Un traghetto per la città

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Un traghetto per la città
Un traghetto per la città:
Teneva la testa appoggiata al finestrino. Non sapeva neppure se pensare o
lasciarsi trascinare dal viaggio. Erano già passati 7 anni e lei si trovava sempre lì, alla
stessa ora, allo stesso posto, sulla stessa linea di un autobus ogni giorno diverso.
Ormai credeva che quel quotidiano traghettare da una sponda all’altra della città fosse
diventato una costante inevitabile della sua esistenza e a dire il vero non poteva più
farne a meno. Tutto aveva avuto inizio, poco dopo l’esame di maturità, con la
decisione dei suoi di trasferirsi dalla piccola casa in centro a una villetta più spaziosa
in periferia. Cambiare casa non significava semplicemente chiudere i suoi libri, i cd e
gli abiti in scatoloni di cartone e riordinarli in una camera dagli angoli nuovi e dalle
pareti di un colore diverso. Non viveva più in affitto nel palazzo di via Maggio, ma in
una bella casetta con giardino che la separava di 30 minuti di autobus dai lungarni.
All’inizio aveva accettato a malincuore la distanza della nuova casa dal centro perché
questo comportava l’uso dei mezzi pubblici, le attese da trascorrere alle fermate del
30 sotto la pioggia, al vento o con il caldo torrido. Poi, ben presto, tutto era diventato
normale e lei non sentiva più la necessità di incarnare nella mezz’ora da trascorrere in
autobus il suo disprezzo per la vita di periferia. Si era assuefatta alla distanza.
Si era assuefatta alla varietà della ripetitività che quei tram strapieni di gente le
mostravano ogni giorno di ogni anno. Viaggi sempre uguali, sempre lungo le stesse
strade piene degli stessi negozi che aprivano e chiudevano poco dopo per lasciare
spazio a profumerie e a ristoranti cinesi. I vecchi palazzi venivano buttati giù e dalle
loro ceneri nascevano nuovi cantieri che le sembravano non finire mai, forse perché,
vedendoli tutti i giorni, il loro crescere le sembrava a dir poco impercettibile. Con la
distruzione dei vecchi edifici lei dava l’addio ai graffiti che li decoravano e la
accompagnavano ogni giorno lungo il tragitto. Non le restava altro che prepararsi a
dare il benvenuto ai nuovi a cui si sarebbe presto affezionata. In quella ripetitività
erano passati gli anni e le loro stagioni. La primavera, con la giacca addosso la
mattina presto e sotto braccio tornando a casa per pranzo, poi il mese indefinito delle
gran sudate per l’abbigliamento mai azzeccato e infine l’estate del caldo torrido, delle
canottiere multicolori e del non-si-prende-il-tram-da-mezzogiorno-alle-cinqueperché-fa-troppo-caldo-e-i-finestrini-sono-chiusi delle vecchine. E ancora settembre,
di nuovo con la giacca addosso la mattina e in mano dopo mezzogiorno, l’autunno
con l’autobus fradicio di ombrelli bagnati dalle 8:00 alle 20:00 e tutti i finestrini
appannati. Infine l’inverno con il cappotto nuovo, la sciarpa nuova, il nuovo
maglione a collo alto, le scarpe nuove e il solito capolinea. Aveva la percezione del
trascorrere dei tempo dall’alternarsi delle pubblicità fuori e dentro le vetture. Ogni tre
mesi cambiavano le locandine delle nuove mostre a Palazzo Strozzi, a maggio
c’erano i cartelloni della fiera dell’artigianato alla Fortezza e di Festival Europa alla
Stazione Leopolda, a luglio arrivavano le feste medioevali e le rievocazioni storiche
di Malmantile, Certaldo e Monteriggioni, a settembre le nuove fiction Rai e i film in
concorso alla mostra del cinema di Venezia, a dicembre era la volta delle promozioni
viaggi con babbo natale in costume da bagno delle agenzie turistiche.
Così erano passati gli anni dell’università e, dopo la laurea e un breve periodo
all’estero, la ricerca di un lavoro l’aveva portata ancora una volta verso il centro di
Firenze, in autobus. Pendolare significava per lei vivere una fase preparatoria
all’inizio della giornata in cui rilassarsi, fare qualcosa che sarebbe stato difficile
inserire nel programma quotidiano e che alla lunga si era rivelato un piacere atteso
per il viaggio successivo alla conclusione di ogni ultimo tragitto. Questo prevedeva
leggere un libro, pensare intensamente ai progetti futuri e ascoltare le conversazioni
di chi, come lei, nell’autobus riscopriva ogni mattina un traghetto per l’altra città.
Sapeva benissimo che solamente chi si affida agli autobus per raggiungere la propria
destinazione quotidiana sa di partecipare ad un club segreto di cui si conoscono gli
affiliati e mai i nomi. Salire ogni giorno, alla stessa ora sulla stessa linea significava
incontrare persone che, come lei, facevano lo stesso, ascoltare le loro discussioni,
conoscere i loro lavori e i dissidi con i loro colleghi, i nomi dei loro figli, le mete
delle loro vacanze, i ristoranti dove andavano a mangiare e i loro piatti preferiti, le
facoltà in cui studiavano e gli esami che non avevano superato. Tutti si aspettavano e
nessuno osava salutarsi, così ognuno poteva conoscersi solo per definizione: la brutta
petulante che insegna all’asilo, il signore con la barba grigia e la faccia buona, i
banchieri rampanti che potrebbero andare in macchina, l’adolescente alla moda,
operaio che ascolta ancora la musica con il discman. Se non li trovava alla fermata o
in vettura si chiedeva dov’erano, se stavano male o erano in vacanza, quando
parlavano a voce troppo alta li malediceva perché non riusciva a seguire la trama del
suo libro, quando avevano un lettore mp3 nelle orecchie si chiedeva che canzone
stessero ascoltando. Scattava delle immagini mentali che un giorno, si era riproposta,
avrebbe trasformato in un cortometraggio o in un racconto. Voleva raccontare di sé e
dei suoi viaggi pur non potendo immaginare quali parole avrebbe usato per descrivere
la quotidiana novità nella ripetitività della pendolare Ataf. Non sapeva quando ma era
di sicuro quando meno se lo sarebbe aspettata.
Autrice: Caterina Rocchi