Iran-Usa: due bluff e il terzo incomodo

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Iran-Usa: due bluff e il terzo incomodo
9 gennaio 2012
Iran-Usa: due bluff e il terzo incomodo(*)
Paolo Magri(**)
Una settimana fa la minaccia iraniana di chiudere lo stretto di Hormuz (i 54 km dove transita il 20%
del petrolio mondiale) in ritorsione verso le nuove e più dure sanzioni firmate da Obama. Poi la
dura risposta americana («non tollereremo il blocco») con una portaerei della Quinta Flotta provocatoriamente mandata ad attraversare lo stretto. Pochi giorni dopo, l’esercitazione della marina
iraniana con il lancio di missili di media gittata, ovvero in grado di colpire le basi Usa in Bahrain. Le
previsioni di cui attribuiva alle vicende iraniane un ruolo di primo piano fra i fronti “caldi” del 2012
sembrano avverarsi già nei primi giorni del nuovo anno. Perché? Con quali possibili evoluzioni (e
rischi)?
Il paese sta vivendo da mesi una durissima crisi interna che è contemporaneamente politica (lo
scontro ormai esplicito e senza quartiere fra il vertice religioso e quello politico incarnato dal presidente Ahmedinejiad) ed economica, per gli effetti sempre più pesanti che le sanzioni occidentali
stanno avendo su un paese già indebolito da anni di mancate riforme. Al governo di Teheran è ben
chiaro che dopo l’ultimo rapporto Onu che denuncia con chiarezza l’avanzare del suo progetto
nucleare, la comunità internazionale non tarderà a imporre sanzioni ancor più dure, probabilmente
il temuto embargo alle esportazioni di petrolio che segnerebbe il crollo definitivo dell’economia e,
probabilmente, del regime. Agli iraniani non sfuggono poi le conseguenze delle rivolte arabe che,
pur non avendo attecchito nel paese hanno rafforzato nella regione i nemici storici di Teheran (Arabia Saudita e Qatar) e indebolito irrimediabilmente i pochi amici su cui potevano contare (in primis, la Siria di Hassad). Alzano dunque i toni, minacciando per non essere minacciati.
Gli iraniani alzano i toni convinti che l’America di Obama, indebitata, cauta nell’impegno militare in
Libia, appena uscita dal pantano iracheno e ansiosa di uscire da quello afghano, non avrà il coraggio di attaccare militarmente il paese. Gli americani rispondono con voce altrettanto grossa, a loro
volta convinti che Teheran non avrà il coraggio di andare sino in fondo con le sue minacce. Gli uni
e gli altri sanno di aver solo da perdere da un’esplosione della crisi. È molto probabile, infatti, che
la minaccia Usa di un embargo petrolifero – mentre Iraq, Siria e Libia producono ancora al di sotto
delle potenzialità – innalzi il prezzo del greggio addensando pericolose nubi sulla debole ripresa
americana alla quale sono appese le ambizioni elettorali del debole Obama. È altrettanto probabile
che la minacciata chiusura iraniana dello stretto di Hormuz si ritorca pesantemente sui suoi ideatori, indebolendo ulteriormente l’economia iraniana visto che dallo stretto passa buona parte della
benzina del paese, privo di impianti di raffinazione adeguati nonostante l’abbondanza di petrolio.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) «Eco di Bergamo», 6 gennaio 2012.
(**) Paolo Magri è vice presidente esecutivo e direttore dell’ISPI.
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Doppio bluff, dunque. Un bluff estremamente pericoloso perché non
fa i conti con il terzo incomodo, Israele, che si sente sempre più
minacciato dai progressi nucleari di un paese che contesta apertamente la sua esistenza e che dai toni forti americani pare trarre la
conclusione di poter agire da solo (e senza ulteriori autorizzazioni
da Washington) ad attaccare militarmente il nemico iraniano. Non fa
i conti neppure con il difficile anno elettorale che Obama ha iniziato
ieri con le primarie repubblicane in Iowa: un anno nel quale i candidati repubblicani “duri e puri” non esiteranno a mettere in discussione i suoi tentennamenti in politica estera e le sue doti di leader militare, da sempre il tallone di Achille dei presidenti democratici. Una
risposta “muscolare” ai toni minacciosi iraniani potrebbe essergli di
aiuto nel ribaltare il quadro interno e magari per distrarre i suoi elettori delusi per una ripresa economica che tarda ad arrivare.
Forse sullo stretto di Hormuz servono nervi saldi, non giocatori d’azzardo
ISPI - Commentary
La ricerca ISPI analizza le
dinamiche politiche, strategiche ed economiche del
sistema internazionale con
il duplice obiettivo di informare e di orientare le scelte
di policy.
I risultati della ricerca vengono divulgati attraverso
pubblicazioni ed eventi,
focalizzati su tematiche di
particolare interesse per
l’Italia e le sue relazioni
internazionali.
Le pubblicazioni online
dell’ISPI sono realizzate
anche grazie al sostegno
della Fondazione Cariplo.
ISPI
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Via Clerici, 5
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10 gennaio 2012
L'arma spuntata dei falchi iraniani
Pejman Abdolmohammadi(*)
La minaccia dei vertici politici della Repubblica islamica di chiudere lo Stretto di Hormuz, le conseguenti
manovre della marina militare dell’esercito nazionale iraniano nel Golfo Persico insieme al continuo
sviluppo del programma nucleare iraniano, hanno provocato, nell’ultimo mese, l’intensificarsi della stretta degli Stati Uniti e dei paesi dell’Unione europea su Teheran. L’inasprimento delle sanzioni emesse,
soprattutto sul piano economico-finanziario, contro la Banca Centrale iraniana e la minaccia di imporre
uno storico embargo da parte dell’Unione europea sull’acquisto del petrolio iraniano, evidenziano il
grado di preoccupazione dei paesi occidentali nei confronti dell’Iran.
Tuttavia non si può analizzare, soprattutto in questo frangente, la politica estera dell’Iran senza esaminarne l’intenso conflitto politico interno al vertice. Le elezioni parlamentari del prossimo marzo sono,
infatti, alle porte e mai come oggi il sistema politico-economico iraniano si trova così disunito, diviso in
due fronti principali: quello vicino alla Guida Suprema l’ayatollah Ali Khamenei e quello sostenitore del
presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Si tratta di due imponenti blocchi di potere politicofinanziario e militare presenti nel paese. Questo scontro interno influenza indirettamente la politica estera iraniana, determinandone anche le strategie militari.
Il fronte khameneista, ultraconservatore e vicino al blocco cinese, ha l’interesse ad alimentare le tensioni con i paesi occidentali, le quali, riverberandosi con inevitabili riflessi negativi anche sul fronte interno, bloccherebbero l’ascesa al potere della squadra del presidente in carica Ahmadinejad. Un possibile conflitto esterno darebbe infatti l’opportunità storica ai khameneisti (i quali hanno tra i propri alleati i
vertici dei pasdaran, dell’esercito e dei basij) di sconfiggere gli antagonisti interni, in particolare il fronte
ahmadinejadiano. Quest’ultimo invece avrebbe tutto l’interesse a mantenere stabile la situazione politica al fine di raggiungere il proprio obiettivo: la vittoria nelle prossime elezioni del majles e di conseguenza la conquista della maggioranza parlamentare.
Si è notato infatti come siano stati, sia in occasione dell’assalto all’ambasciata britannica a Teheran sia
nel corso delle ultime manovre militari nel Golfo Persico, proprio i vertici politici e militari vicini alla Guida Suprema a voler provocare gli stati occidentali. Nel primo caso, a seguito dell’attacco all’ambasciata
britannica, sono stati uomini quali l’hojjatoleslam Mohseni Ejei e l’ayatollah Ahmad Khatami vicini alla
Guida Suprema, a rilasciare dichiarazioni di sostegno agli studenti basij per la loro azione mentre il
governo adottava una politica di silenzio, non rilasciando alcuna dichiarazione ufficiale tranne quella di
rammarico per l’accaduto da parte del portavoce degli Esteri Ramin Mehmanparast. Per quanto riguarda la vicenda del Golfo Persico, sono stati invece i comandanti, vicini all’ayatollah Khamenei, Hassan
Firuz-abadi e Habibollah Saiiari, a minacciare la chiusura preventiva dello Stretto di Hormuz, mentre il
vice presidente, Mohammad Reza Rahimi, aveva minacciato un’eventuale chiusura dello Stretto solo
come reazione a sanzioni petrolifere o attacchi militari contro l’Iran.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Pejman Abdolmohammadi insegna Storia e istituzioni dei paesi islamici presso la Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Genova ed è Senior Researcher presso l’Institute for Global Studies a Roma.
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ISPI - Commentary
Alla luce dei due diversi atteggiamenti e delle opposte mire dei due
fronti, quali potrebbero essere gli scenari futuri nel Golfo Persico?
Le imminenti elezioni parlamentari e il loro esito potrebbero rivelarsi di
grande importanza per la definizione delle strategie iraniane nel Golfo
Persico. Il primo scenario potrebbe essere:
-
il fronte ahmadinejadiano gioca bene le sue carte, sia all’interno sia
all’esterno, bloccando, almeno per un breve periodo, le provocazioni
iraniane contro l’Occidente. Ciò potrebbe avvenire soltanto se gli
uomini del presidente riuscissero a vincere le prossime elezioni parlamentari, così da obbligare i khameneisti a fare momentaneamente
marcia indietro.
Nel caso in cui la spuntasse il fronte khameneista sarebbero almeno
due le opzioni possibili:
-
-
i vertici militari, vicini all’ayatollah Khamenei, con l’avvicinarsi delle
elezioni di marzo sentono la pressione della squadra di Ahmadinejad e temono di perdere il confronto politico. Decidono allora di incrementare le tensioni esterne, cercando il primo pretesto per chiudere, anche per un tempo breve, lo Stretto di Hormuz, rischiando di
provocare così uno scontro militare nell’area del Golfo Persico.
Il fronte khameneista agisce con più cautela e non chiude lo Stretto,
ma provoca le flotte americane nel Golfo Persico allo scopo di farsi
attaccare per primo. Così l’idea della guerra imposta e la difesa nazionale contro il nemico imperialista potrebbe costituire una legittimazione morale più efficace al fine di entrare in un conflitto armato.
In tal caso si presenterebbe anche l’occasione, in nome dell’unità
nazionale, per emarginare il gruppo presidenziale.
La ricerca ISPI analizza le
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sistema internazionale con
il duplice obiettivo di informare e di orientare le scelte
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Quale sarà lo scenario, il 2012 si preannuncia, comunque, un anno
molto intenso per tutta l’area del Golfo Persico con il rischio, viste le
condizioni politico-economiche della regione e quelle mondiali, di assistere a un nuovo conflitto armato
nella regione. Un’eventuale guerra tra la marina iraniana e la flotta americana, considerato lo squilibrio
geopolitico che caratterizza la regione, potrebbe suscitare l’intervento di altri attori allargando il conflitto
a potenze come i paesi arabi del Golfo Persico, antagonisti storici dell’Iran, a sostegno della flotta americana, e alla Cina, in ausilio alla Repubblica islamica.
Un’ultima domanda potrebbe essere la seguente: quali sono le capacità militari di Teheran per affrontare una tale guerra?
Secondo gli esperti militari, l’Iran avrebbe le potenzialità per chiudere, pur se per un breve periodo, lo
strategico Stretto di Hormuz. È infatti dotato di un sistema missilistico a lungo raggio in grado di raggiungere da terra obiettivi quali i paesi arabi del Golfo Persico, lo stato di Israele e, ovviamente, la flotta
americana. Il sistema missilistico è azionabile direttamente dal suolo iraniano e non è, pertanto, esposto a facili incursioni nemiche in caso di conflitto. Secondo gli esperti peraltro la chiusura dello Stretto
non potrebbe essere imposta da parte iraniana per un lungo periodo.
La capacità militare iraniana non è, però, solo quella strettamente intesa relativa alla cosiddetta potenza di fuoco, ma è anche la capacità di influenza politica che l’Iran è in grado di esercitare nei confronti
di almeno tre aree cruciali per la stabilità della regione quali la città di Bassora in Iraq, la città di Herat
nell’Afghanistan e la zona corrispondente al Sud del Libano.
Considerata, pertanto, la potenziale portata di un conflitto di tale natura, sembra sconsigliabile, per
chiunque degli attori sulla scena, intraprendere drasticamente la via della guerra.
9 gennaio 2012
Iran: le sanzioni rafforzano Khamenei in patria
Stefano Casertano(*)
Lo scenario iraniano si può riassumere in tre elementi: l’Iran sta cercando di sviluppare un arsenale
atomico; gli Stati Uniti vogliono impedirlo imponendo un embargo sulle esportazioni di petrolio; Teheran
in tutta risposta minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale transitano tutte le petroliere che caricano greggio nel Golfo Persico, per circa 17 milioni di barili al giorno. Come risolvere questo
enigma strategico?
Si potrebbe iniziare da una considerazione, forse troppo evidente perché sia notata: la minaccia di
chiudere lo Stretto di Hormuz è, di per sé, irrealizzabile. Se fosse ostruito, i primi a rimetterci sarebbero
proprio gli iraniani, che attraverso questo “collo di bottiglia” marittimo spediscono i loro barili ai mercati
internazionali. Alcuni commentatori hanno letto in questa “minaccia impossibile” chiari segnali del disfacimento
del
regime
iraniano.
Ha
scritto
Fareed
Zakaria
sul
Washington
Post
[http://www.washingtonpost.com/opinions/irans-growing-state-of-desperation/2012/01/04/gIQA6usPbP_
story.html] che «le sanzioni hanno spedito l’economia in picchiata. Il sistema politico è fratturato e in
frammentazione». Come evidenza di tutto questo, Zakaria riporta che dall’insediamento di Obama il
dollaro si è apprezzato del 60% rispetto alla valuta iraniana. Le sanzioni potrebbero rappresentare il
colpo finale.
Quella di Zakaria è una lettura interessante perché chiarisce la situazione, ma corre e abbraccia il rischio di semplificare troppo. Il primo aspetto da considerare è se davvero il sistema politico iraniano sia
“in frammentazione”. In realtà, dalle rivolte popolari dell’“Onda Verde” del 2009 siamo di fronte a un
passaggio di potere, più che a un disgregamento dello stesso. Fino all’ascesa di Ahmadinejad come
presidente, lo scettro del comando era della Guida Suprema, ruolo rivestito prima da Khomeini e attualmente da Ali Khamenei. Con Ahmadinejad c’è stata una sterzata decisa in favore dell’esecutivo,
con il supporto della “borghesia cortigiana”. Quest’ultima è incarnata da una serie di fondazioni denominate “Bonyad”, più o meno collegate a settori statali, militari e soprattutto alle Guardie Rivoluzionarie,
che sono per Ahmadinejad ciò che l’Fsb è stato per Putin.
Con l’“Onda Verde”, il potere è passato alle sfere direttive delle Guardie Rivoluzionarie e dei riservisti
Basij, con il concorso dei militari, i quali tendono a interessarsi più che altro di questioni estere. La minaccia di “chiudere Hormuz” potrebbe essere credibile, se la consideriamo come una diretta emanazione di interessi interni: i militari vogliono dimostrare agli altri gruppi di potere che detengono l’arma totale
della chiusura del passaggio marittimo.
C’è poi l’aspetto dell’“economia in picchiata”, che dovrebbe convincere gli iraniani a desistere. Ebbene,
questo assunto nega completamente qualsiasi lezione imparata dalla storia dell’Iran. In tutte le occasioni in cui l’Occidente ha operato un qualche tipo d’ingerenza all’interno dell’Iran, i cittadini si sono
schierati a fianco del governo, a costo di rimetterci qualche soldo o anche tutto il benessere nazionale.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Stefano Casertano, docente di Politica internazionale presso l'Università di Potsdam e Senior Fellow presso il Brandenburgisches Institut fűr Gesellschaft und Sicherheit.
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Si pensi in proposito all’esperienza dei primi anni Cinquanta del dittatore
sadeq, il premier che sfidò l’autorità dello Scià (mancavano ancora una
trentina d’anni alla Rivoluzione Islamica) e statalizzò l’industria petrolifera, attirando le ire dei proprietari inglesi – e un embargo petrolifero
molto, molto efficace. Tecnicamente parlando, la statalizzazione di
Mossadeq era un disastro, ma tanto era il risentimento anti-inglese,
che il popolo sostenne il premier.
La stessa Rivoluzione Islamica del 1979 fu un chiaro atto di rinuncia al
benessere petrolifero collegato all’alleanza con gli Stati Uniti. Il paese
persiano da quel periodo è sempre rimasto sotto embargo da parte di
Washington e gran parte delle potenzialità di produzione iraniane sono
inespresse. In particolare ciò è vero per il gas, visto che l’Iran è il secondo paese al mondo per riserve ma non ha infrastrutture di grandi
dimensioni per l’esportazione verso l’estero, a parte la pipeline “TabrizAnkara” che vale per 14 miliardi di metri cubi di gas l’anno (per paragone, South Stream ne dovrebbe valere 62). Ai fatti, l’aggressività occidentale torna a farsi sentire in Iran in un momento in cui l’Iraq sta aumentando la produzione di petrolio dopo anni di stop e la Libia ha ripreso a tappe accelerate. I movimenti attorno a Teheran terranno il
prezzo alto, ma il mondo si può permettere di “rinunciare” ai barili persiani. Nonostante tutta la crisi di Hormuz il prezzo del barile è più basso
della quotazione dello scorso maggio.
Alla fine, l’embargo colpirà certamente il sistema economico, ma a
livello politico il risultato potrebbe essere uno solo: ravvivare lo spirito
nazionalista iraniano, come sempre è successo in casi simili in passato. È da escludere che gli iraniani sosterranno la Guardia Rivoluzionaria che li ha torturati tre anni fa. Potrebbe guadagnarne Ali Khamenei,
la Guida Suprema, posizione politica simbolo della Rivoluzione Islamica, essa stessa rivoluzione identitario-nazionalista. Allora, se Khamenei riprenderà il monopolio del comando, si potrà finalmente negoziare
una posizione affidabile sul nucleare da parte dell’Iran.
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democratico Mohamedd MosLa ricerca ISPI analizza le
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