Corte di cassazione

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Corte di cassazione
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da
Giuliana Ferrua
- Presidente -
Sent. n. sez.
Paolo Oldi
- Relatore -
UP – 7/03/2014
Giuseppe De Marzo
- Relatore -
R.G.N. 25787/2013
Carlo Zaza
Ferdinando Lignola
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
1. Tanzi Calisto, nato a Collecchio il 17/11/1938
2. Tonna Fausto, nato a Parma il 19/12/1951
3. Barili Domenico, nato a Tizzano Val Parma il 13/10/1933
4. Tanzi Giovanni, nato a Collecchio il13/03/1943
5. Silingardi Luciano, nato a Lama Mocogno il 18/02/1940
6. Branchi Fabio, nato a Felino il 21/04/1945
7. Florini Camillo, nato a Ferentino il 21/09/1942
8. Fratta Davide, nato a Parma il 16/01/1936
9. Calogero Rosario Lucia, nato a Vibo Valentia il 30/10/1945
10. Panizzi Giuliano, nato a Parma il 01/11/1959
11. Mutti Mario Paolo Alfonso, nato a Montemarzino il 11/06/1941
12. Sciumé Paolo, nato a Carpi il 31/01/1943
13. Barachini Enrico, nato a Pisa il 27/07/1935
14. Erede Sergio Piero Franco, nato a Firenze il 14/08/1940
15. Bonici Giovanni, nato a Borgo Val di Taro il 11/08/1967
avverso la sentenza del 23/04/2012 della Corte di appello di Bologna
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dai consiglieri Paolo Oldi e Giuseppe De Marzo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro
Gaeta, che ha concluso chiedendo declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di
Barachini Enrico, Barili Domenico, Bonici Giovanni, Branchi Fabio, Calogero
Rosario Lucio, Fratta Davide, Panizzi Giuliano, Silingardi Luciano e Tanzi
Giovanni; rigetto dei ricorsi di Erede Sergio Piero Franco, Mutti Mario Paolo
Alfonso, Sciumé Paolo, Tanzi Calisto, Florini Camillo e Tonna Fausto;
uditi per le parti civili gli avv.ti Isabella Altana, Dario Piccioni, Marco De Luca,
Carlo Federico Grosso (anche in sostituzione dell’avv. Federico Palestro), Enrica
Maria Ghia e Adriano Andrenelli (in sostituzione degli avv.ti Claudio De Filippi e
Anna Campilii), che hanno concluso in conformità alle rispettive richieste scritte;
uditi per gli imputati gli avv.ti Tullio Padovani, Carlo Boy Baccaredda, Fabio
Fabbri, Nicola Mazzacuva, Francesco Mucciarelli, Antonino Tuccari, Domenico
Pulitanò, Mario Zanchetti, Andrea Marvasi, Romano Corsi, Daniele Carra,
Massimo Krogh, Luca Troyer, Oreste Dominioni, Concetta Miucci, Alessandro
Dedoni, Roberto Rampioni, Amerigo Ghirardi, Franco Magnani e Mariano
Rossetti, quest’ultimo anche in sostituzione dell’avv. Filippo Sgubbi, che hanno
concluso chiedendo l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. I fatti per cui si procede sono stati oggetto di indagine a seguito del
tracollo, verificatosi nel dicembre 2003, del colosso economico-finanziario
costituito da un nutritissimo raggruppamento di società, comunemente designato
con l’icastico nome di «galassia Parmalat».
1.1. All’epoca della dichiarazione dello stato d’insolvenza, la struttura di
controllo del gruppo Parmalat era articolata sulla base di una società quotata alla
borsa valori – Parmalat Finanziaria s.p.a. – che controllava Parmalat s.p.a.,
Dalmata s.p.a., con sede entrambe in Collecchio, e Parmalat Capital Netherlands
BV con sede in Olanda. Parmalat Finanziaria s.p.a. risultava indirettamente
controllata dalle famiglie di Calisto Tanzi, Laura Tanzi e Francesca Tanzi,
attraverso plurimi livelli di controllo «a cascata» che coinvolgevano le società
Coloniale s.p.a., Utilitas srl, Acqua SA, Firmitas S.r.l.; quest’ultima apparteneva
alla Venustas S.r.l. per il 51%, a Laura Tanzi per il 24,5% e a Francesca Tanzi
per il 24,5%. La Venustas s.r.l. era, a sua volta, controllata al 63% da Stefano
Tanzi, mentre le sorelle Laura e Francesca detenevano, rispettivamente, il 19,5%
e il 17,5%.
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1.2. La catena di controllo del gruppo Parmalat si articolava dunque in una
doppia struttura ad incrocio, di cui Parmalat Finanziaria era lo snodo centrale. Al
di sotto di questa vi erano tutte le società controllate operative, finanziarie e di
servizi, mentre al di sopra di essa esisteva una serie di società facente
riferimento ai diversi componenti delle famiglie di Calisto Tanzi, Annamaria Tanzi
e Giovanni Tanzi.
1.3. Accanto a questa struttura, definita a clessidra, esisteva un altro
insieme di società che faceva ugualmente riferimento alle famiglie Tanzi: in
particolare Agis s.p.a. e Sata s.p.a., cui facevano capo altre società operanti nel
comparto
agricolo,
come
Rimigliano
s.r.l.
e
Pisorno
s.r.l.,
in
quello
dell’intermediazione di diritti poliennali di atleti, come Roma 2000 s.r.l., e
soprattutto
nel settore del turismo (Horus s.r.l., Hit s.p.a., Hit International
s.p.a., Nuova Holding s.p.a., Parmatour s.p.a.).
1.4. La fonte finanziaria principale della galassia Parmalat era rappresentata
dal gruppo di società oggetto di «consolidamento» contabile, costituito dalla
Parmalat Finanziaria s.p.a. e dalle sue controllate. Tale gruppo presentava una
rilevante
sub
holding
mista,
operativa
e
finanziaria,
che
faceva
capo
direttamente o indirettamente alla Parmalat S.p.A.. Ma, al di là del confine
giuridico del gruppo, si estendeva il confine economico, all’interno del quale
operavano le cosiddette «parti correlate» riconducibili alla famiglia Tanzi o a terzi
in funzione di prestanome.
Cosicché,
complessivamente,
le
società
incluse
nel
perimetro
del
consolidamento erano 246 al 31 dicembre 2002 e 236 al 30 giugno 2003; le
società controllate e collegate, ma non consolidate, erano 29 al 31 dicembre
2002 e 27 al 30 giugno 2003; le società qualificabili come «parti correlate»
erano in numero di 100.
2. Apertasi la procedura concorsuale di amministrazione straordinaria con
dichiarazione dello stato d’insolvenza, sono emersi elementi che hanno condotto
all’instaurazione di un procedimento penale, volto ad accertare eventuali
responsabilità nella gestione economico-finanziaria del gruppo. Sulla scorta delle
indagini svolte dalla guardia di finanza, degli apporti chiarificatori recati da uno
dei soggetti coinvolti, Fausto Tonna, e della relazione redatta dal consulente
tecnico del pubblico ministero, è emerso il compimento di una serie di condotte
illecite, che possono essere raggruppate come segue.
2.1. Primo gruppo: condotte di falsificazione dei bilanci, viste come
elemento costitutivo del delitto ex art. 223, comma 2, n. 1) della legge
fallimentare per il loro nesso eziologico con la produzione del dissesto; esse sono
consistite: nell’iscrizione in contabilità di fatti non rispondenti al vero (false
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operazioni di vendita, false fatturazioni, falsi estratti conto bancari, falsi
contratti), allo scopo di far apparire liquidità in realtà inesistente, ovvero ricavi
maggiori di quelli effettivamente conseguiti, e così produrre utili fittizi da esporre
in bilancio; nella rappresentazione nei bilanci e nelle relazioni periodiche di fatti
veri, ma in violazione delle disposizioni normative applicabili, con ripercussioni
nelle esposizioni successive; nella totale assenza di informazione in relazione ad
accadimenti di importanza significativa per il gruppo, ovvero nella presenza di
informazioni lacunose e fuorvianti.
Particolare rilievo ha assunto, nella ricostruzione dei fatti, il metodo di
falsificazione consistito nella cessione di crediti falsi o inesigibili e nello storno di
debiti nei confronti di banche, mediante fittizio accollo dei debiti stessi da parte
di società partecipate. Per la realizzazione di tali operazioni venivano utilizzate
tre società appartenenti al gruppo, i cui bilanci venivano consolidati con quello di
Parmalat, e cioè Curcastle, Zilpa e Contal, nonché tre società formalmente non
appartenenti al gruppo, ma nella sostanza riferibili ad esso, e cioè Rushmore,
Kelton e Carital.
In prosieguo il sistema si era raffinato adottando un unico soggetto - la
società Bonlat – in qualità di controparte delle operazioni fittizie, che aveva
rivestito il ruolo di vera e propria "discarica" utilizzata per la manipolazione dei
bilanci,
facendo
diminuire
l'indebitamento
del
gruppo
verso
banche
e
obbligazionisti.
2.2. Secondo gruppo di illeciti: operazioni dolose causatrici del dissesto,
tradottosi nella dichiarazione dello stato d’insolvenza per le società sottoposte ad
amministrazione straordinaria e nel fallimento per le altre. In tale ambito si è
preso in considerazione, innanzi tutto, il meccanismo di autofinanziamento
denominato «giro dei concessionari» col quale la Parmalat otteneva anticipazioni
di credito emettendo ricevute bancarie nei confronti dei concessionari senza
alcuna fattura sottostante; analoga valutazione si è espressa per le operazioni di
factoring e securitization.
Le altre operazioni contestate, sebbene intrinsecamente lecite, sono venute
in considerazione per la dannosità sostanziale oggettiva, ritenuta agevolmente
valutabile ex ante. In una sommaria elencazione, si possono qui ricordare: il
ricorso a strumenti di debito, ovvero a finanziamenti, in alcune occasioni tra
l'altro occultati attraverso simulate operazioni di investimento nel capitale, in una
situazione di squilibrio economico-finanziario irreversibile; la conversione dello
strumento societario denominato Wishaw Trading, per ottenere credito in
assenza di programmi commerciali definiti; l'aumento di capitale della Parmalat
Finanziaria s.p.a. organizzato nel 1996 con l’intervento dell’Unione delle Banche
Svizzere (UBS), sottoscritto da Coloniale s.p.a. e coperto da un’erogazione da
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parte della Sata s.r.l., che tuttavia era priva della liquidità necessaria e non è
mai stata totalmente rimborsata; il prestito obbligazionario Par.Fin. del 1994,
produttivo di fondi non impiegati nel piano industriale, ma nelle società personali
di Calisto Tanzi; l’operazione denominata «Eurolire», organizzata da Citibank e
sottoscritta in gran parte, in ultima analisi, dalla stessa società finanziata e fonte
di gravosi esborsi per le commissioni alla Citibank e alla Banca di Roma; la
complessa operazione di finanziamento di 75 milioni di dollari, concesso da BofA
NTSA a Parmalat Brasile e garantito da Parmalat s.p.a., a condizioni molto più
sfavorevoli di quelle dichiarate; gli analoghi finanziamenti, anch’essi più onerosi
di quanto apparente, concessi con l’intervento di Bank of America a Parmalat
Argentina, a Parmalat Venezuela, a Indulac, a Parmalat Brasile e a Parmalat
Africa, Parmalat Sud Africa e Parmalat Chile, nonché altri finanziamenti – ancora
inerenti ai rapporti con la Bank of America – riguardanti le società Food Holding,
Dairy Holding, Cur Holding Limited (quest’ultima interposta quale veicolo in vista
di un finanziamento alla Parmalat Capital Finance); i prestiti obbligazionari volti
a sostituire debiti verso banche con debiti verso investitori; i finanziamenti
ottenuti attraverso simulate operazioni di investimento nel capitale.
2.3. In un terzo gruppo di illeciti possono essere cumulativamente collocate
le condotte di distrazione di cespiti attivi ai danni delle società Parmalat s.p.a.,
Parmalat Finance Corporation BV, Parmalat Finanziaria s.p.a., Boschi Luigi & Figli
s.p.a., Contal s.r.l., Emmegi Agroindustriale s.r.l., Parmalat Trading Limited,
Coloniale s.p.a., e quelle di irregolare tenuta delle scritture contabili nella
gestione delle società Parmalat s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Contal s.r.l.
ed Emmegi Agroindustriale s.r.l.; nonché gli altri analoghi illeciti riferiti alle
società della famiglia Tanzi e ad altre società minori.
3. Sulla base di tali emergenze sono state elevate le corrispondenti
imputazioni di bancarotta fraudolenta, patrimoniale e documentale, e bancarotta
impropria ex art. 223, comma 2, nn. 1 e 2 della legge fallimentare.
4. L’esito del doppio grado del giudizio di merito svoltosi davanti al Tribunale
di Parma e alla Corte d’Appello di Bologna, del quale il presente processo è il
troncone principale, sarà visto nel trattare, di volta in volta, le posizioni dei
singoli imputati qui ricorrenti. Ciò che interessa fin da ora osservare è che, nei
confronti di costoro, fatta eccezione per Fratta, è stata anche elevata
imputazione di associazione per delinquere; per tale reato Sergio Erede e
Giuliano Panizzi sono stati giudicati a parte; Enrico Barachini, Mario Mutti e Paolo
Sciumé sono stati assolti per non aver commesso il fatto; Domenico Barili, Fabio
Branchi, Giovanni Bonici, Rosario Calogero, Camillo Florini sono stati prosciolti
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per
intervenuta
prescrizione;
sono
incorsi
invece
nella
condanna,
con
l’aggravante di aver assunto il ruolo di capi od organizzatori, Calisto Tanzi,
Giovanni Tanzi, Fausto Tonna e Luciano Silingardi.
4.1. L’istituto della prescrizione ha trovato applicazione anche per il reato
minore di bancarotta semplice ex art. 224 della legge fallimentare, salvo che per
Sergio Erede, il quale vi ha rinunciato; l’estinzione del reato, comunque, non ha
impedito la conferma delle statuizioni civili a favore delle parti civili costituite. È
da notare, peraltro, che nei confronti dell’imputato Calogero la Corte d’Appello ha
disposto la revoca della condanna al risarcimento dei danni nei confronti delle
parti civili Alvisi +45, Lavagnino + 47, Di Stefano +11, L. Cabrini, Ballarin+159,
Beltrami +115, Corvaia+12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35,
Allegri +73, Pompini +38, Agresti + 55, Anceschi + 36.
5. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati Calisto Tanzi, Fausto
Tonna, Giovanni Tanzi, Enrico Barachini, Giovanni Bonici, Rosario Lucio Calogero,
Sergio Piero Franco Erede, Giuliano Panizzi, Davide Fratta, Mario Paolo Alfonso
Mutti; Camillo Florini, Paolo Sciumé, Fabio Branchi, Luciano Silingardi e
Domenico Barili, ciascuno per i motivi che più innanzi saranno indicati.
6. Calisto Tanzi. E’ stato membro del consiglio di amministrazione della
società Odeon Programmi Tv s.r.l. fino alla cessazione; presidente del consiglio
di amministrazione della Finanziaria Centro Nord dal 7 novembre 1989 al 30
ottobre 1990, della Parmalat Finanziaria s.p.a. dal 30 ottobre 1990 al 15
dicembre 2003, della Parmalat s.p.a. da prima del 1989 al 16 febbraio 2003,
della Eurolat s.p.a. dal 7 luglio 1999 al 15 dicembre 2003; amministratore e
socio della S.a.t.a. s.r.l. dal 20 ottobre 1980 al 10 febbraio 2004; socio di Eliair
s.r.l. dal 8 settembre 1986 al 3 settembre 1990, di Agis s.p.a. dal 20 ottobre
1990 al 7 novembre 2004, di Coloniale s.p.a. dal 2 agosto 1989 al 29 dicembre
2003, di Finaliment s.r.l. dal 2 gennaio 1985 al 5 dicembre 1990.
L’esito del giudizio di merito lo ha visto condannato per i reati di
associazione per delinquere in posizione verticistica (capo A); bancarotta
impropria da reati societari (capo B); bancarotta impropria per operazioni dolose
(capo C); bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione all’insolvenza della
società Parmalat s.p.a. e al fallimento della Cosal s.r.l. (Capo D); bancarotta
fraudolenta patrimoniale in relazione all’insolvenza della Parmalat Finance
Corporation BV (capo E), della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo F), della Boschi
Luigi & Figli s.p.a. (capo G), della Contal s.r.l. (capo I), della Emmegi
Agroindustriale s.r.l. (capo J), della Parmalat Trading Limited (capo K);
bancarotta fraudolenta documentale in relazione all’insolvenza delle società
6
Parmalat s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Parmalat Finance Corporation BV,
Contal s.r.l. ed Emmegi Agroindustriale s.r.l. (capo L); concorso, quale
mandante, in una serie di bancarotte fraudolente patrimoniali, documentali, e
per operazioni dolose e falsi societari in relazione al fallimento di altre società
controllate, appartenenti alla galassia del gruppo Parmalat quali concessionarie
dei prodotti (capo O); bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo P) e bancarotta
fraudolenta impropria da reati societari (capo Q) in relazione all’insolvenza della
Coloniale s.p.a..
Ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del difensore, affidandolo
a sette motivi; la loro esposizione è preceduta da una premessa con la quale,
rilevato che in talune singole imputazioni si sono raggruppate condotte
riguardanti vari fallimenti, il ricorrente osserva che l’eventuale accoglimento di
taluno dei motivi di ricorso dovrebbe riflettersi, a cascata, su una molteplicità di
illeciti ascritti e valutati, dalla Corte, per la loro pluralità anche nella
determinazione della pena base nella misura massima edittale.
6.1. Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e carenza
motivazionale in ordine all’affermazione di responsabilità per i reati di cui al capo
B), con specifico riferimento alla eccepita mancanza di nesso causale fra le
singole condotte di falsità in comunicazioni sociali e il dissesto delle società
interessate. Impugna, altresì, l’ordinanza con la quale la Corte d’Appello ha
rigettato la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale a mezzo di
perizia o, quanto meno, di audizione dei consulenti tecnici di parte.
Sotto altro profilo contesta la sussistenza del dolo, osservando che la
motivazione ha il torto di trattare in generale il tema riguardante il dissesto del
gruppo, senza entrare nella valutazione delle singole condotte incriminate.
In
ordine
al
nesso
di
causalità
si
richiama
a
un
recente
arresto
giurisprudenziale di questa stessa sezione, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta,
osservando che, se i principi ivi enunciati valgono per la bancarotta distrattiva, a
maggior ragione devono valere per quella da reato societario, che quel
medesimo nesso causale espressamente richiede.
Seguono analoghe considerazioni sviluppate per il capo C), lamentando
anche qui che non si sia motivato sul nesso causale, anche avuto riguardo alla
variabile collocazione nel tempo delle condotte ascritte.
6.2. Il secondo motivo è articolato in due censure.
Con la prima il ricorrente ripropone in questa sede una questione di
giurisdizione già sollevata in secondo grado con un espresso motivo di gravame,
ivi disatteso. La questione riguarda le società aventi sede all’estero, che per tale
motivo – così sostiene – non dovrebbero ritenersi soggette alla giurisdizione
italiana. Nega la pertinenza di un precedente giurisprudenziale citato dalla Corte
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d’Appello, e riguardante un altro ramo dello stesso procedimento penale, atteso
che in quella fattispecie si era ravvisata la natura fittizia delle società estere, qui
non affermata e non provata. Invoca la ripartizione della giurisdizione sancita dal
regolamento dell’Unione Europea.
Con la seconda censura pone in discussione la legge applicabile alle società
estere. Secondo l’assunto del deducente, anche riconosciuta la giurisdizione
italiana, dovrebbe applicarsi la legge straniera, deponendo in tal senso il
principio di legalità e di territorialità della legge penale, sancito dall’art. 25 della
Costituzione, dall’art. 7 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e dai
principi generali del diritto riconosciuti dai paesi civili. Sotto altro profilo il
ricorrente osserva che gli elementi normativi di fattispecie dovrebbero essere
interpretati sulla base del diritto extrapenale straniero.
Avuto riguardo al disposto dell’art. 234 (oggi art. 267) del trattato istitutivo
dell’Unione Europea, chiede espressamente che questa Corte sollevi questione
pregiudiziale da sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
6.3. Col terzo motivo il ricorrente eccepisce l’inosservanza del divieto del bis
in idem rispetto alla sentenza della Corte d’Appello di Milano in data 26 maggio
2010, riguardante il parallelo processo ivi celebratosi per i reati di aggiotaggio e
ostacolo alle funzioni di vigilanza. Sostiene che i fatti materiali giudicati in quella
sede sono gli stessi qui ascritti in talune delle ipotesi di reato contemplate ai capi
A, B e C; e che a tale identità dei fatti deve aversi riguardo, indipendentemente
dalla qualificazione giuridica, ai fini dell’applicazione dell’art. 4 prot. 7 aggiuntivo
della
convenzione
EDU,
secondo
l’interpretazione
datane
dalla
Corte
di
Strasburgo. Richiama l’attenzione sul carattere vincolante delle sentenze emesse
da detta Corte.
6.4. Col quarto motivo impugna il capo della sentenza riguardante il reato di
associazione per delinquere, sia in punto di esistenza del sodalizio criminoso, sia
in punto di attribuzione al deducente della qualità di capo. Osserva essere
maturato il termine massimo di prescrizione, pari a 8 anni e 9 mesi, già prima
della sentenza di appello. Nega, comunque, che il gruppo Parmalat sia sorto e sia
stato condotto come entità strutturalmente illecita, finalizzata al compimento di
un numero indeterminato di reati. Quanto alla propria posizione personale,
lamenta che i giudici di merito abbiano confuso la sua posizione mediatica con la
partecipazione ai fatti di reato, che invece doveva essere provata nelle sue
componenti soggettiva e oggettiva.
6.5. Col quinto motivo il Tanzi impugna l’affermazione di responsabilità per il
capo
G,
cioè
per
bancarotta
fraudolenta
patrimoniale
in
relazione
alla
dichiarazione della stato d’insolvenza della società Boschi Luigi e Figli s.p.a.,
società di carattere agroalimentare, titolare del marchio Pomì. Evidenzia di aver
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sostenuto nell’atto di appello che l’attrazione della società nell’orbita del gruppo
aveva risposto a finalità di ordinata gestione del gruppo stesso in un
delicatissimo momento di illiquidità. Denuncia carenza di motivazione, per
essersi omesso di confutare tale linea difensiva.
6.6. Col sesto motivo si duole della mancata ammissione ed escussione,
quali testimoni, di tutte le parti civili costituite. Impugna l’ordinanza datata 10
gennaio 2012, che ha disatteso la relativa richiesta in base al disposto dell’art.
603, commi 1 e 3, cod. proc. pen.. Sostiene che l’istanza doveva essere invece
riguardata sotto il profilo di cui al secondo comma dell’articolo citato, trattandosi
di
richiesta
istruttoria
già
formulata
nel
giudizio
di
primo
grado
e
irragionevolmente disattesa. Ne sottolinea il carattere determinante sia in vista
della decisione sulle statuizioni civili, per quanto disposto dall’art. 187, comma 3,
cod. proc. pen., sia in relazione all’aggravante del danno di rilevante gravità.
Conclusivamente denuncia violazione del diritto alla prova.
6.7. Col settimo motivo, infine, denuncia inosservanza degli artt. 62-bis e
133 cod. pen. e vizi di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti
generiche, alla concreta modulazione della pena e al rigetto dell’istanza di
patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen..
7. Fausto Tonna. E’ stato giudicato quale membro del consiglio di
amministrazione della società Parmalat Finanziaria s.p.a. dal 30 aprile 1992 al 15
dicembre 2003, di Parmalat s.p.a. dal 28 aprile 1994 al 16 dicembre 2003, di
Bonlat Financing Corporation dal 4 dicembre 1998 al 27 marzo 2003, di Contal
s.r.l. dal 30 luglio 1991 al 27 settembre 1994, di Curcastle Corporation NV dal 28
agosto 1991 al 2 novembre 2001, di Eliair s.r.l. dal 2 marzo 1992 al 27 marzo
2003, di Eurofood IFS LTD dal 19 novembre 1997 al 26 marzo 2003, di Eurolat
s.p.a. dal 7 luglio 1999 al 27 dicembre 2003, di Parma AC s.p.a. dal 25 giugno
2002 al 27 dicembre 2003, di Parmalat Capital Finance LTD dal 27 aprile 1990 al
27 marzo 2003, di Parmalat International s.p.a. dal 20 novembre 1991 al 26
marzo 2003, di Parmalat Soparfi dal 27 maggio 1994 al 26 marzo 2003, di
Parmalat Trading Limited dal 1 agosto 2002 al 10 dicembre 2003, di Streglio
s.p.a. dal 5 giugno 2002 al 27 marzo 2003; componente del comitato di controllo
di Parmalat Finanziaria dal maggio 2001 fino – secondo i giudici di merito – al 15
dicembre 2003; Managing director di Finance Corporation BV dal 27 aprile 1990
al 26 marzo 2003, di Parmalat Netherland BV dal 27 aprile 1990 al 26 marzo
2003, di Carital Food Distributor NV dal 31 ottobre 1994 al 28 novembre 1994;
Director di Parmalat USA Corp. dal 23 aprile 2002 al 26 marzo 2003;
Amministratore Unico di Agis s.r.l. dal 18 settembre 1989 al 30 giugno 2003 e di
S.a.t.a. s.r.l. dal 26 marzo 1990 fino – così si è ritenuto – al 10 dicembre 2003;
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Presidente del consiglio di amministrazione di Agis s.r.l. dal 30 giugno 2003 al 10
dicembre 2003 e di Coloniale s.p.a. dall’11 settembre 1989 al 10 dicembre 2003.
E’ stato condannato per i seguenti reati: associazione per delinquere in
posizione verticistica, a fianco di Calisto Tanzi (capo A); bancarotta impropria da
reati societari (capo B); bancarotta impropria per operazioni dolose (capo C);
bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione all’insolvenza della società
Parmalat s.p.a. e al fallimento della Cosal s.r.l. (Capo D); bancarotta fraudolenta
patrimoniale in relazione all’insolvenza della Parmalat Finance Corporation BV
(capo E), della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo F), della Contal s.r.l. (capo I),
della Emmegi Agroindustriale s.r.l. (capo J), della Parmalat Trading Limited (capo
K); bancarotta fraudolenta documentale in relazione all’insolvenza delle società
Parmalat s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Parmalat Finance Corporation BV,
Contal s.r.l. ed Emmegi Agroindustriale s.r.l. (capo L); concorso, quale
mandante, in una serie di bancarotte fraudolente patrimoniali, documentali, e
per operazioni dolose e falsi societari in relazione al fallimento di altre società
controllate appartenenti alla galassia del gruppo Parmalat, quali concessionarie
dei prodotti (capo O); bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo P) e bancarotta
fraudolenta impropria da reati societari (capo Q) in relazione all’insolvenza della
Coloniale s.p.a.; bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione
al fallimento della S.a.t.a. s.r.l. (capo R), della Agis s.r.l. (capo S), della
Finaliment s.r.l. (capo T); bancarotta fraudolenta per distrazione in relazione
all’insolvenza della Eurolat s.p.a. (capo W).
Ha proposto ricorso per cassazione sia personalmente, sia per il tramite del
difensore. I diciotto motivi, nei quali ambedue gli atti impugnatori si articolano in
termini sostanzialmente conformi, sono preceduti da una premessa, con la quale
il Tonna sostiene esserglisi applicata una responsabilità da posizione, lamentando
inoltre che nella determinazione della pena non si sia tenuto conto della
collaborazione da lui prestata agli inquirenti: argomenti, questi, poi ripresi nei
singoli motivi di ricorso.
7.1. Col primo motivo il ricorrente impugna la condanna pronunciata a suo
carico per i reati di cui ai capi E.3.1, C.6.3, E.6 (capo per cui era intervenuto
appello del pubblico ministero) T, D.4, C.7.6, C.9, F.6, D.27, adducendo
l’assenza di una sua qualsiasi carica formale e sostanziale nelle società cui si
riferiscono tali capi di imputazione: carica mai assunta o, comunque, dismessa
nel marzo 2003. Denuncia contraddittorietà della sentenza sul punto concernente
l’ampiezza cronologica del ruolo gestionale da lui assunto, con specifico
riferimento alle società S.a.t.a. s.r.l. e Parmalat Finanziaria s.p.a., nonché alle
riunioni di budget cui ebbe a partecipare; deduce vizi motivazionali, per
travisamento delle prove, in ordine alla responsabilità per fatti verificatisi dopo le
10
sue dimissioni, risalenti al 26 marzo 2003. Sottolinea di non aver mai fatto parte
del consiglio di amministrazione della società Wishaw Trading, cui si riferiscono
le imputazioni di cui ai capi C.9 ed F.6. Osserva che la Corte d’Appello è incorsa
in confusione fra le promissary notes, che sono titoli di credito, e le Ri.Ba., che
sono mandati all’incasso.
7.2. Col secondo motivo impugna la condanna per i reati di cui ai capi A, B e
C. Lamenta che si sia ritenuta – in via alternativa – la sua responsabilità per
condotte di tipo omissivo, o quanto meno a titolo di concorso morale, sebbene
l’imputazione facesse esclusivamente riferimento ad un concorso materiale di
tipo commissivo.
Si duole che non si sia tenuto conto del dissenso da lui manifestato in più
occasioni, con riferimento a talune operazioni dolose ascrittegli, nonché della sua
estraneità ai fatti di reato verificatisi dopo il 26 marzo 2003. Quanto al primo
punto, sottolinea che la sua partecipazione ha riguardato soltanto acquisizioni
rivelatesi proficue, che dettagliatamente descrive nel ricorso: donde l’ingiustizia
della
generalizzazione
operata
dal
giudice
di
merito,
nell’attribuirgli
sommariamente la corresponsabilità per la politica di internazionalizzazione; su
tale argomento, sottoposto alla disamina della Corte d’Appello, lamenta omessa
motivazione. Quanto al secondo punto, incentra la propria critica sulla mancata
considerazione delle ragioni che lo avevano indotto alle dimissioni e sulla
valutazione dei dati probatori, che assume essere stata incompleta.
Osserva, ancora, il ricorrente che l’avere la Corte d’Appello acceduto a una
qualificazione della condotta in chiave omissiva, alternativamente a quella
contestata, non soltanto ha menomato il diritto alla difesa, ma si è anche
tradotto in violazione degli artt. 40 e 110 cod. pen.. Insiste, per gli illeciti
posteriori al marzo 2003, sulla propria assenza formale e fisica da ogni consiglio
di amministrazione e sulla conseguente astensione da atti gestori: il che,
osserva, ha precluso qualsiasi conoscenza, o anche solo conoscibilità, dei fatti di
reato.
Contrasta l’affermazione della Corte di merito secondo cui, in tema di
bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale, l’elemento soggettivo
dell’extraneus nel reato commesso da altri non deve coprire il dissesto della
società; in proposito si richiama a un arresto giurisprudenziale di questa stessa
sezione (n. 47502 del 24.9.2012, Corvetta), secondo la quale dovrebbe
accertarsi sia il nesso causale fra la condotta e la dichiarazione di fallimento, sia
l’aspetto volitivo del dolo.
7.3. Col terzo motivo il ricorrente torna sull’argomento inerente alla
riqualificazione della condotta come omissiva, ovvero a titolo di concorso morale,
per denunciare l’inosservanza del principio di correlazione fra contestazione e
11
condanna. Sottolinea la diversità del fatto concretatosi in un’omissione, piuttosto
che in una condotta attiva; lamenta la conseguente compromissione del diritto
alla difesa.
7.4. Col quarto motivo, riferendosi alle imputazioni di cui ai capi C.3, E.2.2.
e C.4, il Tonna lamenta carenza motivazionale per omessa confutazione dei
motivi di appello, con i quali aveva dedotto: quanto ai capi C.3 ed E.2.2, inerenti
all’aumento di capitale di Par.fin del 1996 e alla correlata distrazione, l’assenza
di un proprio apporto materiale nell’operazione, non bastando a tal fine l’incarico
ad alto livello manageriale da lui ricoperto; nonché l’errata ricostruzione
dell’operazione da parte del Tribunale, ingiustificatamente minimizzata dalla
Corte d’Appello; quanto al capo C.4, riguardante il finanziamento «eurolire» da
parte
della
Citibank
e
della
Banca
di
Roma,
le
ragioni
di
appetibilità
dell’operazione, a motivo della non imponibilità fiscale nel Granducato di
Lussemburgo.
7.5. Col quinto motivo, riferendosi alle imputazioni di cui ai capi C.5, C.7.2,
D.35, E.3, F.11.2, riassumibili nell’espressione «operazioni di Bank of America»,
il Tonna denuncia la sommarietà della motivazione; censura per contraddittorietà
l’affermazione di responsabilità per il bonifico effettuato da Luciano Del Soldato,
pur nella riconosciuta posteriorità rispetto alle dimissioni del deducente; e per
illogicità la condanna per dazioni di denaro a favore di Luca Sala, sul fallace
presupposto che la prova sia contenuta negli interrogatori resi dallo stesso
Tonna.
Definisce,
per
il
resto,
scarne,
contraddittorie
e
illogiche
le
argomentazioni poste a sostegno dell’affermazione di colpevolezza.
7.6. Col sesto motivo, impugnando la condanna per i reati di cui ai capi C.6,
C.6.1, C.6.2, C.6.3, C.6.3.1, C.6.3.2, C.6.3.3, C.7.1, C.7.3 e C.7.6, il ricorrente
rimprovera alla Corte d’Appello di aver considerato incontestata la ricostruzione
della vicenda riguardante la cosiddetta operazione CSFB, mentre in realtà nei
motivi di appello si era data una diversa versione dei fatti al fine di dimostrare la
convenienza dell’operazione, apparsa infruttuosa solo a motivo della sua
complessità.
7.7. Col settimo motivo, riferendosi alle imputazioni di cui ai capi C.8 e O,
riguardanti il cosiddetto «giro delle concessionarie», deduce assenza e illogicità
di
motivazione
in
ordine
al
proprio
contributo
causale.
Rievocate
le
argomentazioni spese al riguardo nei motivi di appello e in una successiva
memoria, lamenta che con esse non si sia confrontata la Corte territoriale nel
motivare la conferma della condanna. Contesta di aver reso sull’argomento
dichiarazioni ammissive di propria responsabilità.
7.8. Analoghe doglianze sviluppa, con l’ottavo motivo, in ordine alle
imputazioni di cui ai capi C.8.3, D.31.1, C.9 ed F.6. Lamenta anche in questo
12
caso che la Corte d’Appello abbia ignorato i motivi di censura avverso la
sentenza di primo grado, volti a evidenziare la carenza di prove in ordine ad un
suo contributo, materiale o morale, ai fatti oggetto di contestazione.
7.9. Col nono motivo impugna l’affermazione di sua colpevolezza per gli
illeciti distrattivi descritti ai capi d’imputazione D, E ed F. Nega di aver tratto
lucro dagli sconti Tetrapak, rilevando la mancanza di prova sul punto; denuncia
carenza di motivazione per omessa risposta ai motivi di appello, nonché illogicità
e contraddittorietà nelle parti in cui la sentenza impugnata valorizza, quali prove
della sua responsabilità, i ruoli dirigenziali da lui rivestiti nelle società del gruppo
e la collaborazione prestata alla guardia di finanza nella sua attività ispettiva.
Ribadisce le ragioni per cui deve escludersi la sua partecipazione alle distrazioni
in qualità di percettore, già esposte nei motivi di appello e di cui lamenta
l’omessa disamina da parte del collegio di secondo grado.
7.10. Col decimo motivo impugna la condanna pronunciata a suo carico per
le bancarotte delle società minori, contemplate ai capi d’imputazione P, R, S e T.
Contrasta quanto argomentato dalla Corte d’Appello in base alla testimonianza di
Biagio Bailo; lamenta non essersi considerato che le distrazioni ai danni della
Parmatour s.p.a. sono posteriori alle proprie dimissioni; richiama – dolendosi
dell’omessa disamina – le argomentazioni svolte nell’atto di appello a sostegno
della non conoscibilità delle distrazioni ai danni della S.a.t.a. s.r.l.; sostiene,
quanto ai capi R bis ed S bis, che, una volta esclusa la sussistenza dei fatti
ascritti alla lettera b), si sarebbe dovuti addivenire alla sua assoluzione, anziché
ritenere la contestazione alternativa a quella di cui alla lettera a). Ancora,
lamenta l’omessa confutazione dei motivi di appello dedotti a proposito della
bancarotta della società Agis s.p.a.; censura di illogicità e contraddittorietà la
motivazione in ordine al reato di cui al capo T, riguardante la bancarotta della
società Finaliment s.r.l., nella quale non ha rivestito alcuna carica sociale.
7.11. Con l’undicesimo motivo, riferendosi alle bancarotte patrimoniali ai
danni della Parmalat Capital Finance ltd, di cui ai capi F.2.3 ed F.2.4, il ricorrente
si richiama – lamentandone l’omessa disamina – alle ragioni esposte nei motivi
d’appello e nella successiva memoria difensiva, per negare che le distrazioni si
siano verificate e, comunque, che le relative somme siano entrate nel proprio
patrimonio. Censura per contraddittorietà il passaggio motivazionale in cui la
Corte territoriale sostiene che la sentenza della commissione tributaria di Parma,
acquisita nel giudizio di appello, non valga ad escludere la «destinazione
deviata» delle somme, sebbene proprio in tal senso deponga l’accertamento ivi
contenuto. Lamenta l’omessa disamina delle prove documentali prodotte a
sostegno dell’insussistenza delle condotte contestate: prove di cui ribadisce la
capacità
dimostrativa,
sottoponendo
a
13
separata
trattazione
i
due
capi
d’imputazione in questione.
7.12. Col dodicesimo motivo denuncia violazione dell’art. 133 cod. pen. e
vizi di motivazione in ordine alla determinazione della pena, per essersi
determinata la pena base in misura prossima al massimo edittale alla stregua del
solo criterio del danno causato e trascurando, invece, le modalità dell’azione e
l’intensità del dolo. Lamenta, una volta di più, che la Corte d’Appello non abbia
tenuto in considerazione le ragioni illustrate dalla difesa. Osserva che, così
operando,
si
è
dato
luogo
a
un
processo
di
«omogeneizzazione»
di
responsabilità fra presidenza, direzione industriale-commerciale e direzione
finanziaria, senza neppure distinguere fra quanto avvenuto prima e dopo le
dimissioni del deducente.
7.13. Col tredicesimo motivo deduce contraddittorietà e manifesta illogicità
di motivazione in ordine al rigetto delle istanze di rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale, avanzate allo scopo di stabilire le cause del dissesto; nonché
analoghi vizi in ordine alle questioni di nullità decise con ordinanza.
Ad illustrazione delle censure ripercorre in chiave critica la motivazione
addotta nell’ordinanza datata 10 gennaio 2012, denunciandone l’illogicità sia
nella parte in cui ha disatteso l’istanza di nomina di un perito, sia nella parte in
cui ha negato accesso all’audizione del consulente tecnico della difesa.
Analogo vizio ascrive al provvedimento assunto il 9 gennaio 2012, di rigetto
della questione di nullità dedotta con riferimento all’ordinanza del Tribunale
indicata come datata 27 maggio 2012 (ma la data è chiaramente errata),
reiettiva della richiesta di acquisizione delle procure rilasciate da Calisto Tanzi al
deducente; nonché della questione di nullità della sentenza di primo grado a
causa dell’immotivato rigetto della richiesta di «patteggiamento» ex art. 444 del
codice di rito.
7.14. Il quattordicesimo motivo si incentra nuovamente sul trattamento
sanzionatorio, ancora con riferimento alla pena base. Il ricorrente si duole che,
oltre ai criteri oggettivi, siano stati ignorati i criteri soggettivi compendiati nella
locuzione «capacità a delinquere»; fa seguire l’illustrazione delle ragioni addotte
a sostegno del corrispondente motivo di appello, che afferma non avere ottenuto
adeguata risposta dalla Corte di merito. Evidenzia, lamentandone la mancata
valorizzazione, la straordinarietà della collaborazione processuale da lui prestata:
di questa lamenta che si sia tenuto conto solo ai fini dell’applicazione delle
attenuanti generiche e non anche nella graduazione della pena.
7.15. Col quindicesimo motivo il Tonna denuncia violazione dell’art. 69 cod.
pen., con riferimento alla disposta applicazione dell’aumento di pena per
l’aggravante
di
cui
all’art.
219,
comma
2,
della
legge
fallimentare,
nell’inosservanza dell’obbligo di inserire anche tale aggravante nel giudizio di
14
bilanciamento con le attenuanti generiche.
7.16. Col sedicesimo motivo impugna la determinazione degli aumenti di
pena per continuazione, rimasti invariati rispetto alla sentenza di primo grado
sebbene la Corte d’Appello abbia mutato il giudizio di comparazione fra
circostanze, assegnando la prevalenza (in luogo della minusvalenza) alle
attenuanti generiche. In ciò il ricorrente ravvisa un duplice vizio: carenza di
motivazione in ordine al rigetto del motivo di gravame con cui si chiedeva una
moderazione degli aumenti in discorso; violazione di legge per essersi omessa la
riduzione di pena correlata al giudizio di prevalenza delle attenuanti.
7.17. Col diciassettesimo motivo denuncia inosservanza delle norme
processuali in tema di ammissibilità dell’impugnazione, con riferimento all’appello
del pubblico ministero, nonché errata applicazione dell’art. 69 cod. pen..
Sotto il primo profilo osserva che la stessa Corte d’Appello ha rimproverato
all’organo della pubblica accusa di avere impugnato indiscriminatamente tutte le
assoluzioni operate dal Tribunale con riferimento ai fatti di cui ai capi D.31, E.6,
E.7, F.11, senza addurre una specifica motivazione: sicché l’appello è stato
dichiarato inammissibile per genericità nei confronti degli imputati Barachini,
Barili, Bonici, Calogero, Fratta, Panizzi, Silingardi e Giovanni Tanzi; di contro lo
stesso appello è stato ritenuto ammissibile nei confronti del deducente Tonna e
di Calisto Tanzi, sebbene anche le posizioni di costoro fossero state trattate
«indiscriminatamente» insieme alle altre, senza che alcuna contestazione
specifica fosse stata mossa dal P.M. riguardo al preteso apporto del Tonna ai fatti
contestati.
Sotto il secondo profilo ribadisce l’illegittimità del disposto aumento per la
continuazione, in relazione ai reati investiti dall’appello del P.M., per le stesse
ragioni già esposte a corredo del quindicesimo motivo.
7.18. Il diciottesimo motivo riunisce tutte le ragioni di censura avverso le
statuizioni civili, la disposta confisca dei beni già sottoposti a sequestro,
convertito in sequestro conservativo, e la condanna alle spese processuali.
Nell’illustrazione della complessa censura il ricorrente rinnova, in primis,
l’eccezione riguardante la mancata indicazione e allegazione, ad opera delle parti
civili, degli elementi documentali da cui emergerebbe l’importo nominale del
valore delle obbligazioni contestate.
Di seguito impugna l’ordinanza in data 10 novembre 2011, reiettiva della
richiesta di sospensione del pagamento della provvisionale.
Impugna poi l’ordinanza datata 12 dicembre 2011 con la quale la Corte
d’Appello, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalla difesa del coimputato
Calogero, ha dichiarato inammissibile soltanto nei confronti di costui – senza
estendere il provvedimento agli altri imputati – la costituzione delle parti civili
15
Alvisi +45, Lavagnino + 47, Di Stefano +11, L. Cabrini, Ballarin+159, Beltrami
+115, Corvaia+12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35, Allegri +73,
Pompini +38, Agresti + 55, Anceschi + 36.
7.19. Vi è agli atti una memoria difensiva depositata nell’interesse del
ricorrente, con illustrazione di due nuovi motivi.
Col primo di essi, articolato in due censure, il ricorrente ribadisce,
approfondendo
ulteriormente
il
tema,
l’eccezione
di
inosservanza
della
correlazione fra contestazione e condanna, già sviluppata nel terzo motivo di
ricorso. La prima censura si incentra, adducendola ad esempio significativo,
sull’imputazione di cui al capo B.2.1.4, contestata come inserimento in bilancio di
debiti (preference shares) mascherati come patrimonio di pertinenza di terzi, e
invece valutata nella sentenza come «anomalia omissiva». La seconda censura
prospetta una violazione dell’art. 2423-bis cod. civ., osservando che le
preference shares sono state correttamente poste in bilancio come patrimonio
netto di terzi, trattandosi di azioni perpetue per le quali non era previsto un
obbligo certo di riacquisto per la società, ma soltanto una facoltà concessa al
possessore.
Il secondo motivo nuovo ripropone il tema inerente alla violazione dell’art.
133
cod.
pen.
quattordicesimo
sotto
motivo
il
profilo
di
del
ricorso
criterio
e
qui
soggettivo,
ulteriormente
già
trattato
nel
approfondito
con
riferimento alla collaborazione prestata agli inquirenti e alla possibilità di una sua
doppia valutazione: sia ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, sia
nella concreta modulazione della pena.
8. Giovanni Tanzi. E’ stato consigliere della Parmalat Finanziaria s.p.a. dal
30 ottobre 1990 al 15 dicembre 2003; componente del comitato esecutivo della
stessa società dal 15 maggio 1992 al 15 dicembre 2003; vicepresidente del
consiglio di amministrazione di Parmalat Spa da prima del 1989 al 23 dicembre
2003; direttore generale di Parmalat Spa dal 29 aprile 1992 al 16 dicembre
2003; Managing Director di Carital Food Distributors dal 12 ottobre 1993 al 25
ottobre 1994, di Carital Food Distributors
NV dal 31 ottobre al 28 novembre
1994, di Curcastle Corporation NV dal 30 agosto 1991 al 2 novembre 2001, di
Dairies Holding BV dal 20 maggio 1997 al 29 ottobre 2001, di Parmalat Finance
Corporation BV e di Parmalat Netherlands BV dal 27 aprile 1990 al 29 ottobre
2001; membro del consiglio di amministrazione di Eurolat dal 7 luglio 1999 al 20
gennaio 2004, di Parma AC Spa dal 19 luglio 1996 al 4 settembre 2000, di
Coloniale dal 28 febbraio 1992 al 16 gennaio 2004; presidente del consiglio di
amministrazione di Giglio Spa dal 29 ottobre 1993 al 5 settembre 2003; socio di
Agis Spa dal 29 dicembre 1992 al 7 aprile 2004 e di S.a.t.a. Srl dal 5 maggio
16
1989 al 10 febbraio 2004; amministratore unico di Finaliment Srl dal 28 gennaio
1985 al 16 giugno 1993; amministratore di S.a.t.a. Srl dal 6 aprile 1987 al 26
marzo 1990.
Nel
giudizio di
merito ha riportato condanna per i
seguenti reati:
associazione per delinquere in posizione verticistica (capo A); bancarotta
impropria da reati societari (capo B); bancarotta impropria per operazioni dolose
(capo C); bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione all’insolvenza della
società Parmalat s.p.a. e al fallimento della Cosal s.r.l. (Capo D); bancarotta
fraudolenta patrimoniale in relazione all’insolvenza della Parmalat Finance
Corporation BV (capo E) e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo F); bancarotta
fraudolenta documentale in relazione all’insolvenza della Parmalat s.p.a. (capo
L1) e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo L2); bancarotta fraudolenta
patrimoniale in relazione all’insolvenza della Coloniale s.p.a. (capo P); bancarotta
fraudolenta impropria da reati societari in relazione all’insolvenza della Coloniale
s.p.a. (capo Q); bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione
al fallimento della S.a.t.a. s.r.l. (capo R); bancarotta fraudolenta patrimoniale e
documentale in relazione al fallimento della società Agis s.r.l. (capo S).
Ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del difensore, affidandolo
a due motivi.
8.1. Col primo motivo il ricorrente impugna l’ordinanza in data 9 gennaio
2012 con la quale la Corte d’Appello ha respinto le eccezioni di nullità dell’avviso
di conclusione delle indagini preliminari e del decreto di citazione a giudizio,
sollevate dall’imputato per essere stata negata al suo difensore la possibilità di
prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo del P.M., nonché per omessa
traduzione dei documenti in lingua straniera.
Sotto il primo profilo sostiene che, se è pur vero che al difensore è stata
consegnata una copia informatica degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico
ministero, ciò tuttavia non ha soddisfatto l’esigenza di prendere visione degli atti
in formato cartaceo, anche al fine di verificare la completezza delle copie in
formato digitale.
Sotto il secondo profilo invoca l’applicazione dell’art. 143 cod. proc. pen.,
rilevando che i verbali di perquisizione e sequestro redatti all’estero, così come i
documenti acquisiti a seguito di rogatoria internazionale, devono considerarsi atti
compiuti nel procedimento penale, per cui ne è obbligatoria la traduzione nella
lingua italiana.
8.2. Il secondo motivo è articolato in due censure. Con la prima di esse il
ricorrente deduce l’erroneità della qualificazione giuridica che ha indotto i giudici
di merito a ricondurre i fatti accertati entro l’alveo della bancarotta fraudolenta,
mentre doveva ritenersi configurabile la bancarotta semplice, alla stregua della
17
effettività dei ruoli e delle funzioni da lui esercitate. Lamenta che non siano stati
presi in considerazione gli elementi da lui addotti, col risultato che gli si è
attribuita una responsabilità ancora più grave di quella ritenuta dal Tribunale,
con una sostanziale violazione del divieto di reformatio in peius. Nella realtà,
afferma, egli è rimasto estraneo alla conduzione delle società, sebbene abbia
assunto formalmente una posizione apicale a motivo del suo vincolo parentale
con Calisto Tanzi.
Con la seconda censura il ricorrente denuncia violazione di legge e vizi di
motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, alla concreta
determinazione della pena e alla reiezione della richiesta di «patteggiamento».
9. Enrico Barachini. E’ stato membro del consiglio di amministrazione della
Parmalat Finanziaria s.p.a. dal 30 ottobre 1989 al 30 dicembre 2003.
Nel giudizio di merito ha riportato condanna per i seguenti reati: bancarotta
impropria da reati societari, limitatamente alla dichiarazione di insolvenza di
Parmalat s.p.a. e di Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo B); bancarotta impropria
per operazioni dolose, consistite nei prestiti obbligazionari emessi da Parmalat
Finance
Corporation
patrimoniale
in
BV
relazione
nel
2003
(capo
all’insolvenza
C.6.3);
di
bancarotta
Parmalat
fraudolenta
Finanziaria
s.p.a.,
limitatamente ai dividendi per euro 137.734.563 nel periodo 1990-2002 (capo
F.11.5); bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all’insolvenza di
Parmalat s.p.a., sia per distrazione dei dividendi conferiti come aumento di
capitale da parte della Parmalat Finanziaria s.p.a., per la somma di euro
235.909.403 (capo D.34), sia per distrazione della somma di euro 1.239.600 a
favore della X Group s.r.l., in base a un simulato patto di non concorrenza (capo
D.16).
Il Barachini ha proposto ricorso per il tramite dei difensori, affidandolo a
quattro motivi.
9.1. Col primo motivo espone, a titolo di premessa, di non aver ricoperto
altra carica nel gruppo Parmalat, se non quella di amministratore non esecutivo
nella Parmalat Finanziaria s.p.a.. Sottolinea di essere stato assolto, già in primo
grado, dall’imputazione di associazione per delinquere e da altre imputazioni di
bancarotta distrattiva, perché ignaro degli illeciti perpetrati da altri fino al 2002;
queste statuizioni, osserva, sono coperte dal giudicato, così come l’assoluzione
da tutte le accuse di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza e false
comunicazioni sociali pronunciata nei suoi confronti nel processo parallelamente
svoltosi a Milano.
9.2. Col secondo motivo deduce erronea applicazione dell’art. 40 cod. pen. e
degli artt. 2381 e 2392 del codice civile, con riferimento alla responsabilità
18
dell’amministratore non esecutivo. Si richiama a quanto statuito in proposito da
questa stessa sezione nella sentenza Bipop-Carire (n. 23838 del 4/7/2007);
evidenzia i limiti dell’obbligo di agire informato in una situazione nella quale
l’associazione per delinquere – all’insaputa del Barachini – si estendeva agli
organi di controllo, quali il collegio sindacale e le società di revisione; osserva
che l’obbligo di attestare la veridicità dei dati contabili è attribuito dalla legge agli
organi amministrativi delegati, in ciò richiamandosi anche all’art. 154-bis,
comma 5, del testo unico della finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), come
modificato dall’art. 15 d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303: ne induce il conseguente
ridimensionamento
della
posizione
di
garanzia
dell’amministratore
senza
deleghe. Quanto alla condotta omissiva ascrittagli, sostiene di non essere stato
in grado di scoprire, né di impedire i falsi; assume non essere chiaro che cosa si
intenda dire nella sentenza impugnata, là dove si prospetta come doverosa una
«azione di pubblico dissenso» e una richiesta di chiarimenti «pubblicamente
formulata». Rimprovera alla Corte d’Appello di essere incorsa in travisamento del
fatto, nell’affermare che egli interveniva soltanto per segnalare la propria
vicinanza al presidente, senza chiedere chiarimenti sulle dimissioni di Tonna,
sull’acquisto di obbligazioni per somme spropositate, sulle divergenze dei dati di
bilancio da quelli risultanti da Bloomberg e dalla Centrale Rischi: osserva in
proposito che, nel motivo 18 dell’atto di appello, si erano fornite spiegazioni
rimaste senza confutazione nella sentenza di secondo grado. Al riguardo
menziona il verbale del consiglio di amministrazione in data 28 gennaio 2003,
dal quale assume emergere un proprio atteggiamento ben diverso da quello
descritto dalla Corte di merito.
Analoghe
considerazioni
svolge
in
ordine
alla
possibilità,
per
gli
amministratori non esecutivi, di accertare la veridicità dei dati trasmessi dalle
società controllate ai fini della formazione del bilancio consolidato; osserva che,
secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, sussiste responsabilità solo
in caso di conoscenza della falsità, la quale deve essere provata in concreto.
9.3. Col terzo motivo il ricorrente denuncia erronea applicazione dell’art. 43
cod. pen. e carenza motivazionale sul dolo. Contrasta l’affermazione della Corte
d’Appello secondo cui il fallimento non è evento del reato di bancarotta; si
richiama alla sentenza di questa sezione n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta,
secondo la quale il dissesto deve essere voluto. Lamenta che, in tema di dolo
eventuale, la Corte abbia omesso di tener conto della distinzione fra conoscenza
e conoscibilità. Rileva che occorre la precisa conoscenza di fatti illeciti o la
percezione di segnali d’allarme: questi nella specie sono mancati perché gli
organi di controllo hanno coperto e supportato i falsi.
Sostiene, del resto, non essere vero che ci fossero i segnali d’allarme: la
19
Corte, a suo avviso, ha conferito una patente di attendibilità alle dichiarazioni
rese dal Tonna, che invece non la meritavano.
Segue, nel ricorso, una diffusa disamina in chiave critica degli allarmi di
natura societaria, e di quelli che la Corte ha ritenuto specificamente percepiti
dallo stesso Barachini.
9.4. Col quarto motivo il ricorrente eccepisce l’inosservanza dell’art. 649
cod. proc. pen., in relazione al giudicato che lo ha assolto dalle contestazioni di
aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza e fraudolenta certificazione dei
bilanci, con la formula «perché il fatto non costituisce reato».
10. Giovanni Bonici. È stato amministratore finanziario, e in seguito,
presidente della Indulac e di tutte le società del gruppo Parmalat presenti in
Venezuela; dal 27 dicembre 2001 direttore generale della Bonlat e membro del
consiglio di amministrazione; amministratore delegato della stessa società dal 6
maggio 2003.
Ha subito condanna per i seguenti reati: bancarotta impropria da reati
societari, limitatamente all’insolvenza di Parmalat s.p.a. e di Parmalat finanziaria
s.p.a. (capo B); bancarotta fraudolenta documentale in relazione all’insolvenza
della Parmalat s.p.a. (capo L1) e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (capo L2).
Il ricorso da lui proposto si articola in tre motivi.
10.1. Col primo motivo il ricorrente denuncia errata interpretazione dell’art.
2392 cod. civ., rilevando che la nuova formulazione di esso ha ridimensionato la
responsabilità degli amministratori non esecutivi. Rievoca la pronuncia del
Tribunale di Milano che, nel processo ivi svoltosi, lo ha assolto riconoscendo la
sua inconsapevolezza del ruolo di «discarica» che, di fatto, i vertici del gruppo
avevano assegnato alla società Bonlat. Si richiama – come già la Corte d’Appello
– ai principi affermati da questa Corte Suprema nella sentenza n. 23838/2007
(Bipop-Carire), in tema di responsabilità degli amministratori non esecutivi; al
riguardo sostiene di avere assunto nel consiglio di amministrazione un ruolo non
dissimile da quello di una comparsa; si richiama alle dichiarazioni rese dal Tonna,
secondo cui egli era stato chiamato nel consiglio di amministrazione al solo scopo
di
«riempire
una
casella».
Insiste
sulla
differenza
fra
«conoscenza»
e
«conoscibilità» dell’evento che si deve impedire. Nega che l’inadempimento ai
doveri di diligente vigilanza, a lui eventualmente imputabile, possa essere
considerato indizio del dolo, di cui nega la sussistenza.
10.2. Col secondo motivo deduce carenza di motivazione per omessa
valutazione delle argomentazioni svolte dalla difesa, che assume supportate da
documenti e conclusioni oggettive. Propone la rilettura delle risultanze istruttorie
acquisite sia nel presente giudizio, sia in quello svoltosi a Milano; si richiama,
20
nello specifico, alla relazione redatta dal consulente tecnico del P.M., Prof. Galea,
alle dichiarazioni rese dal Tonna anche in sede di controesame, al proprio
interrogatorio davanti al Gip e alle produzioni documentali, riproducendo nel
ricorso svariati passi dei verbali contenenti le dichiarazioni rese dai diversi
soggetti coinvolti. Adduce a propria discolpa i risultati positivi della gestione del
gruppo Parmalat in Venezuela, riconosciuti anche dalla sentenza pronunciata
dalla Corte d’Appello di Milano nel processo ivi svoltosi per i reati finanziari e per
aggiotaggio. Sottopone a dettagliata critica alcuni passaggi argomentativi della
sentenza impugnata, lamentando che la Corte Bolognese abbia dato alle
risultanze istruttorie un’interpretazione distorta.
10.3. Col terzo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza del principio del
ragionevole dubbio, codificato nell’art. 533, comma 1, del codice di rito,
richiamandosi alla giurisprudenza formatasi in argomento.
11. Rosario Lucio Calogero. E’ stato revisore contabile, partner della società
Hodgson Landau Brands, incaricata della revisione della Parmalat s.p.a. e,
successivamente anche della Parmalat Finanziaria s.p.a. e di altre società del
gruppo; membro del consiglio di amministrazione di Agrider Spa dal 4 novembre
1994 al 16 gennaio 1995, di Aranca Industria Srl dal 1 agosto 1995 al 28
gennaio 1998, di Ci.Pro Sicilia Srl dal 20 dicembre 1994 al 2 dicembre 1995, di
Curcastle Corporation NV dal 1994 in poi, di Sido s.r.l. dal 4 novembre 1994 al 1
agosto 1995; managing director di Carital Food Distributor NV dal 30 ottobre
1994 e di Tissington Corporation NV dal luglio 1997; vicepresidente e presidente
del consiglio di amministrazione di Agrider Spa dal 16 gennaio 1995 al 28
maggio 1998, di Aranca Prodotti Spa dal 25 gennaio 1995 al 28 gennaio 1998, di
Aranca Spa in liquidazione dal 7 giugno 1994 al 27 novembre 2000, di C.B.S.
concentrati bevibili Sicilia Srl dal 1 agosto 1995 al 28 gennaio 1998, di Ci.Pro
Sicilia Srl dal 2 dicembre 1995 al 9 dicembre 1999, di Sido Srl dal 1 agosto 1995
al 7 novembre 1997; liquidatore e amministratore unico di Aranca Spa dal 27
novembre 2000 al 15 settembre 2003 e di Ci.Pro Sicilia Srl dal 10 dicembre
1999.
E’ stato condannato per i seguenti reati: bancarotta impropria da reati
societari (capo B); bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all’insolvenza
della Parmalat s.p.a., per distrazione di somme in favore di società appartenenti
al gruppo AFIM (capo D.14); bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione
all’insolvenza della Parmalat Finance Corporation BV, per distrazione della
somma di 20 miliardi di lire in favore della società Des Alpes s.r.l. (capo E.1.2);
bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all’insolvenza della Emmegi
Agroindustriale s.r.l. (capo J); bancarotta fraudolenta documentale in relazione
21
all’insolvenza della Parmalat s.p.a. (capo L1) e della Parmalat Finanziaria s.p.a.
(capo L2).
Il Calogero ha proposto ricorso per il tramite del difensore, affidandolo a sei
motivi.
11.1. Il primo motivo investe la condanna per i reati di cui ai capi B, L1 e L2.
Osserva il ricorrente che, per quanto inerisce alla formazione del bilancio
consolidato, la responsabilità ricade esclusivamente sugli amministratori della
società controllante: la quale, nel caso specifico, si identifica nella Parmalat
s.p.a., dato che il consolidato faceva capo ad essa per tutte le società del
gruppo.
Conseguentemente,
non
avendo
egli
ricoperto
alcuna
carica
di
amministratore, né di sindaco, nella predetta società né nella Par.Fin s.p.a., e
neppure avendo svolto per esse incarichi di revisore o di consulente dopo il
1993, non doveva essergli addebitata alcuna responsabilità in ordine al bilancio
consolidato.
Relativamente alla responsabilità facente capo agli amministratori privi di
delega, sottolinea che per costoro si richiede: la conoscenza, e non la semplice
conoscibilità, della natura illecita delle operazioni compiute; il mancato esercizio
dei poteri ad essi riconosciuti dalla legge; il nesso di causalità fra l’omissione e
l’evento dannoso; l’elemento psicologico del reato, che deve consistere nel dolo.
In ordine alla conoscenza degli illeciti, nega che i segnali d’allarme enucleati
dalla Corte di merito abbiano avuto la valenza significativa ad essi attribuita;
osserva, al riguardo, che non è sufficiente riportarsi alla concreta percepibilità
delle descritte palesi anomalie della gestione economico-finanziaria della holding,
in quanto l’esistenza di una ben organizzata e ramificata “cabina di regia” e di
una
serie
di
collusioni
certificative
difficilmente
immaginabili,
potevano
acquietare gli scrupoli di coloro che avessero, ancorché in minima parte, cercato
di svolgere la propria funzione di garante.
Quanto alla propria posizione personale, il Calogero definisce priva di
fondamento l’affermazione che egli conoscesse le problematiche proprie del
turismo: circostanza, questa, non soltanto priva di riscontro probatorio, ma
neppure ipotizzata dalla Procura della Repubblica; nega di essere stato
liquidatore della società Rushmore, come invece è stato affermato nella
sentenza. In ordine alle società satelliti osserva: che la Camfield è stata
cancellata d’ufficio perché non ha mai operato; che la Tissington non è mai stata
operativa; che, quanto alla Carital Food, egli è stato assolto dall’imputazione
riguardante gli sconti Tetrapak.
Il ricorrente lamenta, ancora, che la Corte territoriale abbia negato
immotivatamente attendibilità alle dichiarazioni scagionanti rese dal coimputato
Claudio Pessina, mentre ha dato credito a quelle accusatorie del Tonna; senza,
22
tuttavia, considerare che costui aveva ammesso di non aver mai parlato col
Calogero delle problematiche inerenti alla collocazione in bilancio di crediti fittizi,
e di ritenere che egli avesse appreso le relative informazioni dal Pessina.
Lamenta che il giudice di secondo grado abbia omesso di motivare in
risposta alle deduzioni svolte nei motivi di appello; in particolare evidenzia di
aver ivi spiegato come la società Curcastle non fosse una «discarica» cioè una
società destinata a rendersi cessionaria di crediti fittizi o inesigibili: mentre lo era
la Bonlat, che era una creatura del Tonna.
Altre argomentazioni sono spese nel ricorso per far notare che il fiscalista,
ricevendo e utilizzando i dati contabili così come fornitigli dal cliente o dal suo
commercialista, non può essere chiamato a rispondere degli illeciti connessi alla
loro elaborazione.
Si duole, altresì, il ricorrente che nella sentenza impugnata manchi qualsiasi
motivazione in ordine al dolo generico.
11.2. Il secondo motivo si traduce nella riproposizione dell’eccezione di
indeterminatezza dell’imputazione, relativamente al capo J: eccezione che il
ricorrente segnala di aver puntualmente formulato nel giudizio di appello, senza
tuttavia ottenere adeguata risposta. Osserva, in proposito, che nella descrizione
del fatto di reato risultano specificamente individuate le condotte dei coimputati,
mentre non vi è alcun cenno alla condotta ascritta al deducente; né la lacuna
può dirsi colmata attraverso il rinvio – ivi fatto – all’imputazione di cui al capo
D.14, dato che in esso nulla si aggiunge al fine di determinare la condotta
imputatagli.
11.3. Ancora ai capi D.14 e J si riferiscono le censure che informano il terzo
motivo. Con esso il ricorrente deduce violazione dei criteri di valutazione delle
prove e vizi di motivazione per omessa considerazione delle tesi difensive e delle
risultanze probatorie; violazione dell’art. 42 cod. pen., per essersi pronunciata la
condanna in assenza di prove circa l’elemento psicologico del reato; violazione
del principio del ragionevole dubbio, codificato nell’art. 530 del codice di rito, in
relazione all’art. 111 della Costituzione.
Ad illustrazione del motivo il Calogero sostiene che lo scopo dell’acquisizione
del gruppo di società calabresi e siciliane facente capo alla AFIM s.p.a. non era
stato quello di rottamare forzatamente delle aziende decotte, bensì di creare un
polo agroalimentare che fosse in grado di autogestire l’intera filiera dalla
raccolta, alla produzione, alla distribuzione del succo di agrumi. L’operazione così
realizzatasi, osserva, è stata il frutto di una scelta imprenditoriale, realizzata in
modo diverso da quello che la Corte ha creduto di potervi ravvisare: non c’è
stato accollo dei debiti, ma acquisto dei crediti delle banche per un corrispettivo
pari al 40% del loro valore.
23
Il ricorrente protesta di essere sempre rimasto estraneo alla Afim e di non
avere mai firmato alcun documento per conto di tale società.
Contesta che le fatture intercorse fra il gruppo Aranca e la Parmalat fossero
false: la merce, sostiene, era pronta per la consegna, ma la Parmalat “faceva il
pesce in barile”, denunciando vizi del prodotto prima ancora di vederlo. Di tutto
ciò afferma di aver dato conto alla Corte d’Appello, la quale non ha fornito alcuna
risposta, essendosi limitata a far prevalere le proprie intuizioni sui dati oggettivi.
Lamenta, conclusivamente, il Calogero di essere stato indicato come
responsabile solo perché presidente del consiglio d’amministrazione del gruppo
Aranca; ma in realtà – così afferma – ha solo cercato di risanare l’azienda: non
ha mai assunto cariche in Emmegi Agro-Alimentare s.r.l.; non ha chiesto
finanziamenti alla Parmalat, ma ha solo trovato quelli fatti in precedenza,
essendo diventato amministratore nel 1994.
11.4. Col quarto motivo il ricorrente svolge analogamente censure di
violazione di legge e vizi motivazionali con riferimento all’imputazione di cui al
capo E.1.2, riguardante la vicenda dell’acquisto del marchio Des Alpes.
Pur astenendosi dal ribadire in questa sede, per rispetto dei limiti del
giudizio di legittimità, la linea difensiva basata sull’assunto che la sua firma
apposta al contratto intercorso fra le società Zilpa Corporation e Dairies Holding
International, sebbene autentica, vi fosse stata applicata con un «copia e
incolla», osserva comunque il Calogero che quel documento è posteriore alla
stipulazione dell’accordo, realizzatasi già nel marzo del 2000 e cioè in epoca
anteriore al proprio avvento nel consiglio di amministrazione della Dairies
Holding. Contrasta l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui egli non
sarebbe stato totalmente estraneo alla società in epoca precedente, stante la
qualità da lui rivestita di membro del consiglio di amministrazione della società
controllante.
11.5. Col quinto motivo il ricorrente lamenta l’eccessività della pena
irrogatagli; critica il giudizio di bilanciamento fra circostanze, attestatosi
sull’equivalenza anziché sulla prevalenza delle attenuanti generiche; chiede
l’applicazione dell’indulto, in presenza dei relativi presupposti.
11.6. Col sesto motivo, indirizzato ad impugnare le statuizioni civili, il
Calogero ripropone l’eccezione volta a far valere la mancanza di prova del
possesso, da parte dei creditori costituitisi parti civili, dei titoli sui quali essi
intendono
fondare
l’istanza
risarcitoria;
rinnova,
altresì,
l’eccezione
di
inammissibilità della costituzione di parte civile per i creditori delle procedure
concorsuali, in presenza della costituzione del commissario straordinario; in
proposito si richiama all’art. 240 della legge fallimentare; reitera, infine,
l’eccezione di inammissibilità della costituzione di tutte le parti civili per
24
violazione dell’art. 78, lett. d), del codice di rito, stante l’omessa indicazione
delle ragioni che giustificano la domanda nei confronti del deducente.
11.7. Vi è agli atti una memoria difensiva, depositata nell’interesse del
ricorrente, recanti motivi nuovi costituenti una riedizione dei motivi 1 e 3 del
ricorso.
12. Sergio Piero Franco Erede. E’ stato amministratore non esecutivo della
società Parmalat Finanziaria s.p.a dal 30 ottobre 1990 al 30 aprile 2001.
Originariamente imputato per i reati di cui ai capi B, C, D, E, F, L ed M, è
stato riconosciuto responsabile del reato di cui all’art. 224 n. 2 legge fall., così
riqualificate le condotte, limitatamente ai fatti riguardanti la Parmalat Finanziaria
s.p.a. anteriori al 30 aprile 2001.
Condannato alla pena di legge, avendo rinunciato alla prescrizione frattanto
maturata, ricorre per cassazione per il tramite dei difensori.
Ad una premessa, nella quale lamenta che il prestigio professionale
riconosciutogli abbia comportato la pretesa di uno standard di diligenza superiore
al normale e denuncia violazione del principio del ragionevole dubbio, segue nel
ricorso l’esposizione degli otto motivi posti a sostegno della richiesta di
annullamento.
12.1. Col primo motivo, rilevando che l’apparente derubricazione ha
costituito, in realtà, un’immutazione del fatto contestatogli, il ricorrente deduce
l’inosservanza del principio di correlazione fra accusa e sentenza, di cui all’art.
521 cod. proc. pen.. Osserva, in proposito, che la norma incriminatrice
applicatagli ha un contenuto descrittivo diverso, rispetto a quella originariamente
ascrittagli, non coincidendo la nozione di dissesto con quella di fallimento.
Sostiene di non essere stato in grado di difendersi adeguatamente dal nuovo
addebito, emerso soltanto in sede di discussione e non formalizzatosi in una
modifica dell’imputazione, per cui è stato costretto a sviluppare una nuova
difesa, inevitabilmente priva di substrato probatorio, in relazione al rimprovero
colposo formulato ex novo. In ordine a tali doglianze deduce carenza di
motivazione nella sentenza di secondo grado, nella quale ravvisa oltretutto una
contraddittorietà, là dove si riconosce che la diversità del titolo di reato richiede
una modifica delle statuizioni civili nei confronti del deducente.
12.2. Il secondo motivo investe il tema riguardante l’individuazione dei
poteri – e delle connesse responsabilità – dell’amministratore non esecutivo.
Sostiene l’Erede che nessuna inosservanza dell’art. 2392 cod. civ. possa essergli
addebitata per omessa verbalizzazione del proprio dissenso, quando egli sia
stato assente dalle riunioni del consiglio di amministrazione della Par.Fin s.p.a.:
giacché l’annotazione del dissenso richiede la presenza. Quanto all’omesso
25
esercizio della facoltà di impugnazione delle delibere ritenute illegittime, rileva
che tale possibilità è stata introdotta nell’art. 2388 cod. civ. soltanto con la
novella del 2003, non applicabile retroattivamente.
Ristretta, così, al parametro dell’«agire informati» la portata dell’obbligo
giuridico facentegli capo quale amministratore privo di deleghe, ne evidenzia il
diverso modo di atteggiarsi nei confronti delle vicende gestorie delle società
controllate, rimarcando che tale era la Parmalat s.p.a. nei confronti della Par.Fin;
deduce l’inapplicabilità – perché riguardante un reato doloso e riferito a soggetti
dotati di rilevanti poteri gestori – del principio affermato nella sentenza c.d.
«Romiti» (Sez. 5, n. 191 del 19/10/2000 - dep. 10/01/2001, Mattioli, Rv.
218073),
che
responsabilità
estende
per
il
all’amministratore
falso
nel
bilancio
della
società
consolidato
controllante
dipendente
da
la
false
comunicazioni della società controllata; rileva essere gli amministratori della
controllata i garanti della veridicità dell’informazione trasmessa: come del resto
ammesso, non senza contraddittorietà, nella stessa sentenza impugnata.
Osserva che la holding è investita delle «strategie globali» del gruppo, non certo
della gestione diretta delle singole controllate: essendo, fra l’altro, inesigibile un
controllo su tutto, all’interno di una multinazionale attiva in molteplici settori.
Un ulteriore argomento difensivo il ricorrente trae dalla disposizione dell’art.
2381, comma 5, cod. civ., che obbliga gli amministratori delegati a riferire al
consiglio di amministrazione: dovendosene trarre, a suo avviso, l’inesistenza di
un obbligo degli amministratori privi di deleghe ad acquisire informazioni, con la
conseguenza per cui ritenere che costoro rivestano una posizione di garanzia
darebbe luogo a una inammissibile forma di responsabilità oggettiva.
Denuncia errata interpretazione dell’art. 2392, comma 2, cod. civ., con la
quale la Corte d’Appello fa rivivere l’obbligo di vigilanza sul generale andamento
della gestione, che invece è stato rimosso dalla novella del 2003.
Conclusivamente denuncia carenza motivazionale sul tema in questione.
12.3. Col terzo motivo il ricorrente rimprovera alla Corte d’Appello di avere
snaturato la disposizione incriminatrice di cui all’art. 224, n. 2), l. fall.,
trattandola come un reato a forma libera e ravvisandovi una variante colposa
della bancarotta impropria per operazioni dolose causatrici del fallimento;
osserva trattarsi, di contro, di un reato a forma vincolata in quanto, ad integrare
la fattispecie incriminata, si richiede l’inosservanza degli obblighi imposti dalla
legge.
Il ricorrente introduce poi la trattazione del requisito inerente al nesso
causale, rilevando che il suo accertamento richiede la risposta a un duplice
quesito: quale sarebbe stato il doveroso comportamento impeditivo e se la sua
omissione sia stata causa efficiente del dissesto. Sostiene che la risposta data
26
dalla Corte d’Appello si pone in contrasto coi principi generali in tema di
causalità, non essendo condivisibile l’affermazione secondo cui, quand’anche non
fosse stato possibile impedire l’evento, se ne sarebbe potuta limitare l’entità;
osserva, al riguardo, che così argomentando il giudice di merito si è sottratto ad
una verifica controfattuale, invece necessaria in ipotesi di colpa; mentre, sotto
altro profilo, è mancata l’individuazione dell’obbligo giuridico di porre in essere la
condotta impeditiva: onde la possibilità di impedire o attenuare l’evento è
rimasta indimostrata.
Rileva, ancora, l’Erede che, una volta escluso il concorso con gli altri
imputati, ritenuti responsabili a titolo di dolo, il reato attribuitogli ha assunto una
valenza monosoggettiva, tant’è che è stata esclusa l’aggravante di cui all’art.
112 n. 1 cod. pen.; si sarebbe quindi dovuto, coerentemente, accertare
l’efficienza eziologica della condotta in sé, individualmente considerata.
12.4. Il quarto motivo approfondisce il tema inerente all’elemento soggettivo
del reato. Secondo il ricorrente la rilevanza dei segnali d’allarme è stata
erroneamente evocata nei propri confronti, in quanto funzionale a un addebito a
titolo di dolo. In ogni caso, la valorizzazione di tali segnali avrebbe richiesto che
ne fosse verificata l’attitudine a rendere prevedibile il dissesto.
Si osserva, ancora, nel ricorso che fra dolo e colpa non esiste una
progressione quantitativa, per cui non è possibile mutuare dall’uno elementi che
valgano per l’accertamento dell’altra. Nella struttura del reato ex art. 224, n. 2
della legge fallimentare l’addebito di colpa richiede che sussista la violazione di
obblighi imposti dalla legge, mentre la Corte d’Appello ha mosso soltanto un
rimprovero di colpa generica, ricondotta alla negligenza. Inoltre è mancato
l’accertamento della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento.
Di seguito il ricorrente analizza partitamente, per negarne l’efficacia
dimostrativa, i segnali d’allarme valorizzati nella sentenza di appello: l’elevato
livello
di
liquidità
e indebitamento;
l’aumento
di
capitale
del
comparto
sudamericano; lo swap Sumitomo. Lamenta che la Corte territoriale non abbia
verificato se egli avesse agito secondo il canone dell’agire informato e abbia
omesso di considerare che, all’epoca in cui era amministratore, il gruppo
Parmalat era in una fase di piena espansione, sicché nulla faceva presagire il
dissesto.
12.5. Col quinto motivo l’Erede denuncia mancanza, contraddittorietà e
manifesta illogicità di motivazione sotto un duplice profilo: sia per l’identità di
trattamento – riverberatasi anche sulla condanna solidale al risarcimento dei
danni – rispetto ai coimputati Fratta e Panizzi, anch’essi ritenuti responsabili a
titolo di colpa, ma per i quali ben più numerosi erano i segnali d’allarme; in
ordine a tali rilievi, già sollevati
coi motivi di appello, il deducente lamenta
27
carenza di motivazione.
12.6. Col sesto motivo impugna, per violazione dell’art. 133 cod. pen. e per
vizi di motivazione, la modulazione della pena e il diniego del beneficio della non
menzione della condanna.
12.7. Col settimo motivo denuncia, quale violazione di legge processuale, la
mancata applicazione dell’art. 587 cod. proc. pen., in relazione alla revoca delle
statuizioni civili disposta in favore soltanto del coimputato Calogero, conseguente
alla irrituale costituzione di oltre 1.500 parti civili, indicate in sentenza come:
Alvisi + 45, Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, L. Cabrini, Ballarin + 159,
Beltrami + 115, Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35,
Allegri + 73, Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36.
12.8. Con l’ottavo motivo deduce violazione di legge e illogicità della
motivazione per essersi attribuita la qualifica di provvisionale a quella che, in
realtà, era la liquidazione definitiva del danno patrimoniale in favore degli
azionisti e degli obbligazionisti costituitisi parti civili.
12.9. Agli atti vi è una memoria difensiva depositata nell’interesse del
ricorrente, nella quale, dopo una premessa riassuntiva delle ragioni di critica alla
sentenza impugnata, si traggono ulteriori argomenti difensivi dalla pronuncia
emessa da questa Corte Suprema nel giudizio inerente al cosiddetto «troncone
milanese» della vicenda Parmalat; vengono poi reiterate le censure mosse nel
ricorso in ordine alla valenza dei segnali d’allarme evidenziati dalla Corte di
merito.
13. Giuliano Panizzi. È stato consigliere non esecutivo di Parmalat s.p.a. dal
29
settembre
1991
al
24
dicembre
2003,
membro
del
consiglio
di
amministrazione di Giglio s.p.a. dal 29 ottobre 1993 al 5 febbraio 1997 e di Altair
Servizi Finanziari s.r.l. dal 2 febbraio 1990 al 2 gennaio 1994.
Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato
ai seguenti motivi.
13.1. Con il primo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazioni di
legge, in relazione alla ritenuta responsabilità dell’imputato per il reato di cui
all’art. 224, n. 2, l. fall.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere specificato quali
fossero e quando si fossero concretizzati i presupposti dell’obbligo di attivarsi,
gravanti su di lui, né quale sarebbe stata l’incidenza causale di tali asseriti
inadempimenti rispetto all’aggravamento del dissesto.
In
secondo
luogo,
con
riferimento
alla
derubricazione
del
reato
originariamente contestato, di concorso in bancarotta fraudolenta mediante false
comunicazioni sociali, nel reato di cui all’art. 224, n. 2, l. fall., si sottolinea che la
28
condotta per la quale era intervenuta condanna in primo grado concerneva
esclusivamente la predisposizione di progetti di bilancio relativi alla Parmalat
s.p.a., contenenti dati falsi con riguardo all’esercizio 2002, talché, in assenza di
impugnazione del P.M. rispetto ai restanti capi per cui era intervenuta
l’assoluzione, solo in relazione alla prima era possibile operare la riqualificazione
dei fatti.
In tale contesto, si osserva in ricorso che il concorso del Panizzi
nell’approvazione del bilancio di Parmalat s.p.a., in quanto non sorretta dalla
consapevolezza della sua falsità, non poteva far sorgere l’obbligo di impugnare la
delibera o di riferire all’autorità giudiziaria o di far annotare il proprio dissenso, a
norma dell’art. 2392 cod. civ. Né, del resto, la responsabilità dell’imputato era
stata fondata sulla mancata richiesta di fallimento di cui all’art. 217, comma
primo, n. 4, richiamato dal n. 1 e non dal n. 2 del successivo art. 224.
Quanto, infine, alla mancata richiesta di approfondimenti, a fronte dei
“segnali d’allarme” individuati dalla sentenza impugnata, si rileva: che due di tali
anomalie, ossia il rapporto fra liquidità e il debito nonché il riacquisto dei bond,
concernevano non Parmalat s.p.a., ma la holding Parmalat finanziaria, cui era
demandata la definizione della strategia finanziaria del gruppo; che, quanto alla
terza anomalia, ossia l’eccessività degli oneri finanziari gravanti su Parmalat
s.p.a., si trattava di tema controverso, come dimostrato dal fatto che gli imputati
e i loro consulenti avevano indicato metodologie diverse di calcolo, idonee a
ricondurre gli oneri in limiti fisiologici e che erano state apoditticamente disattese
dalla Corte territoriale.
In ogni caso, si aggiunge, anche una richiesta di approfondimenti non
avrebbe assunto alcuna concreta idoneità ad impedire l’evento, se si considera
che, attraverso il
supporto
di
documentazione contabile falsificata
e la
connivenza dei revisori, la “cabina di regia” della Parmalat era riuscita persino a
sottrarsi ai penetranti poteri ispettivi della Consob.
13.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali, in ordine alla
condanna al risarcimento del danno e alla provvisionale, nonché erronea
applicazione dell’art. 539 cod. proc. pen. e dell’art. 240 l. fall.
Oltre a rinviare alle critiche esposte nel primo motivo, il ricorrente rileva che
la possibilità di azionisti e obbligazionisti di costituirsi parte civile nel processo
penale, in presenza, come nella specie, della costituzione di parte civile del
commissario dell’amministrazione straordinaria, è limitata, dall’art. 240, comma
secondo, l. fall., alle sole ipotesi di bancarotta fraudolenta.
13.3. Con il terzo motivo, si lamenta l’erronea applicazione della disciplina in
materia di solidarietà nelle obbligazioni civilistiche, rilevando che gli imputati
Fanizzi, Fratta ed Erede, erano stati tutti ritenuti responsabili in relazione al
29
reato di cui all’art. 224, n. 2, l. fall., ma non con riferimento a fatti diversi,
ciascuno produttivo di una frazione del danno complessivo.
13.4. Con il quarto motivo, si lamentano vizi motivazionali in ordine alla
quantificazione dell’importo della provvisionale.
14. Davide Fratta. È stato sindaco supplente di Par.fin. s.p.a. dal 29 giugno
1998 al 1° giugno 1999, sindaco effettivo di Parmalat s.p.a. da prima del 1989 al
24 dicembre 2003.
Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato
ai seguenti motivi.
14.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali ed erronea
applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., rilevando che la norma da ultimo citata
consente la valutazione delle conseguenze civilistiche del fatto, solo quando il
reato esposto alla vicenda estintiva della prescrizione sia quello ritenuto
sussistente dal giudice di primo grado e non quando, in appello si operi, come
nella specie , una riqualificazione della condotta contestata.
14.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazione
dell’art. 224 l. fall.
In primo luogo, il ricorrente sottolinea, alla luce del complesso sistema di
occultamento degli illeciti posti in essere dal gruppo di comando delle varie
società, l’assenza di prova di una immutazione del vero, operata dai sindaci
all’esito delle attività di loro competenza.
Con ulteriore articolazione del motivo, si ribadisce la dubbia applicabilità
delle raccomandazioni della Consob ai sindaci delle società non quotate e si
contesta l’applicabilità dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., ai sindaci,
aggiungendo che l’omissione dell’azione impeditiva, per assumere rilievo, deve
essere assistita dalla consapevolezza dell’evento nella sua portata illecita, quale
emergente da segnali perspicui e peculiari.
Da ultimo, si censura la motivazione per non avere dato conto della
rilevanza causale, rispetto al dissesto (o al suo aggravamento), dei ritenuti
colposi inadempimenti del ricorrente.
15. Mario Paolo Alfonso Mutti. È stato consigliere non esecutivo di Par.fin.
s.p.a. da prima della quotazione in Borsa sino al 29 giugno 1998, presidente del
consiglio di amministrazione e consigliere delegato in Afim s.p.a. dal 1992 al
2004 , presidente del consiglio di amministrazione di Aranca Spa dal 20 maggio
1993 al 7 giugno 1994.
Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione affidato
ai seguenti motivi.
30
15.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e inosservanza o
erronea applicazione degli artt. 40, 41, 42, 43 cod. pen., 216 e 223, comma
primo, l. fall., con riguardo all’affermazione di responsabilità dell’imputato per la
bancarotta fraudolenta per distrazione in danno di Parmalat s.p.a., in relazione
alle vicende del gruppo Sidac – Cosfid – Aranca.
Al riguardo, dopo avere richiamato la decisione della Sez. 5 di questa Corte
n. 47502 del 24/09/2012, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata ha
omesso di valutare, in relazione alla sua posizione, la sussistenza sia del nesso di
causalità tra la condotta e l’insolvenza, sia del necessario elemento soggettivo
rispetto a quest’ultimo evento, alla luce dello sviluppo cronologico della vicenda
del gruppo Parmalat e del fatto che essa appare il risultato di scelte volta a volta
orientate
verso
la
ricerca
di
una
soluzione
contingente
al
problema
dell’indebitamento, che aveva, infine, condotto alla sua esplosione, ma al di fuori
di qualunque apporto del ricorrente, la cui condotta si era esaurita quasi dieci
anni prima della dichiarazione di fallimento.
Del resto, anche i primi “segnali di allarme” della grave crisi finanziaria del
gruppo, valorizzati dai giudici di merito, si collocavano, a tutto voler concedere,
nel 2000 e, quindi, diversi anni dopo l’esaurimento delle condotte contestate al
Mutti, il quale era risultato estraneo alla “cabina di regia” delle varie operazioni.
Il ricorrente insiste, inoltre, sul fatto che egli era stato un mero strumento
nelle mani del Tanzi, il quale, già prima di conferire il mandato al Mutti, aveva
assunto impegni diretti in Sidac.
Ed, infatti, non era emersa alcuna sua consapevolezza della portata della
vicenda, nella quale egli aveva perseguito esclusive finalità di risanamento delle
aziende acquistate, né una volontà di contribuire alla dissipazione in danno dei
creditori di Parmalat s.p.a.
In ogni caso, la Corte territoriale aveva errato nell’ascrivere al ricorrente
tutte le vicende contabili e concernenti la mancata restituzione dei finanziamenti
ricevuti da Parmalat s.p.a., successive alla cessazione, nell’aprile 1994, del
mandato ricevuto dal Tanzi e, persino, dell’incarico di consigliere non esecutivo
di Par.fin. s.p.a., avvenuta nel 1998.
15.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali nonché
inosservanza o erronea applicazione di norme di legge, in relazione agli artt. 217
e 224, l. fall., sottolineando che le condotte ascritte all’imputato sono, al più,
inquadrabili nella fattispecie di cui all’art. 217, comma primo, n. 2, l. fall., cui
rinvia il successivo art. 224, n. 1,
con la conseguenza che il reato è ormai
estinto per prescrizione.
15.3. Nell’interesse del Mutti è stata deposita memoria, nella quale si
sviluppano le considerazioni contenute nei motivi di ricorso.
31
16. Camillo Florini. È stato direttore Finanza e Tesoreria in CLUB VACANZE
s.p.a. dal 4 giugno 1997 al 3 luglio 2000, ha ricevuto in HIT INTERNATIONAL
s.p.a. procura per atti e operazioni bancarie
dal 4 luglio 2001 al 4 febbraio
2004, in SESTANTE s.p.a. è stato alla Direzione Divisione Operativa dal 24 marzo
2000 al 2 settembre 2002, in HIT HOLDING ITALIANA TURISMO s.p.a. ha
ricevuto
procura
all’amministrazione
dell’esercizio
di
attività
operative
e
gestionali dal 7 novembre 2001 al 4 febbraio 2004, la delega di direttore del
Turismo dal 15 maggio 2002 al 2 settembre 2002, procura bancaria a firma
singola e congiunta dal 17 dicembre 1999 al 28 gennaio 2004; inoltre ha
ricevuto la direzione del coordinamento operativo dal 3 luglio 2000 al 12 febbraio
2001, la direzione operativa dal 15 ottobre 2001 al 23 novembre 2001, la
direzione finanziaria dal 12 febbraio 2001 al 30 giugno 2001, la direzione
amministrativa, finanza e controllo dal 30 giugno 2001 al 31 agosto 2002.
Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione affidato
ai seguenti motivi.
16.1. Con il primo motivo, si lamentano vizi motivazionali e violazione
dell’art. 110 cod. pen.
Al riguardo, il ricorrente inizia col rilevare che la Corte territoriale, dopo
avergli attribuito, a partire dal luglio 2001, il ruolo di CFO del gruppo turistico,
con il compito di sovrintendere ai rapporti tra quest’ultimo e altri settori del
Gruppo Parmalat, aveva contraddittoriamente riconosciuto che egli era stato un
efficiente e affidabile assistente del Baratta, ma non certo quello stabile e
fondamentale
punto
di
riferimento,
per
il
settore
turistico,
che
aveva
rappresentato quest’ultimo e ancor meno il CFO “tipo”, quale era stato il Tonna,
nel settore alimentare.
Con riferimento al capo E.1.1., ossia alla distrazione in danno di Parmalat
Finance Corporation BV, per effetto dei finanziamenti intervenuti tra giugno e
ottobre 2000, in favore della ITC & P s.p.a. (e, in parte, trasferiti ad HIT s.p.a.),
a seguito della prima operazione effettuata per il tramite dello schermo della
società Web Holdings, il ricorrente sottolinea che la motivazione della Corte
territoriale si limita a fare riferimento alla sua partecipazione alla metodologia
operativa, senza specificare in cosa essa si sia tradotta, giacché, come emerso in
dibattimento, l’ideatore dell’operazione era stata altra persona (l’avv. Zini),
mentre, per altro aspetto, era stato il Baratta a dare indicazioni sul modo di
annotare in contabilità i fondi pervenuti alla ITC & P s.p.a., al punto che il
ricorrente nel processo cd. Parmatour era stato assolto dalle imputazioni di
bancarotta in danno di Hit s.p.a. e Hit International s.p.a.
Né, in relazione all’imputazione, potrebbero essere valorizzate le tecniche di
32
contabilizzazione dei bonifici provenuti da Parmalat s.p.a., in relazione alle
operazioni Web Holdings del 2001 e del 2002, perché ampiamente successive ai
fatti contestati.
Quanto, infine, agli asseriti
prelievi effettuati dal Florini dal conto
lussemburghese Business and Leisure, il ricorrente, dopo avere precisato di
essere stato assolto nel processo cd. Parmatour da tale imputazione, ha
sottolineato che essi hanno una valenza neutra, in assenza di prova quanto al
loro collegamento con la realizzazione dell’operazione Web Holdings, potendo
avere causali diverse, penalmente irrilevanti, anche nell’ipotesi che essi abbiano
rappresentato il prezzo per il silenzio serbato.
16.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali, in relazione al
capo D.38.
Il ricorrente rileva che, con riferimento alle forniture ricevute da Hit s.p.a.
negli anni 1998, 1999 e 2000, non è dato rinvenire nelle due sentenze di merito
alcuna motivazione, al punto che non è neppure dato intendere di quali forniture
si tratti e quale sia stato il contributo fornito dall’imputato in relazione alla
contestata distrazione.
Con riferimento ai finanziamenti erogati da Parmalat s.p.a. in favore della
medesima Hit s.p.a. negli anni 1999, 2001 e 2002, il ricorrente censura
l’affermazione di responsabilità in relazione a tutte le operazioni compiute nel
2002, sia giacché era incontroverso che nell’aprile dello stesso anno gli era stata
revocata la procura e aveva interrotto i rapporti con il Gruppo di appartenenza.
Con riguardo ai finanziamenti anteriori a tale data, le critiche del ricorrente
si sviluppano in relazione ai seguenti argomenti: a) il documento valorizzato
dalla Corte territoriale per sostenere la consapevole partecipazione del Florini
non era stato redatto da quest’ultimo, ma dal Baratta; b) se l’introduzione di
nuove tecniche di contabilizzazione delle operazioni finanziarie, a partire
dall’ottobre 2001, fosse stata riconducibile al Florini, nel frattempo divenuto
direttore operativo della Hit s.p.a., non avrebbero dovuto essergli attribuite le
distrazioni concernenti i finanziamenti intervenuti in data antecedente e
contabilizzati come debito verso Parmalat, giacché si porrebbe la seguente
alternativa: o il Florini – con modalità non esplicitate nella motivazione – aveva
contribuito anche a tali distrazioni, salvo rilevare l’assenza di una spiegazione in
ordine al successivo mutamento delle modalità di contabilizzazione (versamento
in conto capitale da Hit International s.p.a.) oppure, proprio quest’ultima tecnica
rivelava la contrarietà del Florini alle scelte precedentemente adottate; c) al di
là, di tali considerazioni, comunque, l’analisi delle prove dichiarative, dimostra
che il Florini era assolutamente estraneo alle distrazioni contabili in danno di
Parmalat s.p.a., effettuate attraverso la Web Holdings; d) in particolare, le
33
dichiarazioni del Tonna, quanto alla conversazione nella quale aveva riferito al
Florini
in
ordine
alla
ragionevolmente nel
reale
identità
marzo del
della
Web
2002, quando era
Holdings,
si
collocava
stato confezionato il
documento (Third Loan Agreement) consegnato dal primo al secondo nello
stesso contesto; e) in definitiva, la contabilizzazione di un bonifico intervenuto
nell’ottobre 2001 come un finanziamento socio risiedeva propria nell’ignoranza
della reale natura di schermo della Web Holdings, anche perché altrimenti non si
spiegherebbe
la
corretta
contabilizzazione
dei
versamenti
effettuati
nel
precedente mese di settembre come debiti verso Parmalat; f) che il Third Loan
Agreement copriva i versamenti intervenuti tra l’11/10/2001 e il 15/02/2002,
ossia in un periodo nel quale Florini non era ancora stato informato dal Tonna
della reale natura della Web Holdings, mentre il successivo Fourth Loan
Agreement riguardava i versamenti intervenuti a partire dal 21/05/2002, quando
il Florini era stato esautorato dal suo incarico; g) in coerenza con tali indicazioni,
nel processo cd. Parmatour, il Florini era stato assolto dalle imputazioni di
bancarotta societaria di Hit s.p.a. per l’anno 2002 e di Hit International s.p.a. per
tutte le annualità in contestazione; h) egli non aveva mai affermato di avere
sollecitato il socio americano a versare fondi al settore Turismo, indirizzando tali
richieste a Collecchio, avendo piuttosto precisato di essersi rivolto al Tanzi, per
evitare che le sue società fallissero; i) il Baratta si era limitato a riconoscere, sia
pure timidamente, una partecipazione del Florini agli aggiustamenti dei conti, in
epoca successiva alla cessazione dalla carica di Direttore amministrativo del dott.
Petazzini; l) l’affermazione attribuita dalla Corte territoriale al Baratta, secondo
la quale il Florini sarebbe stato l’ideatore della falsa cessione dei marchi Kilburn e
avrebbe provveduto a raccogliere la firma del primo su detto contratto, era
smentita dalla circostanza che i contratti concernenti tale vicenda non recavano
alcuna sottoscrizione e comunque erano stati confezionati molto tempo dopo
l’avvenuta appostazione della voce relativa in bilancio; m) sempre con
riferimento a tale vicenda il teste Nevi aveva ricordato di avere ricevuto i
contratti da altro soggetto; inoltre sempre il Nevi li aveva trasmessi al Florini,
con missiva di accompagnamento nella quale si dichiarava disponibile a rendere
ogni necessario chiarimento.
16.3. Con il terzo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
applicazione della legge penale, in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo del
delitto di bancarotta fraudolenta, sottolineando che la consapevolezza del
concreto rischio di insolvenza era stata agganciata dalla Corte territoriale a
eventi –quali la vicenda del finanziamento a favore di ITC & P s.p.a.- risalenti al
gennaio 1997, ossia ad un periodo nel quale il Florini non faceva parte del
Gruppo Turismo, per averlo abbandonato alla fine del 1996, facendovi ritorno
34
solo alla metà del 1997.
Da ultimo, si sollecita la rimessione alle Sezioni Unite della questione del
contenuto del dolo in tale ipotesi.
16.4. Con il quarto motivo, si lamentano vizi motivazionali in ordine alla
mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Al riguardo, si sottolinea: a) che le condotte erano state poste in essere dal
Florini sostanzialmente per intero nel Gruppo turistico, che egli non aveva mai
partecipato alle riunioni del comitato di budget, ove venivano pianificate le
operazioni finanziarie, che anche quando aveva assunto la massima carica nel
settore turistico non aveva posto in essere alcun atto; b) che il travaso di risorse
economiche dal Gruppo Parmalat al Gruppo Turistico era iniziato ben prima che il
Florini entrasse a far parte di quest’ultimo ed era proseguito anche dopo la sua
fuoriuscita, a dimostrazione della scarsa incidenza del suo contributo e della sua
fungibilità; c) che, pertanto, era illogico valorizzare il solo dato della gravità dei
danni subiti dai creditori, senza apprezzare il concreto ruolo ricoperto dal Florini,
oltre che la sua incensuratezza, il comportamento processuale, l’età avanzata,
l’ormai definitivo disinteresse da qualunque attività imprenditoriale.
16.5. Con il quinto motivo, si lamentano vizi motivazionali nonché erronea
applicazione degli artt. 415 bis, 416, 178, lett. c), cod. proc. pen., con riguardo
all’ordinanza del 09/01/2012.
Al riguardo, si lamenta che la segreteria del P.M. aveva comunicato a tutti
gli interessati che, previo pagamento dei diritti di cancelleria, sarebbero stati
consegnati i CD contenenti gli atti processuali. La richiesta, presentata nei venti
giorni dalla ricezione della notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis cod. proc.
pen., al fine di ottenere l’autorizzazione alla consultazione e alla visione del
fascicolo, era rimasta inevasa. Essa aveva riguardato gli atti in formato cartaceo,
in quanto si trattava dell’unica modalità di consultazione concretamente
praticabile presso l’ufficio destinatario della richiesta.
In definitiva, siffatto ostacolo alla consultazione degli atti si traduce,
secondo il ricorrente, in un omesso avviso, in tal modo travolgendo anche la
successiva richiesta di rinvio a giudizio, ai sensi dell’art. 416, comma 1, cod.
proc. pen.
17. Paolo Sciumè. È stato consigliere non esecutivo di Par.fin. s.p.a. da
prima della quotazione in Borsa sino al default, presidente del collegio sindacale
di Vacanze s.r.l., poi Vacanze Tour Operator s.p.a. dal 1992 al 1996, membro e
presidente del consiglio di amministrazione di Ifitalia dal 1° aprile 1998 al marzo
2004.
Il ricorso proposto dall’imputato si affida ai seguenti motivi.
35
17.1. Con il primo motivo denuncia erronea interpretazione della legge
penale, in ordine al dolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta
patrimoniale e documentale.
Al riguardo, si rileva che il dolo, tanto diretto come eventuale, richiede la
conoscenza e non la mera conoscibilità del fatto costitutivo di reato (oltre che la
rappresentazione
omissione),
e
mentre
volontà
la
dell’evento,
Corte
territoriale
quale
ha
conseguenza
ritenuto
che,
della
ai
propria
fini
della
configurabilità del dolo eventuale, è sufficiente la rappresentazione del rischio
dell’evento pregiudizievole e la mancata attivazione per impedirlo.
Il ricorrente affronta quindi la questione dei segnali peculiari e perspicui,
utilizzabili ai fini della dimostrazione del dolo, sottolineando che essi si
distinguono dalle generali situazioni di rischio, la cui necessaria valutazione
attiene al tema dei doveri di diligenza, in quanto attraverso di essi l’imputato
giunge a rappresentarsi il fatto di reato.
Alla stregua di tali premesse, si rileva che l’apparato motivazionale ruotante
attorno all’inadempimento degli amministratori non esecutivi, come il ricorrente,
rispetto alla regola dell’agire informato, esprime una conseguenza dell’errore
consistito nel non ricercare la necessaria conoscenza del fatto costitutivo di
reato, in quanto addebitare l’inadempimento di doveri informativi presuppone
situazioni di mancanza o di incompletezza di conoscenza ed orienta verso
l’esclusione del dolo.
D’altra parte, si aggiunge, il dovere dell’agire informato va raccordato col
dovere di fornire ragguagli informativi da parte degli amministratori operativi e si
attualizza nel momento in cui l’amministratore non esecutivo è chiamato ad
agire.
Con specifico riguardo alla posizione dell’imputato, si precisa, ancora, che,
oltre a non essere individuabile alcuna sua condotta “pericolosa”, manca in
radice la prova della rappresentazione dell’evento, quale conseguenza, prevista
in termini di elevata probabilità della propria omissione.
17.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
interpretazione della fattispecie e del dolo in tema di bancarotta per distrazione.
Al riguardo, si muove dalla premessa che l’elemento soggettivo della
fattispecie in questione, quando la condotta si concreti nell’erogazione di prestiti
da parte del soggetto che successivamente fallirà, presuppone la consapevolezza
del carattere distrattivo della vicenda, ossia del fatto che il rimborso del prestito
sia a priori escluso o altamente improbabile.
Tale conclusione è inquadrata nell’affermazione giurisprudenziale, coerente
con i principi dettati dagli artt. 3 e 27, comma primo, Cost., secondo la quale
l’evento della bancarotta va ravvisato nell’insolvenza, con la conseguenza che la
36
situazione di dissesto che dà luogo al fallimento deve porsi in rapporto di
causalità con la condotta distrattiva ed essere rappresentata e voluta o almeno
accettata come rischio concreto della propria azione.
Il ricorrente, pertanto, per il caso che si ritenga di disattendere siffatta
ricostruzione, solleva questione di legittimità costituzionale della disciplina.
Nel dettaglio delle singole imputazioni, si esaminano, in primo luogo, gli
episodi di cui D.3.5.1., D.3.5.2 e D.3., ossia tre distrazioni di beni della Parmalat
s.p.a., trasferiti, in assenza di corrispettivo o di titolo o in presenza di titolo
simulato, a favore della Vacanze s.r.l., della quale lo Sciumè è stato sindaco nel
triennio 1993 – 1995.
Al riguardo, si rileva che le vicende del gruppo Turismo sono state
esaminate nel cd. processo Parmatour, all’esito del quale lo Sciumè, cui era stato
contestato il concorso in false comunicazioni sociali, è stato assolto, per
mancanza di dolo dalle imputazioni relative agli anni 1993 e 1994 e condannato
esclusivamente per quelle concernenti il 1995. Il ricorrente si duole del fatto che
tali esiti siano stati trascurati e che la Corte territoriale non ha espresso neppure
il sospetto che lo Sciumè fosse a conoscenza dei documenti richiamati e, in
generale, della crisi del gruppo turistico e degli ingenti flussi di denaro da
Parmalat s.p.a. verso quest’ultimo.
Con riferimento alla distrazione di cui al capo D.3.5.1., si osserva che solo
nella nota integrativa al bilancio chiuso al 31/12/1993, si fa riferimento al
finanziamento di un miliardo di lire da parte di Parmalat s.p.a., alla quale lo
Sciumè era estraneo, talché, in assenza di dimostrazione di una previa
conoscenza dell’operazione, non poteva concludersi per la sua responsabilità.
Con riferimento alle altre due distrazioni, il ricorrente lamenta che la sua
estraneità a Parmalat s.p.a. e il suo ruolo di amministratore non esecutivo di
Parfin s.p.a. non consentono di ascrivergli alcuna responsabilità per l’omessa
analisi dei bilanci della prima società, anche in ragione del fatto che, a differenza
del primo finanziamento del 1993, i due successivi non emergevano dai bilanci
degli anni corrispondenti delle società finanziate, in quanto la voce “debiti verso
altri finanziatori” si presenta come sintetica, senza il dettaglio delle voci che la
compongono. Inoltre, secondo la medesima ricostruzione della G. di F., dei
finanziamenti del 1994 per dodici miliardi, ben sei erano stati rimborsati nel
corso del medesimo esercizio, talché chi ne avesse avuto notizia non avrebbe
avuto ragione alcuna per ritenere che la quota non ancora restituita dovesse
essere considerata come a fondo perduto.
Sulla questione, richiamando le considerazioni sopra ricordate in tema di
ricostruzione della fattispecie di bancarotta e della sua necessaria componente
soggettiva, si rileva, come autonomo profilo di vizio motivazionale, che la Corte
37
territoriale: a) non ha approfondito la questione se i finanziamenti in esame,
risalenti agli anni ’90, anche se intesi come a fondo perduto, presentassero il
disvalore del reato fallimentare o dell’appropriazione indebita; b) non si è posta il
problema dei rapporti tra siffatte operazioni e la posizione di garanzia
specificamente assunta dallo Sciumé, quale amministratore di Parfin s.p.a.; c)
non ha affrontato la questione del dolo di concorso omissivo in bancarotta.
17.3. Con il terzo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
interpretazione della legge penale, con riferimento al capo C.8.2., ossia con
riguardo alla dolosa operazione di cessione pro solvendo di crediti fittizi di
Parmalat s.p.a., attraverso la Contal – con conseguente allocazione a carico di
quest’ultima presso la Centrale Rischi del debito nascente dall’operazione -, ad
Ifitalia, della quale lo Sciumè era Presidente.
Sotto un primo profilo, si critica la sentenza impugnata per non avere
motivato in ordine alla conoscenza, da parte dello Sciumè – estraneo, per quanto
emerge dallo stesso capo di imputazione, al complessivo disegno fraudolento
descritto nel capo C.8 -, del carattere fittizio dei crediti, non desumibile dal fatto
che l’imputato avesse “notato e ponderato” l’esistenza dell’interposizione della
Contal,
anche
alla
luce
del
fatto
che
nessuna
delle
persone
coinvolte
nell’ideazione e nell’esecuzione aveva riferito di pressioni, interferenze o anche
solo di conversazioni con lo Sciumè a tal riguardo.
Del resto, l’esattezza di tale impostazione si desume dal fatto che lo Sciumè
è stato assolto dal Tribunale di Milano, che ha esaminato compiutamente la
vicenda.
Sotto un secondo angolo prospettico, si esclude che la vicenda possa essere
qualificata come operazione dolosa in danno di Parmalat s.p.a., rilevante ai sensi
dell’art. 223 l. fall., non essendo dato cogliere in essa l’effetto dell’indebita
diminuzione dell’asse attivo, che scaturisce dalla selezione delle condotte tipiche
previste dalla fattispecie, alla luce dell’evento richiesto dalla norma del dissesto
della
società.
depauperamento
Nella
di
specie,
Parmalat
al
contrario,
s.p.a.,
che
non
aveva
si
era
realizzato
ottenuto
–
sia
alcun
pure
fraudolentemente un finanziamento -, ma un’operazione squilibrata in danno di
Ifitalia, al più riconducibile alla figura del ricorso abusivo al credito o alla
bancarotta semplice, per avere consentito di procrastinare il default.
Infine, per altro aspetto sostanzialmente legato alla vicenda, ossia il
pagamento delle commissioni in favore di Ifitalia in relazione alle cessioni di
credito, si rileva, subordinatamente all’accoglimento delle superiori censure, che
il versamento delle somme non presenta alcun rilievo distrattivo, in quanto atto
di adempimento del contratto concluso.
17.4. Con il quarto motivo, concernente la condanna dell’imputato in
38
relazione al reato di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1, l. fall., per il concorso
in false comunicazioni sociali, si rileva, preliminarmente che la motivazione della
Corte territoriale, mentre fonda la responsabilità dello Sciumè per i bilanci di
Parmalat s.p.a. e Parfin s.p.a. relativi all’esercizio 2002, con riguardo alla
distribuzione dei dividendi di competenza di tale esercizio, nulla spiega in ordine
ai bilanci precedenti, cui pure il capo di imputazione e il dispositivo della
decisione si riferiscono, e ciò nonostante l’affermazione per la quale il medesimo
Sciumè non era consapevole del carattere illecito della distribuzione di dividendi
relativi agli esercizi precedenti.
Con ulteriore articolazione del medesimo motivo, si denuncia il difetto di
motivazione della sentenza impugnata in relazione alla rilevanza dell’estraneità
dell’imputato alle operazioni che avevano cagionato lo squilibrio e poi il dissesto
del gruppo rispetto al ritenuto concorso nelle false comunicazioni sociali.
Nella medesima prospettiva del dolo, il ricorrente, dopo avere richiamato le
considerazioni svolte in generale nel primo motivo, con riferimento ai “segnali di
allarme”, esamina la motivazione concernente la sua specifica posizione,
rilevando: a) che, con riferimento al ruolo ricoperto dallo Sciumè nel Gruppo
Turismo, la condanna dello stesso per i fatti risalenti al 1993 – 1995 e la sua
assoluzione per quelli successivi (capi D.38 e D.39) rendono contraddittoria
l’argomentazione della Corte territoriale in ordine alla perspicuità di quanto
appreso negli anni 1993 – 1995, in relazione ad illeciti successivi, che investono
un diverso e più ampio ambito di vicende, privando di base oggettiva la pretesa
che l’imputato, quale amministratore di Parfin s.p.a., potesse, negli anni
seguenti, opporsi alle delibere, in virtù di quanto appreso in precedenza; b) che
l’assoluzione per mancanza di dolo dello Sciumè dall’imputazione D.14, relativa
all’operazione Aranca, non consentiva di trarre la prova della consapevolezza
dell’imputato, della capacità falsificatrice del management di Parfin e di
Parmalat; c) che, con riguardo alla vicenda del factoring Ifitalia, l’assenza di
prova del carattere fittizio dei crediti rendeva il ritenuto “segnale di allarme” del
tutto irrilevante; d) che, con riferimento alla posizione dello Sciumè in Parfin
s.p.a., non potevano assumere rilievo, rispetto alla contestazione concernente il
bilancio dell’esercizio 2002, approvato dall’assemblea nell’aprile 2003, le vicende
dei tre bond emessi successivamente, nell’estate del 2003, e quelle del periodo
finale, che si collocano tra il novembre e il dicembre di tale anno, tra le quali si
pone anche la riunione consiliare del 9 dicembre; e) che con riguardo ai segnali
precedenti, non era dato intendere cosa significasse la liquidità dichiarata,
laddove la stessa Corte territoriale aveva escluso che essa consentisse di
desumere l’inesistenza del Fondo Epicurum e del conto presso Bank of America;
f) che, del pari, l’accorpamento del debito non aveva inciso sul saldo di bilancio;
39
g) che la stessa sentenza d’appello non era giunta ad affermare che il falso
riacquisto dei bond, al pari della falsità dello Swap Sumitomo, fosse noto allo
Sciumè; h) che la vicenda dell’aumento di capitale di Parmalat Brasile esprimeva
una criticità, ma non consentiva di individuare fatti illeciti, tanto più che già in
primo grado lo Sciumè era stato assolto dall’imputazione di distrazione correlata
a tale vicenda.
17.5. Con il quinto motivo, si lamentano, in ragione delle considerazioni
appena esaminate, vizi motivazionali, in relazione alle ipotesi di bancarotta per
distrazione concernenti la distribuzione dei dividendi Parmalat s.p.a. (capo D.34)
e Parfin s.p.a. (capo F.11.5), aggiungendo, comunque, che l’illegale ripartizione
degli utili, sussumibile nel paradigma dell’art. 2627 cod. civ., orienta verso
l’applicazione dell’art. 223, comma secondo, n. 1, l. fall., ponendo il problema
della verifica del nesso eziologico rispetto al dissesto.
17.6. Con il sesto motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
interpretazione della legge penale, in relazione alle operazioni del 2003 indicate
nel capo C.6.3.
In particolare, si tratta delle tre emissioni di prestiti obbligazionari effettuate
dal Gruppo Parmalat, attraverso la controllata Parmalat Capital Finance BV
nell’estate del 2003: obbligazioni UBS/Totta (capo C.6.3.1), Nextra Morgan
Stanley (capo C.6.3.2), Deutsche Bank (capo C.6.3.3)
In generale, si rileva che si tratta di operazioni neutre, al più espressive
della fattispecie di cui all’art. 217, comma primo, n. 3, o di cui all’art. 218 l. fall.,
nella specie, peraltro, caratterizzate da clausole comunicate al mercato di
assoluta normalità, laddove non era stata dimostrata la conoscenza, da parte
dello Sciumè, dei profili dai quali l’accusa aveva fatto discendere la qualifica delle
operazioni come dolose.
In particolare, si rileva, attraverso l’esame degli atti valorizzati dalla Corte
territoriale, che Parmalat non aveva mai assunto l’impegno di non procedere
all’emissione di bond, in quanto: a) il brano tratto dalla relazione sulla gestione
relativa al bilancio 2002, oltre a non assumere il rilievo di formale deliberazione
del consiglio di amministrazione, faceva riferimento ad una graduale riduzione
dell’indebitamento,
ossia
prospettava
un
obiettivo
tendenziale,
che
non
escludeva, nel breve come nel medio termine, il rifinanziamento del debito
esistente; b) le “promesse” di identico contenuto del CFO Ferraris erano del pari
inesistenti, giacché nella comunicazione del 10/04/2003 si indicava, come
elemento della strategia globale, quello della politica di allungamento del debito
a tassi competitivi e si specificava che nel breve termine non c’erano piani di
nuove emissioni obbligazionarie, con chiaro riferimento ad emissioni di bond,
ovvero di obbligazioni quotate nei mercati regolamentati, non riferibili alle
40
operazioni effettuate di private placement presso investitori istituzionali; c)
anche il comunicato stampa del 15/05/2003 non recava alcuna traccia
dell’impegno a non emettere ulteriori obbligazioni, in quanto si precisava, al
contrario, che sarebbe stato preso in considerazione un collocamento privato a
tassi e durata favorevoli; d) che la comunicazione del Ferraris ad UBS del
11/06/2003, al di là del fatto che non se ne trova traccia in atti, comunque non
era indirizzata allo Sciumè, senza che ne emerga in altro modo la conoscenza da
parte di quest’ultimo.
Sotto altra prospettiva, si critica l’affermazione della Corte territoriale,
secondo la quale era indiscutibile che gli amministratori non esecutivi avessero a
disposizione i documenti degli stessi bond, dal momento che la contrattualistica
relativa alle emissioni non era stata portata in consiglio di amministrazione ed
allegata agli atti del consiglio e che la corrispondenza e-mail intercorsa tra il
Ferraris e i funzionari degli istituti di credito aveva natura riservata e si collocava
al di fuori della portata conoscitiva dei consiglieri non esecutivi.
Esaminando, in dettaglio, le tre operazioni, il ricorrente osserva, quanto
all’emissione Nextra/Morgan Stanley: che l’operazione era stata resa nota al
mercato, dopo il suo perfezionamento, attraverso una comunicazione del
18/06/2003,
che
riportava
dati,
in
seguito
rivelatisi
non
completi;
che
l’operazione non era mai stata portata all’attenzione e all’approvazione del
consiglio di amministrazione e che lo Sciumè era all’oscuro delle trattative
riservate tra il Ferraris e i funzionari della Morgan Stanley e Nextra; che solo in
data
03/07/2003
l’operazione
era
stata
comunicata
al
consiglio
di
amministrazione di Parfin s.p.a., attraverso l’esposizione dei medesimi termini
già riportati nella comunicazione del 18/06/2003 e senza che il consiglio venisse
chiamato ad assumere alcuna delibera; che non era stata indicata alcun ragione
che giustificasse l’opposizione di un amministratore esecutivo a tale operazione,
dal momento che le condizioni di emissione erano in linea con il profilo
economico e il rischi di Parmalat, al punto che gli operatori le giudicarono come
favorevoli a quest’ultima.
Con riferimento all’emissione UBS/Totta, per l’importo di 130 milioni di euro,
si rileva che essa non fu oggetto di alcuna delibera, né di informativa in alcuna
seduta del consiglio di amministrazione di Parfin, in quanto, perfezionata in data
09/06/2003, fu resa nota solo con la semestrale 2003, pubblicata in data
11/09/2003, in termini oggettivamente favorevoli, quanto alle condizioni, come
dimostrato
dalle
valutazioni
della
stampa
specializzata,
alla
luce
dell’indebitamento lordo di Parmalat (7 miliardi di euro) e della liquidità esistente
(4 miliardi di euro)
Quanto, infine, all’emissione Deutsche Bank, si osserva che essa fu oggetto
41
di comunicazione preventiva al consiglio di amministrazione, ma attraverso
l’indicazione delle stesse, inesatte e incomplete, notizie in seguito comunicate al
mercato, senza che lo Sciumè fosse al corrente delle effettive condizioni di
emissione.
17.7 Con il settimo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
interpretazione della legge penale, in ordine alla sussistenza del nesso causale
tra l’evento ipotizzato, ossia l’aggravamento del dissesto del Gruppo Parmalat, e
le condotte contestate.
Muovendo dalla sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002, si rileva che
la stessa Corte territoriale riconosce che l’intervento dello Sciumè, come degli
altri amministratori non esecutivi, non avrebbe potuto avere l’effetto di
preservare la conservazione del patrimonio sociale e ciò senza dire che, se pure
erano presenti elementi idonei ad ingenerare forti perplessità sulla gestione del
Gruppo, non erano ravvisabili, né erano stati ravvisati anche da operatori
istituzionali qualificati, segnali idonei a disvelare gli illeciti sottesi alla gestione
Tanzi.
17.8. Con l’ottavo motivo, si lamenta violazione dell’art. 649 cod. pen., in
relazione alla sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato del
Tribunale di Milano nel procedimento n. 10456 del 2004, con riguardo ai reati di
aggiotaggio, per le comunicazioni dei dati economici e finanziari della Parmalat
s.p.a. negli anni 2002 e 2003, ostacolo alle funzioni di vigilanza della Consob,
concorso nel falso dei revisori Deloitte e Grant Thorton.
Al riguardo, si rileva che i fatti storici esaminati dal Tribunale di Milano,
sono, nonostante la diversa qualificazione giuridica, i medesimi di cui al presente
procedimento, con la sola eccezione delle vicende relative al Gruppo Turismo e
alla società Aranca.
17.9. Con il nono, subordinato motivo, si lamenta errore di diritto in
relazione alla condanna risarcitoria in solido per il danno corrispondente al
dissesto
Parmalat,
sottolineando
che
la
regola
di
responsabilità
solidale
presuppone l’identità del fatto rispetto al quale si afferma la responsabilità,
laddove, nel caso di specie, ricorrono fatti diversi, ciascuno produttivo di una
frazione del danno complessivo.
Nella specie, la condanna in solido al risarcimento del danno ha comportato
l’imposizione,
sempre
in
solido
tra
gli
imputati,
del
pagamento
della
provvisionale liquidata.
18. Fabio Branchi. È stato sindaco supplente in Parmalat s.p.a. dal 29 aprile
1991 al 24 dicembre 2003, in Donzelli s.p.a. dal 1° ottobre 1993 al 5 luglio
1994, in Viaggi Donzelli s.r.l. dal 25 gennaio 1993 al 23 dicembre 1993; sindaco
42
effettivo in Eliair s.r.l. dal 28 aprile 1998 al 1° aprile 2004, in Hit Holding, poi Hit
Immobiliare –in seguito fusa con Hit International s.p.a. - dal 28 aprile 2000 al 5
luglio 2001, in Hit Holding Italiana Turismo s.p.a. dall’11 ottobre 1999 al 31
gennaio 2003, in Hit International s.p.a. dal 31 luglio 2000 al 24 gennaio 2003,
in Vacanze s.r.l. - poi Vacanze Tour Operator s.p.a. - dal 30 luglio 1996 al 9
dicembre 1997; presidente del collegio Sindacale in Cereal Sole s.p.a. e in
Dalmata s.r.l. dal 28 aprile 1997 in avanti, in Geslat s.r.l. dal 14 dicembre 1995
al 9 febbraio 2004, in World Vision Travel s.r.l. dal 9 marzo 1990 al 23 dicembre
1993, in Agis s.r.l. dal 3 marzo 1993 al 1° aprile 2004, in Coloniale s.r.l. dal 28
febbraio 1994 al 17 gennaio 2004, in Sata s.r.l. dal 1° agosto 1994 al al 1° aprile
2004; amministratore delegato in Hit Holding Italiana Turismo s.p.a. dal 31
marzo 2003 al 28 gennaio 2004 e in Hit International s.p.a. dal 24 gennaio 2003
al 28 gennaio 2004; consulente contabile in Agis s.r.l., in Cononiale s.r.l. e in
Sata s.r.l. dal 30 novembre 1993 in avanti.
Il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato è affidato ai seguenti motivi.
18.1. Con il primo motivo, si lamenta inosservanza o erronea applicazione
dell’art. 70 cod. proc. pen., ribadendo che, all’esito dell’ictus che colpì l’imputato
in data 31/10/2002 e della successiva dimissione, il 16/01/2003, dall’Istituto di
riabilitazione presso il quale era stato ricoverato, il Branchi non era più stato in
grado di svolgere qualunque attività che richiedesse continua attenzione o
applicazione.
Alla stregua di questa premessa, si lamenta che i giudici di merito non
abbiano svolto gli accertamenti necessari a verificare la capacità dell’imputato di
seguire
costantemente
il
processo,
udienza
dopo
determinando l’impossibilità di indicare elementi
udienza,
in
tal
modo
a discolpa, testimoni
o
consulenti di parte, o di controesaminare le persone ascoltate; d’altra parte,
neppure erano state rivolte all’imputato domande ad eventuale discolpa, con
conseguente violazione dell’art. 358 cod. proc. pen.
Al riguardo, si aggiunge: che l’unica dichiarazione resa dall’imputato nel
dibattimento dinanzi alla Corte d’appello riguardava proprio il fatto che egli non
comprendeva di che cosa lo si accusasse; che la Corte territoriale, per un verso,
aveva escluso l’attribuibilità all’imputato dei fatti posti in essere tra il 31/10/2002
e il 31/01/2003 e, per altro verso, aveva assegnato rilevanza alla sua
partecipazione alle assemblee della Hit s.p.a. e della Hit International s.p.a. del
24 e del 31/01/2003 nonché al rogito Parmatour del 31/01/2003; che la
consulenza tecnica di parte del 24/11/2011, a nove anni di distanza dall’ictus,
ancora descriveva gli esiti fisici dello stesso, così come gli accertamenti relativi ai
deficit psichici attestavano che l’elaborazione concettuale era pregiudicata dal
deterioramento
cognitivo
e
le
capacità
43
espressive
e
percettive
erano
compromesse e comunque tali non raggiungere livelli sufficienti che per brevi
periodi di tempo, al punto da pregiudicare la libera e consapevole partecipazione
al dibattimento.
18.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi motivazionali, in ordine
all’affermazione di responsabilità dell’imputato.
In particolare, si rileva che la situazione del Gruppo Parmalat, ancora nel
settembre 2003, non evidenziava all’esterno quelle criticità emerse solo in
seguito agli imponenti accertamenti seguiti al default e grazie al determinante
apporto del Tonna. In tale contesto, si ribadisce l’assenza di ogni coinvolgimento
dell’imputato e si contesta che egli abbia liberamente sottoscritto i bonifici
risalenti a tempi di poco successivi all’ictus dell’ottobre del 2002.
Il ricorrente aggiunge: a) che egli non era mai stato sindaco effettivo di
Parmalat s.p.a., né in tale società aveva mai ricoperto alcuna funzione che gli
consentisse l’esercizio di un potere attivo o interdittivo, dalla cui mancata
attivazione potesse scaturire una condotta penalmente illecita; b) che, in
definitiva, sarebbe stato necessario accertare il dolo dell’extraneus nei reati
contestati; c) che, con riguardo ai fatti commessi in danno di SATA s.r.l.,
dichiarata fallita nell’aprile 2004, occorre considerare che l’insolvenza era stata
motivata in ragione dell’improbabile realizzo dei crediti vantati verso società del
Gruppo Parmalat e che, tuttavia, proprio per effetto dell’acquisizione della
società, successiva al default, da parte di Parmalat s.p.a., la prima era tornata in
bonis, al punto che il fallimento era stato revocato; d) che anche il curatore del
fallimento della SATA s.r.l. aveva dato atto che, per effetto della rinuncia dei
creditori, la società era tornata in bonis; e) che la Pisorno s.r.l., anch’essa
acquisita dalla Parmalat s.p.a., era attualmente proprietaria di un bene; f) che
anche la società AGIS era da tempo in bonis; g) che, per entrambe le società,
secondo la deposizione del curatore, la contabilità era nella forma regolarmente
tenuta e i libri sociali obbligatori erano stati regolarmente aggiornati; g) che,
quanto alla società Finaliment, se è vero che la contabilità era tenuta dallo studio
Branchi, è altrettanto vero che l’imputato non ricopriva alcuna carica sociale; h)
che,
successivamente
all’ictus
dell’ottobre
2002,
nessuna
condotta
era
attribuibile al Branchi; i) che, in ogni caso, egli era stato completamente
sottomesso alle indicazioni della proprietà delle società che gli si chiedeva di
amministrare, sicché egli non aveva avuto alcun potere di indagine, di
conoscenza, di deliberazione e, in genere, alcun potere interdittivo in grado di
impedire eventi progettati e accuratamente occultati da terzi, anche in ragione
delle informazioni contabilmente corrette da lui ricevute e senza che potesse
avere contezzaa di alcunché di illecito; l) che, con riferimento alla sua posizione
associativa, faceva difetto, per le stesse ragioni, il necessario dolo specifico,
44
anche alla luce delle prove dichiarative acquisite; m) che, con riferimento al capo
r) e alla luce del fatto che altri aveva la responsabilità dell’amministrazione, oltre
alla non attribuibilità dei fatti successivi all’ottobre 2002, per le ragioni sopra
ricordate, occorreva considerare che la SATA s.r.l. era tornata presto in bonis; n)
che, anche con riguardo ai fatti relativi alla società AGIS (capi S, S bis, S ter), in
relazione alla quale il Branchi aveva solo svolto incarichi di presidente del
collegio sindacale e non ruoli amministrativi, occorreva prendere atto che la
società era tornata in bonis; o) che, anche in relazione ai capi concernenti la
società Finaliment (capi T e T bis), la tenuta della contabilità da parte del suo
studio non valeva a fondare la sua responsabilità personale; p) che, in definitiva,
la responsabilità del Branchi era stata affermata sulla base di motivazioni
inesistenti; q) che, con riferimento alle bancarotte documentali e patrimoniali
della Parmalat s.p.a., della Parmafin s.p.a. e della Parmalat Finance Corporation
BV, il Branchi non aveva ricoperto né svolto alcuna funzione amministrativa o
sindacale o di tenuta della contabilità
Con ulteriore articolazione del motivo, si censura l’impugnata sentenza, per
non avere riconosciuto le circostanze attenuanti generiche con criterio di
prevalenza, nonostante l’età e la condizione di incensuratezza, la contestazione
delle accuse rivoltegli e i tratti collaborativi rinvenibili in atti.
18.3. Con il terzo motivo, si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art.
533 cod. proc. pen., in relazione all’art. 111 Cost., per violazione del principio
dell’oltre ragionevole dubbio.
18.4. Nell’interesse del Branchi è stata depositata memoria, con la quale,
oltre a svilupparsi le considerazioni già contenute nei motivi di ricorso, si
aggiunge che il G.i.p. del Tribunale di Parma, in data 15-19/09/2013, ha
archiviato
il
procedimento
concernente
il
Branchi
relativo
al
cd.
filone
Parmacalcio, prendendo atto delle richieste del P.M., dalle quali emergeva che il
ricorrente aveva documentato la falsità della firma apposta sulla relazione del
Collegio dei sindaci sul bilancio del 30/06/2002.
Il ricorrente sottolinea, pertanto, che può ormai ritenersi più che verosimile
che il Branchi venisse dato ordinariamente presente, anche in sua assenza, alle
riunioni del Collegio sindacale, con apposizione di firme apocrife.
19. Luciano Silingardi. È stato consigliere non esecutivo di Par.fin. s.p.a. dal
30 aprile 2001 al 9 dicembre 2003, membro del comitato per il controllo interno
di Par.fin. s.p.a. dal maggio 2001 al 9 dicembre 2003, sindaco supplente di Word
Vision Travel dal 25 ottobre 1984 al 29 dicembre 1986, membro del consiglio di
amministrazione di Banca Intesa dal 28 gennaio 1999 al 12 giugno 2000 e del
Comitato esecutivo di tale Banca dal 20 aprile 1999 al 12 giugno 2000,
45
Presidente del CdA della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza dal 27/4/87 al
12 giugno 2000, della Fondazione della Cassa di Risparmio di Parma dal 13
dicembre 1991 al 20 gennaio 2004, di Revinda s.r.l. dal 9 giugno 2003,
consulente contabile di Sata s.r.l., Finaliment s.r.l., e Agis s.r.l. fino al 29
novembre 1993.
Il ricorso proposto da Luciano Silingardi si affida ai seguenti motivi
19.1. Con il primo motivo, si lamentano vizi motivazionali, con riferimento
alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, relativamente a tutti
i capi ed i punti della sentenza impugnata.
In particolare, si lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che
l’incontro dell’08/12/2003, nel corso del quale, secondo il medesimo Silingardi,
Tanzi aveva ammesso l’”inconsistenza di Epicurum, l’inconsistenza dei bond
riacquistati e l’inconsistenza della liquidità”, lungi dal mostrare la consapevolezza
di Tanzi di avere ingannato
gli amministratori indipendenti e la conseguente
inconsapevolezza di questi ultimi delle manipolazioni realizzate, rivelava, al
contrario, l’intento del primo di “raccogliere le ultime forze attive e disponibili a
salvare Tanzi e le sue società prima che i problemi diventassero di dominio
pubblico”.
Al riguardo, si osserva che la lettura della Corte territoriale, oltre che
difforme da quella fornita dagli stessi giudici di primo grado e dalla sentenza
della V sezione di questa Corte, che aveva annullato senza rinvio la decisione di
merito, in relazione al processo per aggiotaggio, per tutti i capi d’imputazione,
tranne che per l’episodio del comunicato del 10/12/2003, era intrinsecamente
contraddittoria rispetto ad altro luogo della motivazione, in cui, per giustificare la
condanna di altro imputato, il Barili, non convocato dal Tanzi per la riunione
dell’08/12/2003, la medesima Corte d’appello aveva affermato che la mancata
convocazione si giustificava, in quanto nulla il Tanzi riteneva di confessare a
Barili, già pienamente a conoscenza di tutto, né pensava di potere chiedere il suo
aiuto perché già, in sede di comitato esecutivo, gli era stato fornito tutto l’aiuto
possibile dai partecipanti.
19.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali, sempre con
riguardo
alla
ritenuta
sussistenza
dell’elemento
soggettivo,
con
specifico
riferimento all’omesso esame delle doglianze contenute nei motivi di appello e
nelle memorie difensive presentate alla corte d’appello e al travisamento della
prova quale emerge dagli atti del processo.
Al riguardo, si osserva: a) non si può logicamente ritenere che Silingardi,
che all’epoca aveva già completato il proprio percorso professionale, essendo
stato per tredici anni Presidente della Cassa di Risparmio e per alcuni anni
membro del Consiglio di Banca Intesa, essendo rimasto in ogni caso quale
46
Presidente della Fondazione Cariparma ed essendo titolare di uno dei più
importanti ed avviati studi di commercialisti di Parma, abbia, per il solo
sentimento di gratitudine verso Calisto Tanzi, accettato di entrare nel Consiglio di
Amministrazione ed addirittura nel Comitato per il Controllo Interno, quale
Presidente, nell’aprile del 2001, pur conoscendo la reale situazione in cui versava
il Gruppo Parmalat; b) che il Silingardi non era a conoscenza dell’inesistenza del
fondo Epicurum, al punto che, come emergeva dagli atti processuali, dopo
averne chiesto, con la convocazione d’urgenza il Comitato di Controllo del
7/11/2003, la liquidazione, quando si era reso conto che questa, deliberata il
14/11/2003, tardava ad arrivare, aveva cominciato a chiamare Tanzi, Del
Soldato e poi Petrucci per avere delle delucidazioni in merito; c) che, del resto,
sul periodico economico “Il Mondo” era comparso un lungo articolo nel quale si
parlava del fondo Epicurum come di uno dei più importanti fondi di investimento
presenti sul mercato, a riprova del grado di sofisticazione e di efficacia che aveva
raggiunto la frode perpetrata dalla ristretta “cabina di regia”; d) che la Corte
territoriale non aveva spiegato per quale ragioni il Silingardi si era dimesso
immediatamente dopo che Tanzi gli aveva rivelato in data 08/12/2003 che la
liquidità non esisteva, se davvero ne fosse stato da sempre a conoscenza ed anzi
fosse
stato
un
organizzatore
dell’associazione
per
delinquere,
laddove
l’alternativa spiegazione fornita sulla scorta delle dichiarazioni di Sciumè (quella
di continuare ad aiutare la Parmalat, cercando appoggi nel mondo bancario da
esterno al gruppo) era illogica, perché Silingardi – la cui versione dei fatti era
dalla stessa Corte stata contradditoriamente ritenuta più credibile di quella dello
Siumè - era l’unico a non essersi adoperato per cercare contatti con le banche
per cercare di trovare aiuto per pagare il bond dell’Immacolata e aveva
sostenuto la sua plausibile versione con la produzione di un appunto, il cui
contenuto confermava integralmente quanto dichiarato dallo stesso circa lo
svolgimento dei fatti del concitato pomeriggio dell’8/12/2003, quando egli aveva
appreso da Tanzi della reale situazione del Gruppo; e) che, del resto, come
confermato da Sciumè, che sul punto non aveva alcun interesse di mentire,
l’appunto poi prodotto da Silingardi era già stato redatto nel momento in cui lui
si era recato presso il suo studio e, dunque, non dopo che Silingardi si era recato
dal proprio avvocato penalista, bensì prima; f) e ciò senza dire se Silingardi,
dopo aver parlato con Tanzi il giorno 8/12/2003, fosse stato così preoccupato da
andare a parlarne immediatamente con un avvocato penalista, ciò non poteva
che significare che aveva appreso solo in quel momento dell’esistenza di
comportamenti illeciti gravissimi da parte di Tanzi e dei suoi sodali e che ne era
rimasto tanto sconvolto da sentire l’esigenza di rivolgersi ad un professionista
per chiedere un consiglio su come comportarsi e di prendere appunti su quanto
47
riferitogli da Tanzi per ricordarsi in futuro con precisione degli eventi; g) che, in
definitiva, la plausibile versione dell’imputato era stata superata, in violazione
della
regola
dell’oltre
ragionevole
dubbio,
sulla
scorta
di
considerazioni
contraddittorie ed illogiche, come dimostrato dal fatto che, posto che già il
09/12/2003, durante il consiglio di amministrazione era stata data la notizia del
mancato
pagamento
del
bond
e
dell’intervenuta
sospensione
del
titolo,
divenendo così di dominio pubblico, non era dato intendere quale intervento si
sarebbe potuto attuare in meno di dodici ore; h) che, al contrario, il reale
svolgimento dei fatti era coerente con quanto riferito dal Tanzi, il quale aveva
posto una distinzione netta tra coloro i quali sapevano perché erano con lui nella
“cabina di regia” e quelli che, a suo giudizio, per le posizioni personali
extrasocietarie, potevano avere intuito non già la reale situazione, bensì un certo
stato di tensione finanziaria, con la conseguenza che, proprio per tale motivo,
era andato di persona ad informarli della reale situazione, ossia dell’inesistenza
delle liquidità e dunque dello stato di dissesto della società; i) che, inoltre, la
ricostruzione della Corte territoriale era illogica, in quanto, se l’opera esterna del
Silingardi era preziosa, non si riusciva ad intendere perché egli, da organizzatore
dell’associazione, sarebbe entrato nel consiglio di amministrazione di Parmalat,
in difformità dagli interessi dello stesso sodalizio, visto che sarebbe stato di
maggior utilità con la sua opera dall’esterno del Consiglio stesso; l) che, del
resto, dal fatto che Tanzi si aspettasse dai consiglieri non esecutivi un aiuto non
può certo logicamente dedursi che Silingardi intendesse fornirglielo, ciò che era
dimostrato, peraltro, dagli interrogatori di Sciumè e Panizzi, dai quali emergeva
che Silingardi non si era mai occupato di cercare finanziamenti per il gruppo
dopo l’08/12/2003, ma anzi era stato pregato invano da Tanzi di ritirare le
dimissioni; m) che, ancora, il fatto che Tanzi si sarebbe incontrato il 16/12/2003
con Silingardi per chiedergli di aiutarlo a trovare la disponibilità di liquidità, non
era riscontrato da alcun elemento di prova, mentre era stato il Silingardi stesso a
riferire dell’incontro nel corso del quale, però, Tanzi gli aveva chiesto un consiglio
circa l’opportunità di vendere delle azioni, al che lui aveva risposto che sarebbe
stata una follia e che per il futuro non si sarebbe più dovuto rivolgere a lui, ma
consultare un avvocato; n) che, in definitiva, in assenza di una prova diretta,
visto che non era
mai
stata contestata l’approvazione di una delibera
pregiudizievole alla società da parte di Silingardi, così come degli altri Consiglieri
non esecutivi di Parfin, la prova del dolo era stata nella sostanza colta nei
rapporti personali con Tanzi.
19.3. Con il terzo motivo, si lamentano erronea applicazione della legge
penale e vizi motivazionali, in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento
soggettivo con riferimento a tutti delitti per cui è stata pronunciata condanna.
48
Nel motivo, si inizia con il criticare la ritenuta attendibilità della chiamata in
correità operata dal Tonna e, per altro aspetto, la stessa esistenza di una
chiamata in correità.
Quanto al primo profilo, si sottolinea: a) la diversa valutazione espressa dai
giudici di primo grado, che avevano valorizzato il fatto che il Tonna aveva iniziato
a collaborare solo quando ormai ben sapeva che non avrebbe potuto nascondere
le sue responsabilità e, nonostante ciò, aveva continuato a minimizzare il suo
ruolo, accusando gli altri per diminuire le proprie palesi responsabilità; b) il fatto
che comunque il Bocchi - il quale aveva escluso che Silingardi fosse un membro
della “Cabina di regia” - aveva iniziato a collaborare prima di essere arrestato,
come ammesso dalla stessa Corte d’Appello e non dopo, come invece aveva fatto
Tonna, rifiutandosi di distruggere la documentazione cartacea.
Quanto al secondo profilo, si critica la sentenza impugnata per avere
valorizzato le sole dichiarazioni accusatorie del Tonna, trascurando quelle
favorevoli all’imputato.
Al riguardo, si rileva: a) che Tonna, nell’interrogatorio reso ai PM di Parma in
data 07/01/2004, aveva ammesso che, a differenza di Giuffredi, Del Soldato,
Pessina, Bocchi, Penca, Bianchi, Gorreri, Giovanni e Stefano Tanzi, Visconti, “gli
altri amministratori ritengo che sapessero poco di ciò che accadeva in Parmalat.
Ritengo più che altro che abbiano esercitato un controllo molto superficiale”; b)
che la Corte ha incongruamente valorizzato talune affermazioni di Tonna del
tutto decontestualizzate e di valenza assolutamente neutra, secondo le quali
“Silingardi ha avuto un ruolo più significativo quando era fuori dalla società che
quando era consigliere”, frase in sé non espressiva di consapevole partecipazione
ad una condotta criminosa, ma piuttosto dell’opinione del dichiarante in ordine
all’influenza del Silingardi sulle delibere di finanziamento al gruppo.
Con riferimento alle dichiarazioni di Calisto Tanzi, il ricorrente, dopo avere
sottolineato che la valutazione di attendibilità espressa dalla Corte territoriale
appariva in contrasto con il pur riconosciuto atteggiamento non collaborativo e
ambiguo dello stesso, ribadito nella motivazione concernente la determinazione
del trattamento sanzionatorio, lamenta che, anche in questo caso, la sentenza
impugnata valorizza le dichiarazioni nelle quali coglie indicazioni accusatorie,
svalutando quelle di significato contrario e, in particolare, il fatto che nessuno dei
coimputati (Bocchi, Del Soldato, Ferraris e perfino Tanzi e Tonna) aveva mai
effettuato una chiamata di correità nei confronti di Silingardi ed anzi tutti
avevano escluso che costui facesse parte della “Cabina di regia”.
19.4. Con il quarto motivo, si lamentano erronea applicazione della legge
penale e vizi motivazionali, in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento
soggettivo con riferimento a tutti delitti per cui è stata pronunciata condanna.
49
In particolare, si rileva la diversità del metro di valutazione della sussistenza
del dolo adottato per i coimputati Panizzi e Fratta, da un lato, e per il Silingardi
dall’altro.
Su un piano generale, si osserva che i criteri di dimostrazione della
sussistenza dell’elemento soggettivo non mutano sulla base del tipo di illecito e
che la conoscenza del carattere distrattivo delle condotte può anche desumersi
da elementi indiretti, purché siano il risultato della percezione in capo al
concorrente di segnali perspicui e peculiari dell’illecito in itinere.
Nel caso di Silingardi, così come di tutti gli amministratori estranei alla
“cabina di regia”, ognuno riponeva ampia fiducia nelle capacità manageriali di
Tanzi e Tonna, sicché, eventuali segnali d’allarme sfumavano nell’affidamento
verso i delegati e nelle risposte sempre coerenti da questi offerte, unitamente
all’elevato livello di sofisticatezza e decettività dei falsi, sempre più evoluti e
complessi con il trascorrere degli anni.
Del resto, proprio le superiori considerazioni sul fatto che solo nell’incontro
dell’08/12/2003 il Silingardi aveva appreso della reale situazione del gruppo,
dimostrano l’esattezza della ricostruzione difensiva.
19.5. Con il quinto motivo, si lamentano erronea applicazione della legge
penale e vizi motivazionali, in relazione all’affermata sussistenza del reato di
associazione a delinquere.
In primo luogo, il ricorrente critica il circolo vizioso argomentativo, per cui la
partecipazione ai reati fallimentari si fa derivare, più o meno implicitamente,
dalla qualità di associato del Silingardi e, a sua volta, la prova dell’associazione
consegue dalla commissione delle bancarotte, nelle quali la responsabilità del
Silingardi discende nella sostanza da attività lecite, colorate dal dolo solo
attraverso una valutazione a posteriori, giacché il ricorrente: a. in Sata svolgeva
la
funzione di
commercialista
e si
limitava
ad
annotare –
come ogni
commercialista – ciò che gli veniva indicato; b) in Cariparma, in qualità di
Presidente della Banca, partecipava alle delibere dei finanziamenti (erogati in
pool con tutte le altre principali banche italiane) di quella che era allora la più
importante (se non l’unica vera) multinazionale italiana; c) come membro del
consiglio di amministrazionedi Par.fin. e presidente del comitato di controllo
interno svolgeva l’attività che riteneva doverosa e rispetto alla quale si possono,
a tutto volere concedere, muovere addebiti di negligenza.
In secondo luogo, si lamenta che non vi è alcuna traccia nell’istruttoria
dibattimentale di indicazioni della cabina di regia dirette a Silingardi: costui
avrebbe fornito il proprio contributo, all’oscuro degli altri sodali, spontaneamente
e senza, peraltro, essere al corrente del sistema delle falsificazioni e senza “le
direttive impartite dai capi” richieste dalla giurisprudenza di legittimità. In
50
definitiva, al più sarebbe configurabile un concorso nei singoli reati, non essendo
ravvisabili gli elementi oggettivo e soggettivo del reato associativo.
A riprova di tale conclusione, si richiama: a) la lettera inoltrata da Tonna a
Silingardi, quale presidente della Cariparma, in data 20/09/1999, con la quale il
primo minaccia di “riconsiderare la relazione con la Vostra banca e di iniziare
pratiche legali per il recupero della somma indebitamente sottratta dal nostro
conto”, in tal modo palesando l’assenza di qualunque legame; b) il fatto che
Tanzi il giorno 06/12/2003, quando si era recato presso la sede di Roma della
banca San Paolo per richiedere di finanziare il pagamento del bond in scadenza
l’08.12.2003, non si era fatto accompagnare dal Silingardi né lo aveva avvisato
di tale sua iniziativa, per comunicargli solo il successivo 08/12/2003 la reale
situazione del gruppo.
Su un piano generale, il ricorrente aggiunge che l’art. 416 cod. pen.
contempla un reato contro l’ordine pubblico, a tutela della sicurezza e della
tranquillità dei cittadini e sottolinea che un’associazione i cui effetti sono
destinati a riflettersi soltanto su rapporti economico-finanziari non sembra possa
avere quei requisiti di minaccia e intimidazione per la collettività che la
fattispecie richiede.
19.6. Con il sesto motivo, si lamenta erronea interpretazione della legge
processuale penale, per avere la Corte territoriale omesso di disporre una perizia
in materia tecnico-contabile e finanziaria, ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.,
come richiesto nell’atto d’appello, in merito ai temi dell’asserita riconoscibilità del
dissesto dall’esame dei bilanci, nonché in merito al rapporto tra debito e
liquidità, al fine di stabilire se si trattasse di un elemento fisiologico ovvero di un
indicatore di patologia.
Il ricorrente ricorda che il tribunale, su richiesta del P.M., aveva disposto
nuovamente l’audizione del C.T. dell’accusa, Prof. Ferrari all’udienza del
17/6/2010, in violazione dell’art. 507 del codice di rito, in quanto non aveva
nemmeno indicato il requisito della assoluta necessità di tale mezzo, in
violazione del diritto al contraddittorio e sottraendosi alla necessità del
sostanziale diritto alla controprova, espresso attraverso la richiesta di perizia.
19.7. Con il settimo motivo, si lamentano erronea applicazione della legge
penale e vizi motivazionali, in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento
soggettivo con riferimento a tutti delitti per cui è stata pronunciata condanna, in
particolare concentrandosi sui “segnali d’allarme” relativi al periodo in cui il
Silingardi sedeva nel consiglio di Parfin: la liquidità nel suo rapporto con
l’indebitamento, il debito e gli eventi dell’estate e dell’autunno 2003.
Con riguardo al primo profilo, si evidenzia: a) che la liquidità che appariva
dai bilanci Parmalat era sotto gli occhi di tutti da tempo e nessuno aveva mai
51
avanzato l’ipotesi che fosse insistente, neppure le Autorità di Vigilanza, anche
alla
luce
delle
caratteristiche
del
gruppo;
b)
che
dai
dati
di
bilancio
l’indebitamento di Parmalat appariva assolutamente sostenibile, così come
affermato dai C.T. della difesa; c) che, come riconosciuto da una sentenza del
Tribunale civile di Parma, “la coesistenza tra liquidità e indebitamento non fu (…)
una prassi isolata di Parmalat essendo stata, al contrario, adottata (…) anche da
altre realtà economiche nazionali ed internazionali del settore alimentare e
pertanto non può assurgere a sintomo conclamato di anomalia o dissesto”; d)
che, anche secondo la relazione
fatta nel
gennaio 2004 dal
Governatore di
Banca d’Italia Fazio in
Parlamento, l’esposizione delle banche italiane facenti capo alla famiglia Tanzi
non ha mai raggiunto livelli tali da costituire un rischio per la stabilità di alcun
intermediario
Con riguardo al debito, si rileva che le ricostruzioni effettuate dai C.T. del
P.M., fatte proprie dalla Corte d’Appello, erano avvenute a posteriori, utilizzando
le analisi
fatte da
Banca
d’Italia
su
richiesta
della
Procura
di
Parma,
successivamente al default. In definitiva, si trattava di dati aggregati che non
erano disponibili prima del default, posto che all’epoca non esisteva una Centrale
Rischi di gruppo. Ed, infatti, né la Banca d’Italia né alcuno degli Istituti di Credito
che aveva constatatola presenza di discrasie, prima del default, e neppure gli
Istituti
che
avevano
rilevato
delle
squadrature
dei
risultati
del
bilancio
consolidato rispetto ai dati della Centrale Rischi, aveva mai scoperto la reale
situazione di Parmalat: nessuna, infatti, aveva rapporto alla Banca d’Italia, né
interruppe i rapporti con il gruppo Parmalat. Al più vennero chieste delle
delucidazioni agli amministratori esecutivi, cui seguirono risposte ritenute
soddisfacenti, come dimostra la vicenda relativa all’ampliamento dei fidi
avvenuto nel luglio del 2003 da parte di IMI – San Paolo, di cui aveva riferito il
teste Rainer Masera.
Del
resto,
dall’esame
del
bilancio
consolidato,
la
Banca,
ossia
i
funzionari/dirigenti addetti alla stesura della relazione da sottoporre agli organi
deliberanti (e quindi non certo il Presidente), avrebbero al più potuto vedere che
il saldo complessivo dello scoperto delle Banche (ossia delle Banche italiane, che
obbligatoriamente forniscono i dati di esposizione del Gruppo alla Banca d’Italia
che poi provvede alla elaborazione dei flussi di ritorno), non coincideva con i dati
risultanti dal bilancio
consolidato. Inoltre, la Centrale Rischi registra solo i
prestiti erogati dalle banche italiane e dagli altri intermediari vigilati (ossia, le
filiali di banche estere in Italia e le filiali di banche italiane all’estero) e ciò non
consente di ricostruire, attraverso di essa, l’indebitamento complessivo di gruppi,
come quello Parmalat, che facevano ricorso a mercato estero.
52
Ad ogni modo, si osserva: a) che era assolutamente illogico affermare che
Silingardi avrebbe potuto o dovuto verificare attentamente la situazione di
Parmalat quando era Presidente di CariParma, in quanto
Silingardi si era
dimesso il 12/06/2000, ben prima di entrare nel Consiglio di Amministrazione di
Par.fin. (aprile 2001), mentre le perplessità da parte di Istituti bancari circa
squadrature tra il dato della Centrale Rischi ed i dati del bilancio consolidato
appaiono essere state avanzate a partire dalla fine del 2000 - inizi 2001, come
risulta anche dalla testimonianza del teste Masera; b) che dalla due diligence
eseguita da Andrea Dall’Olio per conto del Ferraris si desumeva, al contrario di
quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che quest’ultimo, ancora negli ultimi mesi
del 2003, non era in grado di conoscere la reale situazione del Gruppo Parmalat
e solo in seguito a tale indagine fatta eseguire da persona che faceva parte del
Gruppo sin dal 1987 e che aveva dovuto consultare i documenti conservati in
Tesoreria e non nella disponibilità di un amministratore non esecutivo, era
riuscito a comprendere cosa stava in realtà accadendo.
Con riguardo agli eventi dell’estate e dell’autunno 2003, si rileva, con
riferimento al buy back dei bonds, che solo nell’intervista “I segreti di Mister
Bond” e, dunque, nel dicembre del 2002, si era dato per la prima volta atto del
riacquisto dei bonds; in ogni caso, all’epoca, non vi era alcun obbligo di
segnalazione delle operazioni di compravendita degli strumenti finanziari propri,
obbligo che invece era stato introdotto successivamente da Consob con delibera
n. 15232 del 26/01/2005, e ciò senza dire che il riacquisto di bonds era
operazione
funzionale
a
quella
di
rifinanziamento
del
debito,
prassi
assolutamente normale per una società operante sul mercato del debito, e come
tale più volte illustrata dal management della Par.fin. e resa nota al mercato,
come dimostrato dal fatto che nè Standard & Poor’s né Consob avevano avuto
nulla da obbiettare.
19.8. Con ottavo motivo si lamentano erronea applicazione della legge
penale e vizi motivazionali, con particolare riguardo ai fatti (rapporti personali,
competenze
specifiche,
ruoli
ricoperti,
condotte
poste
in
essere,
eventi
indubbiamente conosciuti), che, secondo la Corte territoriale, attribuiscono a
Silingardi non solo la mera conoscibilità, né esclusivamente una effettiva ed
ampia conoscenza degli illeciti affari e delle fraudolente modalità operative del
gruppo di Collecchio e del suo “patron”, ma addirittura ne rilevano la
cooperazione con la cd. “cabina di regia”.
Al riguardo, si rileva: a) quanto alla posizione di Silingardi, quale Presidente
della Cassa di Risparmio di Parma, che, a tacer del fatto che tale carica era stata
ricoperta solo sino al giugno del 2000, in ogni caso, nel consiglio di
amministrazione della Banca si approvavano i finanziamenti da Cariparma a
53
Parmalat e da Cariparma al Turismo, non certo i finanziamenti da parte di
Parmalat al Turismo, che nulla avevano a che vedere con la banca; b) che le
prove testimoniali raccolte escludevano pressioni del Silingardi nelle pratiche
concernenti
il
gruppo,
mentre,
per
altro
aspetto,
le
considerazioni
personologiche, a proposito dell’influenza del Silingardi, contenute in una
relazione ispettiva della Banca d’Italia, erano prive di qualunque rilievo; c) che,
nell’ambito della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, nessuno aveva mai
contestato alcunché circa eventuali pratiche di finanziamento irregolari, non i
sindaci di Cariparma né la società di revisione che certificava i bilanci dell’Istituto
di Credito e neppure, infine, la Banca d’Italia; d) che non era dato intendere a
quale titolo Silingardi, Presidente di una banca, ma pur sempre un privato
cittadino, dovesse esperire controlli esorbitanti dalle sue attribuzioni, con
capacità e competenza maggiori di quelle autorità che avevano il potere - ed anzi
il dovere -
di vigilare e che non avevano mai sollevato alcun rilievo; e) che
irrilevanti erano le attese di Tanzi in ordine alle condotte del Silingardi; f) che era
stata contestata dalla difesa l’affermazione di una consapevolezza da parte del
ricorrente in ordine alle operazioni distrattive in favore del Gruppo Turismo e del
resto anche il Tonna aveva riferito di non sapere nulla al riguardo; g) che,
quanto alla vicenda del finanziamento in pool del 27 gennaio 1997 a favore di
ITC & P e del relativo rimborso, non rispondeva alla realtà dei fatti che la banca,
per erogare un finanziamento al Gruppo del Turismo, avesse preteso ed ottenuto
denaro e garanzie dal gruppo alimentare; h) che i finanziamenti concessi da
Cariparma al gruppo del turismo avevano sempre rappresentato una parte
infinitesima rispetto a quanto erogato da altri ben più importanti Istituti Bancari
e che proprio la vicenda in esame dimostrava che non fu certo Cariparma a farsi
promotrice dell’operazione del finanziamento in pool del 1997, bensì Banca di
Roma che assunse il ruolo di capofila e chiese espressamente l’intervento di
Cariparma; i) che, se Cariparma e Silingardi fossero stati a conoscenza della
provenienza dei denari rimborsati con fondi del Gruppo alimentare, non avrebbe
avuto alcun senso creare il sistema ruotante attorno a Web Holdings; l) che
l’affermazione di Tonna, secondo il quale erano “gli stessi funzionari delle banche
(compresi quelli di Cariparma) a lamentarsi della spudoratezza con cui venivano
effettuati i finanziamenti da Parmalat spa al Turismo, ed a considerare
ordinariamente i due gruppi come una cosa sola”,
consapevolezza
di
Silingardi,
anche
perché
non
non dimostrava la
accompagnata
neppure
dall’indicazione di quali funzionari si sarebbero lamentati ed in quale periodo;
inoltre Tonna non aveva affermato di essere direttamente a conoscenza del
fatto, ma di averlo appreso da Tanzi, con riferimento ad una non meglio
precisata Cassa di Risparmio; m) che neppure assumeva rilievo il fatto che il
54
Silingardi era stato il professionista contabile di una società, giacché il
professionista non riveste una posizione di garanzia e ciò senza dire che al
professionista che, per di più non direttamente, ma tramite il personale di una
Società di Servizi, la Revinda S.r.l., cura la contabilità di una società, può
attribuirsi la conoscenza necessaria dei movimenti che annota, ma non – se non
e nei termini riferitigli dai titolari – la conoscenza delle causali dei versamenti in
dare e in avere con altri soggetti che interfacciano la società di cui ha l’incarico di
tenere la contabilità; tanto meno egli apprende, inevitabilmente, la valenza
lesiva di tali versamenti sul patrimonio sociale della società versante; n) che,
pertanto, con riferimento alla vicenda dei finanziamenti da Parmalat s.p.a. alla
società Sata, per il Silingardi, il quale non aveva modo di controllare l’effettività
del pagamento, ciò non poteva che costituire la dimostrazione dell’assenza di
ogni pregiudizio in capo a Parmalat stessa, talché era assolutamente illogico
concludere che Silingardi doveva sapere che prima di tale passaggio i soci
avessero ricevuto ingiustificate erogazioni da parte di Parmalat tramite Sata,
proprio perché l’acquisto di detti crediti agli occhi dello stesso chiudeva ogni
partita con Parmalat, e ciò anche in ragione del fatto che il Silingardi non era
imputato della bancarotta concernente la Sata; o) che, in ogni caso, non erano
mai stati accordati a Sata ingenti finanziamenti, dal momento che, come risulta
dalle delibere di Cariparma in merito alla concessione di linee di credito alla
predetta, il fido massimo concesso a Sata era arrivato alla non rilevante somma
di 5 miliardi di lire; p) che, comunque, neppure dalle dichiarazioni del Tonna
poteva desumersi che il Silingardi fosse consapevole che il meccanismo della
cessione dei crediti ai soci costituiva solo una giustificazione contabile, ma che
poi Sata avrebbe dovuto effettivamente restituire i soldi a Parmalat, giacché le
affermazioni del Tonna potevano essere riferite proprio al rimborso effettuato dai
soci che avevano acquistato detti crediti; in ogni caso, non si poteva pretendere
che il Silingardi dovesse preoccuparsi di verificare tale situazione, posto che non
rivestiva alcuna carica, né in Sata, né in Parmalat s.p.a., in quanto si occupava
solo della contabilità di Sata; q) che, d’altra parte, era evidente che Sata,
avendo acquistato Odeon al 100%, non poteva che farsi carico in prima istanza
del pagamento dei debiti di tale società, secondo i principi del diritto civile, salvo
poi rivalersi su Parmalat che aveva prestato una fideiussione, come era stato
spiegato con estrema chiarezza dal coimputato Tonna; r) che, ancora, erano gli
Amministratori di Parmalat spa e ed i Sindaci a dover segnalare in bilancio le
ingenti distrazioni operate in favore di Sata e del Gruppo alimentare e non
certamente gli amministratori non esecutivi di Par.fin. cui tali dati sono stati
scientemente occultati; s) che, pertanto, il Silingardi quando, a ben nove anni di
distanza dal momento in cui aveva cessato di seguire la contabilità di Sata, era
55
entrato nel Consiglio di amministrazione di Par.fin., società quotata, sottoposta a
revisione legale ed a vigilanza della Consob, aveva preso atto di quanto
emergeva dal bilancio consolidato e di quanto riferito dagli esecutivi con
riferimento all’esistenza di rapporti con società correlate, sotto il controllo del
Collegio Sindacale e della società di revisione, e non aveva certo pensato di
intraprendere delle ispezioni a titolo personale; t) che l’affermazione della Corte
d’Appello, secondo cui la gestione contabile e la redazione dei bilanci di Sata non
era sostanzialmente mai uscita dal “dominio di Silingardi”, in quanto affidata, su
indicazione da quest’ultima, al fidato Branchi, era contrastata sia dal fatto che la
dichiarazione del teste Gorreri era una mera illazione, sia dal fatto che la
medesima Corte territoriale, in varie occasioni, aveva riconosciuto che il Branchi
era piuttosto il fedele esecutore delle direttive del Tonna; u) che, se è vero che
nel triennio ‘91-’93, erano state nominate come sindaco di Sata alcuni dipendenti
dello studio Silingardi e di Revinda, Ferraguti Daniela e Maestri Maria Chiara ed
una collaboratrice dello stesso studio, Veroni Pier Marina, era altrettanto vero
che nessuna di loro aveva mai riferito che Silingardi le controllasse in alcun
modo, riconoscendo, al contrario, di svolgere i loro compiti; v) che, con riguardo
alla cessione delle azioni della Boschi s.p.a., al di là della superficiale valutazione
della
sostanza
economica
dell’operazione,
la
Corte
d’appello
non
aveva
considerato che il Silingardi all’epoca aveva agito come consulente di Sata e,
quindi, non era tenuto a valutare la convenienza dell’operazione per Parmalat,
tanto più che la società era in bonis; inoltre, il ricorrente poteva vedere solo che
gli assegni utilizzati per il pagamento erano stati tratti su di un conto corrente di
Sata, ma da ciò non poteva desumersi che, quando Silingardi era Presidente di
Cariparma, controllasse i flussi in entrata sui conti correnti delle società
correntiste, non avendone né il dovere e neppure il potere e ciò senza dire che il
fatto che, all’epoca agli ultimi acquisti, egli fosse Consigliere di Par.fin., non gli
consentiva di controllare dove finissero i denari di Parmalat, per la semplice ma
conclusiva ragione che i Consiglieri ed i Sindaci di Parmalat s.p.a. avevano
scientemente occultato in bilancio tali uscite di denaro con la complicità della
società di revisione; z) quanto alla disastrosa situazione dell’argentina e del Sud
America, che il Viotto non aveva mai riferito alcunché di preoccupante o di
irregolare, come risulta dal testo scritto delle sue relazioni, allegate agli atti del
Comitato di Controllo Interno, talché era evidente che il medesimo Viotto non
aveva detto la verità, quando aveva cercato di sostenere che la ragione del suo
comportamento andava ricercata nel fatto che il suo compito era solo quello di
riferire sulle procedure e che non gli furono poste questioni circa l’indebitamento
brasiliano; in definitiva, se Viotto, preposto al Controllo Interno, occultava
scientemente le perdite del Gruppo al Comitato, ciò non può che condurre alla
56
logica conclusione che Silingardi non solo non era a conoscenza di tali perdite,
ma neppure faceva parte della “cabina di regia”: infatti gli altri due membri del
Comitato
di
Controllo
Interno,
Tonna
e
Giuffredi,
ne
facevano
inequivocabilmente parte, avendolo ammesso espressamente Tonna ed avendo
patteggiato per tutte tali accuse Giuffedi, con la conseguenza che tutta la messa
in scena non poteva che essere organizzata in danno di Silingardi.
Il motivo di ricorso, quindi, dopo avere esaminato la genesi del Comitato di
Controllo Interno e la disciplina regolatrice, osserva che a tale organo è
demandata
una
“asseveramento”,
attività
di
“indagine”,
valutazione
“ispezione”,
(e,
pertanto,
etc.),
non
circoscritta
di
“verifica”,
a
documenti
predisposti da altri soggetti.
Quanto alla vicenda Streglio, il ricorrente rileva che la segnalazione, alla
vigilia del default, da parte di Tonna e Viotto, i quali avevano nascosto le perdite
del comparto sudamericano a Silingardi in occasione delle riunioni del Comitato
per il Controllo Interno per cifre di alcuni miliardi di euro, concerneva contestate
distrazioni per appena 126.000 euro, al fine evidente di distoglierne l’attenzione
dai più gravi illeciti commessi e dalla vicenda del fondo Epicurum.
Si aggiunge che non era neppur vero che Silingardi fosse stato portato a
conoscenza dei pur modesti ammanchi sin dal maggio del 2003: solo nella
riunione del Comitato di Controllo Internodel 09/09/2003, Viotto aveva reso una
scarna informazione del problema “Visconti”, fornendo fra l’altro dati contabili
ancora approssimativi. Il comitato, presenti anche il Brughera e il Giuffredi,
aveva incaricato il Silingardi di informare sull’argomento Tanzi per valutare la
situazione, chiarire la natura e la congruità delle spese in modo da regolarizzare
al più presto la situazione.
In ogni caso, la condotta distrattiva non era stata posta in essere dai
componenti
del
vertice
Parmalat
ma
dal
Presidente
del
consiglio
di
amministrazionedi Streglio, con la conseguenza che era tale società che avrebbe
dovuto provvedere a prendere gli opportuni provvedimenti e non certo Par.fin.,
che era una mera holding di partecipazioni; d’altra parte, il Comitato per il
Controllo interno di Par.fin. in teoria avrebbe dovuto occuparsi solo del controllo
interno di Par.fin. stessa e non dell’intero gruppo.
Infine, con riguardo alle ultime emissioni di bonds, lamenta il ricorrente che
egli si era rivolto a Ferraris per avere dei chiarimenti e questi, nuovo e brillante
Direttore Finanziario, molto conosciuto ed apprezzato nel mondo bancario, gli
aveva risposto che era riuscito a spuntare delle condizioni particolarmente
favorevoli, così come emergeva dai dati illustrati in consiglio di amministrazione,
trascurati completamente dalla Corte d’appello.
In tale contesto, non era dato comprendere perché il ricorrente avrebbe
57
dovuto pretendere di verificare la contrattualistica intercorsa tra il Gruppo e gli
istituti
bancari, che, come affermato dal Ferraris nel
procedimento per
aggiotaggio a Milano, non era stata messa a disposizione dei Consiglieri non
esecutivi.
Pertanto, il Silingardi aveva comunicato regolarmente le operazioni al
consiglio di amministrazione, ritenendole perfettamente lecite, secondo quanto
riferito da Ferraris.
Da ultimo, si osserva che per tali fatti, ossia con riferimento alla
comunicazione al mercato relativa all’emissione dei bonds dell’estate del 2003,
nei confronti del Silingardi è intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione per
non aver commesso il fatto nell’ambito del procedimento c.d. Parmalat
aggiotaggio instauratosi a Milano.
19.9 Con il nono motivo, si lamenta erronea applicazione della legge penale
in relazione all’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 219, comma primo, l.
fall. alle ipotesi di bancarotta impropria previste dall'art. 223, commi primo e
secondo, l. fall.
19.10. Con il decimo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
applicazione degli artt. 132, 133 e 62 bis cod. pen, in riferimento alla concreta
commisurazione della pena, tenuto conto della brevissima durata della carica
ricoperta da Silingardi in seno al consiglio di amministrazione di Par.fin. e delle
modalità che ne hanno contrassegnato l’ingresso, e alla mancata concessione
delle circostanze attenuanti generiche, alla luce dell’incensuratezza all’epoca dei
fatti di un imputato di età oggi superiore ai 70 anni, con una lunga e specchiata
carriera professionale alle spalle, oltre che del comportamento leale e corretto
tenuto nel corso del processo.
19.11. Con l’undicesimo motivo, si lamenta erronea applicazione della legge
penale e processuale penale in relazione al mancato riconoscimento della
sussistenza del medesimo disegno criminoso in relazione alle condotte contestate
nel presente procedimento e in quello milanese già passato in giudicato, alla luce
dell’istanza depositata all’udienza del 05/03/2012.
19.12. Con il dodicesimo motivo, si lamentano vizi motivazionali ed erronea
applicazione della legge penale, con riferimento alle statuizioni civilistiche, a
favore delle società del gruppo Parmalat e correlate in amministrazione
straordinaria, contenute nella sentenza nonché nell’ordinanza emessa in data
12/12/2011.
Sul punto, si critica, in ragione delle considerazioni svolte nei motivi che
precedono,
l’erroneità
della
decisione,
con
riferimento
soprattutto
con
riferimento a quelle società – controllate o collegate – in relazione alle quali il
Silingardi non aveva alcuna posizione di garanzia (capi C.6.3., D.3.8.2., D.3.8.3.,
58
D.3.8.4., D.3.9., D.5.2., D.10, L.1.).
Si aggiunge che la Corte d’Appello, con ordinanza emessa il 12/12/2011, ha
dichiarato l’inammissibilità delle costituzioni di parte civile di Alvisi + 45,
Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, Cabrini, Ballarin + 159, Beltrami + 115,
Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35, Allegri + 73,
Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36, giacché effettuate all’udienza del 6
maggio 2008, tramite sostituto del difensore procuratore speciale, sulla base di
un’eccezione posta dalla difesa del coimputato Calogero.
Tale pronuncia, secondo il ricorrente, erroneamente aveva ritenuto, invece,
permanente la costituzione nei confronti degli altri imputati, non ricorrenti sul
punto, anche in ragione dell’art. 587 cod. proc. pen.
19.13. Nell’interesse del Silingardi è stata depositata memoria nella quale si
sviluppano alcune delle critiche sopra riassunte.
20. Domenico Barili. È stato membro del consiglio di amministrazione di
Par.fin. s.p.a. dal 30 ottobre 1998 al 30 dicembre 2003, del comitato esecutivo e
del comitato per la remunerazione di Par.fin. s.p.a. dal 15 maggio 1992 al 30
dicembre 2003, membro del consiglio di amministrazione di Eliair s.r.l. dal 1992
al 6 febbraio 2004, di Eurolat s.p.a. dal 7 luglio 1999 al 16 maggio 2003,
Parma AC s.p.a.
di
dal 19 luglio 1996 al 26 giugno 2002, di Parmalat s.p.a. da
prima del 1° gennaio 1989 al 24 dicembre 2003 e vicepresidente dello stesso
sino alla medesima data, direttore generale commerciale di Parmalat s.p.a. dal
10 giugno 1980 al 16 maggio 2001, presidente del consiglio di amministrazione
della Centrale del Latte di Parmalat s.p.a. dal 23 maggio 1997 al 31 dicembre
2000.
Sono
stati
proposti
distinti
ricorsi,
dall’imputato,
personalmente
e
nell’interesse dello stesso.
20.1 Con il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili, si
lamenta inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con
riferimento all’omessa traduzione degli atti in lingua straniera contenuti nel
fascicolo delle indagini preliminari, con conseguente invalidità dell’avviso di
conclusione delle indagini e degli atti successivi.
L’impugnativa riguarda l’ordinanza del 09/01/2012, con la quale la Corte
territoriale ha dato atto che il Tribunale aveva disposto, su richiesta dei difensori
di alcuni imputati, la traduzione dei documenti in lingua inglese prodotti dal P.M.,
e sottolinea, per un verso, che la traduzione, anche a prescindere dalla richiesta
degli imputati, doveva riguardare anche tutti gli altri atti in lingua diversa
dall’italiana contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari e, per altro verso,
che
il
pur
parziale
adempimento
era
59
tardivo,
in
quanto
intervenuto
successivamente alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, con
conseguente pregiudizio per le garanzie difensive, anche in relazione alla
possibilità di accedere a riti alternativi.
20.2. Con il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili, si
lamenta inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con
riferimento al diniego per i difensori e gli indagati di accedere al fascicolo
cartaceo depositato ai sensi dell’art. 415 bis, comma 2, cod. proc. pen.
Al riguardo, si osserva che i diritti difensivi previsti dalla norma appena
citata sono stati limitati, in quanto si è prevista soltanto la consegna di supporti
informatici
asseritamente
contenenti
la
documentazione
contenuta
nel
menzionato fascicolo, con la conseguenza che è stata inibita l’estrazione di copia
cartacea e, ancor prima, è stata preclusa la stessa possibilità di prendere visione
dei documenti, come, del resto, riconosciuto dallo stesso P.M. nel corso
dell’udienza del 24/11/2008. Si aggiunge, sul punto, che la digitalizzazione dei
documenti è avvenuta in assenza di disciplina legale idonea a conferire valore
legale all’attività, ossia senza alcuna garanzia che l’operazione abbia riprodotto
completamente gli atti acquisiti.
20.3. Con il terzo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
primo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano vizi
motivazionali e violazioni di legge.
In particolare, si critica la sentenza impugnata per avere, per un verso, dato
atto della progressiva marginalizzazione, a partire dal 1997, del Barili, del fatto
che già dal 2000 il direttore generale del gruppo era divenuto il Tonna, del fatto
che nella primavera del 2001 il Barili era stato costretto a dimettersi e, per altro
verso, ritenuto che l’imputato fosse a piena conoscenza e partecipe del sistema
di illeciti realizzato dalla cd. “cabina di regia” e ciò anche a prescindere dalla
concreta disponibilità del supporto cartaceo o informativo dei dati HQR. Illogica
conseguenza di tale contraddittoria premessa – oltre che espressione di
violazione dell’art. 648 cod. proc. pen. - era rappresentata dal fatto che la
responsabilità del Barili per i fatti di bancarotta societaria di cui al capo B era
stata ritenuta a prescindere dalla sua compartecipazione alle correlate fattispecie
di bancarotta impropria.
Si rileva, sul piano delle acquisizioni probatorie, che le dichiarazioni del
Tonna, quanto alle pretese conoscenze da parte del Barili del sistema ruotante
attorno alla società Bonlat e dei dati HQR, erano state smentite già nel corso del
primo grado del giudizio. Del pari, il Tonna era stato smentito quanto alle
conoscenze dell’imputato in ordine ai flussi in uscita da Wishaw Trading, come
dimostrato dal fatto che il Barili era stato assolto, con sentenza ormai
irrevocabile, da tutte le contestazioni relative a tale sistema.
60
Del resto, sempre in primo grado, era emerso, in aggiunta a quanto sopra
evidenziato, che il Barili, impegnato con risultati positivi nella direzione
commerciale, non apparteneva alla cerchia dei falsificatori guidata dal Tanzi e dal
Tonna, nulla sapeva delle manipolazioni concernenti il conto asseritamente
acceso presso Bank of America e dell’inesistenza del fondo Epicurum, al punto
che era stato assolto da decine di imputazioni, né era al corrente del
trasferimento di fondi da Parmalat verso il Gruppo Turismo. Per ragioni di ordine
espositivo, va anticipato che il ricorrente valorizza, altresì, il fatto che i files
rinvenuti nel computer del Nicolotti e la deposizione del teste Prevedini rendono
palese che il Barili, nelle riunioni di budget veniva reso edotto solo dei dati
ufficiali della contabilità, che rivelavano un andamento positivo e apparivano
congrui con quanto indicato in bilancio.
In definitiva, osserva il ricorrente, anche alla luce del positivo rilievo del
Gruppo
Parmalat,
dello
straordinario
prestigio
e
potere
del
Tanzi,
dei
riconoscimenti ricevuti, anche dalle agenzie di rating, sino al default e
dell’assenza di ogni rilievo da parte delle autorità di vigilanza, mancano le basi
obiettive per affermare la sussistenza del dolo, sia pure nella forma del dolo
eventuale, in relazione ai reati contestati. A tal proposito, si ricorda che, anche
con riguardo ad uno dei partecipanti alla riunione dell’08/12/2003, nel corso del
quale Tanzi mise taluni consiglieri al corrente della situazione di Parmalat, nel
procedimento
milanese
per
aggiotaggio,
definito
con
decisione
ormai
irrevocabile, si era dato atto dell’assenza di consapevolezza, sino a quel
momento, della miserevole condizione del gruppo.
A ciò deve aggiungersi che il Barili non fu invitato a tale riunione e
nemmeno viene menzionato tra coloro che non furono convocati, perché già al
corrente della situazione del Gruppo; ciò si spiega con la ricordata progressiva
marginalizzazione risalente al 1997, che rende del tutto irrilevanti i “segnali
d’allarme”, colti dalla sentenza impugnata, a partire dal 2002.
La contraria affermazione della Corte territoriale, oltre a contrastare con tali
dati, ignora, sul punto anche le dichiarazioni di Tanzi, secondo il quale, appunto,
il Barili nulla sapeva del sistema Bonlat, né si confronta con le conclusioni dei
giudici di primo grado, secondo i quali il Barili era stato estraneo all’ideazione e
alla realizzazione dei falsi, né era stato informato delle modalità con i quali erano
realizzati.
Che, peraltro, la realtà economica del Gruppo non fosse percepibile è
dimostrato dal fatto che, quando il sindaco di Par.fin. s.p.a., Martellini, ottenuta
una risposta sgarbata da Tonna in ordine al mantenimento di un’elevata liquidità,
chiese una relazione alla società di revisione, non emerse nulla di anomalo,
sicché, in definitiva, qualunque approfondimento sarebbe stato inutile, con
61
conseguente
irrilevanza,
sul
piano
causale,
di
una
alternativa
condotta
ipotizzabile.
In conclusione, solo nel consiglio di amministrazione . del 19/12/2003 il
Barili aveva appreso dell’inesistenza del conto presso Bank of America.
Il ricorso, poi, con riferimento alle fattispecie di bancarotta di cui all’art.
223, comma primo, l. fall., rileva che la Corte territoriale muove dal presupposto
secondo
il
quale il
fallimento
non
rappresenta
l’evento
del
reato,
con
conseguente irrilevanza dell’accertamento del nesso eziologico e psicologico tra
condotta e insolvenza, e ne critica l’argomentare, richiamando e in senso
contrario Sez. V, 24/09/2012, Corvetta.
Il ricorrente ribadisce di essere stato assolto dalla quasi totalità delle
vicende contemplate nel capo C e di essere stato destinatario, per altre
imputazioni, di sentenza di non luogo a procedere all’esito dell’udienza
preliminare. Tale conclusione è stata raggiunta anche in relazione a svariate
vicende distrattive di cui ai capi D, E, F, la cui rilevanza si coglie non solo sul
piano quantitativo, ma anche qualitativo, considerata l’incidenza che hanno
avuto del default del gruppo e, sul piano soggettivo, sulla consapevolezza della
reale situazione economica del Gruppo.
Egli aggiunge, altresì, con riferimento alle vicende legate alle concessionarie
e al cd. giro delle ricevute bancarie, che egli era assolutamente estraneo a
qualsivoglia meccanismo illecito, tanto che era stato assolto dalle imputazioni di
cui ai capi O.1 e O.2.
Siffatta estraneità era, peraltro, dimostrata dall’altrimenti inspiegabile
ingerenza del Tonna che aveva bloccato la consegna di merce ad un
concessionario di Sulmona, a fronte del previsto pagamento con assegno
bancario, anziché circolare, e delle conseguenti discussioni intervenute con il
Tanzi. Del resto, era anche emerso che il Barili era stato il solo ad impegnarsi
per
aumentare
il
compenso
distributivo
riconosciuto
alle
concessionarie,
rimanendo estraneo alla loro gestione, alla tesoreria di Parmalat e al sistema
centralizzato di contabilizzazione, come confermato dal fatto che era stato il
Pessina, come da lui ammesso, ad occultare il carattere fittizio del rateo
contabile che, a fine anno, serviva a ripianare le perdite. Al contrario, del tutto
inesistente sul punto era una contraria affermazione del Tonna, in ordine alla
conoscenza da parte del Barili del giro di ricevute bancarie.
Sempre con riferimento a tale vicenda, si osserva che la dichiarazione del
Pessina, secondo la quale egli fece presente al Barili di essere stato costretto a
firmare bilanci falsi, precisando che, se la situazione fosse continuata, egli si
sarebbe rifiutato di proseguire nell’incarico di amministratore, dimostrava solo,
posto che il Pessina aveva continuato a svolgere l’incarico, che il Barili poteva
62
ragionevolmente supporre che le cose fossero cambiate.
In definitiva, tutti tali elementi dovevano condurre ad affermare l’estraneità
del ricorrente rispetto alle imputazioni di cui ai capi C.8.1. e O.3.
Con ulteriore articolazione del motivo, si osserva che gli stessi elementi
sopra valorizzati
rendono ingiustificata l’affermazione di
responsabilità in
relazione al capo A, come del resto emerge dal fatto che, nella quasi totalità dei
punti in cui il capo di imputazione è articolato, il ricorrente non è menzionato
affatto, così come non è menzionato nei sottocapi concernenti i rapporti con le
concessionarie.
Quanto al punto 2.IV, nel quale il ricorrente è indicato, si rileva che la stessa
operazione indicata è contemplata anche nel capo C.II, dal quale il Barili è stato
assolto, e quanto al punto 2.II, si osserva che l’imputazione è stata limitata al
2001, anno nel quale il ricorrente, dopo il progressivo esautoramento iniziato nel
1997, era stato dimissionato.
20.4. Con il quarto motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
secondo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano
vizi motivazionali e violazione di legge, per avere la Corte d’appello affermato la
responsabilità dell’imputato, in relazione a fatti per i quali era intervenuta
assoluzione.
In particolare, il ricorrente si duole della condanna per bancarotta impropria
fraudolenta da reato societario di cui al capo B, nonostante l’assoluzione per altri
sottocapi che richiamano le medesime vicende e qualificate come operazioni
dolose o come vicende distrattive (capi: B.2.1.4, in riferimento ai sottocapi
C.7.1, C.7.2., C.7.4., C.7.5; B.2.1.5, in riferimento al sottocapo C.8.3.; B.2.1.6,
in riferimento al sottocapo C.8.2.; B.2.2.C in riferimento al sottocapo D.3.;
B.1.2., B.2.1.a, B.2.1.b, B.2.1.b.ii, B.2.1.c) a), B.2.1.c) b), B.2.1.c) c), B.2.1.d,
B.2.2.f).
20.5. Con il quinto motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
terzo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione di responsabilità in relazione al capo C.6., alla luce della sopra
ricordata estraneità del ricorrente alla gestione finanziaria del Gruppo.
A ciò si aggiunge che la qualificazione della vicenda in termini di operazione
dolosa, anziché di ricorso abusivo al credito, si giustifica, nel precedente
giurisprudenziale citato dalla Corte territoriale, in ragione del testo previgente
dell’art. 218 l. fall., che, prima della riforma attuata con la l. n. 262 del 2005,
faceva salva la configurabilità di un diverso reato. La soppressione della clausola
rende perciò applicabile in tale prospettiva il principio di specialità di cui all’art.
15 cod. pen.
63
In via subordinata, si osserva che comunque si imponeva una pronuncia
assolutoria rispetto al capo C.6.3., attesa l’estraneità del Barili alla Parmalat
Finance Corporation BV, attestata anche dalla sua assoluzione in relazione al
capo B, con riguardo a tale società.
20.6. Con il sesto motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
quarto motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione di responsabilità in relazione al capo C.3., valorizzando, oltre
che la ricordata estraneità alle decisioni di carattere finanziario, il fatto che le
modalità con le quali la società Coloniale si era procurata i mezzi per
sottoscrivere l’aumento di capitale di Par.fin. s.p.a. non potevano riguardare
quest’ultima e che, infatti, dalle imputazioni relative a tali vicende e alle modalità
di rimborso del finanziamento ottenuto dalla società Coloniale (capi E.2. e R.4.2.)
il Barili era stato assolto.
20.7. Con il settimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
quinto motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione di responsabilità in relazione al capo O.3., ribadendo l’estraneità
del ricorrente al sistema di illecita gestione delle concessionarie e precisando che
il Barili era stato assolto dalle contestazioni di cui ai sottocapi O.1. e O.2.
Ora, il capo O.3. si articola nei due sottocapi O.3.ii e O.3.i: il primo riguarda
un’ipotesi di bancarotta societaria impropria derivante dall’alterazione del
risultato di esercizio e dell’entità dei crediti riportati nello stato patrimoniale,
mediante l’indicazione dei falsi ricavi di cui al precedente capo O.2., dal quale
però il ricorrente è stato assolto per non avere commesso il fatto; il secondo,
concerne l’asservimento delle concessionarie all’assorbimento dei volumi di
produzione Parmalat non utiilzzabili sul mercato e il giro delle ricevute bancarie,
ossia vicende per le quali valgono le considerazioni svolte nei motivi precedenti.
20.8. Con l’ottavo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
sesto motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione di responsabilità in relazione ai capi D.15 e F.9.
Il ricorrente sottolinea che le somme percepite in forza del contratto di
consulenza corrispondevano alla documentata attività svolta, in assenza di
qualunque elemento idoneo a sostenere la fittizietà dell’incarico, e che gli importi
corrisposti a titolo di buonuscita, rappresentavano il ragionevole compenso in
relazione alla brusca interruzione del rapporto, laddove il pagamento da parte di
una società terza rispetto a quella obbligata poteva legittimamente inquadrarsi
nella delegazione di pagamento o nell’adempimento del terzo.
64
In ogni caso, si rileva l’assenza di qualunque approfondimento in ordine al
nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi dell’insolvenza.
20.9. Con il nono motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il
settimo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione
di
responsabilità
in
relazione
ai
capi
D.34
e
F.11.5.,
rispettivamente relativi ai dividendi pagati da Parmalat s.p.a. negli anni 1990 –
2003 e da Parfin s.p.a. negli anni 1990 – 2002.
Richiamando le censure svolte nel primo motivo, il ricorrente ribadisce
l’assenza di consapevolezza in ordine alla reale situazione nella quale versava il
Gruppo, a fronte della sua estraneità alla gestione finanziarie e alla sua
progressiva marginalizzazione iniziata nel 1997, e il fatto che la stessa sentenza
impugnata ammette che sino a sei anni prima del default non si poteva cogliere
nella distribuzione di dividendi alcuna deviazione dalle finalità sociali.
Anche
in
relazione
a
tale
ipotesi
si
rileva
l’assenza
di
qualunque
approfondimento in ordine al nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi
dell’insolvenza.
20.10. Con il decimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e
l’ottavo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione di responsabilità in relazione ai capi L.1. e L.2., rispettivamente
concernenti la falsificazione delle scritture contabili di Parmalat s.p.a. e di Parfin
s.p.a., ribadendo e sviluppando le considerazioni svolte nel primo motivo.
20.11. Con l’undicesimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili
e il nono motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano
vizi motivazionali e violazioni di legge, con riferimento alla determinazione
dell’entità della pena, per avere la Corte territoriale completamente trascurato di
esaminare le censure che investivano l’eccessività della sanzione irrogata.
20.12. Con il dodicesimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili
e il
decimo motivo del
ricorso proposto personalmente dall’imputato si
lamentano violazione degli art. 62 bis, 132 e 133 cod. pen., 219 l. fall. e illogicità
palese nonché disuguaglianza di trattamento rispetto agli altri imputati,
sottolineando che, in favore di Francesca e Giovanni Tanzi, nonostante il
maggiore rilievo assunto, erano state riconosciute le attenuanti generiche
prevalenti sulle contestate aggravanti, trascurando di considerare l’età avanzata
dell’imputato, la sua incensuratezza, il comportamento processuale.
Per altro aspetto, si contestano: a) l’applicazione dell’aggravante di cui
all’art. 219, comma primo, l. fall., in relazione alla fattispecie di bancarotta
fraudolenta impropria; b) l’assenza di motivazione rispetto alla determinazione
65
della pena base: c) il mancato accoglimento della richiesta di riduzione della
durata delle pene accessorie in misura corrispondente all’entità delle pene
principali.
20.13. Con il tredicesimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili
e l’undicesimo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato si
lamentano vizi motivazionali e violazione di norme processuali stabilite a pena di
nullità, con riguardo all’ordinanza del 12/12/2011, con la quale la Corte
territoriale aveva revocato nei confronti del solo imputato Calogero gli effetti
civili correlati alla sentenza di primo grado (peraltro, trascurando di rilevare, a
pag. 374 della sentenza impugnata, le parti civili Di Stefano + 11), omettendo di
considerare, per un verso, che il difetto di rappresentanza delle parti private
diverse dall’imputato comporta una nullità a regime intermedio, rilevabile anche
d’ufficio dal giudice del grado successivo nel quale si è verificata, e, per altro
verso l’effetto estensivo delle impugnazioni basate su motivi non esclusivamente
personali.
20.14 Nell’interesse del Barili sono state depositate note, nelle quali si
ribadiscono le ragioni di censura esposte nel ricorso.
21. È stata depositata memoria nell’interesse delle parti civili Aba + 32.000.
Dopo una generale premessa sulla giurisprudenza in tema di responsabilità
civile da fatto illecito, si osserva, con riguardo alle critiche sviluppate nei ricorsi
degli imputati, in relazione alle statuizioni risarcitoria: a) che, se è pur vero che
l’art. 240, comma secondo, l. fall., prevede l’azione civile dei creditori nel
procedimento penale per bancarotta fraudolenta, quando, come nella specie, essi
intendano far valere un titolo personale, deve, tuttavia, ritenersi che, nei
procedimenti per bancarotta semplice, o non vi sia limite alcuno o ricorra lo
stesso presupposto normativamente previsto per i casi di bancarotta fraudolenta,
a pena di illegittimità costituzionale della previsione; b) che la solidarietà
risarcitoria consegue all’identità dell’evento dannoso, rimanendo indifferente alla
diversità degli apporti degli imputati, ancorché questi ultimi si siano tradotti in
reati diversi; c) che l’unitarietà della nozione di danno, ricavabile dagli artt. 538
e 539 cod. proc. pen., esclude l’illegittimità della decisione della Corte territoriale
di
liquidare
una
provvisionale
di
importo
corrispondente
al
danno
non
patrimoniale riconosciuto e quindi, sostanzialmente, destinata ad identificarsi in
una condanna definitiva; d) che, ai fini della legittimità della costituzione di parte
civile, ai sensi dell’art. 78, lett. d), cod. proc. pen., è sufficiente un’indicazione
sommaria delle ragioni che la giustificano e, al limite, il semplice richiamo al
contenuto del capo di imputazione; e) che, quantomeno con riferimento alle parti
civili cui la memoria si riferisce, era stata depositata la documentazione
66
attestante il possesso dei titoli al momento del default e il loro importo; f) che la
Corte territoriale aveva dato conto, nell’esercizio delle proprie valutazioni
discrezionali, dei criteri seguiti nella determinazione del danno non patrimoniale,
agganciato ad una percentuale del valore nominale dei titoli; g) che non era
richiesta alcuna motivazione, in ordine alla rilevante entità, rispetto ai mezzi dei
destinatari
della
condanna,
della
provvisionale,
peraltro
scaturente
non
dall’entità dell’importo riconosciuto, ma dal numero delle parti civili; h) che
neppure è sussistente l’asserita nullità della sentenza, in relazione al rigetto della
richiesta di parziale rinnovazione del dibattimento, attraverso l’assunzione della
testimonianza delle parti civili, per l’irrilevanza delle circostanze che il mezzo
invocato era destinato a dimostrare.
22. È stata depositata memoria nell’interesse delle parti civili Sonia Foti,
Sergio Catalanotto, Antonio Lupo, Wilma Caputo, Giovanni Di Rosso, Michele
Spatocco, Anna Pieri, Dino Pieri, Rosemary Gormlay, Bianca Natta e Maria
Coppolecchia, quest’ultima in proprio e quale erede di Gaetano Caputo,
specificamente destinata a contrastare i motivi di doglianza contenuti nel ricorso
proposto nell’interesse del Barili e di Calisto Tanzi, attraverso un richiamo alla
completezza e logicità degli argomenti valorizzati dalla Corte territoriale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Nella disamina delle numerose questioni investite dai motivi di ricorso,
conviene assegnare priorità a quelle che, per il loro carattere preliminare di rito,
sono potenzialmente idonee ad esplicare efficacia assorbente o, quanto meno, a
provocare la regressione dell’intero procedimento o di parte di esso.
2. La prima, in ordine logico, delle cennate questioni è quella con cui il
ricorrente Calisto Tanzi eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice italiano in
relazione agli illeciti riguardanti le società del gruppo Parmalat aventi sede
all’estero.
2.1. Sul punto in questione il ricorrente deduce illogicità della motivazione,
per avere la Corte d’Appello fatto riferimento a un precedente giurisprudenziale,
relativo ad un altro troncone della complessa vicenda processuale scaturita dal
tracollo del gruppo Parmalat (Sez. 5, n. 37370 del 07/06/2011, Bianchi), del
quale si deduce la non pertinenza alla fattispecie: sia per la diversità del rito –
abbreviato – in quella sede adottato, sia per essersi ivi attribuita alle società
estere una natura fittizia che, di contro, nel presente giudizio non è stata mai
presa in considerazione.
In argomento corre l’obbligo di osservare che, quand’anche potesse ritenersi
67
sussistente il vizio motivazionale denunciato dal ricorrente, esso non potrebbe
assurgere a causa di annullamento della sentenza: e ciò in quanto, in tema di
inosservanza di norme processuali, la Corte di Cassazione decide in maniera
diretta e non attraverso il sindacato sulla motivazione adottata dal giudice a quo.
Infatti, ciò che rileva è soltanto la legittimità o meno della soluzione adottata dal
giudice, rimanendo indifferenti le argomentazioni spese al riguardo nella
sentenza, atteso che l’art. 619 cod. proc. pen. espressamente consente di
modificare o rettificare, ove necessario, la motivazione, quando la decisione in
diritto sia immune da censura (v. da ultimo Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010,
Maugeri, Rv. 247123).
2.2. Ciò detto, ed entrando nel merito della questione prospettata, si
osserva che il ricorrente pone a fondamento della propria eccezione le seguenti
considerazioni: 1) non rileva il rapporto di collegamento – o correlazione – delle
società estere con quelle italiane, posto che ognuna di esse è dotata di
autonomia soggettiva e patrimoniale; 2) in materia vale il principio, legificato
nell’art. 9 legge fall. e – a livello sovranazionale – nell’art. 3, comma 1, del
regolamento CE 1346/2000, in base al quale la competenza ad aprire la
procedura concorsuale spetta al giudice del luogo nel quale l’impresa ha il centro
principale dei propri interessi, che, di norma, coincide con la sua sede principale.
Tale modo di argomentare non può essere condiviso. Esso, invero, svolge il
tema dell’individuazione del giudice investito della competenza – interna o
giurisdizionale – a conoscere della responsabilità penale, utilizzando i parametri
normativi dettati per individuare il giudice della procedura concorsuale, quasi che
il primo, nel verificare la propria competenza, fosse legittimato a sindacare
quella del secondo. Così invece non è, dato che la dichiarazione di fallimento,
una volta che abbia acquistato il carattere della irrevocabilità, costituisce un dato
definitivo e vincolante sul quale non possono più sorgere questioni non collegate
alla produzione formale della prova della sua giuridica esistenza. In tal senso si è
espressa la giurisprudenza di legittimità con ripetute pronunce (Sez. 5, n. 7912
del 04/05/1993, Berzanti, Rv. 194876Sez. 5, n. 4427 del 24/02/1998, Bertoni,
Rv. 211139), per vero non immuni da contrasti, fin quando le Sezioni Unite
hanno preso posizione sul punto, affermando che «la dichiarazione di fallimento
assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i
fatti con essa accertati»; e che «i presupposti di fatti accertati nella sentenza
richiamata dalla fattispecie penale non sono una “questione pregiudiziale” della
quale possa ritenersi investito il giudice penale, dato che essi sono stati appunto
accertati da detta sentenza, “la quale vincola il giudice penale (purché esistente
e non revocata) come elemento della fattispecie criminosa, e non quale decisione
di una questione pregiudiziale” implicata dalla fattispecie (Sez. U, n. 19601 del
68
28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398).
Dall’essere la dichiarazione di fallimento elemento costitutivo del reato di
bancarotta discende l’ulteriore conseguenza per cui, in tutti i casi riferibili a
condotte realizzate prima della stessa dichiarazione, la fattispecie criminosa si
considera perfezionata nel tempo e nel luogo in cui la sentenza di fallimento è
pronunciata: con ogni connessa incidenza sulla competenza giurisdizionale e
sulla competenza territoriale nell’ordinamento interno. Ne consegue che nel caso
di specie, essendosi verificata in Parma la dichiarazione giudiziale dello stato
d’insolvenza (equiparata alla dichiarazione di fallimento per disposto dell’art. 95
d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270) delle società cui si riferiscono in massima parte le
imputazioni contestate nel presente processo, così come la dichiarazione di
fallimento
per
le
restanti
società,
non
sottoposte
ad
amministrazione
straordinaria, correttamente si è radicata per il giudizio penale la giurisdizione
del giudice italiano e, nello specifico, la competenza territoriale del Tribunale di
Parma.
2.3. Le considerazioni fin qui svolte rendono conto, altresì, dell’infondatezza
della questione preliminare subordinata con cui il ricorrente sostiene doversi
valutare le condotte degli imputati, con riferimento alla gestione delle società
estere, alla stregua del diritto vigente negli Stati ove hanno queste hanno le
rispettive sedi. In senso contrario depone la norma codificata nell’art. 6 cod.
pen., in base alla quale è punito secondo la legge italiana chi commette un reato
nel territorio dello Stato. Né vale addurre in senso contrario quanto disposto
dall’art. 25 della legge 31 maggio 1995, n. 218, trattandosi di norma che – come
l’intero testo legislativo cui appartiene – è volta a disciplinare i rapporti di diritto
internazionale nell’ambito esclusivamente privatistico.
Neppure può condividersi l’aggettivazione di «paradossale», riferita dal
ricorrente all’ipotesi di applicazione del diritto penale italiano a una società
estera che abbia sempre operato all’estero; si tratta, invero, di giudicare la
condotta di amministratori di società estere cui l’ipotesi accusatoria attribuisce il
concorso nella consumazione di reati commessi in Italia: ora attraverso il
contributo alla determinazione dell’evento, come è nel caso della bancarotta
impropria di cui all’art. 223, comma 2, nn. 1) e 2) legge fall.; ora rendendosi
partecipi delle distrazioni ai danni delle società italiane cadute in dissesto, come
è nel
caso delle molteplici
ipotesi
contestate di
bancarotta
fraudolenta
patrimoniale; ora con la falsificazione delle scritture contabili, ostativa della
ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio delle società da parte
degli organi della procedura concorsuale.
2.4. Quanto fin qui argomentato spiega, infine, l’irrilevanza del quesito
inerente all’interpretazione dell’art. 4 del trattato UE, di cui il ricorrente sollecita
69
la rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Ed invero, alla stregua
delle considerazioni già svolte, la decisione sulla responsabilità penale degli
imputati non richiede alcuna attività interpretativa della norma sovranazionale
citata.
3. Altra questione che, per il suo carattere preliminare di rito, richiede di
essere esaminata in via prioritaria, è quella con cui i ricorrenti Giovanni Tanzi
(primo motivo), Domenico Barili (secondo motivo) e Camillo Florini (quinto
motivo) rinnovano l’eccezione di nullità dell’avviso di conclusione delle indagini
ex art. 415-bis cod. proc. pen., per essersi negata ai difensori la visione diretta
degli atti processuali in forma cartacea; lamentano, all’unisono, i ricorrenti che
siano state messe a loro disposizione soltanto le copie degli atti su supporto
informatico, esigendo il previo pagamento di un’ingente somma a titolo di diritti
di cancelleria: in ciò ravvisano una violazione del diritto alla difesa, sia per
essersi condizionata la visione degli atti di interesse del singolo indagato
all’onerosa acquisizione di copia dell’intero fascicolo processuale, sia per essersi
impedito il controllo della conformità delle copie agli originali.
3.1. L’eccezione è priva di fondamento.
Occorre, innanzi tutto, premettere che l’avviso di conclusione delle indagini
preliminari, se munito dei requisiti di forma prescritti dall’art. 415-bis cod. proc.
pen. e nello specifico, per quanto qui d’interesse, dell’avvertimento circa il
deposito degli atti nella segreteria del pubblico ministero, non può considerarsi
inficiato
da
nullità
per
il
verificarsi
di
eventi
successivi
che
abbiano
eventualmente impedito, di fatto, la consultazione degli atti da parte del
difensore. Con ciò non si vuol dire che quest’ultima evenienza sia priva di riflessi
sulla ritualità del procedimento, ma soltanto che la relativa disamina deve essere
condotta al di fuori dell’ottica – prospettata dai ricorrenti – di una pretesa nullità
dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. e della conseguente nullità della
richiesta di rinvio a giudizio riverberantesi, a cascata, su tutti gli atti successivi. È
vero, di contro, che l’impedimento frapposto alla visione degli atti processuali, se
effettivamente verificatosi, potrebbe avere inciso sul corretto esercizio del diritto
alla
difesa
così
tempestivamente
da
produrre
eccepita),
una
da
nullità
valutarsi
a
regime
alla
intermedio
stregua
del
(peraltro
pregiudizio
concretamente derivatone.
Nel caso di specie, peraltro, non è possibile affermare che la visione degli
atti sia stata effettivamente impedita ai difensori, atteso che la segreteria del
P.M. ha messo a loro disposizione le copie già predisposte in formato digitale. Ciò
non può certamente ritenersi contrario a legge, essendo dato cogliere nella
moderna disciplina del processo una palese apertura alla trasfusione della
70
documentazione su carta in quella di tipo informatico; basti considerare,
all’interno del codice di rito, il disposto dell’art. 150 che rende possibile – dietro
autorizzazione del giudice – la notificazione di atti con l’uso di mezzi tecnici
particolari, fra i quali può intendersi ricompresa la posta elettronica certificata;
nonché, fra le disposizioni di attuazione, quella di cui all’art. 42 disp. att. al cod.
proc. pen., che consente la trasmissione a distanza di copia degli atti, ai privati
legittimati a richiederle, con l’uso di «mezzi tecnici idonei».
La linea argomentativa addotta dalla difesa non merita consenso neppure là
dove prospetta l’esigenza, per il difensore, di verificare l’effettiva conformità
della copia informatica all’originale; l’ipotesi di eventuali difformità può essere,
invero, esclusa in radice per la natura stessa dello strumento informatico: il
quale, operando attraverso la scansione ottica del documento originale, non
lascia alcun margine ad errori umani nella riproduzione; resta soltanto aperta la
possibilità che qualche malfunzionamento tecnico incida sulla leggibilità, ma in
tal caso l’esistenza del difetto viene in rilievo senza alcuna necessità di confronto
con l’originale.
Quanto alla doglianza con cui taluni ricorrenti (segnatamente Giovanni Tanzi
e Camillo Florini) denunciano come illegittima la pretesa della segreteria del
pubblico ministero di esigere il pagamento di onerosi diritti per il rilascio della
copia digitale di tutta l’enorme mole degli atti processuali, malgrado l’interesse
del singolo imputato fosse limitato a una minima parte di essi, vi è soltanto da
rimarcare – in assonanza con quanto osservato dal Procuratore Generale in
udienza – che la questione così sollevata non è di carattere processuale, ma
amministrativo; dovendosi, tutt’al più, aggiungere che la condotta del personale
della segreteria, se ritenuta illegittima (ma probabilmente dipesa da errata
interpretazione delle istruzioni ricevute), avrebbe dovuto essere segnalata al
capo dell’ufficio con la richiesta di provvedimenti, per l’appunto di natura
amministrativa, utili a far conseguire il risultato voluto.
4. A sua volta finalizzata a conseguire la declaratoria di nullità dell’avviso di
conclusione delle indagini, e degli atti conseguenti, è l’eccezione con la quale i
ricorrenti Giovanni Tanzi (primo motivo) e Domenico Barili (primo motivo)
lamentano la mancata traduzione in lingua italiana di alcuni atti eseguiti
all’estero e redatti nella rispettiva lingua locale. Allo scopo di confutare la ratio
decidendi addotta dalla Corte felsinea, secondo cui si tratterebbe di atti compiuti
al di fuori del procedimento e, come tali, soggetti alla disciplina dei documenti in
lingua straniera, di cui all’art. 143, comma 2, cod. proc. pen., i deducenti
precisano che l’eccezione si riferisce a taluni atti e documenti acquisiti a seguito
di rogatoria internazionale nella fase d’indagine e, più specificamente, nel ricorso
71
di Giovanni Tanzi si menziona l’interrogatorio di tale Marco Perenna. A sostegno
della propria tesi si richiamano a un precedente giurisprudenziale (Sez. 3, n.
19396
del
08/03/2006,
Ammirata,
Rv.
235154)
secondo
cui
«l'omessa
traduzione in lingua italiana dei verbali di polizia giudiziaria e di documenti
redatti in lingua straniera, risolvendosi nella violazione del diritto d'intervento
della persona sottoposta ad indagine, determina la nullità ex artt. 178 lett. c) e
180 cod. proc. pen. dell'avviso di conclusione delle indagini, che si riverbera sulla
richiesta di rinvio a giudizio e sul decreto che dispone il giudizio stesso».
4.1. L’eccezione non può trovare accoglimento.
Occorre premettere, in ciò aderendosi al rilievo posto dalla Corte di merito a
base del suo argomentare, che l’obbligo di usare la lingua italiana negli atti del
procedimento, sancito dall’art. 109 cod. proc. pen., si riferisce soltanto agli atti
da compiersi davanti all’autorità giudiziaria che procede: mentre per quelli già
formati che vengono acquisiti al procedimento, sia pure in seguito a rogatoria
internazionale, la disciplina normativa da applicare è quella dettata dagli artt.
143, comma 2, e 242, comma 1, dello stesso codice. In tale ottica muove la
stessa sentenza Ammirata, evocata dai ricorrenti, nella cui motivazione l’obbligo
per l’autorità giudiziaria procedente di disporre la traduzione degli atti compiuti
per rogatoria internazionale è rapportato al precetto di cui al citato art. 143,
comma 2, sull’evidente presupposto che tale categoria di atti sia equiparabile a
quella dei documenti «già formati».
Nondimeno la conclusione ivi trattane, secondo cui gli scritti in tal modo
acquisiti dovrebbero essere tradotti in lingua italiana su disposizione officiosa
dell’autorità
giudiziaria
procedente,
indipendentemente
da
richieste
o
sollecitazioni dei soggetti interessati, non può essere condivisa. Essa, invero, si
pone immotivatamente in contrasto con l’opposto principio ormai saldamente
affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’obbligo di traduzione
dei documenti già formati sussiste solo se la loro utilizzazione possa pregiudicare
i diritti di difesa dell'imputato e sempre che quest'ultimo abbia eccepito il
concreto pregiudizio derivante dalla mancata traduzione (Sez. F, n. 35729 del
01/08/2013, Agrama, Rv. 256571; Sez. 6, n. 44418 del 29/10/2008, Tolio, Rv.
241657; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003 - dep. 06/02/2004, Ligresti ed altri, Rv.
229667).
Alle considerazioni suesposte, che rendono conto della correttezza giuridica
della risposta reiettiva data dalla Corte d’Appello all’eccezione in esame, deve
aggiungersi un ulteriore rilievo. Ove pure si ritenesse inosservante del precetto
di cui all’art. 143, comma 2, cod. proc. pen. l’omessa traduzione degli atti
espletati per rogatoria internazionale, la conseguenza da trarne sarebbe
l’inutilizzabilità di tali atti quali fonti di prova: e non certamente la nullità
72
dell’avviso di conclusione delle indagini, i cui requisiti di forma non ne
risulterebbero in alcun modo vulnerati. Ma, affinché l’inutilizzabilità di atti
processuali possa essere ritualmente eccepita, è necessario che la parte ne dia
specifica
indicazione,
precisandone
l’incidenza
sul
compendio
probatorio
complessivo (v. per tutte Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416);
ciò non è stato fatto da parte dei deducenti, i quali si sono limitati a un generico
riferimento ad atti compiuti all’estero per rogatoria, con la sola eccezione
riguardante il richiamo fatto dalla difesa di Giovanni Tanzi all’interrogatorio di
Marco Perenna; di quest’ultimo, tuttavia, neppure risulta essersi fatto uso ai fini
probatori,
non
essendo
dato
rinvenire
alcuna
menzione
ad
esso
nella
motivazione della sentenza qui gravata, né in quella di primo grado.
5. A sua volta va preliminarmente esaminata la questione prospettata da
vari imputati, i quali lamentano l’inosservanza dell’art. 649 cod. proc. pen., in
quanto già sottoposti, per i medesimi fatti storici, a procedimento penale in
relazione alle imputazioni di aggiotaggio, fraudolenta certificazione di bilanci e
ostacolo alle funzioni di vigilanza.
In particolare, viene in questione il procedimento definito da Sez. 5, n.
28932 del 04/05/2011, Tanzi, Rv. 253755.
Al riguardo, osserva la Corte che l’orientamento espresso dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo, sin dalla sentenza 10/02/2009, Zolotoukhine c.
Russia, per giungere alla recente sentenza 04/03/2014, Grande Stevens c. Italia,
è certamente nel senso che il principio del ne bis in idem impone una valutazione
ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che
quest’ultima è stata ritenuta troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della
persona.
E, tuttavia, come emerge dalla citata sentenza Zolotoukhine (par. 84) e
come ribadito dalla più recente decisione emessa nel caso Grande Stevens c.
Italia (par. 221), la nozione di condotta si traduce nell’insieme delle circostanze
fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere
dimostrata ai fini della condanna.
Tale puntualizzazione impone necessariamente di considerare quali sono i
fatti assunti come rilevanti dall’ordinamento interno, ai fini dell’applicazione della
sanzione penale, in ragione dell’interesse protetto.
Si tratta di una conseguenza che scaturisce dal rilievo che la stessa nozione
di condotta, pur colta nella sua dimensione fattuale, ha carattere normativo, in
quanto presuppone una selezione dei comportamenti ritenuti espressivi di un
determinato disvalore.
Proprio muovendosi in questa prospettiva, Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005,
73
Donati, Rv. 231799, ha chiarito che, ai fini della preclusione connessa al principio
del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza
storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi
elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle
circostanze di tempo, di luogo e di persona.
E tale impostazione è stata seguita dalla giurisprudenza successiva in modo
costante (v., di recente, Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, Cuffaro, Rv. 255837).
Ora, nel presente procedimento, in generale, gli imputati rispondono: a) di
condotte di falsificazione dei bilanci, viste come elemento costitutivo del delitto
ex art. 223, comma secondo, n. 1, l. fall. per il loro nesso eziologico con la
produzione del dissesto; b) di operazioni dolose causatrici del dissesto, tradottosi
nella dichiarazione dello stato d’insolvenza per le società sottoposte ad
amministrazione straordinaria e nel fallimento per le altre (art. 223, comma
secondo, n. 2, l. fall.); c) e, infine, di condotte di distrazione di cespiti attivi ai
danni delle società Parmalat s.p.a., Parmalat Finance Corporation BV, Parmalat
Finanziaria
s.p.a.,
Boschi
Luigi
&
Figli
s.p.a.,
Contal
s.r.l.,
Emmegi
Agroindustriale s.r.l., Parmalat Trading Limited, Coloniale s.p.a., e quelle di
irregolare tenuta delle scritture contabili nella gestione delle società Parmalat
s.p.a., Parmalat Finanziaria s.p.a., Contal s.r.l. ed Emmegi Agroindustriale s.r.l.;
nonché gli altri analoghi illeciti riferiti alle società della famiglia Tanzi e ad altre
società minori.
Ciò posto, certamente escluso che le condotte di distrazione e di irregolare
tenuta delle scritture contabili possano ritenersi identiche nella loro materialità a
quelle che sostanziano i reati di aggiotaggio, di fraudolenta certificazione di
bilanci e di ostacolo alle funzioni di vigilanza, oggetto del procedimento definito
con la citata sentenza n. 28932 del 2011, osserva la Corte che quest’ultima
decisione già ebbe, condivisibilmente, ad escludere l’assorbimento del delitto di
cui all'art. 2638 cod. civ. in quello di bancarotta fraudolenta impropria (art. 223,
comma secondo, n. 1, l. fall.), con peculiare riferimento ai fatti di false
comunicazioni sociali, ovvero con riguardo all'art. 223, comma secondo, n. 2, l.
fall., con richiamo alle c.d. "operazioni dolose", giacché: a) il "fatto" previsto
dall'art. 2622 cod. civ., richiamato dall’art. 223, comma secondo, n. 1, l. fall. è
indubbiamente un reato ad evento di danno e il pregiudizio è ravvisabile per una
limitata
categoria
di
destinatari,
ossia
la
massa
dei
creditori;
b) ulteriore profilo differenziale si ravvisa nella configurazione dell'aggiotaggio
quale reato di concreto pericolo, mentre l'infedele comunicazione sociale, nella
prospettazione dell'art. 2622 cod. civ., è reato ad evento di danno; c)
l'aggiotaggio si consuma con la diffusione della notizia manipolativa, mentre
l'altra figura si consuma con le accertate conseguenze pregiudizievoli maturate in
74
capo al destinatario dell'informazione dannosa; d) i soggetti attivi sono esponenti
societari nel reato di infedele comunicazione sociale, mentre la categoria dei
soggetti dell'aggiotaggio si restringe in ragione della descrizione modale
dell'azione vietata; e) la manipolazione informativa non è momento integrativo
della comunicazione sociale di cui all'art. 2622 cit., la quale ultima rispetta - nel
suo profilo oggettivo - la disciplina dettata dall'art. 2423 e ss. cod. civ., mentre
la notizia dedotta dall'art. 2637 cod. civ., norma incriminatrice vigente all'epoca
del fatto, doveva attenersi a quella propria del D.Lgs. n. 58 del 1998; f) l'oggetto
materiale, costituito dalla notizia infedele, assume interesse illecito per ragioni
difformi: in un caso, il paradigma è la rilevanza quantitativa del mendacio,
comparato con le risultanze patrimoniali/economiche del bilancio, nell'altro è la
idoneità all'alterazione del corso del valore del titolo; g) il dolo nell'aggiotaggio è
generico
(consistente
nella
coscienza
e
volontà
di
diffondere
notizie
manipolative), laddove, per contro, il falso in bilancio richiede un momento
soggettivo particolarmente qualificato, ossia un fine specifico di ingiustizia e
l'intenzionalità rivolta all'inganno di soci o pubblico; h) il reato fallimentare
presuppone la dichiarazione di fallimento in connessione causale con l'azione di
infedeltà informativa, elemento essenziale della fattispecie, mancante in quella
della norma sull'intermediazione finanziaria; i) la eterogeneità dei fini sottesi alle
due fattispecie incriminatrici si riflette anche sulle modalità di commissione,
quale l'istantaneità del danno alla persona offesa, connessa alla violazione
dell'art. 2637 cod. civ, mentre la ben più complessa modalità lesiva consegue
alla complessiva notizia sulla situazione patrimoniale o finanziaria o economica
della società quale desumibile dal bilancio.
Inoltre, puntualmente venne rilevato che la manipolazione informativa non
coincide con l'ipotesi punitiva della bancarotta impropria contemplata dalla L.
Fall., art. 223, comma secondo, n. 2, l. fall, segnatamente con riguardo alla
causazione del fallimento a seguito delle c.d. "operazioni dolose".
Nonostante il carattere generale di quest’ultima espressione, appare, infatti,
evidente che l'illecito concorsuale ha struttura ad evento (il fallimento),
diversamente dalla più volta ricordata essenziale configurazione di reato di
pericolo data dal legislatore all'aggiotaggio.
Diverge, pertanto, in guisa essenziale anche il momento consumativo del
reato, rilevabile, per la violazione dell'art. 2637 cod. civ., nell'atto di diffusione
della notizia, mentre per l'illecito fallimentare esso si appunta al tempo
dell'emissione del provvedimento del giudice fallimentare.
È, al contempo, utile sottolineare che difficilmente il termine "operazione"
assume il significato ristretto alla categoria dei messaggi informativi ed alla loro
diffusione, palesando - piuttosto - una più o meno complessa condotta di
75
gestione attiva di impresa.
Ne discende, allora, con piena evidenza che le false informazioni al mercato,
ancorché dirette a mascherare le condotte distrattive, non si identificano affatto
in queste ultime, esprimendo, sul piano ontologico, una radicale diversità.
Non è, in definitiva, sufficiente una generica unitarietà dell’obiettivo ultimo
perseguito dagli imputati per cancellare la diversità di condotte, ciascuna
contraddistinta da una sua specifica connotazione materiale.
6. Oltre alle questioni di rito, sopra esaminate, richiedono prioritaria
trattazione alcune censure di carattere sostanziale mosse da più ricorrenti alla
sentenza impugnata, delle quali proprio il carattere comune alle posizioni di più
imputati – in una con l’eventuale estensibilità agli altri, ex art. 587 cod. proc.
pen. – rende opportuna la trattazione unitaria.
7. La prima di esse è quella che investe la collocazione della dichiarazione di
fallimento (ovvero della dichiarazione dello stato d’insolvenza nella procedura di
amministrazione straordinaria, che l’art. 95 d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 equipara
al fallimento) nella struttura del reato di bancarotta fraudolenta ex art. 216 r.d.
16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare). Appoggiando le proprie
deduzioni a una recente sentenza di questa Corte Suprema (Sez. 5, n. 47502 del
24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493), i ricorrenti Calisto Tanzi, Domenico
Barachini, Mario Mutti e Paolo Sciumé si fanno portatori della tesi secondo cui
l’insolvenza della società, che trova riconoscimento formale nella dichiarazione di
fallimento, costituisce l’evento del reato, con la conseguenza che non soltanto
deve essere legata alla condotta dell’imprenditore da rapporto di causalità, ma
deve anche essere prevista e voluta come conseguenza del suo agire, secondo il
dettame dell’art. 43 cod. pen.. Tale interpretazione, si aggiunge talora (ricorso
Sciumé), dovrebbe essere riguardata come obbligata, per essere l’unica allineata
ai precetti della Carta Costituzionale.
7.1.
Nell’accedere
alla
disamina
della
tesi
così
prospettata,
occorre
premettere che la risposta non può essere unica per l’intero ventaglio dei reati
fallimentari cui le imputazioni si riferiscono. Fra queste, infatti, sono comprese
svariate fattispecie di bancarotta impropria da reati societari e per operazioni
dolose, relativamente alle quali non può essere ragionevolmente posta in dubbio
la necessità che il dissesto sia causato dalla condotta descritta dalle norme
incriminatrici e che tale evento sia previsto e voluto dall’agente (quanto meno a
titolo di dolo eventuale), in tal senso esprimendosi inequivocabilmente la lettera
della legge (art. 223, comma 2, legge fall.).
La fondatezza, o meno, dell’assunto difensivo va quindi verificata in
76
relazione alla sola previsione di cui all’art. 216, comma 1, legge fall., richiamata
dal primo comma del già citato art. 223. E la risposta deve essere negativa, per
una molteplicità di ragioni.
7.2. Alla stregua di un insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, risalente alla sentenza n. 2 del 1958 (imputato Mezzo) e rimasto
costante nel tempo, la dichiarazione di fallimento non costituisce una condizione
obiettiva di punibilità, ma una condizione di esistenza del reato; si tratta, in
definitiva, di un elemento costitutivo della fattispecie criminosa che, nella
bancarotta prefallimentare, segna il momento consumativo del reato ad ogni
effetto di legge. Ciò, tuttavia, non significa che le si possa attribuire la qualifica
di evento, come se non fosse data via di uscita rispetto all’alternativa tra
condizione obiettiva di punibilità ed evento del reato.
Di contro può certamente affermarsi che è facoltà del legislatore inserire
nella struttura dell’illecito penale elementi costitutivi estranei alla cennata
dicotomia; e con altrettanta certezza può dirsi che il legislatore, quando a un
determinato accadimento intende assegnare la valenza di evento del reato, lo
esplicita in termini inequivocabili, col ricorso a forme lessicali immediatamente
evocative del rapporto causale («causare», «cagionare», «determinare»). Basti
pensare, al riguardo, proprio alle norme incriminatrici contenute nel già citato
art. 223, comma 2, della stessa legge fallimentare, nelle quali l’indefettibilità del
nesso eziologico fra condotta e dissesto, o fallimento, viene in immediata
evidenza in virtù dell’utilizzo, al n. 1), dell’espressione «hanno cagionato, o
concorso a cagionare, il dissesto della società…» e, al n. 2, dell’espressione
«hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della
società».
In argomento non sarà inutile osservare che, raffrontando il testo previgente
del n. 1) del secondo comma, or ora citato, dell’art. 223 legge fall. con quello
scaturito dalla modifica apportatavi dall’art. 4 d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, è
agevole constatare come l’introduzione nel modello descrittivo del rapporto di
causalità fra la condotta e il dissesto della società abbia costituito una rilevante
innovazione voluta dal legislatore proprio in considerazione del fatto che tale
collegamento causale mancava nel testo precedente, a tenore del quale era
sufficiente la commissione di alcuno dei fatti preveduti dagli articoli richiamati
(“2621, 2622, 2623, 2628, 2630, comma primo, del codice civile”), cui avesse,
poi, fatto seguito la dichiarazione di fallimento (essendo presente nel primo
comma l’espressione «società dichiarate fallite», del tutto omologa a quella «se è
dichiarato fallito», contenuta nel primo comma del precedente art. 216): con
ogni connessa ricaduta sull’elemento psicologico del reato. In tal senso si sono
espresse le Sezioni Unite di questa Corte Suprema, pervenendo alla conclusione
77
che la successione di leggi avesse comportato un effetto parzialmente abrogativo
della norma incriminatrice in relazione a quei fatti che non fossero riconducibili
alle nuove fattispecie criminose, come nel caso di insussistenza del nesso
eziologico summenzionato (Sez. U n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv.
224605).
Ancora dalle Sezioni Unite viene l’insegnamento secondo cui nella struttura
dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua
natura
di
provvedimento
giurisdizionale:
il
che
non
soltanto
la
rende
insindacabile in sede penale, secondo il principio ivi enunciato (Sez. U, n. 19601
del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398); ma reca la conseguenza per cui l’elemento
costitutivo della fattispecie criminosa non risiede nei presupposti di fatto (fra cui
lo stato d’insolvenza) accertati dal giudice fallimentare, ma nella pronuncia di
una sentenza rispetto alla quale non è ipotizzabile un’efficienza causale facente
capo all’imprenditore, ovvero – come sostenuto nella citata sentenza «Corvetta»
– al ceto creditorio; donde può trarsi l’ulteriore corollario per cui è fuori luogo
condurre il ragionamento ermeneutico utilizzando in chiave di fungibilità nozioni
del tutto eterogenee, quali quelle di «dissesto» e «dichiarazione di fallimento».
Col conforto delle autorevoli enunciazioni giurisprudenziali testé citate può
dunque valorizzarsi l’analisi del tipo descrittivo delineato nell’art. 216, primo
comma, della stessa legge, che consente di rimarcare l’assenza di qualsiasi
accenno alla necessità di un collegamento causale fra le condotte vietate e la
dichiarazione di fallimento; quest’ultima, invero, essendo evocata nella forma
sintattica della protasi («se è dichiarato fallito») partecipa a comporre un’endiadi
che individua il soggetto attivo del reato nell’imprenditore dichiarato fallito (v.
ancora Sez. U Niccoli, in motivazione); mentre l’oggetto del divieto legislativo
consiste, quanto alla bancarotta distrattiva, nell’impoverimento della consistenza
patrimoniale dell’impresa, che è l’asse portante della garanzia per i creditori;
mentre
nella
bancarotta
documentale
consiste
nella
soppressione
–
o
nell’irregolare tenuta – della contabilità, dalla quale dipende la possibilità di
ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. E proprio nelle
conseguenze or ora descritte si individua l’evento del reato, nella sua accezione
giuridica e non naturalistica.
7.3. Il fatto che, nell’articolo 216 qui esaminato, siano accomunate nel
medesimo comma le ipotesi criminose della bancarotta fraudolenta patrimoniale
e di quella documentale, cui congiuntamente si riferisce la protasi in discussione,
porta un ulteriore argomento contrario alla tesi qui criticata: non si vede, infatti,
in base a quale costruzione logico-giuridica potrebbe pervenirsi a configurare un
necessario rapporto di causalità fra la violazione dell’obbligo di corretta tenuta
delle scritture contabili e l’evento fallimentare. Né giova addurre che, trattandosi
78
di reati distinti, nulla impedisca al fallimento di svolgere nei due casi una
funzione diversa: a confutazione è agevole osservare che, per un verso, la forma
sintattica adottata nell’ancipite previsione normativa – nella quale è posta in
comune, come già rilevato, l’espressione «se è dichiarato fallito» – non consente
di differenziare le due ipotesi criminose dal punto di vista della struttura del
reato; e, per altro verso, che rimane del tutto oscura la «funzione diversa» da
attribuirsi alla dichiarazione di fallimento nella bancarotta documentale, una
volta che si rifiuti la possibilità di una terza via, al di fuori dell’alternativa
«condizione obiettiva di punibilità o evento del reato».
7.4. Affermare che nel nostro ordinamento non esistono altri casi nei quali
sia previsto un elemento costitutivo del reato, successivo alla condotta, che sia
scisso da un rapporto eziologico con essa, non è argomento risolutivo. Nulla,
infatti, impedisce al legislatore di attribuire a un determinato reato una struttura
unica
e
peculiare,
purché
non
ne
risulti
violato
un
precetto
di
rango
costituzionale. E sotto tale profilo non è fuori luogo osservare che la lettura qui
condivisa della norma in questione è stata avallata dalla stessa Corte
Costituzionale: la quale, nella motivazione della propria sentenza n. 110 del
1972, ha osservato fra l’altro che «il legislatore avrebbe potuto considerare la
dichiarazione di fallimento tra l'altro come semplice condizione di procedibilità o
di punibilità, ma ha invece voluto – come è riconosciuto dalla giurisprudenza
della Corte di Cassazione – richiedere l'emissione della sentenza per l'esistenza
stessa del reato. E ciò perché, intervenendo la sentenza dichiarativa del
fallimento, la messa in pericolo di lesione del bene protetto si presenta come
effettiva ed attuale».
7.5. D’altra parte la denuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 216 legge
fall., nella parte in cui non richiede – in armonia col novellato art. 223, comma 2
della stessa legge – che le condotte ivi contemplate abbiano cagionato il dissesto
della società, è già stata sottoposta all’attenzione di questa Corte Suprema e
giudicata manifestamente infondata da questa stessa sezione (Sent. n. 24328
del 18/05/2005, Di Giovanni, Rv. 232210).
7.6. A sostegno dell’interpretazione qui disattesa si è anche osservato che la
tesi volta ad escludere la necessarietà del rapporto causale tra la condotta
dell’imprenditore e il fallimento (e della connessa copertura del dolo ex art. 43
cod. pen.) porterebbe a conseguenze assurde, rendendo da un lato non punibile
chi avesse drenato risorse enormi da una società dotata di un patrimonio attivo
considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, e sottoponendo
invece a pena chi avesse prelevato indebitamente una modestissima somma di
denaro molti anni prima del fallimento, verificatosi per cause del tutto autonome.
Orbene, premesso che la prima delle due ipotesi or ora descritte esulerebbe
79
dall’intero novero dei reati di bancarotta anche se si abbracciasse la tesi che è
destinata a sorreggere, dato che la mancanza della dichiarazione di fallimento
escluderebbe in ogni caso la configurabilità del reato, a confutazione del
ragionamento merita osservare che, ove pure si volesse accedere a un criterio
ermeneutico di tal fatta, in spregio dell’antico brocardo adducere inconveniens
non est resolvere argumentum, non ci si potrebbe astenere dal prendere atto
delle ben più gravi conseguenze che deriverebbero dall’adesione alla tesi qui
avversata: in tale ipotesi, invero, una volta verificatosi l’irreversibile stato
d’insolvenza prodromico al fallimento, per qualsiasi causa estranea al fatto
dell’imprenditore, a quest’ultimo sarebbe data piena libertà di distrarre l’intero
patrimonio aziendale (e di dissipare, in aggiunta, quello personale), dato che tale
condotta non potrebbe qualificarsi come causa del fallimento già resosi
inevitabile per fatti pregressi; né varrebbe, in tal caso, ipotizzare una
responsabilità a titolo di aggravamento del dissesto, dato che tale condotta esula
dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta ed è invece propria del meno grave
reato di cui all’art. 217, comma 1, n. 4) della legge fallimentare: nel quale,
tuttavia, la norma incriminatrice si esprime negli stessi termini («se è dichiarato
fallito»), cui si pretende di attribuire significato indicativo di un imprescindibile
rapporto di causalità fra la condotta e la dichiarazione di fallimento.
7.7. Alla luce delle considerazioni che precedono non può che prestarsi
adesione al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del quale
l’isolata sentenza n. 47502 del 24/09/2012 non vale a infirmare la granitica
solidità, sebbene un successivo arresto (Sez. F, n. 41665 del 10/09/2013, Gessi,
Rv.
257231)
sembri
muovere
nella
stessa
direzione,
col
richiedere
ad
integrazione del reato una «consapevole prospettiva del dissesto finanziario»,
peraltro senza addurre alcuna giustificazione giuridica a sostegno; onde va
ribadito una volta di più che la dichiarazione di fallimento non costituisce l’evento
del reato di bancarotta distrattiva, sicché sarebbe arbitrario pretendere un nesso
eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo che
incide sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, e il fallimento;
con la conseguenza per cui né la previsione dell'insolvenza come effetto
necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la percezione della sua
stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto possono essere
condizioni essenziali ai fini dell'antigiuridicità penale della condotta (v. Sez. 5, n.
316 del 27/11/1985 - dep. 15/01/1986, Benedetti, Rv. 171578; Sez. 5, n. 15850
del 26/06/1990, Bordoni, Rv. 185883; Sez. 5, n. 8327 del 22/04/1998,
Bagnasco, Rv. 211366; Sez. 5, n. 36088 del 27/09/2006, Corsatto, Rv. 235481;
Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012 - dep. 07/01/2013, Sistro, Rv. 254061; Sez. 5, n.
7545 del 25/10/2012 - dep. 15/02/2013, Lanciotti, Rv. 254634; Sez. 5, n.
80
27993 del 12/02/2013 - dep. 26/06/2013, Di Grandi, Rv. 255567).
8. Altra questione di carattere generale emersa attiene ai limiti della
responsabilità degli amministratori non esecutivi e dei sindaci.
Al riguardo, rinviando all’esame dei singoli ricorsi la trattazione delle
questioni sollevate con riguardo alla posizione dei vari imputati, occorre
premettere che, al di là delle espressioni che si rinvengono in ragione della
specificità processuali delle singole vicende, l’orientamento espresso dalla
giurisprudenza di legittimità appare, sul punto, uniforme sin da Sez. 5, n. 23838
del 04/05/2007, Amato, Rv. 237251.
In tale pronuncia, questa Corte ha rilevato che la riforma della disciplina
delle società, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha certamente modificato il
quadro normativo dei doveri di chi è preposto alla gestione della società ed ha
compiutamente regolamentato la responsabilità dell'amministratore destinatario
di delega. E, così, ha delineato, da un lato, il criterio direttivo dell'"agire
informato", che sostiene il mandato gestorio (art. 2381, comma quinto, cod.
civ.) e, correlativamente, l'obbligo di ragguaglio informativo sia a carico del
presidente del consiglio di amministrazione (art. 2381, comma primo, cod. civ.)
sia in capo agli amministratori delegati, i quali, con prestabilita periodicità,
devono fornire adeguata notizia "sul generale andamento della gestione e sulla
sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro
dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate" (art.
2381, comma quinto, cod. civ.). In tal modo la riforma ha indubbiamente - con
più puntuale disposizione letterale - alleggerito gli oneri e le responsabilità degli
amministratori privi di deleghe, poiché l'art. 2392, comma primo, cod. civ.
chiarisce che essi sono responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni
proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa. È stato, dunque, rimosso il
generale "obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione" (già
contemplato dall'art. 2392, comma secondo, cod. civ.), sostituendolo con l'onere
di "agire informato", atteso il potere ( che si qualifica come doveroso nell'ottica
dell'indicazione normativa sulla modalità di gestione informata) di richiedere
informazioni (senza che ciò assegni anche un’autonoma potestà di indagine).
La sentenza ha aggiunto che certamente occorre individuare il limite
operativo dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., quando sia correlato ad
incriminazioni connotate da volontarietà, onde evitare di sovrapporlo o, peggio,
sostituirlo con responsabilità di natura colposa, incompatibile con la lettera delle
fattispecie
incriminatici.
In
questa
prospettiva,
l'analisi
del
profilo
della
responsabilità discendente dall'art. 40, comma secondo, cit. per condotte
connotate da volontarietà e la configurazione della "posizione di garanzia" che
81
qualifica
il
ruolo
dell'amministratore
evidenzia
due
momenti,
tra
loro
complementari, ma idealmente distinti ed entrambi essenziali.
Il primo postula la rappresentazione dell'evento, nella sua portata illecita, il
secondo
-
discendente
da
obbligo
giuridico
-
l'omissione
consapevole
nell'impedirlo.
Entrambe
queste
due
condizioni
debbono
ricorrere
nel
meccanismo
tratteggiato dal nesso di causalità giuridica di cui si discute. Non è, quindi,
responsabile chi non abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole (sì
che l'omissione dell'azione impeditiva non risulti connotata da consapevolezza).
Ovviamente, l'evento
può essere oggetto
di
rappresentazione anche
eventuale; pertanto chi consapevolmente si sia sottratto, nell'esercitare i poteridoveri di controllo attribuiti dalla legge, accettando il rischio, presente nella sua
rappresentazione, di eventi illeciti discendenti dalla sua inerzia, può rispondere di
essi ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen.
Un profilo della motivazione, sul quale le difese hanno particolarmente
indugiato, riguarda la puntualizzazione, secondo la quale,
“pur in questa
dilatazione consentita dalla forma eventuale del dolo”, non può esservi
equiparazione tra conoscenza e conoscibilità dell'evento che si deve impedire,
attenendo la prima all'area della fattispecie volontaria e la seconda, quale
violazione dei doveri di diligenza, all'area della colpa”.
Per intendere il significato di tale precisazione, occorre, però, inquadrarla nei
successivi sviluppi argomentativi della decisione, che, al di là dei profili
concernenti
la
specifica
vicenda
processuale,
ebbe
ad
aggiungere
che
l’affidamento riposto dagli amministratori privi di delega nelle risposte rese
dall'amministratore operativo alle istanze informative avanzate ovvero nelle
relazioni predisposte dall'organo delegato non può implicare anche una cieca
rinuncia
delle
personali
facoltà
critiche
o
del
corredo
di
competenza
professionale, laddove l’accusa dimostri la presenza di segnali perspicui e
peculiari in relazione all'evento illecito, nonché l'accertamento del grado di
anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta, ma per l'amministratore non
operativo, oltre che, s’intende, la percezione degli stessi in capo agli imputati.
In definitiva, volendo sintetizzare il senso complessivo della motivazione, i
segnali perspicui e peculiari di operazioni anomale devono tradursi in indizi gravi,
precisi e concordanti della conoscenza da parte dell’amministratore non
esecutivo della probabile realizzazione di eventi pregiudizievoli e impongono sia
l’attivazione delle necessarie e non predeterminate fonti conoscitive richieste
dall’ordinamento – e, infatti, la cit. sentenza n. 23838 del 2007 aggiunge
significativamente che esse non possono ragionevolmente ridursi all'informazione
resa in seno al consiglio di amministratore o al solo ambito societario - non
82
potendo l’affidamento spingersi, come s’è detto, sino alla cieca rinuncia delle
personali facoltà critiche o del corredo di competenze professionali, sia l’adozione
di tutte le iniziative, rientranti nelle attribuzioni degli stessi, volte ad impedire gli
eventi medesimi, in ciò concretandosi l’obbligo di agire informati.
Del tutto coerente con siffatta ricostruzione è l’affermazione contenuta nella
motivazione di Sez. 5, n. 43101 del 03/10/2007, Mazzotta, Rv. 238498, laddove
si legge che il combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 43 c.p. non deroga alla
lettura dell'elemento psicologico del reato: la nozione di dolo, come la
giurisprudenza ha ormai insegnato da tempo, è estensibile anche al cd. "dolo
eventuale", ossia alla commissione di una condotta omissiva, accompagnata
dalla rappresentazione del rischio di consentire in tal modo il verificarsi
dell'evento che il soggetto ha l'obbligo di impedire.
Quest’ultima
decisione,
peraltro,
aggiunge
che
non
è
sufficiente
la
rappresentazione della mera possibilità dell'evento, che (risultando sempre
configurabile nella prospettazione delle cose future) non è idoneo paradigma
valutativo. Necessita, invece, una qualche misura di probabilità dell'evenienza e
che questa, sia pur modesta ma più concreta prospettiva, venga rappresentata
dall'autore dell'omissione. Diversamente il giudizio che si limiti alla "conoscibilità"
del fatto approda inevitabilmente a schemi propri della colpa, improponibili per le
fattispecie (come la bancarotta fraudolenta) contrassegnate dal dolo.
In questo senso, va, dunque, intesa la contrapposizione tra conoscenza e
conoscibilità.
Non potendo l’elemento soggettivo che essere desunto da elementi obiettivi
rivelatori
dell’atteggiamento
psicologico
dell’agente
(ossia,
per
usare
l’espressione di Sez. 5, n. 3708 del 30/11/2011 - dep. 30/01/2012, Ballatori e
altri,
Rv.
252945,
non
essendo
possibile
entrare
“nella
testa”
degli
amministratori”) è dalla conoscenza dei segnali di allarme, intesi come momenti
rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o
criteri di valutazione professionale, del pericolo dell'evento, che può desumersi la
prova della ricorrenza della rappresentazione dell'evento da parte di chi è tenuto
- per la posizione di garanzia assegnatagli dall'ordinamento - ad uno specifico
devoir d'alerte (che include in sè anche l'obbligo di una più pregnante sensibilità
percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l'accadimento dannoso).
Ovviamente, secondo la puntualizzazione della citata sentenza n. 43101 del
2007,
questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e
cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui
valutazione - in rapporto al sintomo allarmante - deve esplicarsi in concreto,
volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del
relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla
83
valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da
adeguata giustificazione.
In definitiva, nella prospettiva del dolo eventuale, l’evento pregiudizievole,
in coerenza con il giudizio di prognosi postuma che sorregge l’accertamento
giudiziale, è oggetto di una rappresentazione in termini di probabilità, cui si
accompagna l’inerzia dell’amministratore, che, in tal modo, accetta il rischio del
suo verificarsi (in termini, v. Sez. 5, n. 45513 del 05/11/2008, Ferlatti, Rv.
241852).
Quest’ultima
decisione
aggiunge,
in
linea
con
i
precedenti
approdi
giurisprudenziali, che gli "indici di allarme" rappresentano i sintomi eloquenti del
fatto
in
itinere.
Della
loro
relativa
consapevolezza
soltanto
(e
non
dell'accadimento nella suo compiuta fisionomia) deve darsi pieno riscontro in
capo all'imputato, preposto alla posizione di garanzia, ma la dimostrata
percezione di questi sintomi di pericolo concreta adeguato riscontro alla penale
responsabilità, salvo che sia fornita convincente e legittima giustificazione sulle
ragioni che hanno indotto il soggetto all'inerzia.
Non diversa prospettiva argomentativa si coglie in Sez. 5, n. 36595 del
16/04/2009, Bossio, Rv. 245138, secondo cui, in tema di reati fallimentari e
societari,
ai
fini
della
affermazione
della
responsabilità
penale
degli
amministratori senza delega e dei sindaci è necessaria la prova che gli stessi
siano stati debitamente informati oppure che vi sia stata la presenza di segnali
peculiari in relazione all'evento illecito, nonché l'accertamento del grado di
anormalità di questi sintomi, giacché solo la prova della conoscenza del fatto
illecito o della concreta conoscibilità dello stesso mediante l'attivazione del
potere informativo, in presenza di segnali inequivocabili, comporta l'obbligo
giuridico degli amministratori non operativi e dei sindaci di intervenire per
impedire il verificarsi dell'evento illecito, mentre la mancata attivazione di detti
soggetti, in presenza di tali circostanze, determina l'affermazione della penale
responsabilità, avendo la loro omissione cagionato, o contribuito a cagionare,
l'evento di danno. E nella stessa linea si muove anche Sez. 5, n. 21581 del
28/04/2009, Mare, Rv. 243889.
Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012 - dep. 28/05/2013, Berlucchi, Rv. 256939,
al pari di Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino, Rv. 253765 ribadisce
quanto già sopra ricordato, ossia che
non è sufficiente la presenza dei c.d.
segnali d'allarme da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o
almeno il rischio del verificarsi di detto evento, ma è necessario che l’imputato
ne sia concretamente venuto a conoscenza ed abbia volontariamente omesso di
attivarsi per scongiurarlo.
Ed è sul crinale della conoscenza dei segnali d’allarme, allora, che si misura
84
l’accertamento demandato al giudice di merito e la puntualizzazione, contenuta
nella sentenza da ultimo citata, secondo la quale un conto è che l'amministratore
privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un "segnale di allarme" percepito
come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l'interesse dei
creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a
riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali di altri.
Ciò che appunto era stato anche affermato dalla cit. sentenza n. 3708 del
2012, con la quale era stato rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito,
che aveva evidenziato in modo preciso e dettagliato tutti gli elementi
da cui
aveva desunto la piena consapevolezza da parte dei ricorrenti delle condotte
poste in essere dal direttore e dal presidente della banca.
9. Vanno, poi, affrontate alcune questioni di carattere generale, che
investono le statuizioni civili.
9.1. In primo luogo, è stata eccepita da alcuni imputati la questione della
estensibilità, a tutti i destinatari della pronuncia di condanna al risarcimento del
danno, degli effetti dell’ordinanza emessa il 12/12/2011 dalla Corte territoriale,
che ha dichiarato l’inammissibilità delle costituzioni di parte civile di Alvisi + 45,
Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, Cabrini, Ballarin + 159, Beltrami + 115,
Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza + 35, Allegri + 73,
Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36, in quanto effettuate all’udienza del
06/05/2008, tramite sostituto del difensore procuratore speciale, sulla base di
un’eccezione sollevata dalla difesa del solo coimputato Calogero.
La questione non è fondata.
L’art. 587, comma 1, cod. proc. pen., dispone che, nel caso di concorso di
più persone in uno stesso reato, l’impugnazione proposta da uno degli imputati,
purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri
imputati.
La norma mira ad evitare giudicati contrastanti e disparità di trattamento nei
confronti
di
imputati
che
si
trovino
nella
stessa
posizione,
ai
fini
dell’accertamento della responsabilità penale, in relazione ad un episodio storico
sostanzialmente unitario. Che la previsione concerna i soli casi nei quali
l’impugnazione investe, sia pure con eventuali e coerenti ricadute civilistiche
(art. 587, comma 3, cod. proc. pen.), il profilo della responsabilità penale deriva
dalla finalità perseguita dal legislatore di garantire la tutela di interessi ritenuti
indisponibili, come dimostrato dal fatto che l’istituto opera, in quanto si traduca
in
un
effetto
oggettivamente
favorevole,
anche contro la
volontà
degli
interessati.
Ne discende che, al di fuori dell’area degli interessi assunti come
85
indisponibili dall’ordinamento, non v’è spazio per l’operatività dell’estensione
dell’impugnazione.
In particolare, con riferimento all’azione civile che si innesti nel processo
penale, va ribadito che la stessa non muta, per tale ragione, la sua natura.
Infatti, tra i rapporti processuali dotati di autonomia e suscettibili di
autonoma decisione rientra sicuramente il rapporto che si innesta nel processo
penale a seguito dell'esercizio dell'azione civile per le restituzioni e per il
risarcimento danni. Si tratta, invero, di un rapporto che conserva una propria e
caratteristica struttura ed indipendenza rispetto a quello, di natura pubblicistica,
che si instaura tra accusa e difesa, come espressione della potestas puniendi.
L'esercizio dell'azione civile è, nel processo penale, solo eventuale ed è legato
alla iniziativa del soggetto danneggiato dal reato che può fa valere le sue pretese
tanto nel processo penale come in un diverso e separato processo civile,
potendo, peraltro, traslare l'azione civile già esercitata nel processo penale
innanzi al giudice civile (art. 75, comma 1, cod. proc. pen.) e sottrarre al
processo penale l'azione civile che in questo sia iniziata o mediante revoca
ovvero mediante la successiva proposizione dell'azione civile innanzi al giudice
civile (si veda, ad es., Sez. 4, n. 12489 del 29/09/2000, Scaglione, Rv. 219234).
Da tale premessa consegue che, laddove uno degli obbligati in solido decida
di non impugnare il capo che riguarda la sua condanna risarcitoria, l’ordinamento
non mira a realizzare una necessaria unitarietà di trattamento con gli altri
obbligati che abbiano scelto di censurare la decisione. Al riguardo, a puro titolo
esemplificativo, si rammenta l’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale
nel giudizio promosso nei confronti di più condebitori in solido, la sentenza loro
favorevole, passata in giudicato soltanto riguardo a taluno di essi per difetto di
impugnazione, non può essere opposta dagli altri per impedire l'esame
dell'impugnazione proposta nei loro confronti, né può essere rilevata dal giudice
ai fini della declaratoria di preclusione dell'impugnazione medesima, non
trovando applicazione l'art. 1306 cod. civ., che riguarda la diversa ipotesi in cui
la sentenza sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori
(Sez. 3, n. 13458 del 29/05/2013, Rv. 626813).
È appena il caso di rilevare che a non diverse conclusioni si giunge anche
confrontandosi con la prospettiva difensiva, secondo la quale, il difetto di
rappresentanza delle parti private diverse dall’imputato comporta una nullità a
regime intermedio, rilevabile anche d’ufficio dal giudice del grado successivo nel
quale si è verificata.
È, infatti, assorbente su ogni altro profilo la considerazione che
che il
giudice non ha l'obbligo di rilevare le nullità d'ordine generale e a regime
intermedio rispetto alle quali la parte interessata sia decaduta dalla facoltà di
86
deduzione (Sez. 6, n. 13402 del 24/03/2011, Di Nardo, Rv. 249912).
9.2. Altra questione di carattere generale prospettata riguarda la portata
della responsabilità solidale degli imputati, in relazione alle questioni di ordine
civilistico.
Ritiene la Corte che la natura autonoma dell’obbligazione civilistica,
derivante dallo specifico illecito che assuma anche rilevanza penale, comporta
necessariamente una lettura dell’art. 187 cod. pen. che si raccordi con la
disciplina, successivamente adottata dal legislatore, dell’art. 2055 cod. civ.
Tale conclusione, sul piano generale condivisa da numerose pronunce di
questa Corte (v., ad es., Sez. 4, n. 16998 del 24/01/2006, Pisanu, Rv. 233832;
Sez. 4, n. 49346 del 27/10/2004, Di Vaira, Rv. 230580; Sez. 4, n. 5728 del
04/12/2001 - dep. 13/02/2002, Taddeo, Rv. 220955; Sez. 4, n. 7970 del
21/04/1988, Loverso, Rv. 178839), comporta la conseguenza che, anche nel
procedimento penale, come nel procedimento civile che potrebbe essere
autonomamente instaurato, operi, a tutela del danneggiato, la regola secondo la
quale tra i corresponsabili di un danno sussiste sempre responsabilità solidale e
paritaria, a nulla rilevando che ciascuno di essi abbia contribuito al verificarsi
dell'evento dannoso finale, rendendosi inadempiente ad obblighi scaturiti da fonti
diverse (v., ad es., nella giurisprudenza civile, Sez. 2, n. 7404 del 11/05/2012,
Rv. 622526).
Né apparirebbe ragionevole una disciplina che sottraesse alla generale
regola della solidarietà proprio le ipotesi di responsabilità derivanti da fatti illeciti
che,
in
quanto
sussumibili
in
fattispecie
penali,
sono
caratterizzati
dall’ordinamento in termini di maggiore disvalore.
In questa prospettiva va intesa anche la giurisprudenza penale che,
nonostante le affermazioni di principio legate alla lettera dell’art. 187 cod. pen. e
al presupposto della condanna per uno stesso reato, finisce per dare rilievo, al
fine di escludere la solidarietà, alla diversità di eventi dannosi (Sez. 2, n. 15285
del 26/03/2010, Pieropan, Rv. 247036).
Ed, infatti, si è puntualmente ritenuto che la previsione di cui all'art. 187,
comma secondo, cod. pen. impone la solidarietà nel caso di condanna di più
soggetti per uno stesso reato, ma non la esclude quando più condotte, sia pure a
titolo diverso, abbiano concorso a cagionare un unico evento dannoso (Sez. 5, n.
18656 del 18/01/2007, Boni, Rv. 236915)
In
conclusione,
deve
ritenersi
che
il
presupposto
unificante
della
responsabilità civile, per evidenti esigenze di coerenza dell’ordinamento e di
parità di trattamento dei danneggiati, deve essere colto nell’unicità dell’evento
dannoso e non nell’unicità del fatto produttivo del pregiudizio.
Indubbiamente, a fronte di tali premesse emerge un’incoerenza nella
87
decisione della Corte territoriale, che ha distinto gli imputati ritenuti responsabili
di fatti di bancarotta semplice rispetto agli altri imputati, ma la questione,
astrattamente rilevante, in quanto muta, per ciascuna categoria di debitori, il
novero dei coobbligati verso i quali esercitare il regresso, non ha costituito
oggetto di specifico motivo di impugnazione.
9.3. Quanto, infine, alla questione concernente la dedotta violazione dell’art.
240 l. fall., sollevata da imputati per i quali la Corte territoriale ha operato la
riqualificazione della condotta contestata nella fattispecie della bancarotta
semplice, rileva la Corte che è certamente esatto che la norma invocata prevede
che i creditori, che intendano far valere un titolo di azione propria personale,
possono costituirsi parte civile, nel procedimento per bancarotta fraudolenta, pur
in presenza, come nella specie, della costituzione di parte civile del commissario
dell’amministrazione straordinaria.
Tuttavia, senza necessità di esaminare funditus le problematiche legate
all’individuazione dei rimedi spettanti ai creditori nel procedimento penale per
bancarotta semplice, è sufficiente considerare che la norma, per finalità di ordine
processuale, disciplina i presupposti della legittimazione individuandoli nella
mera esistenza di un procedimento per bancarotta fraudolenta, rimanendo
indifferente alle successive, eventuali decisioni, concernenti la qualificazione del
fatto.
In effetti, l’art. 240 l. fall. si occupa non dei fatti costitutivi del diritto
risarcitorio, ossia del merito della pretesa, ma dei requisiti che giustificano
l’innesto dell’azione civile nel processo penale, talché, una volta accertata la loro
presenza al momento della costituzione di parte civile, il giudice non può
sottrarsi
alla
decisione
sul
fondamento
delle
domande
risarcitorie
e
di
restituzione, sol perché abbia operato una diversa qualificazione dei fatti.
10. Vengono, ora, in considerazione le ragioni di critica mosse dai ricorrenti
nei rispettivi atti d’impugnazione.
CALISTO TANZI
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.
10.1. In ordine al primo motivo va ricordato che, vertendosi in tema di
bancarotta impropria da reati societari (capo B) e da operazioni dolose (capo C),
ad integrare la struttura del reato sotto il profilo oggettivo è necessario che
ricorra il nesso di causalità fra le condotte vietate e l’evento naturalistico che le
norme incriminatrici individuano nel dissesto e, rispettivamente, nel fallimento;
del pari è necessario, sotto il profilo soggettivo, che – nella prima soltanto delle
due fattispecie criminose indicate, come più oltre si vedrà – l’evento sia previsto
e voluto dall’agente come conseguenza del proprio operare, giusta il disposto
88
dell’art. 43 cod. pen.. A tale risultato ermeneutico si perviene pianamente in
base alla lettura dell’art. 223, comma 2, nn. 1) e 2) della legge fallimentare,
senza
la
necessità
di
ricercare
argomenti
a
sostegno
in
un
arresto
giurisprudenziale (Sez. 5, n. 47502 del 24/09/2012, Corvetta, Rv. 253493) le cui
enunciazioni – peraltro non condivise, come si è dianzi esplicitato al paragrafo
7.6 – si riferiscono alla diversa ipotesi criminosa di cui all’art. 216 legge fall.,
richiamato per la bancarotta impropria dall’art. 223, comma 1, della stessa
legge.
Tanto premesso per doverosa precisazione, va detto che la sentenza qui
impugnata resiste alla censura di carenza argomentativa sotto il profilo or ora
esaminato, rivenendosi nella motivazione un discorso giustificativo immune da
vizi logici e giuridici.
Ed invero, per quanto si riferisce alla problematica inerente al nesso causale,
l’argomento risulta essere stato adeguatamente trattato non soltanto nelle parti
della sentenza menzionate dal ricorrente (pagg. 90-91, pag. 320), dedicate – ora
in via generale, ora in via riepilogativa – ai criteri di accertamento; ma altresì
nella specifica analisi delle singole ipotesi di reato oggetto di contestazione,
avuto anche riguardo alle parti della sentenza riguardante le posizioni dei
coimputati.
È certo, innanzi tutto, che le riunioni di budget, dalle quali scaturiva la
strategia economico-finanziaria del gruppo, abbiano costantemente visto la
presenza del ricorrente: presenza certamente attiva e predominante, dato che la
valutazione del materiale probatorio ha indotto i giudici di merito a vedere in
Calisto Tanzi «il punto finale (se non addirittura esclusivo) di riferimento per
qualsiasi disposizione, impartita sia a Del Soldato e Ferraris, sia a tutti gli altri
funzionari ed amministratori»; e a ritenere, per di più, che «nulla di quanto non
direttamente ideato e disposto da Tanzi si faceva comunque senza sua
autorizzazione»; così da giungere alla conclusione che egli fosse il capo
indiscusso dell’intera galassia associativa diretta attraverso la «cabina di regia»,
e fosse quindi
l’unico a
scegliere personalmente gli
obiettivi
strategici,
nell’esercizio di tutti i poteri ordinari e straordinari in ogni settore della vasta
holding.
Se così è (ed è incontestabile che così sia, siccome accertato in linea di fatto
dalla Corte d’Appello con motivazione immune da vizi logici e giuridici), deve
necessariamente concludersi che tutte le falsificazioni contabili, le operazioni di
dissimulazione della sempre più ingente esposizione debitoria, il meccanismo di
autofinanziamento denominato «giro dei concessionari», i finanziamenti occultati
mediante simulate operazioni di investimento nel capitale, e insomma tutte le
illecite manovre contabili ed operazioni dolose dalle quali ha tratto origine il
89
rovinoso tracollo del gruppo, sono state attuate per volontà di Calisto Tanzi:
onde non è contestabile che la condotta da lui posta in essere, sia pure col
concorso di quanti si sono prestati a tradurre in fatti concreti le sue direttive, sia
collegata al dissesto da un evidente nesso causale, che puntualmente si coglie
nella ricostruzione dei fatti che permea di sé ogni passaggio motivazionale della
sentenza impugnata.
Alla stregua di quanto osservato, non ha ragion d’essere la censura di
carenza motivazionale sul punto in questione.
Per quanto si riferisce all’elemento soggettivo, va ricordato che la norma
incriminatrice di cui all’art. 223, comma 2, n. 2) legge fall., alla luce della
giurisprudenza formatasi in argomento, ad integrare il reato richiede la
sussistenza del dolo (generico) per quanto si riferisce al compimento delle
operazioni, per l’appunto, dolose, causatrici del fallimento; ma relativamente a
quest’ultimo richiede soltanto la astratta prevedibilità (Sez. 5, n. 17690 del
18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a., Rv. 247315). La bancarotta
impropria da reati societari richiede invece, come si è già annotato poc’anzi, la
sussistenza del dolo, il quale tuttavia può essere anche eventuale; per una
migliore puntualizzazione dell’argomento vale la pena di richiamarsi a recente
giurisprudenza, secondo cui «in tema di bancarotta impropria da reato
societario, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non
già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione
della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio
economico. (Fattispecie relativa alla ritenuta configurabilità del reato fallimentare
in relazione a false comunicazioni dirette ad un'azienda di credito per
l'erogazione di maggiore finanza pur accompagnate dalla convinzione della
probabile restituzione)» (Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804).
Sui punti in questione la Corte d’Appello si è esaurientemente soffermata
alle pagg. 321 e seguenti della sentenza impugnata; e le considerazioni ivi svolte
in via generale soddisfano l’obbligo di motivazione anche in riferimento alle
singole imputazioni ascritte al Tanzi, non essendo revocabile in dubbio che
ciascuna delle falsificazioni ed operazioni causatrici del dissesto sia stata posta in
essere dietro direttive da lui impartite con coscienza e volontà; così come è certo
– sempre in base alla ricostruzione dei fatti insindacabilmente recepita dalla
Corte d’Appello – che il dissesto del gruppo fosse non già soltanto prevedibile,
ma certamente previsto sotto il profilo di uno squilibrio economico all’inizio
soltanto
imminente,
ma
reso
nel
prosieguo
attuale
e
progressivamente
accentuato dalle illecite iniziative assunte di volta in volta.
Prima di licenziare il motivo va ricordato, a confutazione della censura
inerente al rigetto delle istanze istruttorie della difesa, che nel giudizio di appello
90
la
rinnovazione
dell'istruzione
dibattimentale
è
evenienza
eccezionale,
subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente
all'insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti pur se le parti non abbiano
provveduto a presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall'art. 468 cod.
proc. pen. (così, da ultimo, Sez. 2, n. 41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv.
256968 v. anche Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009 - dep. 21/04/2010, Pacini, Rv.
246859; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232020); senza
trascurare, per quanto riguarda la perizia, che si tratta di atto istruttorio che, per
il suo carattere «neutro» sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla
discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva:
con la conseguenza per cui il relativo provvedimento di diniego non è
sanzionabile ai sensi dell'art.606 comma primo lett. d) cod. proc. pen., in quanto
giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in
cassazione (Sez. 4, n. 14130 del 22/01/2007, Pastorelli, Rv. 236191; Sez. 4, n.
4981 del 05/12/2003 - dep. 06/02/2004, Ligresti, Rv. 229665).
10.2. Il secondo motivo pone le questioni di giurisdizione e individuazione
della legge applicabile che sono già state trattate al paragrafo 2 e relative
partizioni; onde null’altro vi è da aggiungere a quanto ivi osservato.
10.3. Analogo rilievo è a farsi per il terzo motivo, che solleva l’eccezione di
violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. sulle quali ci si è già soffermati al
paragrafo 5.
10.4. Nel quarto motivo risiede la parziale fondatezza del ricorso, che
impone un altrettanto parziale annullamento della sentenza impugnata.
Il delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416, comma primo,
cod. pen. prevede, per i promotori e organizzatori del sodalizio criminoso, la
pena della reclusione da tre a sette anni. Ne consegue che, in base all’art. 157
cod. pen. – nel testo, più favorevole all’imputato, risultante dalla modifica
apportata dall’art. 6, comma 1, l. 5 dicembre 2004, n.251 – il termine
prescrizionale ordinario è della durata di sette anni, prorogabile fino al massimo
di un quarto (dunque fino a un totale di otto anni e nove mesi) per effetto degli
atti interruttivi; ciò comporta che, stante la decorrenza dal dicembre 2003, data
di cessazione della permanenza del reato, la datazione dell’evento estintivo va
collocata al giorno 1 settembre 2012, posteriore alla sentenza di secondo grado,
ma anteriore alla data corrente.
Non ricorrendo le condizioni per una pronuncia liberatoria ex art. 129,
comma 2, cod. proc. pen., in quanto le restanti ragioni di critica sviluppate nel
motivo non sono immediatamente ed evidentemente demolitrici dell’ipotesi
accusatoria motivatamente recepita dai giudici di merito, la sentenza deve
essere
annullata
in
parte
qua,
senza
91
rinvio,
per
la
ragione
anzidetta.
Conseguentemente va eliminato l’aumento di pena inflitto al Tanzi a titolo di
continuazione per il reato associativo medio tempore estinto, pari a cinque mesi
di reclusione.
10.5. Il quinto motivo è manifestamente infondato. Con esso il ricorrente
lamenta che sia rimasto privo di confutazione il motivo di appello da lui dedotto a
contrastare l’affermazione di responsabilità in ordine al capo G, riguardante la
bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione all’insolvenza della società
Boschi Luigi e Figli s.p.a.; di contro, alla lettura della sentenza impugnata
emerge che l’argomento è stato espressamente ed esaurientemente trattato
dalla Corte d’Appello alle pagine 330 e 331, ove ha anche ricevuto puntuale
risposta
confutativa
produttive
della
l’argomento
società
difensivo
detentrice
del
imperniato
marchio
sulle
«Pomì»,
potenzialità
in
un’ottica
assertivamente di gruppo: potenzialità immediatamente frustrate (lo rileva la
Corte d’Appello) dalla rilevante distrazione operata in suo danno e dalla
dichiarazione di fallimento (rectius, dello stato d’insolvenza) seguita a distanza di
pochi mesi.
10.6. Il sesto motivo è inammissibile per quanto di seguito esposto.
Il ricorrente denuncia violazione dell’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. per
avere la Corte d’Appello disatteso l’istanza di escussione in veste di testimoni di
tutte le parti civili costituite; e si richiama, in proposito, a un arresto
giurisprudenziale che riconduce all’invocata disposizione normativa l’assunzione
di prove delle quali sia stata irragionevolmente negata l’ammissione in primo
grado. Senonché, prima ancora di verificare la condivisibilità di un tale
inquadramento normativo, va rilevato che l’eventuale suo accoglimento non
potrebbe dar luogo ad una pronuncia di annullamento ex art. 606, comma 1,
lett. c), cod. proc. pen., non vertendosi in un’ipotesi di inosservanza di norme
processuali
stabilite
a
pena
di
nullità,
inutilizzabilità,
inammissibilità
o
decadenza; conseguentemente il fondamento della censura sarebbe da verificare
sotto il profilo di cui alla lettera d) dello stesso articolo, il cui disposto tuttavia
richiede che la prova della quale si lamenta la mancata acquisizione abbia
carattere decisivo; e in questa sede non può riconoscersi alcuna decisività
all’indagine sul quantum della pretesa risarcitoria azionata dalle parti civili, così
come sull’esistenza stessa del danno (bastando l'accertamento della potenziale
capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra
tale fatto e il pregiudizio lamentato: Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta,
Rv. 257551), dato che la liquidazione del danno è stata rimessa al giudice civile.
Al di là di tale dato, anche ove destinata a sorreggere una linea difensiva
orientata ai fini penali, la prova richiesta presenta un carattere esplorativo
incompatibile col requisito di specificità del mezzo d’impugnazione, che comporta
92
l’onere di precisare le circostanze fattuali da provarsi col mezzo istruttorio
proposto e di spiegare in che modo da esse discenderebbero conseguenze
determinanti per l’esito del processo.
10.7. Il settimo motivo sintetizza nella sua intestazione tre ordini di censure,
riguardanti il diniego delle attenuanti generiche, la concreta determinazione della
pena e il rigetto della richiesta di «patteggiamento» ex art. 444 cod. proc. pen..
Nella
successiva
illustrazione
del
motivo,
tuttavia,
sono
esposte
ragioni
riconducibili alla sola quantificazione della pena base, stabilita in dieci anni di
reclusione, e cioè nel massimo edittale previsto per il più grave reato di cui al
capo B (bancarotta impropria da reati societari). Ne consegue che le restanti
doglianze non sono da prendere in considerazione, stante l’omessa specificazione
delle corrispondenti ragioni di critica.
Per quanto si riferisce alla modulazione della pena base, attesa la
discrezionalità riconosciuta in proposito dalla legge al giudice di merito, non vi è
che da verificare la congruità della motivazione, alla luce del principio
giurisprudenziale – infatti invocato dal ricorrente – secondo cui il giudice tanto
più deve rendere conto della propria determinazione, quanto più intenda
discordarsi dal minimo edittale (oltre a Sez. 6, n. 2925 del 18/11/1999 - dep.
09/03/2000, Baragiani, Rv. 217333, v. anche le più recenti Sez. 1, n. 24213 del
13/03/2013, Pacchiarotti, Rv. 255825; Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013,
Pasquali, Rv. 258356).
La Corte d’Appello di Bologna ha motivato la propria statuizione valorizzando
la posizione di primaria rilevanza assunta e conservata dal Tanzi quale «patron»
di Parmalat; la gravità delle decisioni da lui assunte, talvolta contro il parere dei
più stretti collaboratori; l’atteggiamento gestorio fortemente accentratore e
padronale assunto in tutti i settori del gruppo, ivi compreso quello turistico,
peraltro subito rilevatosi come una zavorra e quindi utile esclusivamente a
favorire il drenaggio di denaro verso la famiglia Tanzi; il rifiuto opposto
all’afflusso dall’estero di nuovi capitali, che avrebbero potuto salvare il gruppo ed
i risparmi degli investitori privati e non, ma che avrebbero privato Calisto Tanzi
del suo potere assoluto. Su tali considerazioni il giudice di merito ha fondato la
valutazione di estrema gravità dei fatti e di pervicacia criminale dell’imputato,
«in una con l’epocale ampiezza ed entità dei danni cagionati ai piccoli investitori
dei quali veniva reiteratamente carpita la buona fede con comunicazioni sociali
tutte certamente attribuibili a Calisto Tanzi, ed artatamente finalizzate proprio a
protrarre la frode, aggravandone le conseguenze, e ad appropriarsi di ulteriori
finanziamenti provenienti dal privato per occultare la voragine finanziaria creata
nel corso degli anni».
Della motivazione così addotta non può negarsi l’attitudine a dar conto
93
adeguatamente delle ragioni della decisione, rinvenendosi in essa un’ampia
analisi degli elementi di valutazione della gravità del fatto e della personalità
dell’imputato, alla stregua dei canoni dettati dall’art. 133 cod. pen.. Né giova al
ricorrente elencare una serie di elementi (dall’età avanzata all’incensuratezza,
dal comportamento processuale al concorso di terzi nei reati) dei quali, a suo
avviso, il giudice di appello non avrebbe tenuto conto nella determinazione della
pena; non è infatti necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il
giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133
c.p., essendo invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che, nel
discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo (v. Sez. 1, n.
3155 del 25/09/2013 - dep. 23/01/2014, Waychey, Rv. 258410; Sez. 3, n. 6641
del 17/11/2009 - dep. 18/02/2010, Miranda, Rv. 246184).
Da ultimo mette conto di rimarcare l’irrilevanza del fatto che il giudice di
primo grado abbia erratamente creduto di applicare una pena prossima al
massimo edittale, anziché coincidente con esso: indipendentemente da tale
errata opinione, è evidente che il Tribunale ha ritenuto giusta ed equa la pena
applicata, e non altra di minore entità; tale giudizio è stato poi confermato dalla
Corte d’Appello, alla quale non è certamente addebitabile il medesimo errore
prospettico.
11. FAUSTO TONNA
Anche questo ricorso presenta elementi di fondatezza che comportano il
parziale annullamento della sentenza impugnata.
11.1. Non così il primo, complesso, motivo col quale il ricorrente impugna
l’affermazione di propria responsabilità per i reati di cui ai capi E.3.1, C.6.3, E.6,
T, D.4, C.7.6, C.9, F.6, D.27, adducendo di non aver mai assunto cariche formali
nelle relative società o di averle, comunque, dismesse nel marzo 2003.
Orbene, quanto alla prima di dette imputazioni, nella sentenza di appello
l’assunto difensivo è confutato alla pag. 353, ove si annota che il bonifico di 21,1
milioni di dollari – nel quale si è concretata la distrazione in favore di Luca Sala –
è stato, bensì, sottoscritto da Luciano Del Soldato il 18 luglio 2003; ma che si è
trattato dell’esito consequenziale del fittizio aumento di capitale di Parmalat
Brasile effettuato nel 1999, quando il Tonna era formalmente e sostanzialmente
managing director di PFC, nonché componente del consiglio di amministrazione
di Parmalat Capital Finance, oltre che responsabile finanziario di Par.fin e
Parmalat: donde la sussistenza di un decisivo contributo causale da parte
dell’odierno ricorrente, fonte di responsabilità a titolo di concorso nel reato. Né
l’aver rilevato che il Tonna non si sia comunque attivato per impedire
l’erogazione importa immutazione del fatto, atteso che tale rilievo ha svolto nel
94
tessuto
argomentativo
la
sola
funzione
di
evidenziare
la
configurabilità
dell’elemento soggettivo del reato.
Quanto ai capi C.6.3 ed E.6, va detto che la Corte d’Appello non ha
trascurato di considerare che il Tonna si era dimesso dalla carica di C.F.O. (Chief
Financial Officer) nel marzo 2003; ma ha nel contempo rilevato (pagg. 354 e
355) che la sua permanenza nel consiglio di amministrazione della Parmalat
s.p.a. e della Parmalat Finanziaria s.p.a. (nonché nel comitato di controllo di
quest’ultima) fino al default lo rendeva responsabile del reato al pari di ogni altro
amministratore non esecutivo, a maggior ragione per la piena consapevolezza
dell’illiceità delle operazioni in questione, che rendeva configurabile il dolo
diretto, e non meramente eventuale, privando di rilevanza ogni valutazione circa
l’idoneità del «segnali d’allarme»: consapevolezza che la Corte di merito ha
tratto dalle spiegazioni fornite dalla stesso Tonna nei suoi interrogatori, con
valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità.
La medesima linea difensiva è, altresì, motivatamente contrastata in
rapporto ai restanti reati ai quali il motivo di ricorso in esame si riferisce: sul
capo C.7.6 la Corte d’Appello rileva, a pag. 355, che l’estraneità dell’appellante
alla
governance
della
Compagnia
Finanziaria
Alimenti
non
è
conferente
considerato, per un verso, che detta società era partecipata per oltre il 90% da
Parmalat s.p.a., in cui egli era sicuramente presente e già all’epoca responsabile
effettivo, e per altro verso che lo stesso finanziamento era stato poi utilizzato
dalla stessa sub-holding operativa e rimborsato con la vendita di azioni
privilegiate di Parmalat Netherland BV in forza di un put option agreement
siglato proprio dal Tonna. Sui capi C.9 ed F.6, relativi al cd. «sistema Wishaw
Trading» la sentenza si sofferma alla pag. 355, valorizzando una volta di più le
dichiarazioni del Tonna, dimostrative di una perfetta conoscenza dei modi in cui
veniva
operato
l’illecito
finanziamento
delle
società
sudamericane,
coerentemente del resto con la sua partecipazione alle «riunioni di budget», in
cui era il principale referente per le perdite di settore e regionali, nonché per le
sistemazioni dei bilanci; per di più egli amministrava – o comunque dirigeva – le
società
dalle
quali
proveniva
la
liquidità
necessaria
per
procedere
al
finanziamento col sistema wishaw trading. Del capo D.27 la sentenza tratta alle
pagg. 356-357, sviluppando analoghe considerazioni in base al ruolo rivestito dal
Tonna nella Parmalat s.p.a. e all’accertato uso, nelle operazioni distrattive, del
«conto valori bollati» che costituiva uno degli strumenti ordinari dei prelievi
indebiti effettuati da Calisto Tanzi. Il capo T è trattato alla pag. 365, ove si
osserva che, sebbene il Tonna non rivestisse cariche all’interno della Finaliment
s.r.l., nondimeno era partecipe in via di fatto della gestione delle società «di
famiglia», caratterizzata per tutte dal ricorso a meccanismi distrattivi e
95
falsificatori; e si rileva, altresì, che la Finaliment s.p.a. era controllata dalla
S.a.t.a. s.r.l., della quale lo stesso Tonna era amministratore unico. Le stesse
considerazioni possono valere per quanto concernente il reato di cui al capo D.4,
che nella sentenza è preso in considerazione alla pag. 362 unitamente agli altri
illeciti rubricati sub D.
Quanto suesposto dà conto della completezza della motivazione resa dalla
Corte territoriale, in relazione alle imputazioni fin qui viste: donde l’infondatezza
della censura di carenza motivazionale per omessa confutazione delle ragioni
esposte nell’atto di appello. Inoltre, attesa la piena conformità ai canoni logicogiuridici delle argomentazioni così svolte, non possono trovare accesso nel
giudizio di cassazione le ulteriori critiche svolte nel ricorso, nella parte in cui
s’indirizzano a contrastarle sotto il profilo della condivisibilità, che attiene
esclusivamente al merito.
11.2. Deduzioni difensive in parte analoghe a quelle già viste sono spese dal
Tonna nel secondo motivo, volto a impugnare la condanna per i reati di cui ai
capi A, B e C. Lamenta infatti il ricorrente che, per un verso, non si sia data
risposta al motivo di appello con cui aveva sottoposto all’attenzione del giudice il
dissenso da lui manifestato in più occasioni nei confronti delle operazioni
censurate come dolose, segnalando che invece le iniziative da lui condivise
avevano riguardato molteplici acquisizioni proficue; per altro verso insiste nel
negare ogni propria responsabilità per i fatti successivi alle dimissioni da lui rese
nel marzo 2003, denunciando come illegittima la riqualificazione della sua
condotta in chiave omissiva.
Innanzi tutto corre l’obbligo di rilevare che, come si è già visto trattando la
posizione di Calisto Tanzi, per il reato di associazione per delinquere contestato
al capo A è maturato da tempo il termine prescrizionale massimo di otto anni e
nove mesi, decorso a far tempo dalla cessazione della permanenza, fissata al
dicembre 2003. Non essendo dato cogliere nel ricorso ragioni che inducano a un
giudizio di evidente infondatezza dell’ipotesi accusatoria, la sentenza deve essere
annullata senza rinvio nella parte riguardante la condanna per tale reato, con
eliminazione del corrispondente aumento di pena per continuazione, pari a
cinque mesi di reclusione.
Per il resto la disamina del motivo qui scrutinato conduce a un giudizio di
infondatezza.
Le argomentazioni difensive con le quali il deducente rivendica la bontà delle
acquisizioni da lui approvate, e respinge per le altre ogni addebito a suo carico,
sono manifestamente orientate a contrapporsi a un’accusa – in realtà insussistente – apparsagli polarizzata sulla politica imprenditoriale di «internazionalizzazione» perseguita dal gruppo. Di contro il giudizio di responsabilità penale si
96
è fondato, quanto alle molteplici fattispecie rubricate sub B, sulle falsificazioni
delle scritture contabili e dei bilanci – civilistici e consolidati – finalizzate a
dissimulare la situazione finanziaria effettiva; e, quanto alle fattispecie rubricate
sub C, sull’uso spregiudicato di strumenti negoziali volti a occultare, attraverso la
stipulazione di onerosi finanziamenti, talora fittiziamente strutturati come
aumenti di capitale, il crescente indebitamento di varie società facenti parte del
gruppo e di quest’ultimo nel suo insieme: onde le operazioni dolose punite ex
art. 223, comma 2, n. 2) legge fall. non hanno riguardato le scelte
imprenditoriali originarie, ma i rimedi utilizzati per nascondere le conseguenze di
esse. Il fatto, poi, che la Corte d’Appello in vari passaggi motivazionali imperniati
sulla ricostruzione della vicenda abbia qualificato «dissennate» talune di tali
scelte imprenditoriali (così come, del resto, le distrazioni e le dissipazioni
contestate in altri capi della nutrita imputazione) ha dato corpo a una mera
valutazione metagiuridica, di neutra valenza ai fini del giudizio penale.
La prova della partecipazione fattiva e concreta del Tonna a tali illecite
attività – anche nell’occultare operazioni alle quali si era inizialmente opposto – è
stata colta dalla Corte d’Appello nel complesso del materiale istruttorio acquisito,
fra cui le dichiarazioni dello stesso imputato («sono stato io a studiare e creare
gli strumenti tecnici illeciti e fraudolenti che abbiamo utilizzato per mascherare la
situazione»: pag. 345 della sentenza, nota 570).
Circa
l’ascrivibilità
all’odierno
ricorrente
di
illeciti
posti
in
essere
successivamente alle sue dimissioni del marzo 2003, si è già osservato dianzi
che la Corte di merito ha conferito significativo rilievo alla di lui permanenza nel
consiglio di amministrazione della Parmalat s.p.a. e della Parmalat Finanziaria
s.p.a.; aggiungasi che nella sentenza è fatto anche cenno (nella nota 575 a pag.
350) alla deposizione del teste Franco Gorreri, responsabile dei servizi di
tesoreria della Parmalat s.p.a., e alla sensazione da lui tratta che il Tonna, pur
dopo le dimissioni, non fosse un semplice consulente del Tanzi, ma avesse
mantenuto intatte le sue prerogative di potere, anche gerarchico.
Il tentativo del ricorrente di contrapporre all’accertamento in fatto, cui la
Corte di merito ha acceduto, una ricostruzione alternativa basata sulla
rivisitazione dei mezzi di prova si traduce nella proposizione di un motivo di
ricorso non consentito, in quanto esulante dal novero di quelli contemplati
dall’art. 606 cod. proc. pen..
La censura con cui il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello, nel riferirsi
all’epoca successiva alle dimissioni, abbia pregiudicato il diritto alla difesa
sostituendo alla condotta commissiva oggetto d’imputazione quella omissiva
ritenuta in secondo grado, è priva di fondamento, innanzi tutto, in astratto;
valga in proposito richiamarsi al principio giurisprudenziale già enunciato da
97
questa Corte Suprema, secondo cui «non viola il principio di correlazione tra
accusa e sentenza, previsto dall'art. 521 cod. proc. pen., la decisione con la
quale l'imputato sia condannato per il reato di bancarotta fraudolenta per essere
rimasto colpevolmente inerte di fronte alla condotta illecita dell'amministratore di
fatto, in applicazione dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., anziché per la
condotta assunta direttamente nella veste di amministratore formale, purché
rimanga immutata l'azione distrattiva, nei suoi profili soggettivi ed oggettivi,
considerato che non si determina un'apprezzabile modifica del titolo di
responsabilità» (così Sez. 5, n. 25432 del 11/04/2012, De Mitri, Rv. 252991; v.
anche Sez. 5, n. 39329 del 20/09/2007, Gili, Rv. 238210). Il principio così
enunciato, per quanto riferito in concreto a una fattispecie in cui la condotta
illecita era materialmente ascritta all’amministratore di fatto, vale indubbiamente
per ogni altra analoga ipotesi di concorso nel reato.
In secondo luogo la doglianza è infondata in concreto. Già si è rimarcato
dianzi
che
la
sentenza
impugnata
rimprovera
al
Tonna
una
condotta
scientemente commissiva anche in ordine ai fatti posteriori alle dimissioni, stante
la sua costante permanenza di fatto in una posizione apicale nella gestione del
gruppo (ne è riprova quanto affermato nella stessa pag. 352, poche righe prima
di quelle citate dal ricorrente a sostegno del proprio assunto); e si è osservato,
altresì, che l’avere la Corte fatto menzione dell’inerzia mostrata dal Tonna
nell’omettere qualsiasi impedimento alla consumazione della bancarotta per
distrazione ivi trattata (pag. 354 della sentenza: giacché l’argomento non è stato
utilizzato in via generale dalla Corte di merito che, lo si ripete, ha invece
imputato in via generale al Tonna una condotta attiva) ha svolto in quel caso la
sola funzione di evidenziare l’elemento soggettivo del reato.
L’assunto difensivo con cui il ricorrente sostiene che, per l’extraneus, nel
reato commesso da altri l’elemento soggettivo debba coprire il dissesto della
società, tende a poggiare sulla tesi giuridica fatta propria dall’isolata sentenza n.
47502 in data 24/09/2012 di questa stessa sezione, le cui argomentazioni sono
già state diffusamente contrastate al precedente paragrafo 7 e relative partizioni.
11.3. Il terzo motivo ripropone la censura inerente alla riqualificazione della
condotta del Tonna da commissiva in omissiva, prospettandola sotto il profilo
della violazione dell’art. 521 cod. proc. pen.. Sul punto si è già argomentato nel
paragrafo che precede, per cui nulla vi è da aggiungere in tema.
11.4. Il quarto motivo impugna la pronuncia di condanna per i reati di cui ai
capi C.3, E.2.2 e C.4: i primi due riguardanti l’aumento di capitale della Parmalat
Finanziaria s.p.a. e la correlata distrazione ai danni della Parmalat Finance
Corporation BV, mentre il terzo riguarda un contratto di finanziamento stipulato
dalla Parmalat s.p.a. con la Banca di Roma e la Citibank.
98
La censura che informa il motivo, rimproverando alla Corte d’Appello di aver
dato insoddisfacente ed illogica risposta ai motivi di gravame diffusamente
illustrati nell’atto di appello e riduttivamente condensati nella sentenza qui
impugnata, non merita accoglimento.
Per quanto riguarda i primi due reati, la Corte territoriale ha giustificato il
proprio deliberato, confermativo di quello del Tribunale, rilevando in primis
l’infondatezza del principale rilievo difensivo, secondo cui non sarebbe stato
esplicitato il ruolo svolto dal Tonna nella vicenda cui l’imputazione si riferisce; a
tal fine ha sottolineato che egli rivestiva all’epoca le qualità di consigliere
esecutivo (e C.F.O. sostanziale) di Par.fin, Managing Director di P.F.C.,
presidente del consiglio di amministrazione di Coloniale, amministratore unico di
S.a.t.a. e di Agis, nonché di Bonlat: società tutte coinvolte nella complessa
operazione distrattiva. Ha aggiunto che in tali molteplici vesti, tutte essenziali
alla conclusione dell’affare come ammesso dallo stesso imputato, fu Tonna ad
occuparsi di reperire il finanziamento necessario per far fronte all’aumento di
capitale di 400 miliardi di Par.fin e a sottoscrivere il relativo contratto con UBS,
oltre che a soprintendere e seguire personalmente tutte le operazioni di transito
di denaro e di giro di crediti dall’una all’altra delle società, per consentire alla
famiglia Tanzi di conservare il controllo di Par.fin. Su tali presupposti fattuali ha
ritenuto
più
che
giustificata
l’attribuzione
al
Tonna
dell’operazione
in
contestazione, avuto riguardo all’oggettività dei fatti accertati e agli incarichi da
lui ricoperti; mentre, a suo avviso, la riferibilità delle azioni depositate presso
UBS a garanzia del finanziamento, la confusione tra lire ed euro in cui era
incorso il Tribunale e il refuso che aveva portato ad aggiungere un «Capital» nel
nome di PFC non avevano minimamente eliso l’effettività o la natura dolosa
dell’operazione, né la lesività della stessa.
Con ciò resta soddisfatto l’obbligo di motivazione, costituendo un principio
consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello per cui il giudice del
gravame non è tenuto a prendere in esame ogni singola argomentazione svolta
nei motivi d’impugnazione, ma deve soltanto esporre, con ragionamento corretto
sotto il profilo logico-giuridico, i motivi per i quali perviene a una decisione
difforme rispetto alla tesi dell’impugnante, rimanendo implicitamente non
condivise, e perciò disattese, le argomentazioni incompatibili con il complessivo
tessuto motivazionale (Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900;
Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149/06 del
24/10/2005, Mirabilia, Rv. 233187).
Per
quanto
riguarda
il
terzo
reato,
sono
da
farsi
considerazioni
sostanzialmente analoghe. La motivazione della Corte d’Appello, dopo un
rimprovero mosso all’imputato appellante di non aver illustrato, né dimostrato, i
99
benefici fiscali che sarebbero derivati a suo dire dall’operazione, osserva che
questa si è tradotta in buona misura in «un finanziamento a se stessa della
società finanziata»; e ciò in quanto, non riuscendosi a collocare interamente un
prestito obbligazionario di 150 miliardi di lire appositamente studiato per
consentire a Parmalat il rientro richiesto da alcuni istituti bancari, era stata
Parmalat Luxembourg – ricevuto il denaro da Parmalat Spa stessa e da Parmalat
Netherland – a sottoscrivere il finanziamento per la cifra di 63 miliardi di lire non
ancora coperti; con la conseguenza che, nonostante il mancato ingresso del
denaro
fresco
auspicato,
Parmalat
si
era
trovata
comunque
a
dover
corrispondere alle banche commissioni di notevole importanza, relative alla cifra
intera del finanziamento, sebbene il gruppo ne avesse di fatto ricevuto
esclusivamente la metà.
Anche in relazione all’argomento suesposto l’obbligo di motivare risulta
essere stato osservato dal giudice di appello, attraverso l’esposizione di
argomenti del tutto incompatibili con l’accoglimento delle ragioni dedotte dalla
difesa.
11.5. Il quinto motivo, volto a impugnare la condanna per i reati di cui ai
capi C.5, C.7.2, D.35, E.3 ed F.11, nell’esporre le censure mosse alla
motivazione della sentenza di appello pecca per mancanza di specificità. Ed
invero, a parte la denuncia di contraddittorietà nella collocazione temporale del
bonifico effettuato da Del Soldato in esito alla operazione CUR Holding (della
quale peraltro non si specificano le ricadute sulla tenuta logica della motivazione,
che sul punto ha mostrato di conferire invece decisivo rilievo all’epoca del fittizio
aumento di capitale di Parmalat Brasile, risalente al 1999), il ricorrente si limita
per il resto a criticare la linea argomentativa della sentenza per insufficienza,
illogicità e genericità, senza tuttavia precisare quali contenuti avrebbe dovuto
avere la motivazione per sottrarsi a quelle critiche.
11.6. Il sesto motivo investe l’affermazione di responsabilità del Tonna in
relazione alla vicenda riguardante la c.d. operazione CSFB (Credit Suisse First
Boston). Lamenta il ricorrente che la Corte di merito abbia imperniato la propria
motivazione sull’assunto secondo cui la difesa non avrebbe minimamente
contestato la ricostruzione dei fatti, mentre al contrario nei motivi di appello ci si
era sforzati di dimostrare che l’operazione era conveniente, ricorrendo ad
argomenti non presi in considerazione dal collegio giudicante.
La doglianza non ha fondamento. Il rilievo della Corte d’Appello circa
l’atteggiamento di non contestazione assunto dalla difesa è dichiaratamente
circoscritto alla «meccanica delle operazioni che conducevano infine nel dicembre
2001 CSFB a sottoscrivere il prestito obbligazionario (convertibile in azioni) di
500 milioni di euro emesso da parte di Parmalat Brasile, e quindi a cedere a
100
Parmalat
i
diritti
di
conversione
delle
obbligazioni
sottoscritte»;
nonché
all’emissione di un ulteriore prestito obbligazionario di 250 milioni di euro –
sottoscritto tra gli altri dalla stessa CSFB – per ottenere la provvista necessaria
al pagamento dei diritti di conversione.
La linea difensiva volta a sostenere la convenienza dell’operazione nel suo
complesso è stata tenuta ben presente dal giudice di appello, che alla pagina 360
della sentenza ha dedicato alla sua confutazione una serie di considerazioni
basate, in gran parte, sui risultati della consulenza tecnica disposta dal P.M.:
considerazioni la cui linearità logica non è scalfita dalla reiterazione, in questa
sede, degli argomenti di segno contrario portati dalla difesa.
11.7. Ancora carenze motivazionali, per omessa confutazione dei motivi di
appello, denuncia il ricorrente col suo settimo motivo, dedicato alle imputazioni
(C.8 e O) riguardanti il c.d. «giro delle concessionarie». La Corte distrettuale
avrebbe omesso di rispondere a un complesso di argomentazioni difensive,
ulteriormente sviluppate in una memoria, limitandosi a giustificare la conferma
della condanna del Tonna in base a una pretesa illogicità della sua eventuale
estromissione dal giro delle concessionarie, alla stregua del ruolo da lui rivestito.
Lamenta,
altresì,
il
ricorrente
che
gli
si
siano
attribuite
dichiarazioni
sostanzialmente confessorie, senza neppure indicare la sede in cui sarebbero
state pronunciate.
La censura è manifestamente infondata in ambedue le sue articolazioni.
Le ragioni sulle quali la Corte d’Appello ha fondato il proprio convincimento
sono esplicitamente indicate nel relativo passaggio motivazionale a pag. 361
della sentenza: ivi l’argomento di carattere logico stigmatizzato dal ricorrente è
utilizzato
soltanto
ad
abundantiam,
dato
che
il
diretto
e
personale
coinvolgimento del Tonna è considerato provato da ben altre risultanze, quali le
dichiarazioni
di
Pessina,
Pedraneschi,
Ansalone
e
le
ammissioni
stesse
dell’imputato. In ordine a queste ultime va detto che la sentenza non soltanto
cita l’udienza in cui sono state rese, ma ne riproduce il contenuto testuale,
evidenziando in grassetto le frasi che valgono a dimostrare la parte attiva svolta
dal dichiarante nella vicenda: tutto ciò nella nota 594 a pag. 361.
11.8. Analoghe considerazioni sono da farsi in ordine al capo della sentenza
riguardante le imputazioni di cui ai capi C.8.3, D.31.1, C.9 ed F.6, sulle quali
s’incentra l’ottavo motivo. Anche per tale riguardo risultano valorizzate le
dichiarazioni confessorie rese dal Tonna, specificandosi l’udienza nella quale sono
state rese e riportandone il contenuto nella nota 596 a pag. 362 della sentenza.
Su tale corposo presupposto probatorio la motivazione fonda la conclusione che
le doglianze espresse nell’atto di appello siano confutate dalle dichiarazioni dello
stesso Tonna, fra l’altro confermate dal Pessina e dagli accertamenti della
101
Guardia di Finanza: così da potersi concludere che «l’operazione così effettuata
veniva in buona sostanza a consentire […] un finanziamento (fraudolentemente
mascherato) di almeno 519 milioni di euro al gruppo, tramite una apparente
cartolarizzazione di crediti affatto inesistenti, per effettuare il quale, peraltro,
Citibank pretendeva ed otteneva 16.622.415 euro per commissioni».
Manifestamente infondata, pertanto, è la censura di carenza motivazionale.
11.9. Ancora carenza e, comunque, illogicità della motivazione il ricorrente
deduce col nono motivo, relativamente al capo della sentenza che si occupa dei
reati di bancarotta fraudolenta per distrazione contestati ai capi D, E ed F
dell’imputazione.
Anche questa censura è priva di fondamento.
In effetti la Corte d’Appello ha motivato il proprio convincimento circa la
colpevolezza
del
Tonna,
pur
senza
trascurare
le
allegazioni
difensive
dell’imputato, valorizzando la di lui posizione apicale all’interno del gruppo, quale
principale (se non unico) referente di Calisto Tanzi; e ha rilevato come egli si
fosse reso comprovatamente partecipe di tutte le deliberazioni illecitamente
adottate, o con una condotta attiva, o comunque attraverso una compiacente e
consapevole inerzia. D’altra parte, si legge ancora nella sentenza impugnata,
pressoché tutte le distrazioni vennero accertate dalla Guardia di Finanza grazie al
fattivo ausilio del Tonna, il quale non si limitò a ricostruire attraverso la lettura
dei libri contabili e delle schede di mastro i flussi di denaro e le operazioni
correlate, ma ne diede anche la chiave di lettura e indicò i particolari tecnici ed
esecutivi: il che non gli sarebbe stato evidentemente possibile senza la
cognizione dei fatti fin dall’epoca della loro commissione, «laddove egli non
riferiva affatto le proprie conoscenze a dichiarazioni di terze persone, bensì alla
propria esperienza diretta e personale» (sentenza, pag. 363): conoscenza che,
del resto, egli aveva esplicitamente ammesso nei propri interrogatori.
Della
linea
argomentativa
così
sviluppata
il
ricorrente
denuncia
genericamente l’illogicità, senza tuttavia segnalare in concreto, nel testo del
provvedimento, alcuna effettiva caduta di consequenzialità. Le critiche mosse ne
investono, piuttosto, la discussa aderenza ai dati processuali; ma ciò si traduce
in una prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta motivatamente
propria dal giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di
cassazione.
Neppure giova al ricorrente rinnovare l’eccezione di inosservanza del
principio di correlazione fra contestazione e condanna, sotto il profilo della
ritenuta
intercambiabilità
fra
condotta
commissiva
e
omissiva
nei
reati
fallimentari: sul punto si è già argomentato nel precedente paragrafo 11.2, cui
qui si rinvia.
102
Da ultimo mette conto di rimarcare l’irrilevanza del fatto, sul quale pure il
ricorrente insiste nell’illustrazione del motivo, che i benefici delle distrazioni siano
andati a favore di altri soggetti (principalmente il Tanzi e la sua famiglia). Ed
invero, come esattamente osservato dalla Corte territoriale, anche a prescindere
dal fatto che il Tonna abbia lucrato in prima persona sugli sconti Tetrapak e sui
bonifici conseguiti alla costituzione del fondo Epicurum, resta comunque valida la
considerazione giuridica per cui anche la distrazione operata a beneficio di terzi
integra pur sempre il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
11.10. Il decimo motivo impugna la condanna pronunciata a carico del
Tonna per le bancarotte delle «società minori», sottoponendo a distinta disamina
le imputazioni di cui ai capi P, R, S e T.
Quanto al primo, riguardante le distrazioni in danno della società Coloniale
s.p.a., la critica rivolta alla Corte d’Appello riguarda la menzione di quanto
dichiarato da Biagio Bailo, a riprova del coinvolgimento del Tonna: secondo il
ricorrente la citazione fattane in sentenza sarebbe soltanto parziale, in quanto in
altri passaggi delle dichiarazioni rese dal Bailo si troverebbero elementi
favorevoli all’assunto della difesa. A confutazione della doglianza valga ricordare
che, nel giudizio di cassazione, non è consentita la rivisitazione del materiale
probatorio; e che il testo novellato dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc.
pen. consente soltanto di dedurre, quale vizio di motivazione, il rapporto di
contraddizione esterno al testo della sentenza riconducibile a quella forma di
errore revocatorio sul significante, che viene abitualmente definita «travisamento
della prova»: errore revocatorio che qui non ricorre, vertendosi piuttosto in un
caso di contrastata interpretazione del significato complessivo della prova
dichiarativa.
Quanto al capo R, la motivazione addotta dalla Corte d’Appello – basata su
ammissioni dello stesso imputato, confermate dalla deposizione dell’esecutore
materiale dei falsi, Fabio Branchi, è contrastata dal ricorrente con argomenti che,
lungi dall’additare illogicità argomentative, tendono piuttosto a sostenere la non
condivisibilità della decisione adottata: il che appartiene al giudizio di merito e
non può essere oggetto di censura nel giudizio di cassazione. Neppure sussiste il
vizio lamentato sotto altro profilo, riguardante l’omessa pronuncia assolutoria
dall’imputazione sub R bis) b, essendo del tutto giustificato il rilievo per cui la
relativa accusa era meramente alternativa rispetto a quella formulata alla lettera
a: e ciò in quanto l’alternatività è insita nella stessa formulazione testuale della
norma incriminatrice (art. 216, comma 1, n. 2 legge fall., richiamato dal primo
comma del successivo art. 223).
Quanto al capo S, valgono considerazioni analoghe a quelle or ora svolte,
avendo la sentenza impugnata trattato il tema congiuntamente a quello
103
riguardante il capo R: né può fondatamente lamentarsi una mancata risposta agli
specifici motivi di appello relativi a tale imputazione, essendo implicita la loro
confutazione nel rilievo per cui l’essersi occupato lo studio Branchi della
contabilità non contraddice la responsabilità del Tonna, quale autore delle
disposizioni impartite al commercialista.
Quanto al capo T, resiste ad ogni critica l’argomento addotto dalla Corte
d’Appello con l’osservare che il Tonna, sebbene non abbia rivestito cariche
formali nella società Finaliment, si è reso responsabile degli illeciti in linea di
fatto, atteso che «la gestione delle società “di famiglia” veniva invero effettuata
pressoché congiuntamente ed in modo affatto analogo, laddove le finalità
operative ed i meccanismi distrattivi e falsificatori erano i medesimi e Finaliment
– per detta stessa di Tonna – “inattiva”, era controllata da Sata, amministratore
unico della quale (come già detto) era per l’appunto l’imputato». Per di più, si
osserva ancora nella sentenza, amministratore della Finaliment era Angelo
Ugolotti, mero assistente di Tonna , che si limitava a dare esecuzione alle sue
disposizioni e veniva specificamente da lui utilizzato per trasmettere allo studio
Branchi le sue personali indicazioni circa la tenuta della contabilità di tutte le
«società di famiglia».
Non sussistono dunque, neppure in questo caso, i denunciati vizi di
motivazione; mentre le critiche volte a contrastare la persuasività della linea
argomentativa adottata dal giudice di appello si risolvono, una volta di più, in
contestazioni del deliberato sotto il profilo del merito.
11.11. L’undicesimo motivo, indirizzato a contrastare la condanna per i reati
di bancarotta patrimoniali ai danni della Parmalat Capital Finance ltd, di cui ai
capi F.2.3 ed F2.4, è a sua volta privo di fondamento.
La Corte territoriale ha dato pienamente conto delle ragioni che l’hanno
indotta a confermare il giudizio di colpevolezza dell’imputato; a tal fine ha
valorizzato le emergenze probatorie dimostrative del fatto che le somme di
denaro provenienti dalla Par.fin venivano erogate da Tanzi a Tonna nella forma
di «prestito/investimento» senza una vera causale e fatte transitare da Zini
perché poi le destinasse all’odierno ricorrente, attraverso meccanismi diversi:
traendone la conclusione per cui il fatto che tali somme non fossero poi
pervenute a destinazione, perché sequestrate presso lo Zini, poteva valere bensì
ad escludere conseguenze fiscali, senza tuttavia impingere nella responsabilità
penale derivante dalla destinazione deviata e non dalla percezione effettiva. Su
tale ragionamento si è basata l’affermazione che la prodotta sentenza della
commissione tributaria di Parma non attestasse l’insussistenza dei reati in
contestazione.
Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente denuncia una
104
contraddittorietà che invece non sussiste, atteso che la decisione si fonda su una
puntuale distinzione fra il tema della elusione di norme tributarie, che
presuppone la produzione di un «reddito» e, quindi, dipende dalla effettiva
percezione del denaro, e quello della responsabilità per bancarotta distrattiva,
realizzatasi con la separazione del denaro dal patrimonio della società poi caduta
in insolvenza.
Le restanti argomentazioni addotte dal ricorrente, volte a dimostrare che
non vi sia stata la «destinazione deviata» su cui la Corte ha fondato il proprio
convincimento, prospettano una valutazione alternativa del materiale probatorio
acquisito e sono perciò inammissibili in sede di legittimità, per quanto già
ripetutamente osservato.
11.12. Il dodicesimo motivo investe il trattamento sanzionatorio e può
essere utilmente esaminato insieme al quattordicesimo, al quindicesimo e al
sedicesimo motivo. Con essi, sostanzialmente, il Tonna lamenta incompleta
valutazione
degli
elementi
di
cui
all’art.
133
cod.
pen.;
insufficiente
apprezzamento della collaborazione da lui prestata nel corso del procedimento,
valutata soltanto ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche e non anche
della determinazione della pena base; violazione dell’art. 69 cod. pen., stante
l’omesso inserimento nel giudizio di comparazione dell’aggravante ex art. 219,
comma 2, n. 1) legge fall.; omessa riduzione di pena in conseguenza del mutato
giudizio di bilanciamento fra circostanze.
Il motivo merita parziale accoglimento, per quanto di seguito esposto.
Ciò non è a dirsi della doglianza riguardante la determinazione della pena
base, avendo la Corte d’Appello fornito adeguata motivazione sulla scorta di
quelli, fra i criteri indicati dall’art. 133 cod. pen., che – nel suo discrezionale
giudizio – ha ritenuto di preminente rilievo (v. Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013 dep. 23/01/2014, Waychey, Rv. 258410; Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998,
Urrata, Rv. 211582). Né può ravvisarsi una contraddittorietà fra la modulazione
di detta pena in misura prossima al massimo edittale e il riconoscimento delle
attenuanti generiche in considerazione del comportamento processuale del
Tonna,
non
sussistendo
fra
le
due
determinazioni
alcun
rapporto
di
interdipendenza; infatti l'indagine riguardante le attenuanti generiche tende alla
valutazione di elementi che possono rendere l'imputato meritevole di particolare
clemenza al fine di un più congruo adeguamento della pena in concreto: così si è
già espressa la giurisprudenza di questa Corte Suprema con una pronuncia per
vero alquanto risalente, ma mai contraddetta da arresti di segno opposto (Sez.
1, n. 2378 del 14/11/1983 - dep. 17/03/1984, Guner Cuma, Rv. 163153).
È invece fondata la censura di inosservanza dell’art. 69 cod. pen..
Incorrendo in un fraintendimento della pronuncia delle Sezioni Unite di questa
105
Corte Suprema n. 21039 del 27/01/2011 (Loy, Rv. 249665), la Corte territoriale
ha ritenuto di dover negare la valenza giuridica di aggravante – tale da farla
ricomprendere nel giudizio di bilanciamento – alla disposizione dell’art. 219,
comma 2, n. 1) legge fall., in forza della quale la pena è aumentata se il
colpevole ha commesso più fatti di bancarotta. In proposito corre l’obbligo di
osservare che, se è pur vero che nella menzionata sentenza si afferma che «più
condotte tipiche di bancarotta poste in essere nell'ambito di uno stesso
fallimento mantengono la propria autonomia ontologica e danno luogo a un
concorso di reati, che vengono unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo
giuridico», è altrettanto vero che tale affermazione opera con dichiarato
riferimento al profilo strutturale, da tenersi distinto da quello funzionale; infatti,
da quest’ultimo punto di vista, la stessa sentenza del massimo organo di
nomofilachia osserva che per l’attuazione del cumulo giuridico, finalizzato
all’unificazione quoad poenam di più fatti-reato autonomi e non sovrapponibili fra
loro (c.d. continuazione fallimentare), il legislatore ha fatto ricorso alla categoria
giuridica della circostanza aggravante, della quale la norma in questione
presenta sicuri indici qualificanti: a) il nomen iuris, «circostanze», adottato nella
rubrica; b) la generica formula utilizzata per individuare la variazione di pena in
aggravamento, implicante il necessario richiamo all'art. 64 cod. pen., che è
l'unica disposizione che consente di modulare la detta variazione sanzionatoria;
così da giungere all’affermazione secondo cui «è indubbio che, sul piano formale,
si è di fronte a una circostanza aggravante».
Da ciò deve coerentemente concludersi che, malgrado la funzione strutturale
affine a quella della continuazione, la circostanza in parola deve essere trattata
alla stregua di ogni altra aggravante – ad esclusione, ovviamente, di quelle
contemplate dall’art. 63, comma terzo, del codice penale – e deve dunque
rientrare nel giudizio di bilanciamento fra circostanze.
A sua volta fondata è la censura volta a impugnare il mantenimento,
disposto dal giudice di appello, dei medesimi aumenti di pena per la
continuazione malgrado la rinnovata valutazione delle attenuanti generiche, nel
senso del riconoscimento di un loro maggior valore ponderale rispetto alle
aggravanti. Ciò è a dirsi non tanto perché, così operando, si sia dato luogo a una
vera e propria reformatio in peius, quanto perché l’irrilevanza, sul trattamento
sanzionatorio dei reati satelliti, del maggior apprezzamento riconosciuto alle
attenuanti generiche avrebbe dovuto essere congruamente motivata.
La sentenza è dunque da annullare parzialmente, in relazione ai motivi come
sopra accolti. Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte
d’Appello di Bologna, nell’attendere alla rideterminazione del trattamento
sanzionatorio terrà anche conto della già disposta eliminazione dell’aumento di
106
pena per la continuazione riguardante il reato di associazione per delinquere, del
quale si è rilevata l’estinzione.
11.13. Proseguendo oltre nella disamina dei motivi di ricorso, viene in
considerazione quello col quale il Tonna impugna il rigetto delle istanze di
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, presentate dalla difesa al giudice di
secondo grado.
La doglianza è manifestamente infondata, alla stregua delle considerazioni
già svolte al paragrafo 10.1, nel trattare le analoghe deduzioni sviluppate nel
ricorso di Calisto Tanzi: sia con riferimento al carattere eccezionale che, nel
sistema processuale vigente, ha la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel
processo di appello (donde la condizione che il giudice si persuada di non poter
decidere allo stato degli atti), sia con riferimento al carattere «neutro» della
perizia, che perciò non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva.
Manifestamente infondata è la censura di nullità rapportata al rigetto della
richiesta di «patteggiamento», in mancanza di qualsiasi parametro normativo
invocabile a suo sostegno.
11.14. Il diciassettesimo motivo impugna la ratio decidendi che ha indotto la
Corte d’Appello a ritenere ammissibile l’appello del pubblico ministero soltanto
nei confronti del ricorrente e di Calisto Tanzi, rilevandone al contempo la
genericità nei confronti di altri imputati. Nell’ottica del gravame le ragioni che
hanno giustificato il giudizio di inammissibilità, cioè l’essere state trattate
«indiscriminatamente» le posizioni di Barachini, Barili, Bonici, Calogero, Fratta,
Panizzi, Silingardi e Giovanni Tanzi, dovevano ritenersi applicabili anche alla
parte dell’atto di appello riguardante la propria posizione.
La censura non ha fondamento. La Corte distrettuale ha dimostrato, con la
propria motivazione, di aver preso distintamente in considerazione le posizioni
processuali dei singoli imputati nel valutare la riconoscibilità, o meno, di specifici
motivi di censura ad essi riferibili nell’appello del pubblico ministero; in esito a
tale verifica ha ritenuto che l’atto d’impugnazione non soddisfacesse i requisiti di
legge nella parte riguardante alcuni degli imputati; e in ordine a tale deliberato
non è data, ovviamente, possibilità a questa Corte di interloquire, non avendo
l’organo dell’accusa proposto ricorso.
Di contro, nella parte riguardante il Tonna la Corte d’Appello ha giudicato
che il
gravame del
P.M.
rispondesse ai
necessari
requisiti, contenendo
l’indicazione dei capi o punti della decisione investiti dall’impugnazione, delle
richieste avanzante dal deducente e delle specifiche ragioni di fatto e di diritto
atte a giustificare la richiesta di riforma; prova ne sia che è stata anche in grado
di prendere in esame i motivi di appello e di pervenire al loro accoglimento.
Sulla critica attinente alla denunciata violazione dell’art. 69 cod. pen. ci si è
107
già soffermati nel paragrafo 11.12, disponendone l’accoglimento; onde null’altro
vi è da aggiungere al riguardo.
11.15. Il diciottesimo motivo propone una serie di questioni attinenti alle
statuizioni di carattere civile, una delle quali è stata già esaminata dianzi.
Ci si riferisce alla richiesta estensione, a tutti i destinatari della pronuncia di
condanna al risarcimento del danno, degli effetti dell’ordinanza emessa il
12/12/2011 dalla Corte territoriale, che ha dichiarato l’inammissibilità delle
costituzioni di parte civile di Alvisi + 45, Lavagnino + 47, Di Stefano + 11,
Cabrini, Ballarin + 159, Beltrami + 115, Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani +
44, Abbondanza + 35, Allegri + 73, Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36,
in quanto effettuate all’udienza del 06/05/2008, tramite sostituto del difensore
procuratore speciale, sulla base di un’eccezione sollevata dalla difesa del solo
coimputato Calogero. Sul punto ci si è già soffermati, con esito reiettivo, al
paragrafo 9.1.
In ordine alle restanti questioni sollevate con lo stesso motivo, si osserva
quanto segue.
L’impugnazione con ricorso per cassazione della statuizione con cui è stata
concessa una provvisionale alla parte civile non è ammissibile, né sull’an (Sez. 5,
n. 5001 del 17/01/2007, Mearini, Rv. 236068), né sul quantum (Sez. 4, n.
34791 del 23/06/2010, Mazzamurro, Rv. 248348), trattandosi di provvedimento
per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere
travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento.
Per quanto riguarda l’eccezione inerente alla mancanza degli elementi
documentali destinati a provare il valore dei titoli in possesso dei creditori
costituitisi parti civili, non vi è che da richiamarsi all’enunciazione giurisprudenziale secondo cui la condanna generica al risarcimento dei danni, pronunciata dal
giudice penale, non esige alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un
danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità
lesiva del fatto dannoso e della esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e
il pregiudizio lamentato. (così Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv.
257551; v. anche Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio, Rv. 243310).
La doglianza riguardante la misura eccessiva delle spese processuali
liquidate in favore delle parti civili e il rigetto delle istanze di revoca dei sequestri
e delle confische su somme di pertinenza della moglie del Tonna, è esposta in
forma meramente enunciativa, ancorché riferita ad omessa confutazione delle
ragioni esposte in appello (comunque non esplicitate nel ricorso, al quale
soltanto può farsi riferimento in questa sede). Manca, inoltre, qualsiasi
indicazione diretta a far comprendere come il Tonna possa dirsi legittimato a far
valere l’interesse della moglie ad impugnare la confisca assertivamente operata
108
in danno di costei.
11.16 Le deduzioni esposte nella memoria con motivi nuovi presentata dalla
difesa ripropongono questioni già investite dai motivi di ricorso e qui esaminate;
onde null’altro vi è da aggiungere per tale riguardo.
12. GIOVANNI TANZI
Il ricorso non è fondato, ma la sentenza va parzialmente annullata per le
ragioni che più oltre saranno esposte.
12.1. Quanto al primo motivo, non vi è che da richiamarsi a quanto già
argomentato ai precedenti paragrafi 3.1 e 4.1 nel trattare, rispettivamente, delle
questioni preliminari attinenti alla eccepita nullità dell’avviso di conclusione delle
indagini preliminari e del decreto di citazione a giudizio, per essere stata negata
al difensore dell’imputato la possibilità di prendere visione degli atti contenuti nel
fascicolo del P.M., e alla omessa traduzione dei documenti in lingua straniera;
null’altro, infatti, vi è da aggiungere in relazione ai temi proposti.
12.2. Il secondo motivo è privo di fondamento nella sua prima censura,
riguardante la qualificazione giuridica dei fatti ascritti al ricorrente a titolo di
bancarotta fraudolenta. Secondo il ricorrente la Corte d’Appello sarebbe incorsa
in una sorta di reformatio in peius, avendo espresso una valutazione di maggior
gravità della sua condotta, rispetto a quella fatta propria dal collegio di prima
istanza, così omettendo non soltanto di prendere in considerazione l’istanza di
derubricazione del reato in quello di bancarotta semplice, ma altresì di
ridimensionare la pena conducendola a misura più adeguata alla sua limitata
partecipazione ai fatti illeciti.
A confutazione merita di osservare che già la sentenza di primo grado, lungi
dal minimizzare la responsabilità di Giovanni Tanzi, aveva valorizzato la
posizione di proprietario, amministratore e manager di alto livello da lui rivestita
all’interno del gruppo Parmalat e delle altre società della famiglia, attribuendovi
un carattere non certo marginale e tale da rendere non credibile che egli fosse
rimasto estraneo alla conduzione del gruppo alimentare e delle altre società di
Tanzi e all’oscuro del reale andamento delle stesse e delle società del settore
turistico, nonché della falsificazione dei bilanci. Il Tribunale aveva, altresì, posto
in rilievo la partecipazione di Giovanni Tanzi a tutte le riunioni di budget e le
distrazioni di somme di denaro da lui ricevute, considerando conclusivamente
che da tali circostanze emergessero i necessari riscontri alle dichiarazioni rese
sul suo conto da Calisto Tanzi e da Fausto Tonna. Conseguentemente non può
certo affermarsi che la Corte d’Appello, ribadendo la ricostruzione dei fatti
operata dal primo giudice e negando credibilità all’assunto che Giovanni Tanzi
fosse assolutamente estraneo alla gestione societaria, ai falsi, alle frodi e alle
109
distrazioni ascrittegli, e che si trovasse in posizione di totale subordinazione alla
«cabina di regia», abbia espresso una valutazione peggiorativa della sua
posizione processuale.
La linea argomentativa come sopra sviluppata dalla Corte territoriale rende
ampiamente conto delle ragioni poste a sostegno della qualificazione giuridica dei
fatti entro lo schema della bancarotta fraudolenta impropria (nelle varianti
distrattiva, da reati societari e da operazioni dolose, così come dettagliatamente
descritte nel complesso capo d’imputazione), rendendosi incompatibile con
l’ipotesi di derubricazione nel meno grave reato di bancarotta semplice e dando
corpo, pertanto, ad una motivazione implicita sul punto in questione (v. Sez. 4,
n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900; Sez. 6, n. 20092 del
04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005 - dep.
13/01/2006, Mirabilia, Rv. 233187).
Alla
confermata
valutazione
del
disvalore
della
condotta
tenuta
dal
ricorrente è conseguita la conferma in appello del trattamento sanzionatorio; di
ciò deve riconoscersi la piena legittimità in quanto il mantenimento della stessa
pena inflitta dal giudice di prima istanza può porsi in conflitto col divieto della
reformatio in peius soltanto se sia contemporaneamente accolto l’appello
dell’imputato su circostanze o reati concorrenti, anche se unificati per la
continuazione: ipotesi, questa, esulante dal caso di specie.
È appena il caso di osservare, poi, che le argomentazioni svolte dal
ricorrente per accreditare una propria posizione di sostanziale estraneità alle
scelte imprenditoriali, sollecitando una rivisitazione del materiale probatorio e
una revisione del giudizio di attendibilità del coimputato Tonna, si risolvono in
altrettante deduzioni di merito, che non possono trovare spazio nel giudizio di
cassazione.
12.3.
La
seconda
censura
del
motivo
in
esame,
riguardante
la
commisurazione della pena e il diniego delle attenuanti generiche, esula a sua
volta dal novero dei vizi spendibili ex art. 606 cod. proc. pen.. Trattasi, invero, di
statuizioni che l’ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per
cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia
motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie
la Corte d’Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in
questione: sia col rilevare che l’innumerevole serie di incarichi a livello apicale
svolti da Giovanni Tanzi in tutte le principali società del gruppo e nei settori più
delicati e cruciali dello stesso valeva ad attribuirgli un ruolo non secondario nella
storia del default in esame e nelle scelte gestionali dell’azienda; sia con
l’evidenziare l’inapplicabilità di criteri riferibili a una valutazione di esiguità dei
danni cagionati (per contro di entità epocale) o a una resipiscenza dell’imputato,
110
in realtà inesistente; mentre ha valutato l’incensuratezza del Tanzi come
recessiva a fronte della estrema gravità dei fatti e della notevole pervicacia
mostrata nel corso di molti anni. Ha inoltre giudicato congrua la modulazione
della pena, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e alla portata del
contributo associativo fornito dall’appellante quale fondatore del gruppo ed
organizzatore delle principali società dello stesso.
Siffatta linea argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo
adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata; d’altra parte non è
necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il giudice prenda
singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., essendo
invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che, nel discrezionale giudizio
complessivo, assumono eminente rilievo.
12.4. Sebbene il ricorso debba essere disatteso in relazione ai motivi
dedotti, per quanto fin qui osservato, tuttavia la sua complessiva ammissibilità
impone l’obbligo di rilevare d’ufficio l’intervenuta estinzione del delitto di
associazione per delinquere, di cui al capo A dell’imputazione; risulta infatti
maturato il termine prescrizionale massimo di otto anni e nove mesi da
computarsi a decorrere dal dicembre 2003, data di cessazione della permanenza.
Anche nei confronti di questo imputato, perciò, come già visto per Calisto Tanzi e
per Fausto Tonna, la sentenza deve essere annullata in parte qua senza rinvio
per l’anzidetta ragione, non sussistendo altri motivi di proscioglimento che
possano prevalere su di essa ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen.. Ne
consegue
l’eliminazione
del
corrispondente
aumento
di
pena
per
la
continuazione, pari a quattro mesi di reclusione.
13. ENRICO BARACHINI
Il ricorso è privo di fondamento per quanto di seguito esposto.
13.1. Il primo motivo non esplicita vere e proprie censure alla sentenza
impugnata, estrinsecandosi invece in una premessa rievocativa della qualità di
amministratore privo di delega, rivestita dal Barachini Parmalat Finanziaria
s.p.a., e degli esiti processuali che hanno fin qui contrassegnato, per il
deducente, la complessa vicenda riguardante il default del gruppo Parmalat. In
tale prospettiva egli evidenzia di essere stato assolto, in questo processo,
dall’imputazione di associazione per delinquere e di essere stato giudicato esente
da responsabilità, sotto il profilo della consapevolezza degli illeciti perpetrati da
Tanzi e dai suoi correi, per tutti i fatti anteriori all’anno 2002; nonché di essere
stato parimenti assolto, nel processo svoltosi a Milano, con formula pienamente
liberatoria dalle imputazioni di aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza
della Consob e fraudolenta certificazione dei bilanci delle società del gruppo
111
Parmalat.
In ordine a tali deduzioni, che – come dianzi osservato – non si traducono in
un motivo d’impugnazione, ma anticipano le ragioni di critica alla sentenza qui
impugnata poi sviluppate nei motivi seguenti, non si richiede, allo stato, alcuna
valutazione da parte di questa Corte, dipendendo dallo scrutinio dei restanti
motivi il giudizio di complessiva infondatezza del ricorso.
13.2. Il secondo motivo, indirizzato a valorizzare l’assenza di deleghe in
capo al Barachini nell’organo amministrativo della Parmalat Finanziaria s.p.a. – e
di qualsiasi incarico gestorio nelle società controllate – per derivarne l’assenza di
sua responsabilità sotto il duplice profilo della conoscenza degli atti illeciti
perpetrati e della possibilità di impedirli, è privo di fondamento alla stregua dei
principi giuridici già ricordati dianzi (paragrafo 8) nel trattare in via generale
l’argomento
inerente
alla
responsabilità
penale
degli
amministratori
non
operativi.
Riassumendo i risultati dell’analisi ivi condotta, può senz’altro affermarsi che
la responsabilità dell’odierno ricorrente è stata legittimamente affermata dai
giudici di merito, sul presupposto – accertato in linea di fatto – che egli avesse
avuto effettiva conoscenza, al di là della mera conoscibilità, di taluni elementi
individuati come specifici «segnali di allarme» e si fosse, ciò nonostante,
astenuto dall’intervenire.
Circa la tipologia del «segnali di allarme» va detto che la sentenza
impugnata dedica all’argomento un’ampia e approfondita rassegna alle pagine da
111 a 135 della motivazione. È ivi spiegato come non potessero essere sfuggiti ai
componenti del consiglio di amministrazione, stante la loro evidenza, elementi
perspicui e peculiari come la progressione assolutamente anomala e ingiustificata
della liquidità, pur in presenza di una campagna di acquisizioni e investimenti di
rilevanza mondiale; la continua crescita dell’indebitamento, in apparenza non
correlata alle vicende economiche e finanziarie del gruppo ed anzi del tutto
anomala, in quanto pressoché doppia rispetto agli investimenti effettuati; il
riacquisto dei bond emessi dalla Parmalat, dopo la pubblicazione sulla rivista
Milano Finanza di un’intervista a Tanzi e a Tonna contenente una serie di
contestazioni circa i dati assolutamente divergenti tra il debito iscritto in bilancio
e quello risultante dai canali ufficiali, nonché tra i bond censiti e quelli indicati in
bilancio; l’aumento di capitale della Parmalat Participações, motivato dalla
pressante necessità di rimborsare debiti ingenti; l’opacità dell’operazione di
finanza strutturata denominata Swap Sumitomo, utilizzata per consentire il
pareggio di bilancio della Par.Fin. e rivelatasi assolutamente fittizia, ma che, se
fosse stata reale, avrebbe comportato il rischio di perdite rilevantissime; i fatti
raggruppati nella dizione «eventi dell’estate ed autunno 2003», consistiti
112
nell’emissione di obbligazioni per un ingentissimo importo complessivo, pur dopo
l’assicurazione che non sarebbero stati lanciati altri prestiti obbligazionari:
emissione seguita a breve distanza di tempo da quelle dei c.d. bond USB e dei
bond Deutsche Bank. La Corte d’Appello non ha mancato, poi, di osservare che i
menzionati elementi aggiungevano alla valenza di segnali di allarme l’oggettiva
evidenza della mistificazione che veniva proposta al mercato, ai soci e agli
obbligazionisti, della quale gli amministratori non esecutivi avevano tutti gli
strumenti per rendersi conto.
La
motivazione
così
sviluppata,
arricchita
dalla
confutazione
delle
argomentazioni di volta in volta addotte per contrastare il giudizio di anormalità
e visibilità della situazione segnalata dai diversi segnali, è immune da vizi logici e
giuridici e vale per tutti gli amministratori della Parmalat Finanziaria s.p.a. privi
di delega, dunque anche per il Barachini: donde l’infondatezza della censura di
carenza motivazionale.
Analogamente è a dirsi della motivazione offerta dalla Corte territoriale in
ordine all’omesso espletamento, da parte dell’imputato, delle iniziative finalizzate
a contrastare – nell’adempimento degli obblighi impostigli dalla posizione di
garanzia da lui rivestita – la commissione degli illeciti documentali che i
menzionati sintomi palesavano. Anche su tale argomento, invero, la sentenza
impugnata
si
esprime
esplicitamente
e
diffusamente,
illustrando
sia
l’atteggiamento di colpevole inerzia assunto dagli amministratori non esecutivi in
genere, sia le ragioni dell’addebito specificamente riferito al Barachini.
Sotto il primo profilo le pagine da 105 a 107 della sentenza di appello
indicano in tutta chiarezza come si sarebbe dovuto atteggiare l’obbligo di «agire
informati» – secondo il lessico introdotto dalla giurisprudenza sul tema – nel
caso di cui si tratta: in esse si rileva che nessuna richiesta di chiarimenti,
contestazione od espressione di dissenso per qualsiasi tipo di operazione o
deliberazione è stata mai avanzata agli esecutivi da parte degli ulteriori
componenti del consiglio, per sospetta o anomala che fosse; si sottopongono a
critica le linee difensive volte a sostenere ora il carattere eccessivamente
sintetico dei verbali, ora la pretesa difficoltà per i non esecutivi di comprendere
la dannosità di certe decisioni; si osserva che l’azione di contrasto, non
necessariamente idonea a impedire il default nella sua interezza, si sarebbe
potuta realizzare attraverso un’espressione pubblica di dissenso (da intendersi,
evidentemente,
come
espressione
non
in
via
riservata,
ma
aperta
e
inequivocabile) o una pubblica richiesta di maggiori chiarimenti – se non,
addirittura, una denuncia all’autorità preposta – in ordine alle anomalie della
gestione e di talune decisioni di finanza strutturata, ovvero in ordine alla
allocazione della liquidità o alla effettiva quantificazione e composizione del
113
debito.
Le
considerazioni
giuridicamente
allineate
così
alla
svolte
sono
giurisprudenza
logicamente
formatasi
in
ineccepibili
argomento,
e
già
ricordata al precedente paragrafo 8; ed invero, ciò che la legge richiede
all’amministratore non esecutivo non è il necessario raggiungimento dell’esito
impeditivo della consumazione dell’illecito, ma l’espletamento di quanto in suo
potere nel perseguire tale finalità: in mancanza di che la consapevole inerzia si
traduce in un contributo alla commissione del reato.
Sotto il secondo profilo la sentenza di appello si sofferma ampiamente
sull’attività coadiutrice svolta dal Barachini in favore della dirigenza, con
riferimento alla vendita dello stabilimento Polenghi, alla proposta di acquisto
della divisione forno di Motta, nonché al ruolo di mediazione da lui svolto
nell’ambito delle vertenze fra Tonna e Tanzi, da una parte, e Paola Visconti
dall’altra: ruolo di mediazione indirizzato a tacitare le pretese della Visconti, dallo
stesso imputato definite sostanzialmente estorsive perché accompagnate da
minacce, che la Corte d’Appello ha motivatamente ritenuto riferibili non al fatto
che la Visconti conosceva i piani industriali e il know how dell’azienda, ma al
timore che potesse propalare all’esterno gli illeciti meccanismi che governavano
la Parmalat e la situazione del gruppo.
La condotta così tenuta dal Barachini è stata coerentemente considerata
dalla Corte di merito emblematica dell’atteggiamento soggettivo riscontrabile
all’interno del gruppo, in quanto antitetica rispetto alla funzione di garanzia e di
controllo di una corretta gestione della società, nonché del dovere di evitare
eventi potenzialmente lesivi per soci ed obbligazionisti, a lui incombenti nella sua
qualità di amministratore non esecutivo.
Anche per tale riguardo, dunque, la sentenza impugnata si sottrae alla
censura di carenza motivazionale e si mostra osservante dei principi dettati dalla
giurisprudenza in materia. Né giova al ricorrente contraddire in punto di fatto i
rilievi mossi nella sentenza al suo operato, sollecitando una rivisitazione delle
emergenze documentali che non è legittimamente attuabile nel giudizio di
cassazione.
13.3. In ordine al terzo motivo, col quale il ricorrente pone la questione
inerente al nesso causale fra condotta e dissesto, con la correlata copertura del
dolo, va ribadito quanto già detto nel rimarcare che la questione si pone soltanto
per i reati riconducibili alla bancarotta fraudolenta patrimoniale ex artt. 216 e
223, primo comma, legge fall.: e non anche per quelli di bancarotta impropria da
reati societari e da operazioni dolose (art. 223, comma 2, nn. 1 e 2 della stessa
legge), per i quali il rapporto di causalità è espressamente richiesto dalla norma
incriminatrice. Relativamente a questi ultimi, va precisato, l’accertamento del
contributo causale prestato dal Barachini ex art. 40, comma secondo, cod. pen.,
114
attraverso la condotta omissiva tenuta quale amministratore non esecutivo, è
stato scrutinato più sopra nel trattare il secondo motivo di ricorso; del pari è già
stata sottoposta a disamina la componente psicologica del reato, sotto il profilo
della conoscenza – e non mera conoscibilità – dei segnali d’allarme.
Per quanto invece si riferisce alla bancarotta distrattiva, non vi è che da
richiamarsi alle argomentazioni svolte più sopra nel paragrafo 7 e relative
partizioni, cui nulla vi è da aggiungere in questa sede. Con la conseguenza che
non vengono in considerazione le restanti ragioni di critica, siccome finalizzate a
contrastare la configurabilità del dolo nel suo duplice aspetto cognitivo e volitivo,
sul presupposto – insussistente, per quanto già detto – che esso debba investire
la causazione del dissesto.
13.4. Il quarto motivo si struttura nella formulazione dell’eccezione di
inosservanza dell’art. 649 cod. proc. pen., sulla quale ci si è già intrattenuti nel
paragrafo 5; vi è dunque soltanto da richiamarsi alle argomentazioni ivi svolte,
che danno conto dell’infondatezza dell’eccezione. Non si può, invece, accedere al
giudizio di inammissibilità sollecitato dal Procuratore Generale in udienza, in
quanto le ragioni di critica rivolte dal ricorrente al passaggio motivazionale
dedicato al tema nella sentenza impugnata, sebbene genericamente esposte nel
primo motivo (sulla cui funzione di mera premessa ci si è già soffermati), sono
poi riprese e sviluppate nel quarto motivo, sia pur senza fondamento per quanto
testé ricordato.
14. GIOVANNI BONICI
Il ricorso non merita accoglimento.
14.1. L’infondatezza del primo motivo, volto a scandagliare la problematica
inerente alla responsabilità degli amministratori non esecutivi, discende dalle
argomentazioni già svolte nel trattare la relativa questione, in via generale, al
precedente paragrafo 8; nonché, per quanto specificamente ascritto al Bonici,
dalla logica stringente delle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello nel
rimarcare
che
l’odierno
ricorrente,
stante
la
sua
qualità
di
direttore
amministrativo prima, e di Presidente poi di Parmalat Venezuela, aveva
partecipato a tutte le riunioni trimestrali con i dirigenti locali per decidere
l’aggiustamento dei bilanci, con correlate falsificazioni, sopravvalutazioni di beni
e marchi privi di valore e cessioni di crediti inesigibili a Curcastle e Zilpa: ciò
anche in considerazione di quanto riferito da Fausto Tonna, secondo cui tutti i
C.F.O. (Chief Financial Officer) e direttori amministrativi dei singoli settori ben
conoscevano il dissesto dei rispettivi comparti. A maggior ragione, ha osservato
ancora la Corte territoriale, il Bonici aveva acquisito piena consapevolezza della
funzione di «discarica» assegnata alla Bonlat, nel momento in cui ne era
115
divenuto amministratore delegato; senza contare che anche in precedenza, su
richiesta del Tonna, aveva sottoscritto i contratti nelle occasioni in cui quegli
risultava in conflitto di interessi: né la sua firma era stata mai falsificata da
alcuno.
Delle dichiarazioni accusatorie del Tonna la sentenza impugnata individua i
necessari riscontri, innanzi tutto, nella ammissione del Bonici di essere stato a
conoscenza della situazione della Parmalat in Brasile, per aver partecipato alle
riunioni di budget insieme a Tonna, Barili, ai congiunti Tanzi (Stefano, Calisto e
Giovanni), Del Soldato e Giuffredi, nonché alle riunioni di area: nel corso delle
quali i risultati emergenti dai bilanci non avrebbero potuto che stupirlo, se fosse
stato effettivamente all’oscuro dei meccanismi di falsificazione dei bilanci; ed
ancora negli stessi finanziamenti comprovatamente richiesti ed ottenuti da
Parmalat Venezuela, apparentemente finalizzati a sostenere l’attività di importexport, ma in realtà destinati a far fronte a debiti preesistenti verso la Bank of
America; ed infine nel fatto che la redditività operativa delle società venezuelane
fosse influenzata in modo imponente dai cosiddetti «contributi Bonlat», cioè da
registrazioni contabili che aumentavano i ricavi o riducevano i costi migliorando il
margine operativo.
L’impianto argomentativo così adottato, che trae fondamento da una
valutazione del materiale probatorio non sindacabile in questa sede in quanto
motivata secondo logica, rende conto adeguatamente del convincimento del
giudice di merito circa l’infondatezza della linea difensiva volta a far apparire il
Bonici come una sorta di «marionetta inconsapevole» (v. ricorso, pag. 4); la
responsabilità attribuitagli si fonda sulla violazione dell’obbligo di «agire
informato», a lui facente capo in virtù delle funzioni amministrative esercitate; la
accertata consapevolezza del dissesto e delle manovre finalizzate a dissimularlo,
che connota il contributo da lui prestato alla consumazione degli illeciti, eccede
perciò, di gran lunga, i limiti della negligenza per integrare gli estremi del dolo:
così come correttamente ritenuto dalla Corte d’Appello.
Né giova al ricorrente richiamarsi al diverso convincimento espresso dal
Tribunale di Milano nel processo ivi svoltosi, non avendo efficacia vincolante in
questa sede il giudicato formatosi su imputazioni totalmente distinte, come già
esposto al paragrafo 8.
14.2. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto esulante dal novero di
quelli consentiti dall’art. 606 cod. proc. pen..
Infatti le censure con esso elevate, dietro l’apparente denuncia di vizi della
motivazione, si traducono nella sollecitazione di un riesame del merito – non
consentito in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli
elementi probatori acquisiti. Significativo, in tale prospettiva, è l’espresso invito
116
rivolto nel ricorso alla Corte di Cassazione, affinché rilegga le testimonianze
raccolte dai giudici di primo grado a Parma e a Milano, le dichiarazioni rese dai
coimputati Del Soldato, Tonna, Bocchi e Pessina, nonché dallo stesso deducente,
la relazione del consulente tecnico del P.M. e i documenti prodotti: il che
concreterebbe una rielaborazione del giudizio di merito non consentita in questa
sede. Al riguardo non sarà inutile ricordare che, per consolidata giurisprudenza,
pur dopo la modifica legislativa dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.
introdotta dall’art. 8 L. 20 febbraio 2006, n. 46, al giudice di legittimità resta
preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rivisitazione degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti; e il riferimento ivi
contenuto anche agli «altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di
gravame» non vale a legittimare il controllo sulla correttezza della motivazione in
rapporto ai dati processuali (così Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv.
233780; v. anche le più recenti Sez. 5, n. 44914 del 06/10/2009, Basile, Rv.
245103; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), ma consente
soltanto di dedurre, quale vizio di motivazione, il rapporto di contraddizione
esterno al testo della sentenza riconducibile a quella forma di errore revocatorio
sul significante, che viene abitualmente definita «travisamento della prova»: il
che si verifica quando l’errore denunciato ricada non già sul significato dell’atto
istruttorio, ma sulla percezione del testo nel quale si estrinseca il suo contenuto
(Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 - dep. 27/02/2013, Maggio, Rv. 255087; Sez.
3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del
25/09/2007, Casavola, Rv. 238215); ipotesi, quest’ultima, non riscontrabile nel
caso di cui ci si occupa.
Fuori di luogo è anche la critica riferita all’omessa confutazione di specifiche
argomentazioni addotte dalla difesa, a fronte del principio secondo cui il giudice
del gravame non è tenuto a prendere in esame ogni singola argomentazione
svolta nei motivi d’impugnazione, ma deve soltanto esporre, con ragionamento
corretto sotto il profilo logico-giuridico, i motivi per i quali perviene a una
decisione difforme rispetto alla tesi dell’impugnante, rimanendo implicitamente
non condivise, e perciò disattese, le argomentazioni incompatibili con il
complessivo tessuto motivazionale (Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso,
Rv. 250900; Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n.
1149/06 del 24/10/2005, Mirabilia, Rv. 233187).
14.3. Manifestamente infondata è la denuncia, svolta nel terzo motivo, di
violazione del principio del «ragionevole dubbio» codificato nell’art. 533 cod.
proc. pen., in attuazione dell’art. 111 Cost.. Questa Corte Suprema ha già avuto
modo di avvertire – con enunciazione che va qui ribadita – che tale principio,
117
introdotto dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato
della Corte di Cassazione sulla motivazione della sentenza e non può, quindi,
essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni
alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e
segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta
disamina da parte del giudice dell'appello (Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013,
Viola, Rv. 254579): disamina che, come si è visto dianzi (14.1), nel caso di
specie è stata compiuta dalla Corte felsinea, che ne ha dato conto diffusamente
con motivazione immune da vizi logici e giuridici.
15. ROSARIO LUCIO CALOGERO
Il ricorso è da rigettare, in quanto privo di fondamento.
15.1. A confutazione del primo, articolato, motivo deve considerarsi quanto
segue.
L’assunto a tenore del quale dovrebbe attribuirsi in via esclusiva agli
amministratori della società controllante la responsabilità per le falsificazioni del
bilancio consolidato ha il suo necessario presupposto logico-giuridico nell’ipotesi
che, in adempimento degli obblighi di legge, le società controllate trasmettano
bilanci individuali recanti dati veridici e corretti; di contro nel caso di cui ci si
occupa, secondo quanto accertato in sede di merito, nei bilanci consolidati si è
potuto provvedere ad una artificiosa diminuzione dei debiti verso banche e
obbligazionisti ricorrendo alla compensazione infragruppo di crediti – inesistenti o
inesigibili – fittiziamente appostati nei bilanci civilistici di talune società
controllate appositamente destinate a quel compito, fra cui la Curcastle
Corporation NV, del cui consiglio di amministrazione il Calogero era componente,
e la Zilpa Corporation BV, nella cui gestione egli era per sua ammissione
coinvolto, sebbene non formalmente investitone. Ciò mostra con chiarezza come
la finalità di occultare il crescente indebitamento del gruppo sia stata perseguita
attraverso un sistema di falsificazione dei bilanci (singoli e consolidati), che non
poteva prescindere dal consapevole contributo degli amministratori delle società
partecipate, al pari di quelli della società controllante.
Il fatto che il ricorrente abbia svolto nelle predette società controllate il ruolo
di amministratore – ora formale, ora di fatto – non esecutivo non è di ostacolo al
riconoscimento della sua responsabilità alla stregua dei principi giuridici enucleati
dalla giurisprudenza in materia, su cui ci si è già soffermati al paragrafo 8. In
aggiunta mette conto di annotare che, per quanto lo riguarda specificamente,
oltre alla conoscenza concreta dei significativi «segnali di allarme» recati dalle
situazioni vissute nei vari distretti societari nei quali egli operava in relazione ai
diversi incarichi assunti (qui elencati nella parte narrativa sub 11), la sentenza
118
impugnata ascrive al Calogero una fattiva collaborazione col Tonna, dal quale
egli veniva talvolta richiesto di attivarsi per trovare la soluzione ai problemi della
Parmalat: problemi che a lui erano ben noti fin da quando si era occupato dei
suoi bilanci in seno alla società di revisione Hodgson Landau Brands ed aveva, in
seguito, collaborato all’operazione di quotazione in Borsa. E ancora era stato il
Tonna – è sempre la sentenza di appello ad evidenziarlo – a chiamare il Calogero
a far parte del board di società ampiamente (ed incontestatamente) coinvolte in
traffici illeciti, e cioè, oltre che delle già menzionate Curcastle e Zilpa, anche di
Camfield PTE Ltd, Aranca s.p.a., Carital Food Distributor BV.
Col supporto di tali accertamenti in fatto la Corte d’Appello è pervenuta
motivatamente alla conclusione che il Calogero, esperto consulente fiscale e
amministratore a conoscenza della situazione di altre società in stretti – quanto
occulti – rapporti con quelle dianzi elencate, dovesse avere piena possibilità di
esaminarne approfonditamente le carte (contabili e non) e fosse ampiamente in
condizioni di comprenderne il senso: in mancanza di che non avrebbe potuto
effettuare scelte oculate in ragione della convenienza fiscale, né muoversi
efficacemente – come invece risulta aver fatto – davanti alle indagini del fisco
olandese. La motivazione addotta al riguardo resiste al controllo di legittimità, in
quanto immune da vizi logici e giuridici.
Circa la responsabilità del libero professionista per i fatti illeciti posti in
essere dal cliente, correttamente ha osservato il giudice di appello che la relativa
problematica non si attaglia alla fattispecie, in quanto l’esistenza di un rapporto
professionale non
esclude la possibilità
di
una
volontaria
ed autonoma
collaborazione del singolo con il disegno criminoso comune; è ben possibile,
infatti, che nell’esercizio dell’attività professionale sia realizzata una condotta
dimostrativa della consapevole adesione all’accordo criminoso, attuatasi in modo
anche solo parzialmente funzionale alla realizzazione del progetto illecito. Tale
ragionamento, sviluppato con specifico riferimento al reato di associazione per
delinquere (peraltro dichiarato prescritto nei confronti del Calogero), vale
ugualmente – ed anzi a maggior ragione – per qualsiasi altro reato, stante
l’applicabilità dei principi che regolano il concorso di persone ex art. 110 cod.
pen..
Le restanti ragioni di critica che informano il primo motivo non sono
ammissibili, nella parte in cui invadono l’area del merito indirizzandosi a negare
– in contrasto con la ricostruzione in fatto motivatamente recepita dalla Corte
d’Appello e con la valutazione da essa data alle emergenze probatorie – la
concreta percepibilità da parte del Calogero delle anomalie nella gestione
economico-finanziaria della holding, la sua conoscenza delle problematiche
proprie del settore turistico, l’assunzione dell’incarico di liquidatore nella società
119
Rushmore, la negata operatività delle società Camfield, Tissinger e Carital Food,
l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del Tonna e, di contro, il giudizio di
inattendibilità delle dichiarazioni scagionanti rese dal coimputato Pessina. Sono
invece da rigettare per infondatezza là dove denunciano carenza motivazionale
per mancata trattazione della problematica del dolo e per omessa confutazione
delle deduzioni svolte nei motivi di appello, intese a contestare la funzione di
«discarica» attribuita alla società Curcastle; è infatti agevole cogliere nel
complessivo tessuto motivazionale della sentenza (e in special modo nelle pagine
da 198 a 294) le ragioni del convincimento espresso dalla Corte d’Appello sui
temi in questione.
15.2. Il secondo motivo non può trovare accoglimento: contrariamente a
quanto lamenta il ricorrente, la sentenza di secondo grado ha dato specifica ed
esauriente
risposta,
in
senso
reiettivo,
all’eccezione
di
inammissibilità
dell’imputazione contestata al capo J. In essa è invero rimarcato, alla pagina
209, che «il riferimento preciso effettuato nel capo J della rubrica ai fatti descritti
al capo D.14 (ovvero alle distrazioni in danno di Parmalat Spa ed in favore di
Afim/Aranca poco sopra descritte) ben vale a chiarire all’imputato la condotta a
lui peraltro nominativamente attribuita». Né vale sostenere che nel capo D.14 la
condotta ascritta al Calogero – contrariamente, si assume, a quella dei
coimputati – sia del pari carente di descrizione: un’attenta lettura del capo in
questione permette di constatare come il ruolo attribuitogli nella consumazione
della bancarotta distrattiva ai danni della Parmalat s.p.a., in favore della società
Aranca s.p.a., consista nell’essersi giovato, quale amministratore di quest’ultima
società, delle molteplici erogazioni di finanziamenti privi di titolo giustificativo,
attuate anche mediante l'utilizzo di un sistema di fatture per operazioni
inesistenti emesse dalla società beneficiaria, ergo dallo stesso Calogero.
È
dunque
perfettamente
chiara
la
contestazione
mossa
all’odierno
ricorrente, ben essendo individuata la condotta attribuitagli.
15.3. Il terzo motivo è inammissibile: in parte perché basato sulla
formulazione di censure non consentite nel giudizio di cassazione e in parte
perché generico, nel senso che più oltre si chiarirà.
Non consentite sono le censure che, dietro l’apparente denuncia di vizi della
motivazione e di inosservanza dei criteri di valutazione delle prove, si traducono
in realtà nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta
motivatamente propria dal giudice di merito. Si è già osservato dianzi che nel
giudizio di legittimità non sono deducibili censure che riguardino la ricostruzione
dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze
esaminate dal giudice di merito. Conseguentemente non possono essere prese in
considerazione, stante la loro attinenza al fatto e la finalità di contrastare le
120
argomentate valutazioni del giudice di appello, tutte quelle deduzioni svolte dal
ricorrente che si presentano indirizzate a negare la sussistenza di prove circa
l’elemento psicologico del reato, nonché l’emissione di fatture per operazioni
inesistenti (in ordine alla quali la Corte territoriale non ha omesso di motivare,
ma lo ha fatto a pag. 206, spiegando che le contestazioni di vizi anticipatamente
formulate dalla Parmalat servivano a giustificare la mancata spedizione di merce
già pagata).
Sono invece generiche, in quanto prive di correlazione rispetto alla
motivazione della sentenza impugnata, quelle deduzioni difensive che, senza
confrontarsi con l’accusa mossa al Calogero di aver scientemente ricevuto per la
società Aranca dei pagamenti non dovuti, si soffermano sulla finalità perseguita
dalla Parmalat con l’acquisizione delle società facenti parte del gruppo Afim;
difendono tale scelta dal punto di vista imprenditoriale; sostengono la legittimità
della cessione dei crediti alle banche; valorizzano l’estraneità dell’imputato
all’amministrazione della Afim e alla Emmegi Agroindustriale. Va ricordato, in
proposito, il principio giurisprudenziale secondo cui la mancanza di correlazione
fra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell’atto d’impugnazione si traduce in un vizio di aspecificità del
motivo di ricorso, che ne comporta l’inammissibilità (Sez. 5, n. 28011 del
15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008, Lo
Piccolo, Rv. 240109; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634).
15.4. Il quarto motivo di ricorso si riferisce alla vicenda relativa all’acquisto
del marchio «Del Alpes» (distrazione ai danni della Parmalat Finance Corporation
BV, consistita nel pagamento di 20 miliardi di lire per il simulato acquisto del
marchio); le censure mosse dal ricorrente si volgono a negare la capacità
dimostrativa del contratto, recante la sua sottoscrizione (ormai non più
contestata), sul presupposto che l’accordo di cessione del marchio fosse stato
concluso nel marzo 2000, cioè prima che il Calogero assumesse responsabilità
amministrative nella società acquirente.
Il motivo non è fondato. La sentenza di appello fornisce alla critica una
risposta poggiante sul rilievo per cui il Calogero, per sua stessa ammissione
confermata dal coimputato Pessina, nel periodo dal 1999 al 2004 fece parte del
consiglio di amministrazione della Parmalat Food Holding, controllante della
Dairies Holding: donde la conclusione che egli non fosse totalmente estraneo alla
gestione della società coinvolta, quale beneficiaria, nell’illecito distrattivo; a ciò
deve aggiungersi che, in ogni caso, l’aver apposto la propria sottoscrizione al
contratto col quale si è data esecuzione all’accordo preliminare, sulla cui illiceità
si fonda l’accusa, ha costituito un contributo alla consumazione del reato, fornito
con la coscienza e volontà di aderirvi, di cui la Corte di merito ha tratto prova
121
dalle dichiarazioni rese dal Tonna (pagg. 211-212 della motivazione).
15.5. Destituito di fondamento è anche il quinto motivo, col quale il
ricorrente impugna la modulazione della pena e il giudizio di bilanciamento fra
circostanze attenuanti e aggravanti. Sotto il primo profilo, invero, va rimarcato
che la pena base determinata dalla Corte d’Appello per il reato di cui al capo B.2,
pari a tre anni e otto mesi di reclusione, è sufficientemente prossima al minimo
edittale da legittimare una motivazione espressa attraverso un implicito richiamo
al criterio di adeguatezza, sul quale già si era fondata l’identica determinazione
del giudice di primo grado (in argomento v. per tutte Sez. 2, n. 28852 del
08/05/2013, Taurasi, Rv. 256464; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore,
Rv. 256197); sotto il secondo profilo va rilevato che, contrariamente a quanto
sostiene il ricorrente, la Corte d’Appello non ha mancato di valorizzare il
comportamento processuale dell’imputato, connotato da talune dichiarazioni
sostanzialmente confessorie; proprio per tale ragione si è indotta a riconoscergli
le attenuanti generiche, il cui valore ponderale ha tuttavia ritenuto che non
potesse eccedere l’equivalenza rispetto alle aggravanti. Valga qui ricordare il
principio secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra
circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui
all'art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di
mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, n. 26908 del 22/04/2004,
Ronzoni, Rv. 229298).
Quanto alla doglianza concernente la mancata applicazione dell’indulto si
osserva che, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema,
quando a ciò non abbia provveduto il giudice della cognizione, procede a norma
dell’art. 672 cod. proc. pen. il giudice dell’esecuzione: conseguentemente il
ricorso per cassazione con il quale si lamenti la mancata applicazione del
condono è ammissibile solo quando il giudice di merito l’abbia erroneamente
esclusa, con specifica statuizione nel dispositivo della sentenza (Sez. 4, n. 1869
del 21/02/2013 - dep. 17/01/2014, Leo, Rv. 258174; Sez. 5, n. 43262 del
22/10/2009, Albano, Rv. 245106; Sez. 3, n. 25135 del 15/04/2009, Renda, Rv.
243907). Nel caso di cui ci si occupa la Corte d’Appello non ha affatto escluso
l’applicabilità del condono, ma si è limitata ad astenersi dal decidere in
argomento, legittimamente rimettendo la statuizione al giudice dell’esecuzione.
15.6. Anche il sesto motivo, infine, va rigettato in quanto infondato in
ognuna delle tre censure nelle quali si articola.
Ed invero, per ciò che concerne l’eccezione volta a far valere la mancanza di
prova del possesso, da parte dei creditori costituitisi parti civili, «dei titoli che
ritengono di azionare o di cui chiedono ristoro», non vi è che da ribadire quanto
già esposto trattando della analoghe censura mossa dal ricorrente Fausto Tonna
122
(paragrafo 11.15); si è ivi annotato, col richiamo ai precedenti giurisprudenziali
in tema, che la condanna generica al risarcimento dei danni non esige alcuna
indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando
soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della
esistenza di un nesso di causalità tra tale fatto e il pregiudizio lamentato.
Circa l’eccezione – comune ad altri ricorrenti – di inammissibilità della
costituzione di parte civile per i creditori delle procedure concorsuali, in relazione
al disposto dell’art. 240 legge fall., a disvelarne l’infondatezza vi è soltanto da
richiamarsi alle considerazioni dianzi svolte in via generale al paragrafo 9.3.
Quanto all’eccezione di inammissibilità delle costituzioni di parte civile non
accompagnate, secondo il ricorrente, da una mancata esposizione delle ragioni
atte
a
giustificare
la
domanda,
corre
l’obbligo
di
evidenziare
come
la
giurisprudenza citata a sostegno dal ricorrente (Sez. 2, n. 8723 del 07/05/1996,
Schiavo, Rv. 205872) sia stata ben presto superata da una serie ininterrotta di
decisioni che, a partire da Sez. 5, n. 6910 del 27/04/1999, Mazzella, Rv.
213612, sono pervenute ad enunciazioni di segno contrario affermando che, in
tema di costituzione di parte civile, l'indicazione delle ragioni che giustificano la
domanda risarcitoria è funzionale esclusivamente all'individuazione della pretesa
fatta valere in giudizio, non essendo necessaria un'esposizione analitica della
causa petendi, sicché per soddisfare la previsione normativa è sufficiente il mero
richiamo al capo di imputazione, allorquando il nesso tra il reato contestato e la
pretesa risarcitoria azionata sia immediato (così, da ultimo, Sez. 5, n. 22034 del
07/03/2013, Boscolo, Rv. 256500; v. anche Sez. 5, n. 684 del 05/02/1999,
Pindinello, Rv. 214876; Sez. 2, n. 13815 del 27/10/1999, Attinà, Rv. 214669).
16. SERGIO PIERO FRANCO EREDE
Anche di questo ricorso va riconosciuta l’infondatezza.
16.1. Ciò è a dirsi, innanzi tutto, del primo motivo, non sussistendo la
denunciata inosservanza del principio di correlazione fra contestazione ed
accusa. In argomento va rilevato, anzitutto, che secondo la giurisprudenza di
questa Corte Suprema la degradazione da «dolo» a «colpa» dell’elemento
soggettivo del reato non integra di per sé sola la violazione dell’art. 521 cod.
proc. pen.; siffatto principio si trae non soltanto dalla motivazione della sentenza
della Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 234605, citata dalla
Corte d’Appello, ma anche da altri arresti conformi in tema di riqualificazione del
delitto doloso di cui all’art. 595 cod. pen. in quello, di natura colposa, punito
dall’art. 57 dello stesso codice (Sez. 5, n. 2074 del 25/11/2008 - dep.
20/01/2009, Fioravanti, Rv. 242351; Sez. 5, n. 46203 del 09/11/2004, Mauro,
Rv. 231169); nonché, in generale, dalla più risalente Sez. 1, n. 7476 del
123
05/05/1994, Coturri, Rv. 198365.
In effetti perché possa negarsi la sussistenza della menzionata correlazione,
cui si riferisce il precetto dell’art. 521 cod. proc. pen., occorre che il divario fra
l’imputazione contestata e l’addebito ritenuto in sentenza si concreti in una vera
e propria immutazione del fatto: il che non può dirsi in un caso nel quale la
condotta ascritta nell’imputazione originaria sia ritenuta costitutiva – nella
riscontrata identità dell’evento e del nesso causale – del reato per il quale è
emessa condanna (art. 224, comma 1, n. 2 legge fall.); né giova al ricorrente
soffermarsi sulla diversità concettuale tra il «fallimento» e il «dissesto»
contemplati nelle due norme incriminatrici, atteso che il secondo di tali termini,
in seno al contesto normativo nel quale si colloca all’interno dell’art. 223, comma
2, della legge fallimentare, assume il significato di un evento inscindibile dal
fallimento, del quale costituisce l’indefettibile presupposto.
D’altra parte, quand’anche si accedesse all’assunto del ricorrente e si
ritenesse quindi di dover ravvisare un’immutazione del fatto, dovrebbe pur
sempre tenersi conto dell’ulteriore principio, consolidatosi in guisa tale da potersi
considerare «diritto vivente», a tenore del quale le norme che disciplinano le
nuove
contestazioni,
la
modifica
dell’imputazione
e
la
correlazione
tra
l’imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il
contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di
difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali
sono dirette, cosicché non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione
rispetto all’accusa, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione
pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato (così Sez. 4, n. 41663 del
25/10/2005, Rv. 232423; v. anche le successive Sez. 2, n. 46242 del
23/11/2005, Magnatta, Rv. 232774; Sez. 4, n. 10103 del 15/01/2007, Granata,
Rv. 236099; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866; nonché la
più recente pronuncia – citata dallo stesso ricorrente – con cui le Sezioni Unite,
chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale su altra questione, hanno tra
l’altro ribadito una volta di più il principio suesposto: Sez. U, n. 36551 del
15/07/2010, Carelli, Rv. 248051). Alla stregua di tale insegnamento non può
certamente affermarsi, nel caso di specie, che l’imputato abbia visto pregiudicata
la possibilità di difendersi attraverso l’iter del processo, rinvenendosi nello stesso
ricorso (pag. 8) l’ammissione che l’addebito a titolo di colpa ex art. 224 legge
fall. è emerso in sede di discussione ad opera del pubblico ministero, onde è
rimasta aperta alla difesa ogni possibilità di contrastare l’accusa.
La denunciata contraddittorietà del decisum, per essersi ritenuta la diversità
del reato sotto il profilo dei riflessi sulle statuizioni civili, e non anche dal punto di
vista penale, è in realtà insussistente. Il rilievo sul quale la Corte di merito ha
124
fondato l’esclusione – non sindacabile in questa sede, in quanto non impugnata
dalle parti civili – della solidarietà dell’Erede rispetto agli altri imputati (ad
eccezione di Giuliano Panizzi e Davide Fratta, coi quali la solidarietà è stata
invece affermata) ai fini del risarcimento dei danni, e cioè la diversità del reato di
cui all’art. 224 legge fall. rispetto agli illeciti a coloro addebitati, è giuridicamente
ineccepibile, trattandosi di fattispecie contemplate da norme incriminatrici
distinte; ma tale diversità dei reati non comporta – per quanto dianzi visto – la
violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., che si riferisce alla diversità del fatto e
non
del
reato:
tant’è
che
la
stessa
disposizione
legislativa
consente
espressamente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da
quella attribuitagli nell’imputazione.
16.2. Il secondo motivo s’incentra sul tema inerente alla responsabilità degli
amministratori non esecutivi, sul quale ci si è già intrattenuti in via generale al
paragrafo 8. In aggiunta a quanto ivi argomentato merita, altresì, richiamarsi
alla analitica elencazione, contenuta nella sentenza impugnata, dei «segnali
d’allarme» di cui, pure, si è già detto in precedenza scrutinando il ricorso di
Enrico Barachini (paragrafo 13.2); segnali che, per quanto riguardante l’Erede, la
Corte territoriale ha specificamente individuato nella sproporzionata liquidità, in
presenza di un massiccio indebitamento del gruppo, nelle ragioni giustificatrici
della
delibera
di
aumento
di
capitale
della
Parmalat
Participações
e
nell’operazione denominata swap Sumitomo: anomalie, codeste, la cui evidenza
non poteva essere sfuggita – né era sfuggita di fatto – e che avrebbero dovuto
far comprendere all’odierno ricorrente, se vi avesse dedicato la doverosa
diligente attenzione, che i bilanci erano certamente falsi, che la condizione del
gruppo era peggiore rispetto a quella in essi
rappresentata e che gli
amministratori delegati avevano realizzato frodi e distrazioni: così si esprime la
sentenza di appello, a pag. 215, forzatamente adeguandosi alla valutazione del
Tribunale, ma lasciando intendere che a più severo giudizio avrebbe potuto
condurre un’eventuale impugnazione del pubblico ministero.
Non è pertinente alla ratio decidendi della sentenza impugnata l’assunto del
ricorrente secondo cui la responsabilità per i falsi contenuti nei bilanci della
società controllata dovrebbe ricadere soltanto sugli amministratori di questa e
non anche su quelli della società controllante. Il fondamento della condanna
pronunciata a carico dell’Erede non si riferisce ai riflessi in ambito fallimentare
(art. 223, comma 2, n.1 legge fall.) del reato societario ex art. 2621 cod. civ.,
che certamente non avrebbero potuto essergli ascritti a titolo di colpa, bensì alla
omissione delle attività che un diligente amministratore avrebbe dovuto porre in
essere, in adempimento all’obbligo di «agire informato», per opporsi alla
prosecuzione di una linea gestionale che determinava una crescita smisurata
125
dell’indebitamento, occultandola con artifici contabili, e che non avrebbe
mancato di condurre al prevedibile disastro: omissione della quale la Corte di
merito ha motivatamente ravvisato il carattere colposo, anche quando si era
concretata nella mancata partecipazione ai consigli di amministrazione nei quali
venivano approvate le anomale operazioni di cui si tratta (pag. 216 della
sentenza). Quanto alla concreta possibilità di impedire l’evento valga qui
ribadire, come già osservato in precedenza, che per l’assolvimento dei doveri
dell’amministratore la legge richiede non già il necessario raggiungimento
dell’esito impeditivo, ma l’espletamento di quanto in suo potere nel perseguire
tale finalità; ed è nell’essere mancato a tale suo obbligo che s’incentra il
rimprovero mosso all’Erede dai giudici di merito.
16.3. Il terzo motivo si articola in tre censure, che non meritano
accoglimento per le ragioni di seguito esposte.
Non risponde a verità l’assunto secondo cui la Corte d’Appello avrebbe
trattato il delitto di cui all’art. 224 legge fall. come un reato a forma libera. In
realtà il collegio di seconda istanza si è dato carico di individuare gli obblighi
posti dalla legge a carico del ricorrente, nella sua qualità di componente del
consiglio di amministrazione, e da lui non osservati; al riguardo ha fatto espresso
riferimento al dettato dell’art. 2392, comma secondo, cod. civ., rimarcando come
esso istituisca una responsabilità di carattere generale – residuale e sussidiario
in relazione all'intero andamento della società – che prescinde dalla violazione
degli specifici obblighi demandati agli amministratori: responsabilità che già per
come
normativamente
prevista
si
qualifica
per
essere
inevitabilmente
conseguente ad una omessa attivazione a fronte di fatti pregiudizievoli («sono
solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non
hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o
attenuarne le conseguenze dannose»). Non è condivisibile la critica secondo cui il
giudice di secondo grado, così opinando, avrebbe fatto rientrare «dalla finestra»
l’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, uscito «dalla porta»
con la riforma del diritto societario attuata della legge 28 dicembre 2005, n. 262;
in realtà i compiti affidati dalla legge agli amministratori, ancorché privi di
delega, si estendono tuttora al controllo sul generale andamento della gestione
quale riflesso dell’obbligo, posto a carico degli organi delegati dal quinto comma
dell’art. 2381 cod. civ., di riferire in proposito al consiglio di amministrazione:
giacché, se non si ritenga di attribuire a tale adempimento il significato di un
vacuo rituale, appare evidente come ad esso si ricolleghi il corrispondente
obbligo per i componenti del consiglio di amministrazione di esercitare con tale
strumento la vigilanza sull’operato dei delegati anche in rapporto al generale
andamento della gestione, espressamente menzionato dalla norma.
126
In materia di accertamento del nesso di causalità, vale anche per le
condotte omissive il criterio dell’equivalenza delle cause: con la conseguenza per
cui l’inerzia del singolo amministratore, quand’anche insufficiente da sola a
determinare
l’evento,
acquista
efficacia
causale
nell’unirsi
all’identico
atteggiamento omissivo – sia esso colposo o doloso – degli altri componenti
l’organo
amministrativo;
rovesciando
il
suesposto
ragionamento
si
attua
l’invocata verifica controfattuale: giacché l’idoneità dell’opposizione del singolo a
impedire l’evento – o quanto meno a limitarne le conseguenze – non va
riguardata isolatamente, come destinata a soccombere inevitabilmente di fronte
al contrario atteggiamento altrui, ma nella sua attitudine a rompere un silenzio
omertoso e a sollecitare, col richiamo agli obblighi imposti dalla legge e dai
principi della corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri
amministratori.
Alla stregua di quanto or ora osservato non merita di essere condiviso
l’assunto a tenore del quale, nel valutare l’efficienza eziologica della condotta
omissiva
del
ricorrente,
la
si
dovrebbe
riguardare
individualmente,
sul
presupposto che l’esclusione del concorso con gli altri imputati abbia conferito al
reato una valenza monosoggettiva. Anche su tale versante la Corte d’Appello ha
dato risposta conforme al diritto col rimarcare che, pur dovendosi escludere
l’ipotesi del concorso di persone nel medesimo reato ex art. 110 cod. pen.,
ricorrono nella fattispecie gli estremi del concorso di cause: il quale è
configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nella forma del concorso di
cause indipendenti, sia in quella della cooperazione colposa (Sez. 4, n. 4107 del
12/11/2008 - dep. 28/01/2009, Calabro', Rv. 242830; Sez. 4, n. 10795 del
14/11/2007 - dep. 11/03/2008, Pozzi, Rv. 238957).
16.4. Le considerazioni fin qui svolte rendono conto, al contempo,
dell’infondatezza di gran parte delle censure che informano il quarto motivo: sia
là dove negano senza ragione la rilevanza dei segnali di allarme in riferimento a
una
fattispecie
colposa;
sia
nella
parte
in
cui,
ponendosi
al
limite
dell’inammissibilità per refluenza nel fatto, contrastano il giudizio espresso dalla
Corte di merito circa la prevedibilità ed evitabilità del dissesto; sia nel richiamo
alla struttura del reato ex art. 224, n. 2 della legge fallimentare (avuto riguardo
all’elemento dell’inosservanza degli obblighi imposti dalla legge), volto a farne
derivare una critica alla metodologia seguita per l’accertamento della colpa; sia
dove lamentano – contro il vero, per quanto già osservato – che la Corte
d’Appello abbia imputato all’Erede una colpa generica e non la violazione di un
obbligo di legge.
Sono senz’altro inammissibili, perché finalizzate a contrastare l’accusa con
argomentazioni di puro merito, le restanti deduzioni in ordine alla concreta
127
attitudine dei segnali d’allarme a far comprendere la falsità dei bilanci e la reale
situazione della Parmalat; alla rivendicata osservanza, da parte del deducente,
dei canoni dell’agire informato; alle condizioni economico-finanziarie del gruppo
Parmalat all’epoca dei fatti.
16.5. Da disattendere è anche il quinto motivo, col quale il ricorrente si
duole che la responsabilità attribuitagli sia stata equiparata a quella di Davide
Fratta e Giuliano Panizzi, ritenuti responsabili del medesimo reato (peraltro
prosciolti per prescrizione, non avendovi rinunciato) sebbene la posizione di
costoro si differenziasse per il loro inserimento nella principale controllata
operativa nella quale si sarebbe consumata la maggior parte degli illeciti oggetto
d’imputazione, con la conseguente apprezzabilità di un maggior numero di
segnali d’allarme.
Osserva questa Corte che la censura così formulata – che il ricorrente
chiarisce non essere indirizzata a contestare la decisione assunta nei confronti
dei coimputati – non può tendere al perseguimento di un risultato concreto in
favore del deducente, se non rapportandola alla richiesta di annullamento della
condanna emessa nei confronti dell’Erede per vizio di motivazione, sotto il profilo
della dedotta sopravvalutazione dei tre indici di anomalia che gli si imputa di
aver trascurato. Ma ciò si traduce nel reiterare la contestazione, sul piano del
merito, del giudizio espresso in proposito dalla Corte d’Appello in ordine
all’idoneità dei segnali d’allarme a far conoscere i fatti pregiudizievoli causatori
del dissesto: donde la manifesta infondatezza del motivo in esame.
16.6. Inammissibile è anche il sesto motivo, col quale il ricorrente impugna
la concreta determinazione della pena e il diniego del beneficio della non
menzione della condanna nel certificato penale. In proposito va rimarcato che
ambedue
le
statuizioni
in
discorso
sono
rimesse
dall’ordinamento
alla
discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di
legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai
canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d’Appello non ha mancato di
motivare la propria decisione sui punti in questione: sia con l’osservare che la
riduzione della pena – attuata in considerazione dei limiti temporali dell’attività
illecita sanzionata e dell’esclusione dell’aggravante ex art. 112 cod. pen. – ne ha
comportato la quantificazione in misura prossima al minimo edittale; sia
evidenziando l’eccezionale gravità ed enorme lesività dei fatti in contestazione e
il grado elevato di colpevole negligenza attribuibili all’imputato. Siffatta linea
argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo adeguatamente conto
delle ragioni della decisione adottata sotto entrambi i profili cui la doglianza si
riferisce; d’altra parte non è necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione,
che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui
128
all’art. 133 cod. pen., essendo invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi
che, nel discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo.
16.7. Il settimo motivo impugna il diniego dell’estensione al ricorrente, ex
art. 587 cod. proc. pen., degli effetti dell’ordinanza emessa il 12 dicembre 2011
dalla Corte territoriale, che ha dichiarato l’inammissibilità delle costituzioni di
parte civile di Alvisi + 45, Lavagnino + 47, Di Stefano + 11, Cabrini, Ballarin +
159, Beltrami + 115, Corvaia + 12, Abbiati + 1209, Bertani + 44, Abbondanza +
35, Allegri + 73, Pompini + 38, Agresti + 55, Anceschi + 36. L’argomento è già
stato trattato in via generale al paragrafo 9.1, per cui non vi è che da
richiamarsi, a confutazione, alle considerazioni ivi svolte.
16.8. L’ottavo motivo impugna la statuizione, inerente agli interessi civili,
con cui la Corte di merito ha posto a carico dell’Erede, in solido con i coimputati
Fratta e Panizzi, una provvisionale in favore dei creditori costituitisi parti civili
pari allo 0,3% dell'importo nominale del valore delle obbligazioni od azioni
acquistate, quale risultante dagli atti di costituzione di parte civile e relativi
allegati. Sostiene il ricorrente che con tale disposizione, ad onta dell’«etichetta»
attribuitale, la Corte avrebbe statuito in realtà non una provvisionale, ma una
liquidazione definitiva del danno patrimoniale; col risultato di precluderne
illegittimamente l’impugnabilità in cassazione e di sottrarsi all’obbligo di
specificare la quota di responsabilità a carico dell’Erede; sotto altro profilo
lamenta che si sia infondatamente applicata la solidarietà fra i coimputati, pur
essendosi escluso il concorso di persone.
La complessa censura è priva di fondamento.
Il provvedimento di rimessione al giudice civile della liquidazione del danno
conseguente a reato, ai sensi dell’art. 539 cod. proc. pen., investe il predetto
giudice della cognizione del quantum risarcibile in ogni sua componente, senza
che possa essere vincolato dalla scelta dei criteri adottati nella fissazione della
provvisionale, ancorché in quest’ultima determinazione il giudice penale si sia
sforzato di accostarsi per quanto possibile al previsto risultato della liquidazione
definitiva. Con ciò si vuol dire che l’avere la Corte d’Appello, nel caso di specie,
adottato un criterio di quantificazione della provvisionale tale da prospettare una
sua possibile coincidenza con l’ammontare effettivo del danno patrimoniale non
muta la natura giuridica della disposizione così adottata, la quale conserva
pertanto i caratteri, che le sono propri, di provvisorietà e di rivedibilità da parte
del giudice civile.
Da tali caratteri discende la non censurabilità della provvisionale nel giudizio
di cassazione, affermato in molteplici enunciazioni da questa Corte Suprema,
come del resto riconosciuto anche dal ricorrente.
Ne
rimangono,
conseguentemente,
129
assorbite
e
travolte
le
ulteriori
argomentazioni sviluppate dal ricorrente sul presupposto che la statuizione qui
specificamente
patrimoniale.
impugnata
Vale
soltanto
concreti
la
una
pena
di
liquidazione
definitiva
aggiungere,
per
del
danno
completezza
di
motivazione, che il principio della responsabilità solidale di tutte le persone a cui
sia imputabile un fatto dannoso, quale si evince dall'art. 2055, primo comma
cod. civ., trova applicazione anche nel caso in cui l’unico evento sia il risultato
del concorso di cause autonome (v. Sez. 4, n. 10226 del 30/04/1984, Marino,
Rv. 166762).
16.9. Per quanto riguarda, infine, le deduzioni svolte nella memoria
difensiva, vi è soltanto da richiamarsi a quanto argomentato al paragrafo 5 circa
l’inopponibilità, nella presente sede, del giudicato formatosi in esito al processo
apertosi davanti al Tribunale di Milano per i diversi reati di aggiotaggio e ostacolo
alle funzioni di vigilanza.
17. GIULIANO PANIZZI
Il ricorso non può trovare accoglimento.
17.1. Il primo motivo è, nel suo complesso, infondato.
Va premesso che la Corte territoriale, in riforma della decisione di primo
grado, ha ritenuto che al Panizzi deve essere addebitata una negligente
omissione in relazione agli obblighi a lui incombenti come consigliere non
esecutivo di Parmalat s.p.a., con conseguente derubricazione dei fatti relativi alla
stessa Parmalat ed a Par.fin. s.p.a. - ascrittigli ex art.223, comma secondo, n. 1,
l. fall. - nell’ipotesi di cui all’art.224, n. 2 l. fall.
Ciò posto, la Corte territoriale, valorizzando le competenze del Panizzi e
l’ampio periodo in cui ha ricoperto il ruolo di consigliere non esecutivo di
Parmalat s.p.a., ha, con argomentazioni che non esibiscono alcuna manifesta
illogicità, puntualizzato i presupposti del suo obbligo di attivarsi, che si collocano
nella cornice normativa di riferimento sviluppata supra al n. 8 della presente
motivazione, e soprattutto, la possibilità che il ricorrente percepisse gli indici di
anomalia gestionale. Ne discende che non si evidenzia un mutamento, sotto il
profilo temporale, dei fatti ascritti, ma una valorizzazione delle competenze
maturate negli anni in cui il Panizzi è stato consigliere non esecutivo.
Il riferimento contenuto in ricorso all’assenza di consapevolezza della falsità
del bilancio di Parmalat s.p.a. non coglie nel segno, poiché la derubricazione
della condotta è avvenuta proprio alla stregua dell’assenza di specifici elementi
idonei ad indicare almeno l’intervenuta accettazione del rischio dell’evento
pregiudizievole
e
a
fronte
dell’azione
decettiva
effettivamente
e
comprovatamente svolta dalla cd. “cabina di regia”.
Al contrario, al Panizzi è attribuita una condotta colposamente inerte, per
130
non essersi mai attivato nel chiedere spiegazioni o formulare istanze di
approfondimento,
di
acquisizione
di
documentazione,
se
non
addirittura
nell’opporsi a determinate scelte della “cabina di regia”, giacché, se pure la cd.
“finanza creativa” trovava spazio in Par.fin. s.p.a. – i cui bilanci il Panizzi ha
riconosciuto di avere comunque studiato -, le vere e maggiori distrazioni – verso
il Turismo, verso le società di famiglia, verso le correlate, verso il Sud America –
avvenivano in Parmalat s.p.a., principale fonte di vera e reale produttività della
holding.
Al riguardo, venendo poi ad esaminare le censure che investono la
consistenza dei segnali d’allarme, osserva la Corte che il rapporto di controllo tra
Par.fin s.p.a. e Parmalat s.p.a. e la ammessa conoscenza dei bilanci della prima
non possono rendere irrilevante, come il Panizzi pretenderebbe, il fatto che il
rapporto fra liquidità e il debito nonché il riacquisto dei bond, concernessero la
prima e non la seconda società.
Quanto poi alle critiche che investono la rilevanza assegnata ai dati relativi
agli oneri finanziari, la Corte territoriale, con motivazione che non esibisce alcuna
manifesta illogicità, superando i dubbi prospettati dalle difese alla stregua di
calcolo non esaurientemente e documentalmente fondati (e sul punto il ricorso
opera un generico rinvio alle doglianze contenute nell’atto di appello, senza
indicare le basi obiettive della diversa ricostruzione), ha sottolineato che gli oneri
finanziari pagati da Parmalat sul debito negli anni 1997/2002 ondeggiavano tra il
10% ed il 15%,
contro un tasso di riferimento di Bankitalia che variava nel
medesimo periodo dal 2,5% al 5,5%: il che, da un lato, è apparso significativo
della sfiducia degli Istituti di Credito nella holding parmense, a fronte della della
apparente liquidità ingentissima vantata dalla medesima; e dall’altro, rendeva
incomprensibile
avendo
a
che il Gruppo continuasse a sostenere costi così cospicui, pur
disposizione
una
elevata
liquidità
con
cui
avrebbe
potuto
tranquillamente abbatterli, posto che gli interessi percepiti – da bilancio la
liquidità produceva solo il 3,5% di interessi - erano decisamente inferiori ai costi
stessi. D’altra parte, ugualmente rilevante era il dato che gli oneri finanziari
assorbivano
la
maggior
parte
del
reddito
lordo
prodotto
dal
business,
corrispondendo già nel 1999 al 140% del MOL, nel 2000 al 170% del MOL, per
poi giungere al livello drammatico del 2003, con un assorbimento dell'84% del
reddito lordo prodotto.
Per ciò che concerne, infine, l’efficacia causale dell’alternativa condotta
pretesa dall’imputato, va rilevato che, ancora una volta con motivazione priva di
elementi di manifesta illogicità, la Corte territoriale ha sottolineato che una
qualsiasi azione di pubblico dissenso in ordine all’ennesima emissione di bond o
alla loro appostazione in bilancio,
o una richiesta di maggiori chiarimenti
131
pubblicamente formulata – se non addirittura una denuncia alle preposte
Autorità – circa le anomalie della gestione e di talune decisioni di finanza
strutturata e di investimento quanto meno azzardato o ancora circa la
allocazione della liquidità o in ordine alla effettiva quantificazione e composizione
del debito, avrebbero costituito un intervento proficuo che, pure se non idoneo a
preservare la conservazione dell’integrità totale del patrimonio sociale, avrebbe
comunque espresso, tramite una funzione di allarme e manifesto controllo,
quella tutela della società (con i suoi soci e dipendenti) e dei diritti dei suoi
creditori che costituisce un dovere precipuo di tutti gli amministratori e dei
sindaci, evitando l’aggravamento del dissesto ovvero dei danni cagionati dallo
stesso. D’altra parte, anche l’eventuale inerzia di alcune Autorità di controllo non
escluderebbe la responsabilità degli amministratori e dei sindaci, che il
legislatore ha posto come garanti della correttezza delle scelte sociali nonché dei
diritti dei soci e dei creditori.
17.2. Il secondo motivo è infondato, per le considerazioni sviluppate supra
al n. 9.3 della presente motivazione.
17.3. Del pari infondato è il terzo motivo, per le ragioni esposte supra al n.
9.2. della presente motivazione.
17.4. Il quarto motivo è inammissibile, giacché non è deducibile con il
ricorso per cassazione la questione relativa alla pretesa eccessività della somma
di denaro liquidata a titolo di provvisionale (Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010,
Mazzamurro, Rv. 248348).
18. DAVIDE FRATTA
Il ricorso non può trovare accoglimento.
18.1. Il primo motivo è infondato, dal momento che la soluzione propugnata
dal ricorrente, oltre a non trovare alcun aggancio nell’ampia formulazione
letterale dell’art. 578 cod. proc. pen., collide con la funzione della costituzione di
parte civile nel processo penale, che mira a garantire, in una sede unitaria, la
delibazione della pretesa risarcitoria che trovi
la propria causa petendi nei
pregiudizi derivati dal fatto storico attribuito all’imputato e che assume una
dimensione illecita, quale che sia la qualificazione che, a fini penalistici, ne venga
data dal giudice.
Ne discende che il giudice d’appello, nel dichiarare l’estinzione del reato per
intervenuta prescrizione, ancorché tale conseguenza scaturisca da una diversa
qualificazione dei fatti, è tenuto a decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili.
18.2. Il secondo motivo è, del pari, nel suo complesso, infondato.
Rinviando, per i profili generali, alle considerazioni svolte supra al n. 8 della
presente motivazione, quanto ai presupposti della responsabilità dei sindaci,
132
osserva la Corte che la sentenza impugnata, dopo avere dato ampio conto dei
segnali di allarme che caratterizzavano la posizione di Parmalat s.p.a., ha, con
motivazione che non
esibisce alcuna
manifesta
illogicità, sottolineato la
gravissima inerzia manifestata dall’imputato nell’esercizio dei poteri di controllo
gravanti sui sindaci.
Ed, infatti, essa ha rilevato che nessuna verifica era mai stata fatta riguardo
alle problematiche coinvolgenti Par.fin. s.p.a., alla emissione dei bond o degli
altri titoli di debito, e più in generale alla politica finanziaria del gruppo, anche
nella misura in cui coinvolgeva Parmalat s.p.a., neppure nel corso del 2003. La
Corte territoriale ha aggiunto che lo stesso Fratta: a) aveva precisato di non aver
analizzato né mai
preso in considerazione eventuali
indici
di instabilità
patrimoniale, economica o finanziaria rinvenibili dai bilanci della società o del
gruppo, non avendo egli – che pure era iscritto all’albo dei revisori - specifiche
competenze e fidandosi di conseguenza di ciò che gli veniva riferito dagli altri
due
sindaci;
b)
aveva
affermato
che
nessuna
verifica
sulla
struttura
organizzativa della società era stata fatta dal collegio sindacale, che aveva
fiducia in Tanzi e Tonna, ritenendo che l'accentramento dei poteri in capo a tali
persone fosse un fattore positivo e di forza della società; c) che, pertanto, pur
essendo egli venuto a conoscenza da Del Soldato dell'esistenza di un sistema
informatico di controllo di gestione dei dati industriali (il cd. HQR), non aveva
mai svolto alcuna verifica sullo stesso, né aveva mai visionato i dati riportati da
tale sistema; d) che neppure riguardo alle acquisizioni compiute dal gruppo
erano state formulate mai richieste di chiarimenti o di approfondimenti da parte
del collegio, avendo i sindaci sempre ed anche in questo caso riposto la propria
fiducia nel fatto che gli amministratori agissero per il bene della società,
ritenendo sufficienti le notizie acquisite nel corso delle riunioni del consiglio di
amministrazione; e) che, del pari, nessuna verifica o richiesta di chiarimenti era
stata neppure effettuata dal collegio sindacale in ordine ai rapporti con le società
controllate né ai rapporti con le concessionarie, che costituivano uno dei sistemi
attraverso i quali Parmalat s.p.a. aveva creato un sistema di crediti fittizi o al
sistema di smobilizzo dei crediti della società.
Né, peraltro, a fronte di tale puntuale valutazione, ha pregio la censura
concernente la rilevanza causale dei colposi inadempimenti ascritti al Fratta,
giacché non è indispensabile (né possibile) conoscere con certezza "scientifica"
(non trattandosi di un esperimento ripetibile) se - attivandosi il Fratta e, con lui,
il collegio- gli eventi contestati sarebbero stati sicuramente evitati nella loro
realizzazione o, almeno, in alcune modalità della loro realizzazione; tuttavia, tale
è il presupposto dal quale il legislatore muove, nel configurare i penetranti poteri
di verifica assegnati ai sindaci (Sez. 5, n. 31163 del 01/07/2011, Checchi, Rv.
133
250555).
Con riferimento all’articolazione del motivo che mette in discussione
l’applicabilità delle raccomandazioni della Consob alle società non quotate, è poi
appena il caso di rilevare che puntualmente la Corte territoriale ha precisato non
solo che erano gli stessi sindaci ad affermare
di essersi attenuti a tutte le
indicazioni elencate appunto nel d. lgs. n. n.58 del 1998, ma anche che l’art. 165
di quest’ultimo decreto, all’epoca vigente, prevedeva espressamente che la
normativa si applicasse anche alle società controllate, come appunto Parmalat
s.p.a., da società con azioni quotate.
19. MARIO ALFONSO PAOLO MUTTI
Il ricorso non può trovare accoglimento.
19.1. Il primo motivo è infondato.
Nel paragrafo n. 7 che precede della presente motivazione si sono illustrate
le ragioni per le quali il fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta
previsto dall’art. 216, comma primo, legge fall., richiamato dal primo comma del
successivo art. 223, con la conseguenza che non può trovare accoglimento la
tesi che ritiene necessario l’accertamento della sussistenza di un nesso eziologico
tra la condotta, realizzatasi con il compimento di un atto dispositivo che incide
sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, e il fallimento. Sul
piano soggettivo, si è, pertanto, rilevato che, né la previsione dell'insolvenza
come effetto necessario, possibile o probabile, dell'atto dispositivo, né la
percezione della sua stessa preesistenza nel momento del compimento dell'atto
possono essere condizioni essenziali, ai fini dell'antigiuridicità penale della
condotta.
A tali principi si è attenuta la Corte territoriale, sottolineando la piena
consapevolezza da parte del ricorrente del carattere distrattivo delle condotte
poste in essere, attraverso gli esborsi sostenuti dal Gruppo di Collecchio per
l’acquisizione Sidac, operata tramite la società AGIM, riconducibile al primo, e
che crearono una significativa emorragia di risorse per un investimento
palesemente oltre che notoriamente improduttivo.
Sul punto, occorre considerare che la sentenza impugnata, con motivazione
che non palesa alcuna manifesta illogicità, ha sottolineato che la conoscenza, da
parte del ricorrente, del carattere artificioso delle tecniche utilizzate per occultare
le uscite di denaro dalla sub-holding alimentare tramite rapporti fittizi con le
correlate e, in definitiva, degli strumenti adoperati per mascherare le forme di un
finanziamento al Gruppo Aranca, la cui antieconomicità era evidente, si desume
dai seguenti elementi: a) in primo luogo, il fatto che il Mutti fosse consigliere di
Par.fin. s.p.a, oltre che longa manus dell’operazione; b) il fatto che, secondo
134
quanto riferito dal Baratta, l’operazione, in ragione della quale la società Emmegi
si sarebbe sostanzialmente accollata i debiti verso le banche di Aranca, era stata
studiata proprio da Mutti e portata avanti da un suo funzionario, tale Fini; c) il
fatto che il Mutti era certamente a conoscenza del giro di cessione di crediti
intercorrente tra l’una e l’altra delle medesime società formalmente a lui riferibili,
quale
documentato
dalle
stesse
lettere
da
lui
prodotte,
nonché
della
compromessa situazione finanziaria di Sidac, giacché, a quest’ultimo riguardo,
era stato proprio il ricorrente a trattare con le banche per una moratoria dei
debiti della stessa; d) il fatto che il Mutti era evidentemente a conoscenza anche
del fatto che il debito contratto non sarebbe mai ripianato, come risulta dalle
medesime lettere e dalla contabilità; e) il fatto che il carattere assolutamente
improduttivo dell’operazione emergeva non solo dalla due diligence redatta
preliminarmente dal coimputato Calogero, ma anche dalle reazioni affatto
negative all’acquisto espresse a viva voce da Tonna e dalle obiettive circostanze
rilevabili attraverso un
un semplice sopralluogo presso gli stabilimenti, palesemente fatiscenti e vetusti,
tali da scoraggiare clienti ed investitori.
Rispetto a tale articolato quadro probatorio, il ricorrente si concentra
esclusivamente sulla mancanza di una prova certa della sua conoscenza dei
risultati della due diligence effettuata dal Calogero, ma trascura gli altri profili.
Né assume rilievo che il Mutti fosse o non a conoscenza delle ragioni, legate
all’interesse di un uomo politico al salvataggio del gruppo Aranca, che avevano
indotto il Gruppo di Collecchio ad investire in un progetto chiaramente
fallimentare.
In tale contesto, non colgono nel segno le considerazioni, sviluppate
particolarmente nella memoria depositata nell’interesse del Mutti, concernenti la
posizione di controparte di quest’ultimo rispetto a Parmalat, alla stregua del
patto che prevedeva un compenso del primo, in ragione del suo coinvolgimento
nell’operazione. L’esistenza di una motivazione personale del Mutti non esclude,
infatti, sul piano logico la consapevolezza del carattere distrattivo delle attività
che, anche per il suo tramite, ebbero a realizzarsi.
Così come non assume rilievo la verifica del carattere simulato o non
dell’intervento operato attraverso la società AGIM, riferibile al Mutti, nel Gruppo
Aranca, giacché, in ogni caso, il finanziamento, effettuato senza alcuna
ragionevole garanzia di restituzione e con la consapevolezza dell’assenza di
qualunque realistica prospettiva di ritorno economico, configura un’evidente
sottrazione di risorse dell’impresa alle finalità cui esse sono destinate, quali che
possano poi essere gli ulteriori soggettivi intendimenti dell’agente.
19.2. Infondato è anche il secondo motivo, giacché, alla stregua delle
135
superiori
considerazioni,
appare
evidente
che
la
ricostruzione
dei
fatti
logicamente operata dalla Corte territoriale rende palese, sotto il profilo
oggettivo, l'incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell'impresa, delle
operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza
dell'autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del
tutto estranei alla medesima, talché corretta è la qualificazione dei fatti in esame
nei termini della bancarotta fraudolenta (Sez. 5, n. 47040 del 19/10/2011,
Presutti, Rv. 251218).
20. CAMILLO FLORINI
Il ricorso non può trovare accoglimento.
20.1 Esaminando preliminarmente, per ragioni di ordine logico, il quinto
motivo, con il quale si deduce la nullità derivata della richiesta di rinvio a
giudizio, per violazione dell’art. 415 bis cod. proc. pen., rileva la Corte che la
censura è infondata, alla luce delle considerazioni svolte nel n. 3 della presente
motivazione.
20.2. Il secondo e il terzo motivo, esaminabili congiuntamente per la loro
stretta connessione logica, sono, nel loro complesso, infondati.
Al riguardo, va, in primo luogo, osservato che non sussiste alcuna
contraddittorietà nella motivazione che, se, per un verso, in una prospettiva
garantistica rispetto alla posizione dell’imputato, ha escluso l’essenzialità e
insostituibilità del suo ruolo, al fine di qualificare il Florini come mero associato e
non come organizzatore nell’ambito della fattispecie associativa, per altro verso,
in relazione ai singoli episodi distrattivi, ha compiutamente ricordato gli incarichi
ricoperti, in vista dell’accertamento della necessaria consapevolezza della
sottrazione
delle
risorse
travasate
verso
il
settore
Turismo
alle
finalità
imprenditoriali del soggetto erogatore.
Ciò posto, va rilevato che nel capo di imputazione è puntualmente stata
identificata la qualifica in forza della quale il ricorrente è chiamato a rispondere
delle distrazioni operate: egli viene indicato come beneficiario, in ragione del
ruolo apicale ricoperto nella percettrice Hit s.p.a.
Siffatta rilievo, oltre a rendere inconferenti le assoluzioni, registrate in altro
processo, dalle imputazioni di bancarotta in danno della medesima società e di
Hit International s.p.a., dimostra, altresì, l’irrilevanza in radice delle critiche che
attengono alla mancata attribuibilità all’imputato dell’ideazione e dell’esecuzione
del sistema individuato per far convergere sulla società destinataria i pagamenti
eseguiti dal Gruppo di Collecchio, per il tramite dello schermo della Web
Holdings. Va, per completezza, aggiunto che comunque, anche dal punto di vista
organizzativo, il ruolo del Florini è stato logicamente ritenuto tutt’altro che
136
secondario, alla luce degli elementi che verranno sotto ricordati e senza che, in
senso contrario, possa valorizzarsi il mutamento di strategie operative, che,
sempre sul piano della coerenza argomentativa, ben si spiegano con un
progressivo affinamento delle tecniche di occultamento dei finanziamenti.
In realtà, ad assumere rilievo è solo la consapevolezza, da parte del Florini,
che le somme versate in favore della Hit s.p.a., la cui disastrosa condizione
economica era, al pari dell’intero Gruppo Turistico universalmente nota (e sul
punto, infatti, non si registrano censure nel ricorso), provenissero dalle società
poi fallite e fossero organizzate in vista del necessario sostegno economico al
primo.
Ora, la sentenza impugnata, con motivazione assolutamente razionale, non
ha affatto ritenuto decisiva la consegna da parte di Tonna a Florini del Third Loan
Agreement – che ha, invece, colto come elemento dimostrativo della piena
intraneità dell’imputato rispetto ai meccanismi operativi che si esaminano -, in
quanto ha collocato la prova di tale consapevolezza sin dal momento in cui il
Florini, da direttore finanziario di HIT s.p.a, aveva prelevato e distratto a proprio
vantaggio una parte del finanziamento (e, al riguardo, poco importa la causale
del prelievo a titolo personale dell’imputato, in quanto ciò che conta è la
consapevolezza della fonte di provenienza del denaro). Ed infatti, anche al di là
della
trasversalità
degli
incarichi
ricoperti
nel
settore
Turismo,
occorre
considerare, secondo l’argomentato apprezzamento dei giudici di merito: a) che
se è vero che non è l’imputato ad aprire il conto lussemburghese di Business &
Leisure, è vero però che tutte le movimentazioni sono effettuate quando Florini è
ancora direttore finanziario della società (26-29 giugno 2000), quando per
funzioni
e
poteri
ha
la
responsabilità
di
supervisionare
le
fonti
di
approvvigionamento finanziario di un settore in piena crisi; b) che il teste
Baratta, alla domanda, postagli in dibattimento, se sul conto lussemburghese si
vedesse da dove arrivavano i soldi, ha chiarito che era palese che la provvista
arrivasse da Parmalat Finance Corporation; c) che la teste Rigolli, dell’ufficio
legale Parmalat, del pari, aveva ribadito che, benché al livello ufficiale tutti si
affannassero a parlare di finanziamento da parte della società del Delaware, era
ben chiaro che era la famiglia Tanzi l’unica azionista e finanziatrice del settore
Turismo (e del resto, sarebbe stato assolutamente singolare che una società
terza avesse scelto di investire enormi
flussi
di
denaro in un settore
costantemente in perdita); d) che, in definitiva, non era ragionevole ritenere che
persino una dipendente dell’ufficio legale fosse a conoscenza di una realtà –
peraltro facilmente intuibile – e ciò fosse sconosciuto al Florini, che non per caso
proprio al Tanzi si rivolgeva per ripianare le perdite e che, secondo il teste
Ferrari, aveva organizzato “in maniera molto scientifica e precisa il sistema dei
137
travasi di risorse dal gruppo Parmalat”; e) che lo stesso Florini aveva ammesso:
“Quanto alle registrazioni contabili, che mi si dicono effettuate indicando Web
Holdings come creditrice, a pensarci bene può darsi che io abbia potuto in
qualche occasione indicare l’appostazione di un bonifico ricevuto dalla Parmalat
al conto finanziamento socio”: pag. 1349 della sentenza di primo grado; f) che
proprio su iniziativa del Florini era stato realizzato il cambio della banca di
appoggio per l’operazioni e ciò al fine di utilizzare la collaborazione di un
dipendente del nuovo Istituto, ricompensato con viaggi gratuiti per il significativo
importo di euro 97.000.
In tale contesto probatorio di assoluta pregnanza, non presenta alcuna
decisività l’argomento relativo alla missiva in realtà predisposta dal Baratta. Lo
stesso è a dirsi della materiale realizzazione dei contratti aventi ad oggetto la
falsa cessione dei marchi Kilburn, che corroborano un quadro probatorio
assolutamente autonomo, ritratto dagli elementi sopra ricordati.
Un ultimo cenno concerne le imputazioni relative al capo D.38, in cui le
critiche relative alla mancata specificazione delle forniture menzionate nel capo
di imputazione, accanto ai pagamenti operati da Parmalat s.p.a., rimangono
prive di decisività, alla luce del fatto che la Corte territoriale ha escluso
l’aumento ex art. 219, comma secondo, l. fall., ritenendo l’insussistenza di
diverse ipotesi di reato ex art. 223, comma primo, l. fall., e riconducendo i
diversi episodi ad un unico fatto reato.
20.3. Il terzo motivo è infondato per le considerazioni sviluppate nel
paragrafo 7 della presente motivazione, nel quale si sono illustrate le ragioni per
le quali il fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta previsto
dall’art. 216, comma primo, legge fall., richiamato dal primo comma del
successivo art. 223.
La graniticità dell’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità,
con l’isolato precedente del quale s’è dato conto, esclude la necessità di investire
della questione le Sezioni Unite.
20.4. Il quarto motivo, relativo alla mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche, è inammissibile.
Al riguardo, va ribadito che, per il diniego della concessione delle attenuanti
generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli
elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è
sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la
valutazione
di
tale
rilevanza
tenga
obbligatoriamente
conto,
a
pena
di
illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto
dall'interessato (Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172).
Nella specie, con motivazione che non esibisce alcuna manifesta illogicità, la
138
sentenza impugnata ha escluso le invocate circostanze attenuanti, valorizzando
“la gravità oggettiva delle condotte, la pesante incidenza delle stesse nel sistema
fraudolento
e
dissipatorio
della
Galassia
Tanzi,
la
annosa
e
pervicace
collaborazione prestata ai perversi meccanismi distrattivi che conducevano infine
alla causazione di danni ingentissimi”, in tal modo ritenendo recessivi i profili
indicati in ricorso, quanto alla fungibilità del ruolo del ricorrente, alla sua età, alla
sua incensuratezza, alla sua condotta processuale.
21. PAOLO SCIUMÈ
Il ricorso non può trovare accoglimento.
21.1. Il primo motivo è infondato.
Sul piano generale, si rinvia alle considerazioni svolte al n. 8 della presente
motivazione e, in particolare, al rilievo che la Corte territoriale, lungi, nella
sostanza
del
suo
apparato
argomentativo,
dall’equiparare
conoscenza
e
conoscibilità dell’evento, ha correttamente affermato che chi consapevolmente si
sia sottratto, nell'esercitare i poteri-doveri di controllo attribuiti dalla legge,
accettando il rischio, presente nella sua rappresentazione, di eventi illeciti
discendenti dalla sua inerzia, risponde di essi, ai sensi dell'art. 40, comma
secondo, cod. pen.
Nei motivi seguenti, nell’esaminare la specifica posizione dell’imputato, si
esamineranno
le
censure
mosse
sul
piano
motivazionale
alla
sentenza
impugnata.
21.2. Del pari infondato, nel suo complesso, è il secondo motivo.
Con riguardo alle censure che investono la rilevanza dell’insolvenza
all’interno della fattispecie di bancarotta fraudolente, si rinvia alle considerazioni
sviluppate nel punto 7 della motivazione che precede.
Ciò posto, la Corte territoriale, con specifico riguardo alla sussistenza
dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta impropria per distrazione ex
artt. 216, 223, comma primo, f. fall., muovendo dall’esatta premessa che il dolo
va ravvisato nella coscienza e volontà di compiere atti di disposizione
incompatibili con l’interesse dell’impresa, che portino ad una riduzione delle
garanzie, in qualunque tempo essi siano stati commessi, ha concluso che lo
Sciumè, con la propria condotta all’interno del Collegio sindacale di società del
Gruppo Viaggi, ha contribuito sia attivamente, attestando la regolarità di
determinate operazioni, peraltro inesistenti e mai verificate, e consentendo la
prosecuzione
delle
erogazioni
di
denaro
“a
fondo
perduto”
ed
il
loro
mascheramento, sia omissivamente, non rilevando e non denunciando tali illecite
condotte,
alla
consumazione
di
condotte
gravemente
depauperative
patrimonio di Parmalat s.p.a. e delle garanzie dei creditori della stessa.
139
del
In rapida sintesi, la Corte d’appello, dopo avere sottolineato i ruoli ricoperti
dall’imputato, ha rilevato: a) che, in particolare, egli aveva rivestito la carica di
presidente del collegio sindacale di Villaggi Vacanze Spa e Vacanze s.r.l. (poi
Vacanze Tour Operator s.p.a.) dal 30 novembre 1992 al 30 luglio 1996, in un
periodo in cui il Gruppo Viaggi era impegnato in una ristrutturazione complessiva
che preludeva alla joint venture con FF.SS (il cd. “progetto ECP”, che portava
Tanzi prima a vendere il 50% del Turismo a FF.SS, che apportava liquidità, e
quindi, dopo solo sei mesi, a ricomprare tale quota accollandosi un debito da 120
miliardi di lire), caratterizzato tra l’altro da svariati interventi di falsificazione sui
bilanci delle società di cui egli faceva parte (imputazioni di ricavi fittizi,
rivalutazioni di partecipazioni o di marchi, versamenti di capitale sociale fittizi),
finalizzate a non far apparire né le ingenti perdite che si registravano nelle
società, né il correlato e comprovato flusso di finanziamenti tacitamente veicolati
dal gruppo alimentare; b) che già all'epoca in cui Tanzi aveva acquisito, assieme
a Donzelli, la partecipazione del gruppo Vacanze dai precedenti proprietari, il
gruppo presentava una notevole tensione finanziaria, secondo quanto emergeva
dal cd. “appunto di Catelli”, che, ricapitolando i dati del Gruppo Viaggi a tutto il
1993, annotava una "fuffa" - ossia crediti inesigibili - per 70 miliardi di lire, oltre
20 miliardi di lire di finanziamenti di comodo, perdite di esercizio per circa 34
miliardi ed un buco finale superiore ai 100 miliardi; c) che, pertanto, il buco
creatosi nel Gruppo ammontava, nel 1993 ad oltre 120 miliardi di lire; d)
nonostante il deconsolidamento da Parmalat s.p.a. delle società del Gruppo
Viaggi, la prima società aveva continuato nel tempo a sostenerle, sia con
interventi che venivano utilizzati dai soci come fittizi versamenti di capitale
sociale, sia con emissioni di fatture per operazioni inesistenti, che venivano
emesse dalle società del gruppo nei confronti della Parmalat, a giustificazione
delle relative, cospicue, uscite di denaro; e) che tali erogazioni, così come la
disastrosa
situazione
economico-finanziaria
del
Turismo,
erano
occultate
attraverso continuative falsificazioni contabili e di bilancio; f) che nel momento in
cui stava per concretizzarsi l’indicata l’operazione ECP, i debiti di Vacanze s.r.l.
verso Parmalat s.p.a., che pure precedentemente risultavano nel bilancio
del
1993 per importi decisamente ragguardevoli, non erano più stati indicati nei
bilanci degli anni successivi, quando pure a favore di queste società si
continuavano a registrare importanti erogazioni da parte del gruppo alimentare;
g) che, in particolare, venivano iscritti crediti inesigibili, che poi venivano ceduti
a qualcuna delle finanziarie di famiglia; h) che, a seguito dell’incorporazione delle
società del Gruppo Viaggi in ITC&P, la gestione era stata accentrata tutta in capo
alla holding e l'aspetto economico e contabile era affidato alle cure di Giuseppe
Fioravanti, presso il cui studio si pianificava una politica di bilancio a livello
140
centralizzato, fondata sulla falsificazione sistematica, attuata a livello periferico
dalle singole società, che materialmente operavano le imputazioni nei bilanci in
maniera tale che non apparissero in perdita.
La consapevolezza di siffatto modus operandi da parte del ricorrente è stata
fondata sulle seguenti considerazioni: a) da un lato, in uno dei documenti
rinvenuti
presso
lo
studio
Fioravanti,
intitolato
“aggiornamento
delle
problematiche da risolvere e di punti da chiarire relativi al gruppo ITC&P”, erano
puntualmente descritte le problematiche del gruppo turistico e le metodologie
utilizzate per risolverle, suggerendo la ”formalizzazione contrattuale con soggetti
terzi delle politiche di bilancio 1993 e 1994 elencate nell'allegato uno”, ossia la
redazione postuma di documenti idonei a giustificare le artificiose poste indicate
nel 1993 e nel bilancio 1994; b) che, pertanto, era certo che il riscontro operato
dal collegio sindacale presieduto dal ricorrente non poteva avere trovato alcun
conforto documentale in forza del quale attestare la regolare determinazione
della competenza cui attribuire ratei e risconti; c) che, del pari, non era
rinvenibile alcuna documentazione giustificativa dell’operazione, con la quale, nel
1995, Vacanze Tour Operator s.p.a. era intervenuta non solo per la copertura
della perdite in cui era incorsa la società Villaggi Vacanze di cui era controllante,
ma anche per la ricostituzione a 200 milioni di lire del capitale sociale che era
stato abbattuto, attraverso l’attribuzione di un cespite, che solo un mese dopo
era stato rivalutato, per “adeguarlo” a valori di mercato, di ben 4,8 miliardi di
lire, portandone così il valore complessivo a 5 miliardi di lire e consentendo di
raggiungere un utile di 195 milioni di lire; d) che anche in questo caso nessuna
richiesta di chiarimenti era stata rivolta dal collegio sindacale, nonostante che,
peraltro, nel momento in cui il bilancio era stato approvato con la partecipazione
rivalutata
in modo così anomalo a 5 miliardi di lire, la stessa era già stata
venduta per soli 200 milioni di lire ad un’altra società; e) che i flussi di denaro
che da Parmalat s.p.a. sostenevano le società del Turismo venivano coperti con
falsificazioni contabili e di bilancio che, si riverberavano sul bilancio Parmalat e
su quello del consolidato Par. fin., approvato anche dallo Sciumè, pur in
presenza delle perplessità espresse da Tonna e Barachini; f) che le erogazioni di
denaro
provenienti
da
Parmalat
s.p.a.,
oltre
a
non
essere
rimborsate
integralmente, non venivano appostate nelle dovute voci di bilancio, come
emergeva agevolmente dal raffronto tra la situazione patrimoniale di dettaglio al
31 dicembre ordinariamente offerta ai sindaci e il bilancio finale, su cui si fonda il
giudizio affidato ai membri del collegio sindacale; g) che il flusso continuo di
denaro dal gruppo alimentare a quello turistico non era neppure stato
rappresentato nella voce 'operazioni con correlate' nei bilanci di Parmalat s.p.a.,
nonostante le contrarie raccomandazioni della CONSOB (Comunicazione n.
141
SOC/RM 94002200 del 9-3-1994); h) che, pur essendo vero che tali condotte si
situano a notevole distanza dal default, è anche vero che la visibilità dei falsi e
degli aggiustamenti contabili operati per occultare le distrazioni e le operazioni
commerciali tra il Gruppo alimentare e quello Turistico rappresentano un
perspicuo e peculiare segnale di allarme di eventi pregiudizievoli cagionati dal
management di Parmalat ai danni del Gruppo di Collecchio e soprattutto delle
prassi operative del primo.
Siffatto percorso argomentativo della sentenza impugnata, esente da
qualunque
manifesta
illogicità,
viene
criticato
in
ricorso
attraverso
la
riproposizione di censure che non attingono il cuore della unitaria valutazione
degli elementi probatori operata dalla Corte d’appello, nel senso che reiterano in
modo generico l’argomento difensivo dell’inconsapevolezza, da parte dello
Sciumè, della crisi del gruppo turistico e dei flussi di denaro provenienti da
Parmalat s.p.a., senza preoccuparsi di minare il fondamento degli argomenti
spesi dalla decisione di secondo grado e sopra riassunti. Lo stesso è a dirsi degli
argomenti relativi all’estraneità dello Sciumè a Parmalat s.p.a. e all’assenza di un
dovere di esaminare, nella veste di amministratore non esecutivo della Par. fin.
s.p.a., i bilanci della prima.
21.3. Infondato, nel suo complesso, è il terzo motivo, concernente la dolosa
operazione di cessione pro solvendo di crediti fittizi di Parmalat s.p.a., attraverso
la Contal – con conseguente allocazione a carico di quest’ultima presso la
Centrale Rischi del debito nascente dall’operazione -, ad Ifitalia, della quale lo
Sciumè era Presidente.
Il ricorso ripropone la tesi dell’inconsapevolezza dell’imputato in ordine alla
fittizietà dei crediti, trascurando di confrontarsi con i plurimi elementi valorizzati
dalla Corte territoriale per trarre, senza alcuna manifesta illogicità, l’opposta
conclusione.
La sentenza impugnata ha rilevato: a) nel dicembre 1999 Ifitalia aveva
organizzato una imponente operazione di factoring, avente le caratteristiche di
un finanziamento in pool del valore complessivo di 200 miliardi di lire, con Ifitalia
stessa capofila di una serie di altri istituti di factoring; b) che tale operazione –
tecnicamente definita come “fido per anticipi pro solvendo” – era stata deliberata
all’unanimità dal consiglio di amministrazione di Ifitalia il 23/4/1999, nel quale
era presente anche il presidente Sciumé; c) che prevedeva l’anticipazione a
Contal dei crediti vantati da Parmalat s.p.a. verso i propri concessionari e
successivamente ceduti, per l’appunto, da quest’ultima a Contal, con correlata
fideiussione solidale prestata da Parmalat s.p.a. ad Ifitalia per un importo pari a
quello dell’anticipazione; d) che il debito che nasceva dall'operazione era stato
allocato in Centrale Rischi a carico di Contal; e) che, nonostante siffatte
142
singolarità, l’istruttoria di fido del 1999 comprendeva analisi e commenti che
tendevano a rappresentare una sostanziale solidità dell’equilibrio economicofinanziario del Gruppo, enfatizzando gli spunti positivi e trascurando totalmente
gli aspetti negativi, pur emergenti dalla documentazione, quali la diminuzione di
redditività del patrimonio netto, l’aumento dell’indebitamento complessivo (la
stessa Parmalat aveva comunicato che nel 1999 l'indebitamento finanziario era
passato da 1.500 a 3.400 miliardi di lire) e della leva finanziaria; f) che sempre
dalla
lettura
dei
dati
della
relazione
di
fido
emergeva
la
presenza
di
sconfinamenti frequenti su tutto il periodo temporale di riferimento considerato
(agosto 2000/agosto 2001), sia nei confronti di Ifitalia sia di altre banche ed
istituti finanziatori; g) che gli analisti di Chevreux Italia – il cui rapporto era
presente nelle carte istruttorie - affermavano chiaramente di essere stati
costretti in tale contesto ad aumentare i parametri di rischio di Parmalat, proprio
per l’aumento dell’indebitamento e per il fatto che 1.000 miliardi di lire di
factoring pro-solvendo in essere dal 1998 aumentavano il rischio stesso, mentre
l’acquisizione del ramo Cirio latte avrebbe ridotto gli utili per azione nel biennio
1999-2000; h) che non era stato neppure approfondito il cd. “rischio debitore”,
ovvero la capacità delle Concessionarie di far fronte ai debiti verso Parmalat
ceduti tramite Contal ad Ifitalia, laddove tali debiti traevano origine non già
dall’ordinario giro commerciale/produttivo, bensì da componenti di forniture non
ordinarie, ovvero investimenti economici-tecnici - costituiti da risorse a carattere
permanente
funzionali
all’esercizio
dell’attività
del
concessionario,
o
da
immobilizzazioni tecniche -, cui le Concessionarie avrebbero pertanto dovuto
provvedere direttamente ma che di fatto venivano finanziate da Parmalat, e
quindi, infine, da Ifitalia; i) che, sebbene i contratti di factoring stipulati con
Ifitalia prevedessero che "il fornitore dovrà consegnare al factor entro 30 giorni
dalla data di emissione copia delle fatture relative ai crediti ceduti, unitamente
all'intera documentazione probatoria, costitutiva ed accessoria ai crediti stessi", i
crediti oggetto di cessione non avevano alcun riscontro contabile né in Contal né,
soprattutto, in Parmalat, talché dovevano essere ritenuti inesistenti; l) che, del
resto, in un ordinario sistema di archiviazione, il numero identificativo attribuito
alla fattura (quale documento attestante un'operazione sottostante) viene
assegnato secondo un'ascendenza progressiva, senza che l'emittente possa
operare nuove o diverse classificazioni, che determinino nuove progressioni
numeriche, laddove il numero identificativo delle fatture era, almeno nel primo
tabulato relativo alla prima cessione dei crediti, un numero a sei cifre e nei
successivi tabulati a sette cifre, con la conseguenza che in un anno Parmalat
sarebbe stata in grado di emettere almeno un milione di fatture: cosa
oggettivamente impossibile in quanto ciò avrebbe comportato che, solo con le
143
fatture scontate presso Ifitalia,
Parmalat avrebbe raggiunto un importo di un
miliardo di euro di fatturato, pari al valore del fatturato rappresentato in bilancio;
m) che le fatture emesse in una stessa data recano numeri tanto distanti tra loro
da comportare l'emissione di decine di migliaia di fatture in uno stesso giorno;
n) che, nonostante tali anomalie, l’operazione era proseguita, in una lunga serie
di rinnovi del fido operati in una sorta di compensazione tra il pagamento dei
crediti effettuato da Contal e il nuovo accredito effettuato da Ifitalia, per ben
quattro anni.
A fronte di tali imponenti indici di anomalia e tenendo conto del rilevante
importo
e
della
significativa
durata
nel
tempo
del
rapporto,
appaiono
assolutamente prive di specificità le critiche del ricorrente in ordine all’assenza di
consapevolezza del carattere fittizio dei crediti ceduti.
In tale contesto, l’assenza di documentate pressioni dello Sciumè appare
priva di qualunque rilievo, dal momento che l’operazione era stata avallata
appunto dal consiglio di amministrazione di Ifitalia.
Quanto alla qualificazione giuridica, non coglie nel segno l’obiezione secondo
cui alla fine l'operazione avrebbe creato un danno semplicemente ad Ifitalia e
non contribuito al dissesto di Parmalat, giacché, come rilevato dalla Corte
territoriale, il dissesto Parmalat è evidente conseguenza di un ricorso dissennato
ed eccessivo al credito, palesato anche in questo episodio, concluso con un
finanziamento di oltre 113 miliardi, tutto fondato su crediti fittizi.
Al riguardo, va ribadito che il momento caratteristico della condotta dedotta
dall’art. 223, comma secondo, n. 2, l. fall., si coglie nel richiamo alla nozione di
"operazione" (connotato prescrittivo ignoto alla generale previsione della
bancarotta fraudolenta), la quale richiama necessariamente un quid pluris
rispetto ad ogni singola azione (o singoli atti di una medesima azione),
postulando una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente, non già
direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione,
occultamento,
distruzione),
bensì
da
un
fatto
di
maggiore
complessità
strutturale, quale è dato riscontrare in qualsiasi iniziativa societaria che implichi
un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato;
proprio l'autonomia concettuale della condotta dettata dall'art. 223, comma 2, n.
2 esclude che per lo stesso atto discendano due distinte sanzioni penali. (Sez. 5,
n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti s.p.a., Rv. 247313).
È proprio in tale maggiore complessità strutturale, evidenziata nel caso in
esame dalla Corte territoriale, che si coglie la specialità della fattispecie applicata
in relazione alla figura del ricorso abusivo al credito, disciplinata dall’art. 218 l.
fall. Né fondato appare, alla luce della ricostruzione in fatto operata dalla
sentenza impugnata, il richiamo all’ipotesi delle operazioni di grave imprudenza
144
volte per ritardare il fallimento, le quali comprendono le attività finalisticamente
orientate a ritardare il fallimento, ma ad un tempo caratterizzate da grave
avventatezza
o
spregiudicatezza,
che
superino
i
limiti
dell'ordinaria
"imprudenza", che, secondo la comune logica imprenditoriale, può a volte
giustificare il ricorso, da parte dell'imprenditore che versi in situazione di
difficoltà
economica,
ad
iniziative
"coraggiose",
da
extrema
ratio,
ma
ragionevolmente dotate di probabilità di successo, al fine di scongiurare il
fallimento stesso (Sez. 5, n. 24231 del 20/03/2003, Griffini, Rv. 225938).
Del pari infondata, per manifesta infondatezza, è poi l’ulteriore articolazione
del motivo concernente il pagamento delle commissioni in favore di Ifitalia in
relazione alle cessioni di credito sopra ricordate (capo D.31), il cui carattere
distrattivo è stato correttamente fatto discendere dalla stretta correlazione con
l’intera operazione. Ed, infatti, puntualmente si è ritenuto che il capo D.31, già
ascritto all’imputato e da cui il medesimo era stato assolto dal Tribunale, dovesse
essere assorbito nella fattispecie sub C.8.2.
21.4. Il quarto e il quinto motivo, esaminabili congiuntamente in quanto la
ritenuta bancarotta per distrazione correlata alla distribuzione dei dividendi
Parmalat s.p.a. e Par. fin. s.pa., oggetto del quinto motivo, è logicamente
correlata al concorso nelle false comunicazioni sociali di cui al quarto motivo,
sono infondati.
Premesso che le affermazioni della Corte territoriale si riferiscono
evidentemente al bilancio relativo all’esercizio del 2002, si rileva che le censure
del ricorrente non colgono, in punto di fatto, il cuore della complessiva
ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, la quale, oltre agli episodi
esaminati nei motivi precedenti e al patrimonio di conoscenze che essi rivelano,
ha valorizzato non il contributo causale dello Sciumè nella cd. “operazione
Aranca”, ma la consapevolezza che l’avere partecipato al gruppo dirigenziale per
contrattare con banche, dipendenti e finanziatori un piano di ristrutturazione del
debito aveva fornito all’imputato, quanto al carattere rischioso, dissipativo e
improduttivo
anche
di
tale
intervento
e
alla
capacità
falsificatrice
del
management di Parmalat s.p.a. e Par.fin. s.p.a.
In definitiva, le argomentazioni della Corte d’appello non si fondano
necessariamente sul concorso dello Sciumè nelle singole ipotesi delittuose, ma
sulla idoneità della stesse a rivelarne la piena consapevolezza dei continui
drenaggi di denaro per finanziare imprese in costante perdita e la costante
compartecipazione cosciente alle falsificazioni di bilancio correlate.
Va aggiunto, con specifico riferimento al quinto motivo, che l’intervenuto
fallimento e la conseguente configurabilità del reato di bancarotta per distrazione
sono correttamente apparsi prevalenti, in punto di qualificazione giuridica,
145
rispetto all’invocata ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 2627 cod. civ., per
l’assorbente ragione che quest’ultima norma contiene la clausola di salvezza, per
l’ipotesi che il fatto non costituisca un più grave reato.
21.5. Infondato è nel suo complesso il sesto motivo.
Rinviando a quanto detto nel punto 21.3 a proposito del rapporto tra la
fattispecie di bancarotta fraudolenta e quelle di bancarotta semplice o di ricorso
abusivo al credito, va rilevato che l’accertamento di fatto operato dalla Corte
territoriale non appare inficiato da alcun vizio di manifesta illogicità, giacché, in
estrema sintesi, valorizza non tanto l’allarme generato dal mancato rispetto delle
letterali indicazioni fornite al mercato dal management, ma il fatto che l’avere
disatteso quest’ultimo i sostanziali impegni presi con il mercato necessariamente
appariva a professionisti come lo Sciumè, ben consapevoli di gran parte degli
illeciti che avevano caratterizzato la gestione del gruppo di Collecchio, come un
non equivoco indice di anomalia delle operazioni, che avrebbe imposto
l’attivazione del dovere di intervenire.
La Corte territoriale, al riguardo, ha sottolineato: a) che almeno due
emissioni di bond – conclusi a condizioni molto onerose, e comunque onerosi in
sé stessi, attese le ben note reazioni del mercato e la già esorbitante entità del
debito e degli oneri finanziari – erano state rese note e discusse nella loro realtà
nei consigli di amministrazione del 3 luglio e del 2 settembre 2003, prima della
loro definitiva emissione, ed avrebbero pertanto potuto essere impedite a priori,
sol che si fosse inteso farlo, alla luce della palese anomalia gestionale che
rivelavano;
b)
che,
anche
con
riferimento
alla
terza
emissione,
pur
ammettendosi che quanto preliminarmente discusso in nel comitato non fosse
integralmente giunto in consiglio di amministrazione, comunque l’operazione si
poneva, come s’è detto, in sostanziale ed evidente contrasto non solo con
quanto pubblicamente annunciato per mesi dal CFO e dal Tanzi di Parmalat, ma
persino con le indicazioni generali scaturenti dalla decisione del medesimo
consiglio di amministrazione di cessare le emissioni obbligazionarie e di utilizzare
la liquidità per coprire il debito e quindi ridurre gli oneri finanziari; c) che, in
definitiva, l’emissione di bond per un miliardo circa di euro effettuata nel volgere
di soli due mesi, dopo che il mercato aveva penalizzato fortemente il titolo
Parmalat, appariva segnale indiscutibile di allarme idoneo ad imporre l’intervento
dei più incisivi poteri di controllo della documentazione esistente, ancorché, si
ritiene di aggiungere, essa non fosse stata spontaneamente offerta in visione ai
consigliere non esecutivi.
21.7 Inammissibile, per manifesta infondatezza, è il settimo motivo, in
quanto, come già si è detto nel punto 17.1 della presente motivazione
l’attivazione dei poteri di verifica e di denuncia delle operazioni da parte di titolari
146
di organi investiti di un dovere di agire informati avrebbe costituito un intervento
proficuo che, pure se non idoneo a preservare la conservazione dell’integrità
totale del patrimonio sociale, avrebbe comunque espresso, tramite una funzione
di allarme e manifesto controllo, quella tutela della società (con i suoi soci e
dipendenti) e dei diritti dei suoi creditori che costituisce un dovere precipuo di
tutti gli amministratori e dei sindaci, evitando l’aggravamento del dissesto
ovvero dei danni cagionati dallo stesso. D’altra parte, anche l’eventuale inerzia di
alcune
Autorità
di
controllo
non
escluderebbe
la
responsabilità
degli
amministratori e dei sindaci, che il legislatore ha posto come garanti della
correttezza delle scelte sociali nonché dei diritti dei soci e dei creditori.
21.8. L’ottavo motivo è infondato per le considerazioni sviluppate al punto 5
della motivazione che precede.
21.9. Del pari infondato è il nono motivo, per le ragioni indicate nel punto
9.2 della motivazione che precede.
22. FABIO BRANCHI
Il ricorso non può trovare accoglimento.
22.1. Il primo motivo è infondato.
Ribadito
che,
in
tema
di
sospensione
del
processo
per
incapacità
dell'imputato, per escludere il requisito della sua cosciente partecipazione non è
sufficiente la presenza di una patologia psichiatrica, anche grave, ma è
necessario che l'imputato risulti in condizioni tali da non comprendere quanto
avviene e da non potersi difendere (Sez. 6, n. 2419 del 23/10/2009 - dep.
20/01/2010, Baldi, Rv. 245830), osserva la Corte che la sentenza impugnata e
ancor prima l’ordinanza letta all’udienza del 12/12/2011 hanno sottolineato, con
motivazione esente da vizi logici, che l’imputato, già il 16/01/2013, al momento
delle dimissioni dal centro riabilitativo presso il quale era stato ricoverato, aveva
registrato un apprezzabile recupero fisico e neurologico, che gli avrebbe
consentito per i nove anni successivi di riprendere la propria professione di
commercialista e di continuare a provvedere da solo alle proprie esigenze di vita.
E ciò senza dire, per quanto sopra rilevato esaminando il contenuto del ricorso
dell’imputato, che lo stesso ha assunto: a) la carica di amministratore delegato
in Hit Holding Italiana Turismo s.p.a. in data 31 gennaio 2003 e lo ha mantenuto
mantiene fino al 28 gennaio 2004; b) la carica di amministratore delegato in Hit
International s.p.a. il 24 gennaio 2003, mantenendola fino al 28 gennaio 2004;
c) ha mantenuto gli incarichi di presidente del collegio Sindacale, anche dopo la
malattia, nelle s.r.l. Sata, Agis e Coloniale.
In presenza di tale congerie di incarichi, diviene arduo contestare la tenuta
dell’apparato argomentativo della sentenza di merito che, alla stregua degli
147
elementi emergenti dalla documentazione sanitaria e dalle relazioni specialistiche
in atti, ha escluso la sussistenza di condizioni di
incapacità del Branchi di
partecipare coscientemente e attivamente al processo.
22.2. Il secondo e il terzo motivo, esaminabili congiuntamente per la loro
stretta connessione logica, sono inammissibili.
Al riguardo, si rileva l’assoluta genericità delle critiche aventi ad oggetto gli
elementi valorizzati dalla sentenza impugnata, per individuare i risalenti indici di
anomalia gestionale del Gruppo e la piena percezione degli stessi da parte del
ricorrente. E ciò soprattutto alla luce dell’ampio apparato argomentativo che ha
sottolineato la trasversalità e durata nel tempo degli incarichi assunti dal Branchi
anche nelle società strategiche, perché destinate, nella doppia struttura a
incrocio delle diverse compagini, ad assicurare nel suo livello superiore, il
controllo operativo delle famiglie Tanzi (le società Coloniale, Agis e Sata).
La permanenza di siffatti incarichi e anzi l’assunzione di nuovi ruoli, anche
amministrativi, pur dopo l’ictus, rende carente di pregio la critica generica e
priva di ogni obiettivo fondamento secondo la quale il ricorrente non era in
condizione di sottoscrivere, in data 11/02/2003, 17/7/2003 e 21/7/2003, i
bonifici distrattivi effettuati da Hit s.p.a., per coprire posizioni debitorie assunte
da Stefano Tanzi in relazione a buchi di gestione del settore Turismo.
A questo riguardo, il fatto che la Corte territoriale, pur avendo escluso la
responsabilità del Branchi per i fatti posti in essere sino alla fine di gennaio 2003
(e ciò nonostante che le dimissioni dall’istituto di riabilitazione fossero avvenute
nella metà dello stesso mese), abbia valorizzato, al fine di apprezzare la capacità
del ricorrente, la presenza di quest’ultimo alle assemblee di Hit
s.p.a. ed Hit
International s.p.a. del 24 gennaio 2003 e del 31 gennaio 2003, nonché al
momento del rogito notarile del medesimo 31 gennaio 2003, non palesa alcuna
contraddittorietà,
perché
la
sentenza
impugnata,
lungi
dall’individuare
responsabilità per fatti anteriori al 31 gennaio 2003, mira solo a cogliere dati
obiettivi attestanti l’operatività del Branchi, in epoca successiva, di sottoscrivere i
ricordati bonifici distrattivi.
Né, in senso contrario, può addursi l’esito del procedimento concernente il
Branchi, relativo al cd. filone Parmacalcio, sul quale insiste la memoria
depositata nell’interesse dell’imputato, giacché il fatto che in un caso sia stata
documentata la falsità della firma apposta sulla relazione del Collegio dei sindaci
sul bilancio del 30/06/2002, non consente di desumere una regola generale per
la quale il Branchi veniva dato ordinariamente presente, anche in sua assenza,
alle riunioni del Collegio sindacale, con apposizione di firme apocrife.
Va aggiunto che la sentenza impugnata, con argomentazioni criticate in
modo aspecifico e frammentario dal ricorrente, ha puntualizzato che gli artifici
148
contabili che rendevano apparentemente legittime o che comunque valevano ad
occultare le continue distrazioni e dissipazioni operate sia nel turismo, sia nelle
finanziarie di famiglia, sia nelle altre società correlate erano da Branchi stesso
predisposti
e talvolta
erano addirittura da lui ideati, secondo quanto
riconosciuto dal Tonna, nell’interrogatorio del 12/11/2009 e all’udienza del
16/11/2009 e dal Tanzi, nell’interrogatorio del 30/11/2009. La Corte territoriale
ha rilevato che, se pure era esatto che il Branchi recepiva le indicazioni di Tonna
e predisponeva materialmente, con la collaborazione di soggetti esterni - quali
Franco Barbieri, gestore del centro di elaborazione dati, che deteneva la
contabilità di Agis, Sata e Finaliment, Nuova Holding ed altre ancora - il supporto
materiale per la creazione dei documenti contabili sovrapponibili alle operazioni
deliberate e poste in essere dai vertici di Parmalat, che transitavano per le tre
finanziarie, era del pari vero che l’imputato, lungi dal costituire una sorta di
longa manus tecnica del Tonna, aveva ammesso di avere ben compreso il
significato delle operazioni poste in essere (ad es., con riguardo all’acquisto delle
azioni della Boschi o all’utilizzazione del denaro della società Streglio o, ancora,
ai meccanismi distrattivi attuati tramite la società Sata e nel settore Turismo) ed
era stato indicato dal medesimo Tonna, nell’interrogatorio del 12/11/2009, come
colui che aveva studiato con quest’ultimo “le situazioni”, riuscendo talvolta a
trovare la soluzione per primo, come nel caso del travaso dei debiti della società
Sata nella società Bonlat.
La materiale agevolazione, con falsità contabili, si è peraltro tradotta,
secondo il
coerente apprezzamento dei
giudici
di
merito, in un danno
patrimoniale per Parmalat s.p.a., Par.fin. s.p.a. e PFC e nella conseguente
falsificazione derivata dei relativi bilanci sub consolidati e consolidati. Tali profili,
peraltro, del tutto ragionevolmente sono stati ritenuti come conosciuti dal
Branchi, commercialista esperto, che frequentava quotidianamente gli uffici della
dirigenza, seguiva e custodiva la contabilità, sia come sindaco, sia come
consulente, della maggior parte delle società in difficoltà del gruppo o delle
correlate ove si operava la maggior parte delle distrazioni e che, pertanto, ben
sapeva che il patrimonio della società Coloniale era stato sempre funzione e
indiretta espressione dei valori (reali) di Par.fin. s.p.a.
Ne discende, anche per tale profilo, l’assoluta genericità della critica,
reiterata con il ricorso per cassazione, secondo la quale il fatto che Branchi non
fosse sindaco o amministratore di Parmalat s.p.a., di Par.fin. s.p.a. e della PFC,
non gli avrebbe attribuito né consapevolezza, né alcun potere interdittivo o
alcuna potenzialità compartecipativa nei reati
Le superiori considerazioni giustificano razionalmente la conclusione del
ruolo partecipativo del Branchi sia nelle distrazioni e nei falsi contabili in tal
149
modo operati, sia con riferimento al reato associativo.
Va, infine, sottolineato che il fatto che le società Sata e Agis siano tornate in
bonis dopo l’apertura della procedura fallimentare o che la s.r.l. Pisorno sia
proprietaria di un bene appetibile, è un profilo privo di ogni rilievo: e ciò sia
perché,
la
chiusura
delle
procedure
fallimentari
è,
in
concreto,
diretta
conseguenza della rinuncia al credito da parte di Parmalat s.p.a., per effetto
dell’intervenuta acquisizione delle società, sia perché, in ogni caso, la chiusura
del fallimento per sopravvenuta mancanza del passivo non esclude la legittimità
e l'efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento e non fa venir meno sul
piano oggettivo il reato di bancarotta fraudolenta documentale (Sez. 5, n. 21872
del 25/03/2010, Laudiero, Rv. 247443).
Inammissibile è, infine, l’ulteriore articolazione del secondo motivo, con la
quale si censura l’impugnata sentenza, per non avere riconosciuto le circostanze
attenuanti generiche con criterio di prevalenza.
Al riguardo, va ribadito che, in tema di concorso di circostanze, le statuizioni
relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono
censurabili in sede di legittimità soltanto nell'ipotesi in cui siano frutto di mero
arbitrio
o
di
un
ragionamento
illogico,
e
non
anche
qualora
risulti
sufficientemente motivata la soluzione dell'equivalenza, allorché il giudice,
nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 69 cod. pen., l'abbia
ritenuta la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena in concreto irrogata
(Sez. 6, n. 6866 del 25/11/2009 - dep. 19/02/2010, Alesci, Rv. 246134).
Nella specie, la Corte territoriale, con argomentazione che non palesa alcuna
arbitrarietà o illogicità, ha appunto escluso il giudizio di prevalenza delle
concesse circostanze attenuanti generiche, in ragione della estrema pluralità,
gravità e durata nel tempo della condotta compartecipativa del Branchi, in nulla
ridotta dalle pur pregiudicate condizioni di salute.
23. LUCIANO SILINGARDI
I motivi di ricorso non possono trovare accoglimento, fermo restando quanto
verrà rilevato al termine della presente motivazione, a proposito dell’intervenuta
prescrizione della ritenuta fattispecie associativa.
23.1.
I
primi
quattro
motivi
e
l’ottavo
motivo,
da
esaminare
congiuntamente, in quanto, nella loro complessa articolazione fattuale, criticano
la ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sono inammissibili, in
quanto, attraverso una lettura frazionata dell’apparato argomentativo della
sentenza impugnata, aspirano ad una rilettura delle risultanze istruttorie,
esaminate dalla Corte, con motivazione che non esibisce alcuna manifesta
illogicità.
150
Al riguardo, va ribadito che gli aspetti del giudizio che consistono nella
valutazione
e
nell’apprezzamento
del
significato
degli
elementi
acquisiti
attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità,
se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità
dimostrativa, con la conseguenza che sono inammissibili in sede di legittimità le
censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione
del materiale probatorio (di recente, v. Sez. 5, n 18542 del 21/01/2011, Carone,
Rv. 250168 e, in motivazione, Sez. 5, n. 49362 del 19/12/2012, Consorte).
In effetti, le doglianze muovono da una critica della lettura fornita dalla
Corte territoriale all’episodio dell’incontro del giorno 08/12/2003, trascurando di
considerare che le valutazioni operate dai giudici di merito risolvono tutte le
possibili ambiguità dello stesso (come pure quelle legate alla conoscenza o non
dell’inesistenza del fondo Epicurum), alla luce del precedente, analitico esame
delle vicende in cui si è concretato il ruolo pervasivo svolto dal Silingardi nello
svolgimento delle attività delle società del Gruppo di Collecchio.
È proprio in relazione alla pluralità di ruoli ricoperti dal Silingardi che i giudici
di merito, del tutto razionalmente, hanno tratto la conseguenza che l’imputato si
era necessariamente reso conto dell'utilizzo dei passaggi di denaro non
giustificati giuridicamente da Parmalat s.p.a. a società personali di Tanzi ed al
Turismo, delle difficoltà del gruppo e delle conseguenti falsificazioni ed
aggiustamenti di bilancio , oltre che della fraudolenza e dannosità di determinate
operazioni di finanziamento concluse nell’ultimo periodo di vita della holding
parmense.
A ciò deve aggiungersi, ancora in via generale, che la ricostruzione operata
dalla Corte territoriale, correttamente si muove nella cornice di accertamento del
dolo, quale delineata supra, nel punto 7 della presente motivazione, per ciò che
attiene alle ipotesi di bancarotta distrattiva, e nel punto 8, per quanto riguarda la
responsabilità degli amministratori non esecutivi.
È in tale contesto che si colloca la conclusione che attribuisce all’imputato
una effettiva ed ampia conoscenza degli illeciti affari e delle fraudolente modalità
operative del gruppo e del suo “patron”, come pure una intensa cooperazione
con la cd. “cabina di regia”.
E ciò alla luce della complessità di ruoli ricoperti, oltre che degli intensi
rapporti personali – che, va subito aggiunto, nella sentenza impugnata, appaiono
sullo sfondo, rispetto all’intensità della collaborazione professionale.
Il Silingardi, titolare di un studio da commercialista, è stato, infatti,
consulente contabile di alcune immobiliari di famiglia, di Finaliment s.r.l., Agis
s.r.l. e Sata s.r.l., di cui tiene i libri e le scritture contabili fino al 29/11/93 . Nei
primi anni ’90 il suo studio predispone alcune perizie per ragioni fiscali
151
nell’interesse di Parmalat e ed altre nel 1999 e 2000 per la valutazione di Eurolat
e per la Boschi. Accanto a ciò, il Silingardi è stato: a) membro del consiglio di
amministrazione di Banca Intesa dal 28/1/1999 al 12/6/2000 e del Comitato
esecutivo di tale Banca dal 20/4/1999 al 12/6/2000, b) consigliere di Cassa di
Risparmio di Reggio Emilia e di Medio Credito Padano, e quindi Presidente del
consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza dal
27/4/1987 al 12/6/2000, rimanendo Presidente della Fondazione della medesima
dal 13/12/1991 al 20/1/2004.
Peraltro, sia Calisto Tanzi che lo stesso Silingardi non hanno avuto esitazioni
a riconoscere che, proprio grazie all’appoggio del primo, il secondo aveva
conseguito la presidenza del consiglio di amministrazione dell’Istituto. La
sentenza impugnata ha quindi valorizzato il fatto che l’imputato, in tale veste
aveva presieduto le riunioni del consiglio di amministrazione in cui erano stati
molteplici finanziamenti verso le società maggiormente in difficoltà riferibili a
Tanzi, con delibere tutt’altro che limpide. Tali dati oggettivi rendono i dati
emergenti dalle prove dichiarative come pure le risultanze della relazione della
Banca d’Italia, redatta a seguito di ispezione svolta presso Cariparma dal
novembre 1997 al giugno 1998, meri elementi di riscontro.
Se a ciò si aggiungono i ruoli sopra ricordati del Silingardi nella galassia
Parmalat, s’intende come del tutto razionalmente la Corte territoriale abbia
correlato agli incarichi di consulente contabile di Tanzi per le società Sata e Agis,
attraverso cui si sono realizzate svariate distrazioni ai danni di Parmalat s.p.a.,
con correlate cessioni di crediti fittizi, e di Presidente della Cassa di Risparmio di
Parma - attraverso cui transitavano molti dei finanziamenti alle società personali
di Tanzi ed al Turismo –, le conclusioni raggiunte.
In questa prospettiva, le dichiarazioni di Tonna, esaminate in modo non
manifestamente illogico dalla sentenza impugnata e invece valorizzate in modo
frazionato dal ricorrente, illustrano ampiamente la rilevanza del ruolo Silingardi
“quando era fuori dalla società” più che ”quando era consigliere”.
In effetti, fino a tutto il 1993 le scritture contabili e l’elaborazione dei bilanci
della Sata erano curati da Silingardi medesimo tramite Revinda, società da lui
fondata diversi anni prime e che aveva sede nel suo studio professionale, ove
peraltro era situata anche la sede della stessa Sata. La Corte d’appello ha anche
ricordato: a) che al suo abbandono della attività di consulente delle società di
famiglia di Tanzi – in ragione della intervenuta nomina a Presidente di
Cariparma-
, così come ricordato da Gorreri, Tonna, Tanzi e confermato dallo
stesso appellante, l’imputato aveva chiesto e ottenuto tuttavia di passare
l’incarico al suo fidato collega Branchi, che ne era il referente; b) che ulteriori
nominativi di componenti del collegio sindacale di Parmalat s.p.a., di Sata o del
152
Turismo erano stati forniti a Tanzi per lo più sempre da Silingardi, come da lui
stesso ammesso, e che in buona misura si trattava di suoi giovani conoscenti; c)
che sempre il Silingardi aveva indicato sue impiegate o collaboratrici del suo
studio professionale, come Maestri, Ferraguti e Veroni), come sindaci effettivi di
Sata e la Veroni anche di società del Turismo, di Boschi e di Fratelli Strini; d)
che dai sequestri effettuati presso lo studio Silingardi risultava che i verbali delle
relative riunioni collegiali venivano direttamente trasmessi presso lo studio; d)
che la Maestri e la Ferraguti neppure sembravano ricordare tale incarico, così
come non le ricordavano in una simile veste né Tanzi, né Tonna, il quale, anzi,
aveva dichiaratoche in effetti il collegio sindacale di Sata neppure si riuniva mai,
poiché i bilanci venivano redatti “ dagli studi a cui erano appoggiati” i sindaci, e
venivano approvati anche senza assemblea, atteso che comunque i soci erano la
famiglia Tanzi.
Il complesso di tali elementi, ancora una volta attinto da censure prive di
specificità del ricorrente, ha fondatamente indotto la sentenza impugnata a
cogliere la pervasività del ruolo del Silingardi nella gestione delle società e la
necessità
per
chi
le
amministrava
di
poter
contare
sulla
compiacente
collaborazione del primo.
Ed è in tale contesto che deve essere colta la ricostruzione della
consapevolezza, da parte dell’imputato, delle ipotesi distruttive consumate, con
modalità speculari, attraverso le società Sata e Agis, a fronte dei costanti e
consistenti flussi di denaro, privi di giustificazioni e senza ritorno, in favore delle
due società, da parte di Parmalat s.p.a. , i cui crediti venivano ceduti ai soci
Tanzi Calisto e Tanzi Giovanni, e in questo modo il credito di Parmalat Spa verso
Sata e Agis diveniva un credito dei Tanzi nei confronti delle società. A quel punto
la posizione debitoria si estingueva in parte mediante rinuncia al credito stesso
da parte dei soci, ovvero (per la maggior parte) mediante compensazione
contabile tra il credito complessivo vantato dalle due società verso i soci per i
prelevamenti di denaro dagli stessi compiuti, oppure mediante compensazione
con il credito vantato dai soci verso le società derivante dalle cessioni di cui si è
detto. In questo modo si giungeva all’abbattimento del debito delle società verso
Parmalat, all’occultamento di perdite per cifre di miliardi di lire ed alla
compensazione del debito complessivo dei soci verso le società.
La valutazione operata dai giudici di merito, quanto all’evidente significato di
tali operazioni, non è certo contrastata dal reiterato assunto difensivo, secondo il
quale il Silingardi si limitava ad eseguire direttive altrui, giacché, ai fini della
responsabilità per le ipotesi distruttive, rileva esclusivamente la coscienza e
volontà di contribuire ad azioni depauperatrici e falsificatorie, senza che, per
quanto detto supra al n. 7 della motivazione, quale che sia il momento in cui si
153
collocano rispetto alla dichiarazione di fallimento. E ciò senza dire che, pur
quando il Silingardi aveva lasciato
l’incarico di consulente contabile di Sata e
Agis, per diventare Presidente di Cariparma,
continuate mediante addebito sul
comunque le erogazioni erano
conto corrente Sata,
acceso proprio in
quest’ultimo istituto bancario; d’altra parte, proprio la falsità delle attestazioni
relative ai versamenti dei soci, ovvero ad un equilibrio di bilancio di fatto
assolutamente inesistente, consentiva a Sata di accedere anche negli anni
successivi a finanziamenti che altrimenti le sarebbero stati preclusi.
Nel ricorso, mentre si valorizza il fatto che il ruolo di Presidente di Cariparma
di Silingardi non gli imponeva certo una verifica delle singole operazioni, si
trascura del tutto il fatto che la motivazione ha valorizzato la pregressa
conoscenza del modus operandi descritto, le ragioni del suo incarico nell’Istituto
e, soprattutto, il fatto che lo stesso Silingardi aveva dichiarato di avere r potuto
effettivamente verificare l'esistenza di ripetuti flussi finanziari da Parmalat s.p.a.
nei confronti di Agis, Sirio e soprattutto nei confronti di Sata s.r.l., flussi affatto
privi di giustificazione giuridica, ma, a suo dire, correlabili ad una situazione
temporanea – ciò che, peraltro, contrasta con la durata negli anni delle
operazioni – con la necessità di fornire a Sata la provvista per consentirle di
estinguere i debiti di Parmalat s.p.a., a seguito delle perdite prodotte da Odeon
TV – senza peraltro che si spieghi per quale ragione la Sata avrebbe dovuto
pagare debiti gravanti sulla società erogatrice del denaro (è in questo contesto
che si colloca la dichiarazione dello stesso imputato, secondo cui egli aveva
rappresentato la singolarità della situazione ai vertici di Parmalat s.p.a., per poi
acquietarsi alla risposta "è temporanea questa cosa, ma poi va a posto, ma poi
la rimborsiamo . Rimborsiamo, ma poi faremo, poi brigheremo").
Le considerazioni che precedono mostrano, ugualmente, l’aspecificità delle
censure relative alla vicenda della cessione della Boschi s.p.a.
Nel 1989, la Sata, infatti, prima cede a Parmalat s.p.a. tutte le azioni
Boschi, registrando un plusvalore di circa 29 miliardi di lire, grazie a un prezzo
di cessione che è molto più alto rispetto a quello di acquisto; quindi, a breve
distanza di tempo Sata riacquista da Parmalat le azioni Boschi ad un prezzo
sensibilmente
inferiore
a
quello
di
pochi
mesi
prima,
con
l’effetto
di
ridimensionare a 4 miliardi di lire le perdite di esercizio. La doglianza secondo cui
l’imputato, consulente della Sata, non era tenuto a valutare la convenienza
dell’operazione per Parmalat s.p.a., non coglie nel segno, perché il ruolo in Sata,
non esime l’imputato dalla responsabilità concorsuale nelle distrazioni in danno di
Parmalat, in qualità di extraneus.
Anche le censure che investono le distrazioni di somme di denaro in danno
di Parmalat s.p.a. a favore delle società del gruppo turistico di Tanzi e il ruolo
154
attivo svolto in relazione ad esse dallo stesso imputato, si traducono nella
valorizzazione di circostanze, peraltro esaminate compiutamente dalla Corte
territoriale, che trascurano di considerare la vicenda del finanziamento del
27/01/1997 a favore di ITC & P, all'epoca capogruppo del settore turistico, e del
relativo rimborso del prestito, in cui la sentenza impugnata, oltre a sottolineare
che la delibera di finanziamento di Cariparma (poco rileva che quest’ultima non
fosse la promotrice dell’operazione) non si curava di individuare specificamente
le fonti di finanziamento, ha aggiunto che l’operazione si fondava sul pegno delle
azioni ECP e sul fatto che Parmalat s.p.a. si era dichiarata disponibile a
canalizzare sulla Cassa un bonifico irrevocabile fino 20 miliardi di lire,
specificando che, se pure era vero che siffatta garanzia aggiuntiva era stata poi
rinunciata, era anche vero che ciò era accaduto perché Tanzi aveva annunciato
la prossima emissione di un prestito obbligazionario da 180 miliardi di lire,
effettuata da Parmalat Finance Corporation.
Né il ricorso si cura del fatto che la conoscenza della peraltro notoria crisi del
Turismo, oltre ad emergere dal fatto stesso che l’erogazione del finanziamento
aveva esplicitamente richiesto la partecipazione di Parmalat, era stata ammessa
dallo stesso Silingardi.
Identiche conclusioni di specificità riguardano il ruolo svolto dall’imputato nel
Comitato di controllo interno, i cui compiti, per come definiti già nel 1999 dal cd.
Codice Preda, erano stati chiaramente identificati dagli stessi componenti del
comitato, i quali, nella prima riunione del 04/07/2001, si era dato un programma
e degli obiettivi, stabilendo di verificare il corretto esercizio delle deleghe
nell’ambito dei poteri conferiti, di valutare i contratti pluriennali e gli impegni
assunti, i rischi finanziari, i rischi operativi, l’efficienza delle operazioni, la
copertura delle polizze assicurative e di controllare i rischi di carattere tecnicooperativi, senza che a tali imponenti finalità fosse seguito un concreto riscontro –
che inevitabilmente presuppone una verifica non formale della documentazione –
e conseguenti riflessi sul piano delle iniziative operative, nonostante le imponenti
emissioni obbligazionarie e i correlati rischi finanziari, nonostante che le
acquisizioni fossero portate a termine solo in forza di prestiti obbligazionari,
nonostante le ondivaghe informazioni relative all’entità del riacquisto dei bond o
all’emissione dei bond dell’estate 2003.
E tale inerzia, per quanto riguarda l’imputato, è stata razionalmente
interpretata alla luce delle sue pregresse conoscenze rispetto alle modalità
gestionali del Gruppo di Collecchio, oltre che dei dati acquisiti successivamente.
La sentenza impugnata ha, infatti, ricordato che era stato proprio Silingardi a
riferire che sulla liquidità "da tempo si era concentrata l'attenzione di analisti
finanziari ed esponenti della comunità finanziaria", come pure che aveva letto
155
l'intervista di Milano Finanza del dicembre 2002 a Tanzi e Tonna nella quale essi
riferivano per la prima volta del riacquisto di bond .
In tale contesto le dichiarazioni dell’internal auditor Viotto appaiono un mero
elemento di conferma del quadro che emerge dal complesso di elementi
probatori sopra ricordati. Ad ogni modo, le critiche svolte dal ricorrente a
proposito della credibilità riconosciuta a quest’ultimo, come pure con riferimento
alla cd. vicenda Streglio e alla crisi del settore del Sud America si traducono,
nella sostanza, nella inammissibile pretesa ad una rivalutazione di risultanze
istruttorie, esaminate dalla Corte territoriale, senza palesare alcuna manifesta
illogicità.
23.2. Del pari inammissibile è il settimo motivo, in quanto la significatività
dei segnali di allarme è criticata dal ricorrente con valutazioni che non tengono
conto dell’ampiezza dei ruoli ricoperti dal Silingardi, delle specifiche conoscenza
professionali, del concreto contributo fornito a numerose fattispecie distruttive,
quali emergono nel punto 23.1 che precede.
In realtà, la piena compartecipazione del ricorrente alla realizzazione delle
strategie illecite del gruppo rende aspecifiche le doglianze rappresentate nella
prospettiva di un agente esterno e ignaro delle concrete modalità gestionali
realizzate nel corso degli anni.
23.3. Il quinto motivo è inammissibile.
Premesso che la fattispecie di cui all’art. 416 cod. pen. non consente di
escludere i delitti che incidono sui rapporti economici – finanziari dal novero degli
illeciti alla cui commissione l’associazione è finalizzata, osserva la Corte che il
singolo momento di frizione tra il Tonna e il Silingardi, valorizzato in ricorso,
come pure il mancato coinvolgimento di quest’ultimo nell’iniziativa del Tanzi del
06/12/2003 non sono idonei ad incidere sulla logicità del tessuto argomentativo
che, alla luce degli imponenti elementi considerati supra 23.1, ha consentito alla
sentenza impugnata di accertare il contributo dall’imputato all’associazione.
Infatti, il vincolo partecipativo non esclude contrasti tra gli associati, né
richiede una diuturna partecipazione a tutte le iniziative del gruppo.
Fondatamente, pertanto, si è ritenuto sufficiente ad integrare il delitto in
contestazione il fatto che nel corso di molti anni il Tanzi abbia potuto fare
costante affidamento sulle capacità tecniche e professionali dell’amico, che
ovunque operando, gli aveva concretamente
consentito l’accesso a crediti
diversamente non ottenibili evitando istruttorie, occultando perdite, ideando giri
contabili e coprendo esborsi di denaro palesemente distrattivi, oltre che
omettendo controlli ed iniziative a lui spettanti o falsificando notizie significative
della situazione reale del Gruppo che, ove pubblicizzate, avrebbero rischiato di
interromperne l’operatività illecita.
156
In questa prospettiva, non è necessario individuare direttive formalizzate,
come pretenderebbe il ricorrente, giacché la sopra descritta disponibilità a
realizzare, ad alti livelli organizzativi e con la commissione di illeciti, gli interessi
del gruppo è più che sufficiente a consentire la configurazione del ruolo di
organizzatore ascritto all’imputato.
23.5. Il sesto motivo è inammissibile, giacché, secondo il consolidato
orientamento di questa Corte, la perizia non rientra nella categoria della "prova
decisiva" ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi
dell'art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., in quanto costituisce il
risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto, come nella specie, da adeguata
motivazione, è insindacabile in cassazione. (Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012,
Ritorto, Rv. 253707).
23.6. Esaminando prioritariamente l’undicesimo motivo, quanto al mancato
riconoscimento della continuazione rispetto ai fatti giudicati nel procedimento
milanese, rileva la Corte che esso è infondato, alla luce del principio, qui ribadito,
che il giudice d'appello non può pronunciarsi sulla richiesta d'applicazione della
continuazione con un reato per il quale è intervenuta condanna con sentenza
divenuta definitiva dopo la decisione di primo grado, sicché in tale caso la
continuazione può essere riconosciuta solo in sede esecutiva (Sez. 5, n. 9311 del
10/02/2009, Soffientini, Rv. 243166).
23.7 Inammissibile è il decimo motivo, da esaminare preliminarmente in
quanto investe, oltre che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, anche la determinazione della pena.
La Corte territoriale, con motivazione che non palesa alcuna manifesta
illogicità, ha infatti ritenuto, per un verso, che il coinvolgimento del Silingardi nel
reato associativo e la durata nel tempo del suo sodalizio criminoso con Tanzi
giustificava ampiamente l’entità della sanzione, peraltro quantificata in una pena
base prossima ben più al minimo che non al massimo edittale, e degli aumenti
determinati dal Tribunale, e, per altro verso, che difettavano, in ragione della
gravità delle condotte poste in essere non solo nel breve, se pur significativo,
arco di tempo in cui l’imputato ha ricoperto la carica di consigliere di Par.fin, ma
anche nell’arco di quasi quindici anni trascorsi “al servizio” di Tanzi e delle sue
società, ragioni idonee a giustificare la concessione delle attenuanti generiche,
posto che a fronte della età avanzata, dell’incensuratezza e del dichiarato
corretto
comportamento
processuale,
doveva,
altresì,
essere
valorizzato
l’atteggiamento frequentemente renitente, ma soprattutto la estrema gravità
delle condotte accertate.
23.8 Infondato è, del pari, il nono motivo, che investe l’applicabilità
dell’aggravante di cui all’art. 219, comma primo, l. fall. alle fattispecie di
157
bancarotta impropria, alle luce delle considerazioni, anche di recente confermate
da questa Corte (Sez. 5, n. 2903 del 22/03/2013 - dep. 22/01/2014, , Rv.
258446).
In effetti, il rinvio che l’art. 223 l. fall. opera al precedente art. 216 concerne
anche gli elementi accidentali delle fattispecie criminose previste da quest’ultima
norma, ossia, per quanto qui rileva, la circostanza aggravante della rilevanza del
danno. D’altra parte, laddove si ritenesse l'aggravante in esame non ravvisabile
nei fatti di bancarotta commessi dal gestore di società, si perverrebbe
all'irragionevole
risultato
di
sottoporre
l'imprenditore
individuale
ad
un
trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo, in quanto identificato
anche negli effetti speciali della circostanza aggravante in esame, rispetto a
quello previsto per i fatti sostanzialmente analoghi commessi nell'ambito della
gestione societaria, sicuramente non meno gravi, per i quali sarebbe al più
configurabile l'aggravante ad effetto comune di cui all'art. 61, n. 7, cod. pen.
Va, per completezza, aggiunto che elementi che si oppongano alle predette
conclusioni non sono ravvisabili nella decisione di Sez. U, n.21039 del
27/01/2011, Loy, Rv. 249665, in ordine alla diversa aggravante di cui all’art.
219, comma secondo, n. 1, l. fall., costituita dalla commissione di una pluralità di
condotte tipiche del reato di bancarotta nell'ambito della stessa procedura
fallimentare,
ed
all'autonomia
di
dette
condotte
in
una
previsione
strutturalmente improntata ad un regime di cumulo giuridico pur se formalmente
qualificata in termini circostanziali; ed in particolare nei passaggi motivazionali
nei quali detta previsione aggravatrice viene ritenuta operante per i fatti di
bancarotta impropria di cui all’art. 223, l. fall., nonostante opposte indicazioni
suggerite dai dato letterale, in quanto sostanzialmente favorevole all'imputato
rispetto alle deteriori conseguenze sanzionatorie dell'ordinaria disciplina della
continuazione, con ciò, secondo la contraria interpretazione, intendendo a
contrariis non applicabile ai fatti di cui sopra l'aggravante del danno rilevante,
meramente pregiudizievole per l'imputato. La lettura integrale della motivazione
della citata sentenza sul punto, per la quale "è agevole osservare, in aderenza al
consolidato orientamento di questa Suprema Corte, che il richiamo contenuto
nelle norme incriminatici della bancarotta impropria allo stesso trattamento
sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima
margini di dubbio sull'applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi
compresa l'aggravante sui generis di cui si discute. D'altra parte, avendo il
legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di
bancarotta impropria, non v'è ragione, ricorrendo l'eadem ratio, di differenziare
la disciplina sanzionatoria. L'applicazione analogica dell’art. 219 l. fall., ai reati di
bancarotta impropria non può ritenersi preclusa, trattandosi di disposizione
158
favorevole all'imputato", rende viceversa evidente come le Sezioni Unite abbiano
puntualmente recepito i rilievi in precedenza esposti sull'inclusione, nell'oggetto
del rinvio posto dall’art. 223 l. fall., di tutte le componenti del trattamento
sanzionatorio della fattispecie della bancarotta fraudolenta, fra le quali non può
che comprendersi l'aggravante di cui si discute in questa sede, e sulla
sostanziale equiparazione normativa delle fattispecie della bancarotta propria e
di quella impropria, che rende irragionevole la limitazione alle prime del
l'operatività
dell'aggravante
in
parola,
puramente
aggiuntivo
dovendosi
intendere, nel complessivo articolato dell'argomentazione, l'ulteriore accenno al
favor rei che contraddistingue in concreto la particolare posizione della disciplina
della pluralità di fatti di bancarotta.
23.9
Sebbene il ricorso debba essere disatteso in relazione ai motivi
dedotti, per quanto fin qui osservato, tuttavia la sua complessiva ammissibilità
impone l’obbligo di rilevare d’ufficio l’intervenuta estinzione del delitto di
associazione per delinquere, di cui al capo A) dell’imputazione; risulta infatti
maturato il termine prescrizionale massimo di otto anni e nove mesi da
computarsi a decorrere dal dicembre 2003, data di cessazione della permanenza.
Nei confronti del Silingardi, pertanto, la sentenza deve essere annullata in
parte qua senza rinvio per l’anzidetta ragione, non sussistendo altri motivi di
proscioglimento che possano prevalere su di essa ex art. 129, comma 2, cod.
proc. pen.. Ne consegue l’eliminazione del corrispondente aumento di pena per
la continuazione, pari a tre mesi di reclusione.
23.10. Quanto alle questioni civilistiche, prospettate con il dodicesimo
motivo, è sufficiente rinviare, per giustificare la conclusione della loro ritenuta
infondatezza, alle considerazioni svolte supra, con riferimento ai profili legati alla
sussistenza della responsabilità del Silingardi, e a quelle sviluppate
nel punto
9.1. della motivazione che precede, quanto all’ambito di operatività dell’art. 587
cod. proc. pen.
24. DOMENICO BARILI
Il ricorso non può trovare accoglimento.
24.1. Il primo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili è
infondato, per le considerazioni svolte supra al punto 4 della presente
motivazione.
24.2. Il secondo motivo del medesimo ricorso è infondato, per le ragioni
sviluppate supra al punto 3 della presente motivazione.
24.3. Il terzo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il primo
motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, come pure i connessi
decimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e l’ottavo motivo del
159
ricorso
proposto
personalmente
dall’imputato,
sono,
nel
loro
complesso,
infondati.
Rinviando alle considerazioni sviluppate supra nel punto 7 della presente
motivazione, quanto alla rilevanza della dichiarazione di fallimento rispetto al
reato di bancarotta per distrazione, occorre premettere, come anche si ribadirà
nel punto 24.4, che segue, che i reati per i quali è intervenuta assoluzione e
quelli per i quali è stata ritenuta la responsabilità dell’imputato riguardano
condotte diverse.
E, infatti, altro è la materiale falsificazione contabile o l’ideazione di
meccanismi finanziari illeciti
o la deliberazione di operazioni finanziarie dolose
oggettivamente pregiudizievoli; altra è la condotta dell’amministratore che, pur
non falsificando egli materialmente o non decidendo egli in prima persona
l’adozione di tali meccanismi o di tali operazioni, ne sia tuttavia pienamente a
conoscenza e, nonostante ciò, non solo non impedisce tale strategia, ma la
asseconda
pienamente,
partecipando,
nella
qualità
di
consigliere
di
amministrazione, all’operazione stessa, pur avendo piena consapevolezza delle
sue caratteristiche, con l’approvazione dell’atto che quell’illecito formalizza.
Quanto ai vizi motivazionali, osserva la Corte che le censure sono
inammissibili. in quanto, nella loro complessa articolazione fattuale, criticano la
ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sono inammissibili, in
quanto, attraverso una lettura frazionata dell’apparato argomentativo della
sentenza impugnata, aspirano ad una rilettura delle risultanze istruttorie,
esaminate dalla Corte, con motivazione che non esibisce alcuna manifesta
illogicità.
Al riguardo, va ribadito che gli aspetti del giudizio che consistono nella
valutazione
e
nell’apprezzamento
del
significato
degli
elementi
acquisiti
attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità,
se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità
dimostrativa, con la conseguenza che sono inammissibili in sede di legittimità le
censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione
del materiale probatorio (di recente, v. Sez. 5, n 18542 del 21/01/2011, Carone,
Rv. 250168 e, in motivazione, Sez. 5, n. 49362 del 19/12/2012, Consorte).
Ciò posto, la sentenza impugnata ha valorizzato i ruoli ricoperti dal Barili
per circa quarant’anni, ruoli di centrale importanza operativa e di fondamentale
incidenza organizzativa e decisionale in ambiti tra i più segnati dalle anomalie
gestionali e dalle frodi e falsificazioni in contestazione.
Il Barili, come s’è ricordato, aveva svolto l'incarico di direttore commerciale
di Parmalat S.p.a. dal 1963, di direttore generale commerciale del gruppo
Parmalat dal 1980 al maggio 2001, nonché di consigliere di amministrazione
160
tanto di Parmalat Finanziaria, quanto di Parmalat Spa dal 1989 fino al default. Il
suo compito, quale direttore generale commerciale, era quello di organizzare la
rete di vendita, in Italia direttamente e all'Estero tramite direttori commerciali
locali, che venivano quasi sempre scelti dallo stesso Barili; egli si occupava
altresì di tutta l'attività di marketing di supporto. In questa veste egli era
responsabile delle concessionarie (controllate e non), tramite le quali Parmalat
vendeva in tutto il mondo i propri prodotti, e che costituivano altresì lo
strumento utilizzato per anni al fine di finanziare in modo illecito la sub-holding
operativa.
Barili è stato, inoltre, membro del Comitato esecutivo di Parmalat s.p.a. dal
15/05/1992 al 30/12/2003 e del Comitato per la remunerazione dal 15/05/2001
al 30/12/2003 e ha partecipato costantemente, quanto meno sino al 2001, alle
cd. riunioni di budget, nelle quali - secondo quanto univocamente affermato non
solo da Tonna, ma anche da Del Soldato, e sostanzialmente ammesso anche da
Bonici -
i vertici del Gruppo
si occupavano delle previsioni per il periodo
successivo e della pianificazione degli investimenti, analizzando i dati reali del
fatturato di tutte le imprese della holding, differenti da quelli emergenti dai
bilanci. Sempre il Tonna ha ricordato che il Barili faceva parte del comitato
ristretto che decideva le acquisizioni ed era stato Presidente del consiglio di
amministrazione della Centrale del Latte di Parmalat Spa dal 23/05/1997 al
31/12/2000, nonché prima socio e poi membro del consiglio di amministrazione
di Eliair dal 1980 al 2004, membro del consiglio di amministrazione di Eurolat dal
1999 al 2003 e di Parma AC dal 1996 al 2002.
A seguito della indicata marginalizzazione, nella primavera 2001 il Barili era
costretto a dimettersi dall'incarico di direttore commerciale del gruppo; tuttavia,
il Tanzi gli aveva attribuito l'incarico di vicepresidente di Parmalat s.p.a. e aveva
concordato con l’imputato una collaborazione continuata e coordinativa del
predetto con la Parmalat per un'attività di consulenza della durata di tre anni.
In tale contesto, la sentenza impugnata ha rilevato che la piena conoscenza,
da parte dell’imputato, della reale situazione del gruppo e della gravità delle
perdite e falsificazioni operate soprattutto nei bilanci sudamericani, era fondato
sulle dichiarazioni del Tonna e Del Soldato, in ragione della partecipazione non
formale alle riunioni di budget, nelle quali si aveva “l’esatta certezza, perché i
dati erano completamente veritieri, di paese in paese come andavano veramente
le cose”. Anche il Tanzi, dal canto suo, aveva confermato che Barili era come lui
a conoscenza del cd. sistema delle concessionarie, del giro delle ri.ba. e false
fatturazioni, della situazione disatrosa del Sud America, del fatto che da tale
paese giungessero regolarmente bilanci “rivisitati”, della necessità di aggiustarli
ulteriormente in sede di consolidato e del fatto che i bilanci del Gruppo fossero
161
falsi.
Ancora secondo Tonna , Barili aveva anche la disponibilità, fino a quando
rimase direttore generale commerciale, dei dati del sistema HQR – sistema di
rilevazione di contabilità industriale e controllo di gestione- che gli venivano
inizialmente consegnati in forma cartacea e quindi a livello informatico e che gli
agevolava la piena conoscenza dei dati reali rispetto a quelli fittizi riportati nei
bilanci. La valutazione di attendibilità del Tonna è logicamente sorretta, nella
sentenza impugnata, dalla considerazione che se era certo che i dati HQR
venivano consegnati, tra gli altri, a tutti i responsabili di settore, Paese ed area,
ben difficilmente essi potevano non essere recapitati anche a Barili, responsabile
commerciale di tutto il Gruppo, come del resto, confermato dalla disponibilità
degli stessi, da parte del Prevedini, che aveva preso il posto di Barili alla
direzione commerciale di Parmalat Italia. D’altra parte, il Prevedini non aveva
sostituito integralmente il Barili, ma aveva assunto funzioni assai più ridotte
rispetto a quelle (generali nell’area commerciale, sia a livello geografico, sia a
livello qualitativo) già svolte dal ricorrente e comunque non prima del 2001.
Del resto, sia il Tonna che colui che aveva messo a punto il sistema, Ugo
Bianchi, hanno ricordato che il sistema aveva iniziato ad operare quanto meno
dal 1998; così come il Commissario Straordinario, dott. Bondi, aveva riferito che,
se ai dati informatici HQR, si accedeva tramite password, era tuttavia disponibile
anche un supporto cartaceo dei dati medesimi per i vari responsabili di area e
settore.
Sempre sul piano logico, la sentenza impugnata ha ricordato che la contraria
tesi dell’imputato, oggi riproposta col ricorso in termini assolutamente aspecifici
rispetto alle considerazioni della Corte territoriale, contrastava con il fatto che
era inverosimile che la pianificazione degli investimenti e le strategie relative alle
società del gruppo appartenenti alle diverse aree geografiche potessero essere
effettuate sulla base di dati falsi, così come esposti in bilancio; e ciò senza dire
che il ruolo svolto da Barili imponeva la conoscenza dell'effettivo andamento
economico delle società industriali, in mancanza del quale non era possibile
effettuare la direzione commerciale del gruppo.
Da tali premesse discende la conseguenza tratta dalla sentenza impugnata
dell’attendibiità delle dichiarazioni di Tonna, Tanzi, Del Soldato e Pessina,
secondo cui il Barili era anche a conoscenza della falsificazione dei bilanci. Anzi,
posto che il comparto sudamericano costituiva uno dei campi di azione in cui
maggiormente e più a lungo si era attivato Barili, come da lui stesso ammesso, è
apparsa alla Corte d’appello del pari attendibile la dichiarazione di Tonna,
secondo il quale, gli accertati flussi in uscita da Wishaw Trading per ripianare i
debiti del Brasile e la documentata ricapitalizzazione di Parmalat Partecipacoes
162
per ripagare Wishaw Trading erano certamente anche di Barili, che addirittura si
era attivato espressamente per inibire le dovute verifiche all’internal auditor
Nicolotti (come sostanzialmente riferito anche da quest’ultimo), anche attraverso
l’intervento del Grisendi.
Il coinvolgimento del Barili nel giro delle concessionarie, che, attraverso un
sistema centralizzato di contabilizzazione ed in base alle indicazioni ricevute dai
vertici del gruppo, venivano sfruttate (in uscita) per incrementare il giro ri.ba. e
(in entrata) per ingenerare falsi ricavi, oltre che per assorbire le eccedenze di
prodotto che veniva poi fatto scadere, remunerare in modo affatto irregolare il
personale Parmalat e falsificarne infine i bilanci tramite i fittizi ratei di
ripianamento di fine anno, è stato logicamente tratto dalla Corte territoriale dalla
centralità di siffatto sistema per gli affari illeciti del Gruppo, con la conseguenza
che era impensabile che ai suoi vertici potesse essere posto un soggetto
inaffidabile o all’oscuro dei meccanismi distrattivi e falsificatori che fungevano da
fondamenta alle esigenze della holding per oltre un decennio. E ciò soprattutto
se si considera che, per sua stessa ammissione, Barili era uso a controllare con
attenzione andamento gestionale e bilanci delle società.
D’altra parte, al di là di tali considerazioni logiche, la Corte territoriale ha
valorizzato anche i risultati della prova dichiarativa, dalla quale emerge che
Barili, nella sua qualità di direttore commerciale, era perfettamente informato di
quanto accadeva nelle concessionarie, anche tramite report mensili trasmessigli
da Pessina, che il ricorrente ha ammesso di avere ricevuto, dai quali emergeva la
reale situazione delle concessionarie. Anzi, il Pedraneschi aveva aggiunto che i
direttori delle concessionarie coinvolte nelle distazioni e falsificazioni in esame si
recavano non solo da Tonna, ma anche da Barili a contestare la anomalia della
situazione – ovvero a parlare “ delle perdite, dei falsi per coprire le perdite, delle
ricevute bancarie, degli oneri”-
, senza tuttavia ottenere nulla perché “ la
Parmalat preferiva che andassero in perdita le concessionarie” , ancorché Barili,
più volte interessato al problema, cercasse “di darci una mano”. Ed è razionale
sul punto la conclusione tratta dalla sentenza impugnata, secondo la quale per
occultare le perdite, gli oneri finanziari e le distrazioni di cassa nonché per i
compensi (“in nero”, come affermato da Pessina) corrisposti agli amministratori
delle concessionarie, era necessario falsificare le scritture contabili ed i bilanci
anche tramite il cd. rateo attivo di fine anno, la cui conoscenza da parte del Barili
si desume proprio dalla ricordata consegna dei report mensili, dai quali
emergevano tutte le perdite e le specifiche ragioni di ciascuna di esse, talché il
ricorrente era evidentemente a conoscenza delle falsificazioni, giacché solo con il
rateo di fine anno le concessionarie potevano tornare in pareggio, pur senza che
Parmalat (nel cui consiglio di amministrazione il Barili sedeva) avesse erogato
163
effettivamente alcunché.
Alla luce di siffatto compendio probatorio viene criticato dal ricorrente,
attraverso la riproposizione della tesi della sua inconsapevolezza delle attività di
falsificazione, che però non riesce a dimostrare alcuna manifesta illogicità
dell’apparato argomentativo, giacché sia i contrasti con il Tonna, sia la diversa
valutazione delle dichiarazioni del Pessina, sia l’estraneità del Barili al sistema
Bonlat o all’inesistente conto presso Bank of America non incrinano, al pari degli
altri profili menzionati nell’atto di impugnazione, la concludenza dei dati sopra
ricordati.
Del pari, assolutamente razionale è la conclusione della Corte territoriale,
contro cui si appunta un’ulteriore articolazione dei motivi, a proposito della
partecipazione del Barili al reato associativo.
Il fatto che il direttore marketing di Parmalat s.p.a. - che da sempre
presiedeva alla organizzazione della rete distributiva dei prodotti Parmalat,
fautore dei piani strategici di vendita e responsabile della individuazione degli
obiettivi di vendita - conoscesse inevitabilmente l'entità reale degli spostamenti
di merce intercorrenti tra la casa madre e le società controllate,
è stato
logicamente ritenuto un elemento idoneo a corroborare il quadro accusatorio per
il quale Barili era non solo a piena e diretta conoscenza, ma attivamente
compartecipe dei reati deliberati dalla cd. “cabina di regia”, della quale di fatto
(come consigliere esecutivo tanto di Parmalat s.p.a., quanto di Par.fin. s.p.a. e
come componente del comitato di budget e del comitato esecutivo, oltre che
come direttore commerciale del Gruppo) faceva parte.
24.4. Il quarto e il settimo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e i
corrispondenti motivi del ricorso proposto personalmente dall’imputato sono
infondati, per le considerazioni svolte supra al n. 24.3, a proposito della
necessaria distinzione tra i reati per i quali è intervenuta assoluzione e quelli per
i quali è stata ritenuta la responsabilità dell’imputato, i quali riguardano condotte
diverse.
24.5. Il quinto motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il terzo
motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato sono infondati, in
quanto, per un verso, muovono dal presupposto dell’estraneità del Barili alla
gestione finanziaria del Gruppo (profilo per il quale è sufficiente rinviare alle
considerazioni di cui al punto 24.3 che precede, oltre che nel punto 24.1, per il
rapporto con l’assoluzione da altri reati) e, per altro verso, introduce il tema
della qualificazione del fatto in termini di ricorso abusivo al credito, per cui si
rinvia al punto 21.3, relativo alla posizione dello Sciumè.
24.6. Il sesto motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il quarto
motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato sono inammissibili,
164
perché, a prescindere dalla reiterata affermazione di estraneità del Barili alla
gestione finanziaria (per cui si rinvia a quanto considerato al n. 24.3), non si
confronta con la logica affermazione della Corte territoriale, secondo cui
l’aumento di capitale Par. Fin. del 1996, lungi dal rappresentare una operazione
positiva per le finanze del Gruppo, era stato attuato ottenendo un prestito da
UBS per consentire alla società Coloniale di versare la propria quota di aumento
di capitale senza ricorrere a finanze proprie e pertanto si era tradotto in un
ulteriore aggravio dell’indebitamento della società (che aveva ripagato poi il
debito tramite Parmalat Finance Corporation BV) allo scopo di permettere a Tanzi
di mantenere il controllo del gruppo senza immettere capitali propri. Così come
le doglianze dei ricorsi non si confrontano con il rilievo della sentenza impugnata,
secondo cui lo stesso Barili aveva ammesso di avere chiaramente percepito il
senso dell’operazione di aumento di capitale presentata da TONNA in sede di
consiglio di amministrazione, comprendendone pienamente lo scopo.
24.7. Infondati, nel loro complesso, sono l’ottavo motivo del ricorso
proposto nell’interesse del Barili e il sesto motivo del ricorso proposto
personalmente dall’imputato, giacché, quanto alla concreta ricostruzione della
vicenda aspirano ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie, operate dalla
Corte territoriale con motivazione assolutamente congrua.
E, infatti, la sentenza impugnata ha considerato, per un verso, che il
pagamento del bonus per la cessazione dell’incarico di direttore generale
commerciale era stato effettuato da una società- Parmalat Capital Finance-, in
cui Barili non aveva mai rivestito
alcun incarico e che non aveva alcuna
documentata ragione per versargli un corrispettivo relativo a prestazioni al più
riguardanti Parmalat Spa e Par.fin. Spa. La tesi dell’adempimento del terzo o
della delegazione di pagamento è sostenuta dal Barili in termini assolutamente
astratti, senza alcuna indicazione delle fonti dei sottostanti rapporti negoziali.
Quanto poi al pagamento del compenso in forza di un asserito rapporto di
consulenza, la sentenza impugnata ha logicamente rilevato che quest’ultimo,
nella sua sostanza pressoché integralmente sovrapponibile al ruolo di vice
presidente di Parmalat s.p.a, per il quale il Barili era formalmente retribuito, era
stato concluso per via epistolare, ma non era mai stato comunicato all’assemblea
né mai deliberato dal consiglio di amministrazione, successivo alla conclusione di
tale contratto e dove pure si dava atto della cessazione dell’incarico di direttore
generale e dell’assunzione di quello di vice presidente da parte del Barili. Inoltre,
rispetto alla considerazione della Corte territoriale, secondo cui non era emerso
alcun riscontro della effettiva attuazione dell’incarico, si ripete, sovrapponibile
per oggetto a quello di vice presidente, non è dato cogliere alcuna specifica
critica, agganciata ai dati processuali.
165
Quanto alla censura relativa all’assenza di qualunque approfondimento in
ordine al nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi dell’insolvenza, si
rinvia alle considerazioni svolte al n. 7 che precede.
24.8. Il nono motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e il settimo
motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato sono infondati: per
l’estraneità del ricorrente alla gestione finanziaria, si rinvia al punto 24.3. che
precede; per quanto concerne la critica relativa all’assenza di qualunque
approfondimento in ordine al nesso eziologico fra tali operazioni e il verificarsi
dell’insolvenza, si rinvia alle considerazioni svolte al n. 7 che precede.
24.9. Con il decimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e
l’ottavo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato, si lamentano
erronea applicazione della legge penale e vizi motivazionali, in relazione
all’affermazione di responsabilità in relazione ai capi L.1. e L.2., rispettivamente
concernenti la falsificazione delle scritture contabili di Parmalat s.p.a. e di Parfin
s.p.a., ribadendo e sviluppando le considerazioni svolte nel primo motivo.
24.10.
nell’interesse
L’undicesimo
del
Barili
e
e
il
il
dodicesimo
nono
decimo
motivo
motivo
del
ricorso
proposto
del
ricorso
proposto
personalmente dall’imputato, esaminabili congiuntamente per la loro stretta
connessione logica, sono, nel complesso, infondati.
Al riguardo, osserva la Corte che, per quanto riguarda il mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la determinazione della
pena, la sentenza impugnata, con motivazione che non palesa alcuna manifesta
illogicità, ha infatti evidentemente ritenuto, nella rideterminazione della pena, di
valorizzare i profili che emergono supra, a proposito dell’affermazione di
responsabilità dell’imputato, quanto al ruolo di affidabile partecipe all’interno dei
consigli di amministrazione della holding e della sub-holding operativa e nel
comitato esecutivo di Par.fin. sino al momento del default, senza che, in
contrario, possa operarsi un’astratta comparazione dei ruoli con altri coimputati,
avulsa dal concreto contesto delle loro posizioni.
Quanto alla contestata applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 219,
comma primo, l. fall., in relazione alla fattispecie di bancarotta fraudolenta
impropria, si rinvia, per economia espositiva, alle considerazioni svolte supra al
n. 23.8 della presente motivazione.
Con riferimento all’entità delle pene accessorie, osserva la Corte che,
secondo il condiviso orientamento espresso da Sez. 5, n. 628 del 18/10/2013 dep. 10/01/2014, Di Cesare, Rv. 257947, la pena accessoria dell'inabilitazione
all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici
direttivi presso qualsiasi impresa ha la durata fissa ed inderogabile di dieci anni.
24.11. Il tredicesimo motivo del ricorso proposto nell’interesse del Barili e
166
l’undicesimo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato sono
infondati
per
le
ragioni
sviluppate
supra
al
punto
9.1.
della
presente
motivazione.
25. Riepilogando le statuizioni come sopra assunte, la sentenza impugnata è
da annullare senza rinvio limitatamente al reato di associazione per delinquere di
cui al capo A, estintosi per prescrizione, con eliminazione dei corrispondenti
aumenti di pena inflitti a Calisto Tanti, Fausto Tonna, Giovanni Tanzi e Luciano
Silingardi; deve inoltre essere annullata con rinvio nei confronti di Fausto Tonna,
limitatamente al trattamento sanzionatorio.
Sono, invece, da rigettare integralmente i ricorsi dei restanti imputati, con la
conseguente condanna di ciascuno al pagamento delle spese processuali.
25.1. Sul versante degli interessi civili, dall’esito processuale emerge la
soccombenza dei ricorrenti nei confronti delle parti civili, comparse nel giudizio di
cassazione, che hanno concluso contro di loro; ne consegue l’obbligo solidale di
rifusione delle spese di difesa, la cui liquidazione è effettuata come in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Tanzi Calisto,
Tanzi Giovanni, Tonna Fausto e Silingardi Luciano, limitatamente al reato
associativo sub A, per essere lo stesso estinto per prescrizione ed elimina il
relativo aumento di pena inflitto a titolo di continuazione per detto reato, pari a
mesi cinque di reclusione per Tanzi Calisto, mesi cinque di reclusione per Tonna
Fausto, mesi quattro di reclusione per Tanzi Giovanni e mesi tre di reclusione per
Silingardi Luciano.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Tonna Fausto, limitatamente
al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di
Bologna per nuovo esame sul punto.
Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti imputati.
Rigetta i ricorsi di Barachini Enrico, Barili Domenico, Bonici Giovanni, Branchi
Fabio, Calogero Rosario Lucio, Erede Sergio Piero Franco, Florini Camillo, Fratta
Davide, Mutti Mario Alfonso, Panizzi Giuliano, Sciumé Paolo, che condanna
singolarmente al pagamento delle spese del procedimento.
Condanna: Barili Domenico e Tanzi Calisto, in solido fra loro, alla rifusione
delle spese sostenute nel grado dalle parti civili Foti + 10, liquidate globalmente
in complessivi euro 8.000,00, oltre accessori di legge; tutti gli imputati ricorrenti,
tranne Calogero Rosario Lucio, in solido fra loro, alla rifusione delle spese
sostenute dalle parti civili nel grado, liquidate globalmente: quanto ad Aflac Inc e
Farmland Diaries LLC, in complessivi euro 7.000,00, oltre accessori di legge;
167
quanto
a
Sardella
Teresa,
Corvaia
Antonio,
in
proprio
e
quale
legale
rappresentante della Quattro C s.a.s., Metelli Aurelio, Campisi Antonino, Di
Piazza Flavio, Li Pomi Salvatore, Le Rose Luigi, Librizzi Francesco, Bonnì Rosa,
Fulgoni Gabriella, Romeo Grazia, Romeo Agata, in complessivi euro 8.000,00,
oltre accessori di legge; quanto a Pompini + 38, in complessivi euro 5.000,00,
oltre accessori di legge; tutti gli imputati, in solido fra loro, alla rifusione delle
spese sostenute dalle parti civili nel grado, liquidate globalmente: quanto a Bazzi
+ 12, Ambroggi + 49, Agosta + 65, in complessivi euro 13.000,00, oltre
accessori di legge, da distrarsi in favore dell’Avv. Anna Campilii; quanto ad Aba
+ 32.000, in complessivi euro 5.000,00, oltre accessori di legge; quanto a
Vergani + 535, in euro 16.000,00, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore
dell’Avv. Federico Palestro; quanto ad Abbate Cesare + 144, Badini Maria
Antonia + 116, Cairoli Enrico + 141, D’Amico Gaetano + 271, Gambarelli Pietro
+ 61, Herceg Denes + 56, Macaluso Gandolfo + 135, Napoleoni Santino + 274,
Parisini Marziano + 26, Tacchini Giovanni Andrea + 138, in complessivi euro
10.020,00, oltre accessori di legge; quanto alle società del gruppo Parmalat in
amministrazione straordinaria, in euro 10.000,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 07/03/2014.
I Consiglieri estensori
Il Presidente
Paolo Oldi
Giuliana Ferrua
Giuseppe De Marzo
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