suoi organi politici, a seguito della rivolta dello scorso anno e l’elezione del
Parlamento avvenuta nei mesi di novembre e gennaio. Il processo costituente si è attivato secondo una
prassi già nota nel paese, l’adozione di una Dichiarazione Costituzionale successivamente al momento
rivoluzionario e redatta da un’assemblea ristretta. Come a seguito della “Rivoluzione degli ufficiali liberi”
del 1952, il popolo egiziano ha esercitato la propria sovranità soltanto ex post, ratificando a mezzo
referendario un testo interinale già scritto. Sebbene una lunga tradizione di “mostri sacri” del diritto
costituzionale, da Hans Kelsen a Paolo Biscaretti di Ruffia e Giuseppe de Vergottini, abbia riconosciuto
la validità dottrinaria di questa prassi, è chiaro come essa risulti a monte derogatoria rispetto al principio
democratico che, sebbene nella sua forma diretta, viene esercitato soltanto a margine ovvero a
conclusione della fase di determinazione delle nuove norme costituzionali generali.
Nel caso di specie è necessario considerare che la Costituzione del 1971, successivamente emendata,
conteneva all’art. 84 una procedura, anche piuttosto dettagliata, relativamente al modo in cui doveva
essere sostituito il presidente incapace di assolvere i propri compiti. Ai sensi di quel testo il presidente
del Parlamento assumeva temporaneamente le prerogative esecutive, a meno che il Parlamento non
fosse stato sciolto, caso in cui subentrava il presidente della Suprema corte costituzionale. Il Consiglio
supremo delle forze armate (Csfa) non era previsto dalla Costituzione precedente che si limitava a
stabilire un Consiglio della difesa nazionale (art. 182) diretto dal presidente della Repubblica. In tal
senso lo Csfa è un organo extra ordinem che ha agito sulla base di una legittimità auto assunta, che gli
ha permesso di operare in deroga all’art. 84 summenzionato. L’ultimo presidente del Parlamento
nominato sulla base della Costituzione del 1971, Ahmad Fathi Surur, ex ministro dell’Educazione, non
ha esercitato la funzione di supplente ed è stato sostituito da Mohamed Hussein Tantawi quale
presidente dello Csfa.
Un dato rilevante è il seguente: mentre il vecchio testo costituzionale conteneva una disciplina piuttosto
controversa in merito alla modalità di elezione del presidente della Repubblica, concausa dell’erompere
della rivolta, la nuova Dichiarazione costituzionale non innova alcunché. Nella sua redazione originale
l’articolo 76 della Costituzione del 1971 ascriveva al Parlamento il compito di nominare il presidente,
salvo ratifica plebiscitaria successiva. La nomina di un candidato doveva godere della proposta di 1/3
dei membri dell’Assemblea mentre la candidatura che avesse ottenuto il consenso della maggioranza
dei 2/3 veniva confermata dal plebiscito. In assenza di questa maggioranza, una nuova procedura di
voto iniziava a distanza di due giorni dal primo turno: in questo caso la maggioranza assoluta ottenuta
da un candidato era sufficiente per innescare l’azione plebiscitaria ove era necessario il materializzarsi
del medesimo quorum. Attraverso gli emendamenti del 25 maggio del 2005 e del 26 marzo del 2007,
venne introdotta la nomina diretta. Tuttavia per venire ammesso alla tornata elettorale, il candidato
doveva godere del sostegno di almeno 250 membri delle camere del Parlamento e delle assemblee
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Pietro Longo, dottorando in Studi sul Vicino Oriente all’Università l’Orientale di Napoli, Dipartimento di Studi e
Ricerche su Africa e Paesi Arabi.
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locali, rispettando la seguente ripartizione: almeno 65 deputati della camera bassa, 25 di quella alta e
10 delle assemblee regionali in almeno 14 regioni.
La Dichiarazione costituzionale adottata nel marzo del 2011 conserva, all’art. 27, l’elezione diretta del
capo dello Stato ma ha mantenuto anche lo sbarramento alla maniera seguente: supporto di almeno 30
membri eletti presso le due camere del Parlamento o supporto di almeno 30.000 cittadini in possesso
del diritto di voto. Tali consensi devono essere ripartiti in 15 province, in ciascuna delle quali almeno
1.000 devono essere totalizzati. Altre norme sono contenute nella legge elettorale n. 174 del 2005
considerata ancora in vigore e all’art. 26 della Dichiarazione costituzionale: «il candidato deve
possedere la nazionalità egiziana e non aver posseduto altra nazionalità, deve essere nato da genitori
egiziani privi di altra nazionalità, deve godere dei diritti civili, non essere sposato a un coniuge non
egiziano e d’età non inferiore ai 40 anni». La legge elettorale completa il quadro stabilendo all’art. 13.4
l’obbligo del candidato di aver assolto gli obblighi di leva o di godere di ottimo stato di salute.
Da questo quadro si evince la sostanziale difficoltà con cui è condotta la fase preparatoria delle
elezioni, tra battute d’arresto e ipertrofia delle candidature molte delle quali sono state respinte. Il 10
maggio scorso i media egiziani hanno fatto circolare la notizia secondo cui le elezioni presidenziali
sarebbero illegali perché affette da un vizio di forma: il decreto che le indice dovrebbe venire adottato
dallo Csfa, nella persona di Tantawi e non dalla Commissione suprema per le elezioni presidenziali
(Csep). La giunta militare ha assicurato tuttavia che la situazione sarà normalizzata tramite l’adozione
di tutti gli atti necessari.
Quanto alle candidature, il 14 aprile scorso la Csep ha respinto dieci candidati tra i quali Omar
Sulayman, vice presidente nell’immediato post-Mubarak e figura di rilievo dei servizi segreti e Khayrat
al-Shater, ingegnere, uomo d’affari e candidato del partito Libertà e Giustizia della Fratellanza
musulmana. Quest’ultimo è stato respinto quando lo SCAF ha notificato il suo recente rilascio dalla
prigione, in violazione delle disposizioni che richiedono la scarcerazione da almeno sei anni. Un altro
candidato la cui presentazione ha avuto esito negativo è stato Hazem Salah Abu Ismail, avvocato
proveniente dalle fila del partito salafi al-Nur. Dopo aver rilasciato dichiarazioni favorevoli alla fine del
trattato di pace con Israele, è stata denunciata un’irregolarità nella sua candidatura dovuta al fatto che
uno dei genitori avrebbe goduto della nazionalità statunitense. In ultimo anche Ayman Nur, fondatore
del partito al-Ghad, è stato colpito dal decreto di squalifica per un vizio nel godimento dei diritti politici.
L’adozione di una legge sulla corruzione, adottata dal nuovo Parlamento il 12 aprile scorso e ratificata
dallo Csfa nello stesso mese, ha proibito la candidatura di quanti hanno già svolto la funzione di
presidente, vice presidente, primo ministro e per i membri di rilievo del Partito nazionale democratico a
partire dai dieci anni precedenti all’abbandono del potere da parte di Mubarak. Queste norme non
hanno impedito l’accesso alla corsa ad Ahmed Shafiq, ex primo ministro nominato nel gennaio del 2011
e comandante dell’aviazione.
La carica è contesa tra 13 personalità tra cui i favoriti sarebbero Amr Moussa, ex segretario generale
della Lega Araba e ben due candidati islamisti: Abu al-Futuh ‘Abd al-Hadi membro della Fratellanza
musulmana che al momento avrebbe ottenuto il supporto di al-Nur, dei moderati di al-Wasat e della
sezione islamista giovanile al-Tayyar al-Masri, e Muhammed Morsy, candidato ufficiale del partito
Libertà e Giustizia. Il primo dei due concorrenti islamisti ha dichiarato che nominerà un cristiano o una
donna come vice presidente e si considera un “islamic liberal”. D’altro canto Morsy ha ricevuto il
supporto ufficiale della Fratellanza che, frattanto, è passata dal tradizionale slogan «l’Islam è la
soluzione» a quello che inneggia al “progetto di rinascita”.
Il terzo incomodo nel fronte islamista appare Mohammed Selim el-Awa, ex segretario dell’Unione
mondiale degli “ulama”, guidata da Yusuf al-Qaradawi, scrittore e intellettuale stimato. Anch’egli
farebbe parte della tendenza moderata, wasat o centrista, del fronte islamista ed è noto per alcune
posizioni progressiste, come si legge nei suoi trattati di diritto costituzionale islamico.
A margine si piazzano i candidati dichiaratamente di sinistra, come l’attivista dei diritti umani Khaled Ali,
il giudice Hisham al-Bastawisi, supportato dal partito progressista Tagammu e il nasserista Hamdeen
Sabbahi, leader del partito Karama (Dignità).
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È sintomatico il fatto che tre dei candidati in lizza, per altro individui
molto popolari, siano affiliati a vario titolo alla Fratellanza musulmana o
comunque siano espressione di quel settore delle forze politiche
egiziane rimaste ai margini per lungo tempo. Né si deve trascurare come
tutti i candidati abbiano avuto relazioni di vario genere con il trascorso
regime. Dal canto suo lo Csfa, organo dotato di poteri assoluti, ha
devoluto la potestà legislativa al nuovo Parlamento eletto ai sensi
dell’art. 56 della Dichiarazione costituzionale, nonostante conservi la
possibilità di adottare atti aventi forza di legge e promulghi la legislazione
ordinaria. L’elezione del nuovo presidente della Repubblica segna un
momento fondamentale nell’estinzione della fase interinale dato che – ex
art. 61 della Dichiarazione costituzionale – lo Csfa cesserà di esercitare
le responsabilità delle quali esso stesso si è dotato nel momento in cui
anche il presidente entrerà nell’esercizio delle funzioni.
Sarà opportuno attendere l’esito delle elezioni presidenziali per
osservare il quadro dei poteri pubblici nella sua pienezza, specie dopo
che il capo dello Stato avrà nominato il primo ministro e il gabinetto di
Governo. In questo caso diversi scenari sono plausibili: al momento, la
Dichiarazione costituzionale non consente al Parlamento di sfiduciare il
Governo, né tanto meno lo Csfa, fattore che impedisce alla Fratellanza
musulmana di prevalere del tutto sulla giunta militare ma che anzi la
obbliga ad accettare la spartizione del feudo. Con la nomina di un
presidente “islamista” gli equilibri sarebbero destinati a mutare
nonostante allo Csfa spetti di adottare l’atto propulsivo di convocazione
della nuova Assemblea costituente – ex art. 60 della Dichiarazione
costituzionale. Proprio in previsione di ciò il fronte islamico potrebbe non
avere alcune interesse ad alienarsi il contatto con i militari.
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Egitto: i militari continueranno a contare
John Shehata(*)
«La forza dell’Egitto e la sua difesa sono nell’unione tra l’esercito e il popolo»: questo il motto che,
dopo la Thawra del 25 gennaio 2011, echeggiava per le strade del Cairo, veniva ripetuto dalla televisione di stato e si leggeva su alcuni manifesti affissi per le vie della capitale egiziana. Propaganda filo-militare, naturale seguito del sostanziale coup d’état guidato dal capo delle forze armate
Mohamed Hussein Tantawi che, dal 13 febbraio 2011, tiene le redini dello stato, soffocando le
insurrezioni e rendendo le manifestazioni di Piazza Tahrir nulla più che un tentativo, non di particolare successo, di un radicale cambiamento dello status quo.
Il tentativo di rivolta – che ha simbolicamente preso avvio il 25 gennaio 2011, giorno della festa
della polizia, contro i cui soprusi il popolo protestava –, ha visto il proprio limite naturale
nell’intervento dell’esercito che, se da un lato ha riportato l’ordine e la pace nelle strade, dall’altro
ha irreversibilmente interrotto il processo laico e rivoluzionario in corso.
Ma quale potrebbe essere uno scenario possibile in relazione alle imminenti elezioni presidenziali?
E quale potrebbe essere il ruolo delle forze armate nell’Egitto del post Mubarak? Per tentare una
prima analisi di questo complesso tema, giova riflettere sul ruolo che, nel corso dei decenni, i militari hanno ricoperto nella politica del paese e, nel contempo, prendere in considerazione la generale situazione geopolitica dell’area sud del Mediterraneo.
La storia della Repubblica araba d’Egitto, infatti, è strettamente collegata al ruolo politico del suo
esercito. Lo stato è sempre stato profondamente militarizzato: Nasser, Sadat e Mubarak erano alti
funzionari delle forze armate; strutture militari ed edifici-tempio delle forze armate sono presenti in
ogni angolo del paese; il servizio di leva è obbligatorio per legge, può durare fino a 3 anni e può
contare su circa 18 milioni di uomini abili alle armi. Non solo: le forze armate egiziane sono le più
imponenti nel mondo arabo, contano circa mezzo milione di soldati attivi e hanno un budget di
quasi 6 miliardi di dollari l’anno. Non è immaginabile che un simile ingranaggio della burocrazia del
Cairo possa essere smantellato, o anche solo riorganizzato e limitato nel suo immenso potere,
nell’arco di pochi mesi.
A ciò si aggiunga che, sin dall’entrata in vigore della legge n. 162/1958, nel paese vigono le leggi
di emergenza e lo stato di eccezione: ovvero quella sospensione legalizzata dello stato di diritto,
asseritamente finalizzata a dare una risposta immediata, da parte del potere statale, ai conflitti
interni. Sennonché, per effetto di tale stato di eccezione, l’Egitto è stato di fatto interessato da una
guerra civile permanente: l’Egitto – in altri termini – si è trovato soggetto alla sfera d’influenza dei
militari, legittimati a gestire la cosa pubblica con totale discrezionalità e sulla base di relazioni
“clientelari” che sarà difficile destrutturare.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*)John Shehata, coordinatore Master per l’internazionalizzazione di impresa su Vicino e Medio Oriente, NIBI (Nuovo
Istituto di Business Internazionale).
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Se, quindi, da una prospettiva interna l’Egitto pare non riuscire a liberarsi dell’influenza dell’esercito, da un punto di vista internazionale, sembra addirittura che lo stato non possa fare a meno dei
soldati a difesa del suo territorio e della sua popolazione.
La situazione geopolitica dell’area sud del Mediterraneo, infatti, appare quantomeno complessa ed
evidentemente instabile. La Rivoluzione dei Cedri in Libano si è conclusa con l’ascesa al potere di
Hizballah; nei territori palestinesi della Cisgiordania è al comando Mahmoud Abbas (conosciuto
anche con la kunya Abu Mazen); la striscia di Gaza è governata dalla Harakat al-Muqāwama alIslāmiyya, meglio nota come Hamas; Libia, Yemen, Sudan, Siria e Iraq sono, seppur in modi diversi, in un momento di profonda e marcata instabilità politica, mentre gli Stati Uniti hanno già pronti i
piani per un eventuale intervento armato contro l’Iran, come recentemente dichiarato da Dan Shapiro, ambasciatore americano in Israele.
La difesa delle frontiere egiziane e le alleanze strategiche del Cairo con gli stati vicini rendono, ora
come ora, essenziale la presenza di un corpo armato che possa difendere l’Egitto e intervenire in
caso di conflitti armati nei territori alleati.
La situazione appare ancor più delicata, poi, se si pensa ai rapporti tra Egitto e lo stato di Israele.
Per quanto sia noto che il Cairo abbia, sin dagli accordi di Camp David, un rapporto di buon vicinato con Tel Aviv, ciò non toglie che il mancato adempimento da parte del governo egiziano ai propri
obblighi (in particolare relativi alla fornitura di gas naturale) non possa portare a una certa fragilità
nei rapporti tra i due stati.
Alla luce di questo scenario internazionale vanno lette le esercitazioni militari congiunte dello scorso marzo tra Egitto e Giordania – altro stato arabo, quest’ultimo, firmatario di un trattato di pace
con Israele nel 1994 – denominate Ain Jalut 12 e durante le quali le due potenze hanno addestrato
congiuntamente l’aviazione militare alla difesa di obiettivi sensibili, al
contrattacco aereo e all’attacco di obiettivi a terra. L’attenzione verso La ricerca ISPI analizza le
dinamiche politiche, strategiun possibile nuovo conflitto nell’area è palpabile.
Molti commentatori si sono chiesti se l’Egitto, passato il varco delle
elezioni alle porte, diventerà uno stato laico ovvero si trasformerà nel
nuovo regno della Fratellanza islamica. Qualsiasi sia l’esito delle
votazioni, la Repubblica araba d’Egitto non muterà la propria natura
di stato governato dai militari e dalle forze armate, eminenza grigia e
motore primo della vita politica del paese sin dalla rivoluzione di Nasser del 1952, e oggi elemento essenziale (condivisibile o meno che
sia la situazione) per garantire al paese la stabilità necessaria in caso
di conflitto armato nella regione.
Il candidato alla presidenza dello stato che meglio ha inteso gli equilibri in gioco e che, data l’esperienza come diplomatico di lungo corso, potrebbe più abilmente gestire i fragili rapporti tra le potenze locali
sembra essere Amr Moussa: il quale, alla fine di aprile, ha proposto a
Mohamed Hussein Tantawi la creazione di un Consiglio di sicurezza
nazionale, per mezzo del quale coinvolgere i militari nella vita politica
del paese, nel processo di democratizzazione in corso e nella realizzazione di quelle infrastrutture essenziali (in primis i servizi idrici e
sanitari) senza le quali il paese potrebbe essere destinato al collasso.
Certo è che solo un leader paziente e lungimirante, capace di bilanciare il potere conservatore dell’esercito e l’ansia di modernità del
popolo, potrà condurre l’Egitto in questo percorso di auspicata rinascita e di stabilità.
che ed economiche del sistema internazionale con il
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Salafiti e Fratelli musulmani:
convergenza tattica dopo le tensioni
Marina Calculli(*)
Nel mosaico politico egiziano, a ormai pochi giorni dalle elezioni presidenziali che si terranno il 23
e 24 maggio 2012, le posizioni dei Fratelli musulmani e dei salafiti, rispettivamente rappresentati
dal partito al hurriyya w al-‘adaala (Libertà e giustizia) e dal partito al-Nur (La luce), sembrano apparentemente più vicine. Negli ultimi mesi, però, dopo le elezioni parlamentari conclusesi a gennaio 2012, la tensione è in realtà cresciuta tra le due forze islamiste, trasformando assai di frequente il parlamento in un teatro di bagarre.
Dopo la squalifica dalla corsa elettorale dei candidati di punta di entrambe le formazioni – il salafita
Hazem Salah Abu Ismail e il businessman Khayrat al-Shater sostenuto dagli Ikhwan (i Fratelli) – i
giochi si sono, necessariamente, rimescolati: i salafiti hanno dichiarato pubblicamente che voteranno il medico sindacalista Abdel Moneim Aboul Fotouh, candidato indipendente ma con un lungo
passato di militanza nei Fratelli musulmani. Il rapporto tra Fotouh e la Fratellanza non è privo di
macchie: il medico egiziano si è – anzi – tirato fuori dalle fila del partito Libertà e giustizia. Gli
Ikhwan, d’altra parte, dopo l’esclusione di al-Shater hanno dato indicazioni al proprio elettorato,
puntando apertamente su un altro candidato, Mohammed Morsy.
Anche Morsy, però, potrà contare sul voto di molti Salafiti – soprattutto quelli che vedono in Fotouh
un uomo troppo moderato e aperto al dialogo con le forze liberali per poter rappresentare la loro
purezza ideologica. L’avvicinamento delle due principali anime egiziane dell’Islam politico è però
più tattico che sostanziale: i Fratelli e i salafiti, che dominano oltre il 70% dei seggi del Majlis alShaab (Consiglio del popolo o Camera bassa) a del Majlis al-Shura (Consiglio della Shura o Camera alta), sono, infatti, solo due spigoli di un gioco triangolare. La terza punta è occupata dai
militari che – ancora formalmente alla testa del governo con il Consiglio superiore delle forze armate (Csfa) – stanno tentando di mettere in sicurezza quell’enclave autoritaria all’interno dello stato
egiziano, bacino di una pluridecennale accumulazione di privilegi.
Dopo alcuni mesi in cui il sospetto di un’alleanza sottobanco tra i militari e i Fratelli musulmani
aveva provocato non pochi malumori nella società egiziana, gli Ikhwan sembrano aver assunto
una posizione più autonoma, forti anche del successo ottenuto alle urne nelle elezioni parlamentari
e preoccupati di non inficiare la loro immagine pubblica.
La partita con i Salafiti si gioca, invece, sul terreno del consenso politico: mentre i Fratelli propendono per un Islam moderato e modernista e hanno alle loro spalle un passato di pragmatismo politico, i salafiti hanno invece conquistato i loro seggi facendo presa su un tipo di elettorato tanto sfiduciato quanto conservatore. Questo elemento rappresenta un vincolo per gli Ikhwan, i quali potrebbero pericolosamente farsi trascinare dall’ortodossia etica dei salafiti – per non perdere consensi – così abortendo quello slancio modernista che avevano annunciato nei mesi precedenti.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Marina Calculli, dottoranda di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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Nell’ultimo mese, però, nel gioco triangolare con i militari, due questioni hanno avvicinato i Fratelli
e i salafiti: la prima è l’annosa composizione dell’assemblea che scriverà il nuovo testo costituzionale. A fine marzo i Fratelli hanno reso noti i nomi dei redattori, sollevando un polverone di critiche
perché il 50% dei selezionati proveniva dalle fila del Parlamento, con una nettissima predominanza
dei deputati islamisti. La preoccupazione che si è subito levata tra i
liberali e i copti è che venisse sancito in modo più netto rispetto alla La ricerca ISPI analizza le diCostituzione del 1971 il peso della sharia all’interno della Costitu- namiche politiche, strategiche
zione. La Corte amministrativa ha allora bloccato la formazione ed economiche del sistema
internazionale con il duplice
della costituente, giudicandola “non idonea”. I giochi si sono riaperti obiettivo di informare e di osenza, tuttavia, specificare i criteri di selezione. E il Csfa all’interno rientare le scelte di policy.
di questa tenzone ha addirittura minacciato di posticipare la data
I risultati della ricerca vengono
delle elezioni presidenziali.
divulgati attraverso pubblicaIl secondo punto di attrito è, invece, prettamente politico: la riammissione alla corsa per le presidenziali di Ahmed Shafiq, ultimo
primo ministro del governo di Mubarak. Ciò ha suscitato l’ira degli
islamisti, i quali hanno accusato i militari di tramare per deviare il
corso del voto presidenziale. Shafiq era stato precedentemente
escluso in virtù della Legge sulla corruzione della vita politica, che
bandiva dalla candidatura coloro che avevano svolto attività politica
negli ultimi dieci anni di mandato dell’ex raìs. Dopo un ricorso in
appello, il candidato più vicino al Csfa è stato riammesso, provocando una nuova rottura tra militari e islamisti.
Nonostante le palesi divergenze, dunque, l’apparente convergenza
tra i Fratelli e i salafiti è puramente tattica, nel solo intento di arginare il più possibile il peso dei militari, baluardo ultimo ma ancora assai rilevante del vecchio sistema di potere e principale freno per una
loro sempre più capillare affermazione nel sistema politico egiziano.
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Il Cairo verso una nuova politica regionale
Eugenio Dacrema(*)
I 14 mesi di transizione hanno rappresentato un “anno sabbatico” per la politica regionale egiziana.
Il paese, scosso dagli scontri politici interni fra liberali, laici, islamisti e militari ha infatti ridotto al
minimo il proprio coinvolgimento internazionale anche in scenari importanti come la vicina Libia e
la Siria.
Se la transizione si dovesse concludere senza particolari contraccolpi, l’Egitto è però destinato a
ritornare prepotentemente sulla scena regionale. La sua storia e le sue dimensioni – sia geografiche che demografiche – l’hanno tradizionalmente posto al centro del mondo arabo sia culturalmente che politicamente, nonostante l’era Mubarak si fosse caratterizzata per una progressiva acquiescenza alla politica degli Stati Uniti e dei loro alleati regionali quali Arabia Saudita e Israele.
Proprio un mutato atteggiamento verso queste due potenze potrebbe determinare il nuovo corso
della politica regionale dell’Egitto.
I rapporti con Israele hanno in realtà già subito notevoli contraccolpi durante l’anno di transizione. Il
trattato di pace di Camp David, firmato dai due paesi nel 1979 dopo 30 anni di conflitti, ha ricevuto
fin da subito una fredda accoglienza dall’opinione pubblica egiziana, che ha continuato a considerare lo stato israeliano come uno dei principali nemici degli arabi, e come uno strumento
dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Consapevoli della grande diffusione di questi sentimenti nella popolazione egiziana, le nuove forze politiche emerse dopo il rovesciamento di Hosni
Mubarak hanno usato i rapporti con Israele come arma propagandistica per la raccolta di consenso. Il tema della “revisione” del trattato di Camp David è stato infatti uno dei pochi tratti comuni dei
programmi elettorali di tutte le forze politiche, dai laici, ai liberali, agli islamisti.
Nell’agosto-settembre 2011 le tensioni sono esplose a causa della morte, ufficialmente accidentale, di 8 militari egiziani durante un raid dell’aviazione israeliana vicino al confine fra Egitto e Gaza
mirato a colpire le basi di alcuni gruppi armati palestinesi. Se l’uccisione dei militari egiziani è stata,
come anche alcuni osservatori internazionali ritengono, un’azione tutt’altro che accidentale avente
l’intento di intimidire le nuove autorità egiziane, essa ha avuto però il risultato opposto. Nei giorni
seguenti migliaia di persone hanno preso d’assedio l’ambasciata israeliana al Cairo causando
temporaneo ritiro della delegazione diplomatica da parte del governo di Tel Aviv.
Nei mesi successivi il governo di Benjamin Netanyahu, già fortemente impegnato sul fronte iraniano, ha quindi preferito mantenere un profilo basso nei rapporti con l’Egitto, tendendo a sorvolare
sui vari messaggi provocatori provenienti dal Cairo.
Le dichiarazioni anti-israeliane sono state utilizzate a più riprese come arma propagandistica dalle
varie parti politiche, soprattutto nei momenti di difficoltà e di ricerca del consenso. Ad esempio, la
mossa del governo provvisorio di interrompere le forniture di gas naturale a Israele può essere
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Eugenio Dacrema, ISPI Research Trainee.
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interpretata come un tentativo di recuperare consenso all’interno dell’opinione pubblica dopo le
polemiche causate dalle dure repressioni delle proteste di piazza degli ultimi mesi costate diversi
morti. Allo stesso modo le forti dichiarazioni dirette contro Israele rilasciate dal candidato islamista
Aboul Fotouh durante un’intervista all’inizio di maggio devono essere viste in chiave elettorale,
ovvero come un tentativo di recuperare il gap sempre più ampio che lo distanzia dal favorito Amr
Moussa nei sondaggi.
Al di là delle mosse propagandistiche e delle dichiarazioni provocatorie, è però improbabile che –
chiunque vinca le elezioni presidenziali e qualunque sia l’assetto istituzionale del nuovo Egitto – la
nuova leadership politica decida una rottura netta nei rapporti diplomatici con Israele. Questo per
due ordini di motivi:
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Il primo riguarda il fatto che, per quanto sia forte l’ostilità dell’opinione pubblica nei confronti
dello stato israeliano, tutte le forze politiche sono ben consapevoli dell’estrema dipendenza
dell’economia egiziana dagli aiuti esteri, soprattutto americani, e dai rapporti economici con
l’Occidente. Un’eccessiva tensione nelle relazioni con Israele comporterebbe costi che ricadrebbero duramente sulla popolazione egiziana.
Il secondo è che la diplomazia egiziana potrebbe riscoprire, come in parte in questi mesi ha
già fatto, i vantaggi della posizione di broker privilegiato. La nuova levatura politica acquisita
con la Primavera araba concederebbe, infatti, all’Egitto la capacità di proporsi come interlocutore forte e privilegiato nello scacchiere mediorientale, e soprattutto nei rapporti con Israele. Le prime avvisaglie di questa strategia si sono avute in occasione dei due accordi raggiunti con successo con la mediazione egiziana tra fazioni palestinesi e autorità israeliane
nell’ultimo anno, il primo relativo alla liberazione del soldato Shalit in cambio di più di mille
prigionieri palestinesi, e il secondo in occasione dello sciopero della fame che ha coinvolto
circa 1.400 palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane e che si è concluso con un accordo
per il miglioramento dei diritti e delle condizioni di detenzione. Da sottolineare inoltre il fatto
che la dirigenza di Hamas, dopo aver lasciato Damasco in seguito alla rottura politica con il
regime di Bashar al Assad, ha trasferito una parte dei propri uffici operativi al Cairo.
Diverso invece è il discorso che riguarda l’Arabia Saudita, con la quale una grave quanto rapida
crisi diplomatica è scoppiata alla fine di aprile in seguito all’arresto dell’avvocato egiziano per i diritti umani Ahmed al Gizawi da parte delle forze di sicurezza saudite. Al Gizawi, da anni impegnato
nella difesa dei diritti dei numerosi (circa un milione) lavoratori egiziani in Arabia Saudita sarebbe
stato fermato ufficialmente per traffico di droga. La notizia in Egitto ha avuto effetto dirompente,
portando di fronte all’ambasciata saudita migliaia di persone in protesta contro la decisione delle
autorità saudite, vista come una provocazione implicita verso chiunque si batta per i giusti diritti dei
lavoratori emigrati in Arabia Saudita. Le proteste, che per la prima volta hanno visto slogan e insulti
diretti alla casa reale di Riyadh, hanno portato le autorità saudite a ritirare la propria delegazione
diplomatica dall’Egitto.
Gli sviluppi di questa vicenda potrebbero essere visti come una prova generale dell’atmosfera che
potrebbe caratterizzare le relazioni egiziano-saudite del prossimo futuro. Il ritiro della delegazione
diplomatica ha implicitamente significato anche la minaccia di interrompere il programma di aiuti
economici sauditi diretti all’Egitto (inizialmente 4 miliardi, anche se confermati al momento sarebbero solo 2,4, di cui 1,5 già versanti. 1 miliardo nelle riserve valutarie della Banca centrale egiziana, e 500 milioni in aiuti economici per lo sviluppo), di cui il paese ha fortemente bisogno. È partita
perciò immediatamente una delegazione numerosa, capitanata dal portavoce del parlamento egiziano Saad al Katatni, alla volta di Riyadh con lo scopo di appianare la crisi nel più breve tempo
possibile. La missione ha avuto successo, costringendo perfino al Gizawi, ancora detenuto nelle
carceri saudite, a diffondere un comunicato in cui dichiarava la sua fiducia nel sistema giudiziario
saudita. In Egitto si sono però scatenate violentemente le polemiche. Numerosi esponenti delle
forze politiche, sia islamiste che liberali, hanno definito la reazione egiziana “umiliante” e la delegazione mandata a Riyadh a risolvere la crisi diplomatica una “banda di mendicanti”. I commenta-
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tori dei mezzi di informazione filo-sauditi, dal canto loro, si sono affrettati a confermare come
l’intera faccenda fosse un malinteso, una “tempesta in una tazza da te”, sottolineando le forti relazioni presenti fra i due paesi ormai da diversi decenni.
La caduta di Mubarak ha rappresentato un grosso smacco per gli equilibri strategici sauditi nel
mondo arabo, dati gli stretti legami fra la monarchia saudita e il regime. Il nuovo assetto politico
egiziano maggiormente democratico potrebbe rappresentare per Riyadh allo stesso tempo un forte
rischio e una grande opportunità.
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Il rischio è rappresentato dalle istanze di libertà e autodeterminazione che la rivolta egiziana ha portato con sé e che,
malgrado le gravi difficoltà dell’anno di transizione, continua a
rappresentare. In questa chiave è da interpretarsi il giro di vite
applicato dalle autorità saudite alle attività di difesa dei diritti
umani e sindacali all’interno della comunità dei lavoratori egiziani in Arabia Saudita. Questi lavoratori vengono guardati
con sempre maggiore sospetto dalle autorità, perché possibili
portatori di idee sovversive. Indiscrezioni parlano addirittura di
mancati nuovi rilasci e rinnovi dei permessi di lavoro per i cittadini egiziani. Non è inoltre da trascurare anche il pericolo
rappresentato dai Fratelli musulmani per l’impianto ideologico
islamista wahabita dominante in Arabia Saudita, che si troverebbe a confrontarsi con un approccio politico islamista “costituzionale” e quindi potenzialmente destabilizzante per la monarchia assoluta degli al Saud.
L’opportunità è invece data dalla maggiore “permeabilità” alle
influenze esterne di un sistema istituzionale in divenire. Un sistema di partiti ancora deboli e un’economia bisognosa di aiuti
esterni rappresentano un’irripetibile occasione per l’Arabia
Saudita di influenzare gli sviluppi politici del più grande paese
arabo. Già durante la campagna elettorale per le parlamentari
egiziane si rincorrevano le indiscrezioni sui finanziamenti sauditi diretti a sostenere i partiti salafiti, mai totalmente smentite,
a cui ora si deve aggiungere il “balletto” degli aiuti economici.
La ricerca ISPI analizza
le dinamiche politiche,
strategiche ed economiche
del sistema internazionale
con il duplice obiettivo di
informare e di orientare
le scelte di policy.
I risultati della ricerca
vengono divulgati
attraverso pubblicazioni
ed eventi, focalizzati su
tematiche di particolare
interesse per l’Italia e le sue
relazioni internazionali.
Le pubblicazioni online
dell’ISPI sono realizzate
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della Fondazione Cariplo.
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Da questo punto di vista è quindi evidente come la vicenda dell’arresto dell’avvocato attivista
Ahmed al Gizawi rappresenti un prototipo possibile delle future relazioni fra le due potenze arabe.
Da una parte un latente antagonismo ideologico, fondato su sempre più divergenti approcci sia
sugli assetti istituzionali dello stato, sia sulle applicazioni politiche della religione islamica, e
dall’altra una forte interdipendenza economica che non permetterebbe, almeno nel prossimo futuro, una rottura troppo netta nelle relazioni.