dott.ssa Marta Badoni “Corpo” - Centro Studi per la Cultura
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dott.ssa Marta Badoni “Corpo” - Centro Studi per la Cultura
CENTRO MILANESE DI PSICOANALISI CESARE MUSATTI Seminario 20 marzo 2014 CORPO Marta Badoni Premessa In: Introduzione alla psicoanalisi, dopo essersi interrogato sul potere delle parole, riferendosi al rapporto medico-paziente Freud scrive: “Le comunicazioni di cui l’analisi ha bisogno, egli le fa solo a condizione che esista un particolare legame emotivo con il medico…”(Freud, VIII, 201). Come, con chi e per quali vie si comunica nella situazione analitica? Che cosa ci succede, prima o in risposta alla parola, quando siamo in presenza dei nostri pazienti? Come e dove attingiamo le nostre risposte, da quali esperienze, da quali memorie? Va sempre bene pensare con Winnicott all’insediamento della mente nel corpo, o non dobbiamo anche pensare al corpo dentro la mente, suggeritore occulto, ma potente? (Johnson, 1987). Gaddini (1980) parlava d’altronde di mente e di corpo non come di realtà contrapposte, ma come di un circuito corpo-mente-corpo. Il tema pare pressante nell’attuale dibattito analitico, basti pensare ai tanti lavori presentati in questa stessa sede nell’anno in corso e alla ricchezza impressionante (riportata qui solo in parte) della letteratura al riguardo (Ogden, 1989, Di Benedetto, 2000, De Toffoli 2001, Ferro, 2007 Civitarese, 2011, Russo, 2013). Il prossimo congresso SPI si occuperà di questi stessi temi. In questo lavoro vorrei occuparmi della questione a diversi livelli. In una prima parte, attingendo dalle osservazioni presenti in letteratura e dalla mia esperienza analitica, rifletterò su alcuni aspetti della comunicazione analista/paziente. In un secondo tempo proporrò un modello di psicoterapia psicoanalitica focalizzata sul corpo che ritengo utile sia come estensione del lavoro psicoanalitico- particolarmente adatta ad incontrare pazienti la cui difficoltà sta all’origine, nell’accesso a una parola ‘incarnata’ e nei processi di differenziazione- sia come esperienza personale dell’analista in quanto capace di renderlo più permeabile al lavoro della percezione. Sullo sfondo domande a più riprese: quale è la sorte dell’individuo nella relazione intersoggettiva? Quale il ruolo specifico della madre nei processi di differenziazione? Percezione e comunicazione nella situazione analitica Il paradosso del corpo consiste nel fatto che esso è quello che ci fa unici, ma, allo stesso tempo, esso è largamente debitore del corpo e dello sguardo dell’altro, delle cure ricevute, delle esperienze fatte, delle eredità. Esso è espressione visibile e tangibile della realtà della persona, della differenza dei sessi, del susseguirsi delle generazioni, ma esso è 1 anche sede degli affetti e costante confronto col limite (Andreoli, 1990). La storia che scaturisce da questi accadimenti trae la sua verità dalla possibilità di accedere a un discorso vivo (Green, 1973 ) in cui siano presenti e rappresentate le singole soggettività e l’impatto della relazione tra soggetti. L’impatto può essere vertiginoso (Quinodoz, D.,1994), annuncio di un legame possibile e terrore di un una caduta senza appello e senza futuro (Winnicott, Bion). Se inevitabilmente si scatenano sulla culla dei neonati da un lato il gioco delle somiglianze, dall’altro i consigli dei parenti alla madre, sappiamo anche che è impossibile una situazione analitica senza il ricorso ai modelli familiari, alle teorie, a un setting, come recentemente ci ha ricordato Anna Ferruta (Ferruta 2013). Ho altrove (Badoni, 2008), riferendomi al setting, parlato di ‘braccia pensanti’, metafora che vorrebbe includere handling, holding e contenitore, ma soprattutto sottolineare il ruolo primario della responsabilità che il curante assume (Chetrit-Vatine, 2004). Inizierei col sondare il ruolo del corpo a partire dall’uso che facciamo o non facciamo, o facciamo senza sapere di farlo, del nostro corpo quando lavoriamo con i nostri pazienti. Quale è l’apparato ricevente dell’analista, che cosa mobilita in noi lo sguardo, quali livelli di ascolto sollecita la parola, chi risponde e per conto di chi risponde? Come garantire che questo intimo comunicare (Civitarese, 2008) non diventi una ‘folie à deux’, ma promuova e preservi la libertà, per quanto possibile, dell’individuo? Come può il lavoro analitico facilitare o ostacolare l’esperienza di una soggettività propria, da spendere nell’incontro con l’altro? I modi della comunicazione tra individui hanno molto interessato Freud e qui lo riprendo non per dire che tutto era già stato detto, ma per seguire le oscillazioni di un pensiero inquieto e curioso, che certo non aveva a disposizione quello che oggi filosofia, linguistica, infant research, neuroscienze mettono a nostra disposizione, ma invece si, una grande capacità di osservazione e di auto-osservazione. Nei momenti più arditi della sua speculazione ho avvertito, rileggendolo, un brivido leggero nella scrittura, quasi la paura di un ragionare insensato; si avverte tra le righe il bisogno di una sospensione e di un cambiamento di registro, che passa repentinamente dalla dottrina all’esperienza, alla esperienza analitica certo, ma anche alla esperienza del vivere. Non è un caso che Freud si sia interessato alla comunicazione parlando di Telepatia. Questo stratagemma gli ha permesso di mantenersi sul filo di una ambiguità creativa, ricca di stimoli. L’argomento ha affascinato Freud fin dagli inizi e lungo tutta la vita; egli lo affronta quasi scusandosene da un lato, dall’altro invitandoci a non lasciar perdere; confessa, al riguardo, di avere l’atteggiamento “di chi non è completamente persuaso e tuttavia è disponibile alla persuasione” (XI, 166). Il possibilismo è d’obbligo: sappiamo quanto Freud fosse scettico già nell’affrontare il controtransfert, ma l’idea di occuparsi di telepatia spaventava lui, ma terrorizzava il suo entourage e questo lo rendeva anche più guardingo. Di fatto Freud, pare ‘approfittare ‘delle riflessioni attorno alla telepatia per indagare su qualche cosa d’altro che sembra interessarlo molto di più; in particolare riflette su una possibile modalità di relazione e comunicazione tra individui. Avanza quindi ipotesi ardite pronto a relegarle nel terreno dell’occultismo, mentre di fatto appare affascinato. Freud non parla tanto di telepatia quanto di esperienza telepatica, tiene molto a distinguerla dal sogno in quanto “ senza condensazione, deformazione, drammatizzazione e soprattutto senza appagamento del desiderio, non merita questo nome”( IX ,394) ; come il sogno essa è favorita dal sonno, ma soprattutto, da un legame 2 emotivo intenso. Entra quindi in gioco l’esterno, l’altro da sé, l’emozione, il legame. Egli scrive: … “il sogno telepatico” vero e proprio consisterebbe per definizione nella percezione di un evento esterno rispetto al quale la vita psichica manterrebbe un atteggiamento recettivo e passivo “( IX, 395). Freud è incline a attribuire tale esperienza al regno dell’arcaico, residuo di una evoluzione filogenetica. Tornando sul tema, nel 1938 lo considera molto operante nella psiche dei bambini (XI,168) stante la paura che essi hanno che i genitori conoscano i loro pensieri, ma non va oltre, preoccupato come è di schivare le traversie del rapporto madre/bambino e di ritrovarsi a fare i conti con la teoria della seduzione. Riprende il tema, tra altri (Servadio, 1955- Fachinelli,1985), Luciana Nissim (1989) che ha il grande merito di averci insegnato a sentire le parole (Mancia,2004 ), oltre che ad ascoltarle. Luciana Nissim va oltre l’esperienza telepatica descrivendoci la relazione telepatica, a significare non solo l’effetto di un legame, ma di una consuetudine, di una frequentazione affatto particolare, l’analisi. In questo articolo, immaginando un dialogo tra paziente e analista essa scrive: “Non ti sei preso il rischio di prendermi in analisi? E allora abbi il coraggio di affrontare con me anche il perturbante e l’ignoto”. Cercherò quindi di farlo, riflettendo sul ruolo che il corpo per la realtà che presenta, per il lavoro di percezione e di annotazione, per essere soggetto e oggetto di esperienze, svolge. Forse abbiamo troppo presto dimenticato che Anna O. nel descrivere a Freud l’esperienza analitica, oltre alla assai più fortunata espressione di “talking cure”, aveva aggiunto, e Freud annotato con un sorriso, ‘chimney sweeping’, procedura che sa non solo di sesso, ma di esplorazione, di ripetizione, di memorie, di fuliggine: uno sporcarsi le mani per garantire l’intimità e la funzionalità del focolare senza che la casa bruci. Oggi sappiamo che anche l’analista viene ‘spazzato’ nella cura e che il problema è quello di lasciarsi spazzare senza essere spazzato via; la possibilità di ancorarsi alle proprie percezioni garantisce la posizione dell’analista in seduta: ancorarsi per poter procedere a un rifornimento emotivo, premessa indispensabile per ogni attività di trasformazione. Racamier (1992) riteneva che la posizione dell’analista dovesse essere quella di ‘ostacolo accogliente’. Qui l’ossimoro coniuga paterno e materno, non per dire che il paterno è l’ostacolo e il materno è l’accoglienza, ma per sottolineare per l’uno e l’altro membro della coppia che senza ostacolo non vi può essere vera accoglienza. Vorrei ora portare un esempio del lavoro occulto della percezione prima che la parola analitica inizi il suo lavoro di trasformazione. Aspetto per un primo incontro una giovane paziente, ma entrano nel mio studio due persone: alta, pallida e sofferente, tutta vestita di nero la paziente, con lei c’è un’altra persona, anziana. Ho repentinamente un pensiero, anzi una certezza: “la paziente è stata male in strada e una persona di passaggio l’ha aiutata, accompagnandola fino nel mio studio”. Nessuna parola era stata ancora pronunciata. Le parole diranno poco dopo che la persona di passaggio è di fatto la madre della paziente. In questo ‘sogno-delirio’ vi sono resti diurni: so che i genitori della paziente abitano in un’altra città e non immagino comunque che venga accompagnata. Ma perché il malessere, il crollo, l’esposizione in strada, la percezione di una totale estraneità tra le due donne e d’altra parte, il figurarmi la necessità di un accompagnatore? La risposta arriverà in dettaglio dopo alcuni anni di un’analisi fatta di repentini avvicinamenti e subitanee rotture, in una seduta (terzo anno di analisi 4/sett) in cui proprio di malessere fisico si parla e dell’urgenza di un rimedio. Ora sono io che mi trovo ad accompagnare la paziente e lo faccio interessandomi alla realtà del suo male e ai possibili rimedi. Emerge da questo accompagnamento un ricordo:…” mia madre, non è che non abbia uno spessore, lei sa fare tante cose, suona il piano, legge, però è sempre stato come se io non avessi bisogno dei suoi consigli, ero considerata, chissà come, la forte, quella che sapeva benissimo cosa fare in ogni 3 occasione… mi ricordo una volta, avrò avuto dieci anni, sono andata da sola a comperarmi gli occhiali; ho scelto una montatura che sicuramente non andava bene, grossa, di plastica, quando mia madre mi ha visto è tornata dal negozio e ha detto, ma le sembra una montatura da dare a una bambina, è anche firmata, però non le veniva in mente di potermi accompagnare o dirmi direttamente, guarda che quegli occhiali ti stanno male... dovevo fare da sola… anche il mio corpo, va per i fatti suoi, …” Non è una novità che nella prima seduta ci si affacci su abissi che solo una lunga analisi ci permetterà di frequentare, ma questo non fa che sottolineare la partecipazione del corpo intero dell’analista e delle sue memorie a ogni seduta analitica. L’analista ha o dovrebbe avere uno spessore. In quel primo incontro, là dove la pelle è più porosa, proprio perché non sappiamo ancora nulla di quello che s’ha da fare o da dire, sono iscritti i principi di un vincolo originario, le vicende di quel ‘ legame emotivo intenso’ di cui parla Freud. Legame o vincolo che sfida continuamente paziente e analista al mettere in comune le rispettive esperienze, ma anche a vivere la propria separatezza: assieme al mio affacciarmi su una situazione di estraneità c’era la domanda implicita della paziente: quella di essere accompagnata in modo che il corpo non andasse ‘per i fatti suoi ‘. Di questo particolare tipo di accompagnamento ho parlato altrove (Badoni, 2011). Ritengo che siano qui all’opera ricordi suscitati nell’analista di esperienze proprie, ma anche il lavoro della attenzione, l’ intervento dei sensi, l’attivazione di memorie: guardare, provare e riprovare, sentire, onde arrivare per aggiustamenti successivi a reperire quello che – come per la bambina di allora - è congruo per quel paziente in quel momento. Non si tratta di fornire interpretazioni ‘firmate’, si attiva piuttosto in questi momenti il gusto di ripercorrere assieme le procedure della percezione (Zanette e al. 2014). D’altronde all’infans, le madri si rivolgono spesso col plurale, accompagnandolo nelle esperienze come se fossero messe in comune, ma anche incoraggiandolo a sperimentarsi da solo: l’ho provato io, puoi provare anche tu. Si tratta quindi di un plurale (noi) che accomuna e insieme differenzia, promuove e sostiene l’esperienza soggettiva. Non è cosa da poco, come cercherò di mostrare. Corpo e soggetto nel dibattito sull’intersoggettivo. ..a me stesso non faccio / la compagnia del sentire. Nave disabitata,/ navigo nel mare della vita,/ più solo della solitudine. Sono un estraneo / a ciò che in me pensa,... Pessoa, Faust Il termine soggetto è un termine a due vie e proprio per questo ci interessa particolarmente; a un estremo sta il termine latino “subjectum” , gettato sotto, assoggettato, visibile o nascosto, ma persistente; all’altro estremo il soggetto è :” quello che io stesso sono” con la sua capacità di descrivere sé stesso in modo autoreferenziale (Cahn, 1995). Il dibattito attuale sull’intersoggettività è ampio e variegato, largamente debitore della filosofia, della teoria dell’attaccamento, dell’infant research, delle neuroscienze (Bolheber, 2013). In Italia, la teoria del ‘campo’ è stata recentemente rivisitata da Ferro e Civitarese (Ferro e Civitarese, 2013) che ne hanno approfondito il senso metaforico, quella del campo gravitazionale, e descritto le leggi. Vorrei da parte mia sottolineare come, nonostante il gravitare in uno stesso campo relazionale, l’incontro analitico sia connotato da una forte asimmetria, sottolineata nel 4 setting analitico classico dalla diversa posizione del corpo del paziente e di quello dell’analista: a memoria della iniziale situazione di impotenza (Hilflosigkeit), a richiamo di una assunzione di responsabilità, punti di partenza, continuamente rinnovati, di tutte le trasformazioni possibili. La situazione è sospesa e tuttavia suscita emozioni intense e richiede che queste emozioni possano essere avvertite prima, poi sostenute e eventualmente trasformate. Torniamo dunque alla comunicazione : Comunicare è verbo transitivo e intransitivo: tr. “rendere comune, far parte ad altri di ciò che è proprio; per lo più di cose non materiali. Intr. Essere in relazione verbale o scritta con qualcuno” Voc. Lingua italiana. Ist. Enciclopedia italiana. Comunicare si distingue dal dare o ricevere informazioni per il fatto che ciò che si comunica ci appartiene, nella forma intransitiva sottende l’essere in relazione. Le buone interpretazioni si distinguono dalle spiegazioni a seconda che siano o meno in grado di comunicare e di comunicare in una relazione. Esiste un pensiero legato alla percezione e un pensiero legato alla rappresentazione, entrambi possono essere comunicati, ma, come abbiamo visto, non sempre essi si servono delle parole. Tra un pensiero legato alla percezione (simbolizzato o non) e un pensiero legato alla rappresentazione dovrebbe esistere un rapporto di convivenza e non di diniego reciproco (Semi, 2009). D’altra parte, la parola analitica dovrebbe essere parola che tocca (Quinodoz, 2003). Esiste un pensare segreto del corpo fondato su esperienze e su memorie. Non è una novità: Freud nel 1890 (1/97) sottolinea la presenza di processi di pensiero affettivi e corredati delle relative espressioni somatiche. Non solo, ma, nello stesso paragrafo prosegue così :”Persino durante il calmo pensare per “rappresentazioni” eccitamenti corrispondenti al contenuto di queste rappresentazioni vengono continuamente deviati verso i muscoli lisci e striati; attraverso un opportuno rafforzamento essi possono essere resi evidenti, fornendo la spiegazione di alcuni fenomeni sorprendenti, anzi, presuntivamente “soprannaturali”, così come ad esempio la cosiddetta lettura del pensiero….(i corsivi sono miei) ”. Il “presuntivamente” lascerebbe intendere che il soprannaturale resta per Freud provvisorio, in attesa di chiarimenti. Il pensiero legato alla percezione è un pensiero che lavora incessantemente, del quale solo a volte siamo avvertiti quando il “calmo pensare per rappresentazioni” lascia spazio al mondo delle sensazioni, il corpo si fa vivo, ci interroga; è un pensiero fondato sullo “stato di incontro” (Aulagnier,1985), sollecitato dall’enigma posto dall’incontro con la madre (Laplanche, 1997), sulla natura dell’esperienza e del legame1. Il corpo fa la sua parte: “Nel suo reiterarsi, il senso del testo recitato dal corpo si modifica perché trova a ogni reiscrizione un mutato contesto locale e genera sempre nuove letture” (Civitarese, 2011, 50.) Qui si apre tuttavia una questione; infatti in questo susseguirsi di operazioni sul corpo-testo la paura del tradimento, come in ogni traduzione, si fa viva: è necessario che il soggetto tolleri una quota inevitabile di tradimento per non ricorrere a oscillazioni vertiginose tra alienità e fusione ,vita mea/ mors tua. La domande che mi/vi pongo sono queste: 1 Hollowed-out transference’ is the re-actualisation and re-elaboration, in the space which opens up, of the inevitably unresolved enigmas left behind by the other or others in childhood (cf. Laplanche, 1992). In the ‘hollowed-out transference’, the original dimension of the relation to the ‘alien’ resurfaces, a relation which is necessarily asymmetrical, non-complementary, and which tends to be masked by notions which are too adaptational, such as those of objectrelation, reciprocity or interaction. - 5 1.quanto si può tradire nella traduzione delle tracce senza perdere il senso del testo, del proprio essere nel mondo, sconfinando da un lato nell’alienità, dall’altro in un patto di assoggettamento: un corpo per due? (Joyce McDougall 1989) 2. Come può essere ripensata la situazione analitica per evitare il rischio che la competenza a rappresentare non si sviluppi a spese della libertà o della spinta a esistere? (Ambrosiano, Gaburri, 2008) Parte seconda La Psicoterapia Psicoanalitica Corporea Non ho risposte per queste domande, ma ho qualche idea sul ruolo del corpo e della percezione del proprio corpo in queste problematiche. Le idee mi vengono dalla esperienza analitica con bambini, adolescenti e adulti e da una forma di psicoterapia che mi è stata offerta – come utente – negli anni della mia formazione e che ho da allora e in diversi contesti praticato come analista. Da questa formazione ho tratto una esperienza che continuamente ritrovo nel lavoro analitico: sentire la presenza dell’altro essendo presenti a sé. Negli stessi anni ’60 in cui Bion lavorava ai modi di trasformazione della esperienza, J.de Ajuriaguerra (di cui sappiamo la vicinanza con Wallon e con Merleau Ponty) metteva in contatto la sua formazione psicoanalitica con gli studi di neuropsicologia (Ha infatti diretto la cattedra di neuropsicologia dello sviluppo al Collège de France dal 1975 al 1981). Egli scrive: “Esiste un fondo tonico che dipende dalle organizzazioni neurologiche che si sviluppano progressivamente e dalle modalità di reazione che variano anch’esse secondo il livello di maturazione. Ma tanto il fondo tonico dinamico quanto la reattività si modificano secondo la natura della relazione.” (1960) Notiamo come Ajuriaguerra metta l’accento sul fondo tonico e sulla natura della relazione: l’alternanza tra stati di tensione e di distensione, allerta o fiducia, sono la base prima e originaria di ogni incontro, ma sarà la natura della relazione a dare ai membri che vi partecipano il permesso di vivere, in questa alternanza, il proprio limite. Su queste basi Ajuriaguerra dava forma a una psicoterapia, che chiamava Psicoterapia di Rilassamento, con il seguente setting: il paziente è sdraiato, l’analista è seduto a portata di vista, la cadenza è ritmica, una seduta alla settimana, la consegna è quella di provare a sentire e eventualmente parlare di quello che si avverte quando si porta l’attenzione sul corpo. Corpo dell’analista e corpo del paziente sono reciprocamente osservabili, il paziente ha a disposizione una coperta sia per facilitare la distensione sia per mettere l’accento su un sentire protetto. L’attenzione è sul corpo e sulla richiesta fatta al paziente e naturalmente anche a noi, di prestarvi attenzione. Il tutto avviene in un movimento alternante, in cui si passa dalle evocazioni che l’appoggio sulla percezione produce, al ritorno alla percezione. Il gioco che il bambino fa di lasciar cadere oggetti dal seggiolone richiede che qualcuno li raccolga e li restituisca al bambino, altrimenti cessa di essere gioco e diventa evacuazione. Si tratta qui di non lasciar cadere le osservazioni che il paziente fa sul suo corpo, ma di restituirle commentandole se la situazione si presta. E' un lavoro fondante di attenzione e di riflessione, caratteristica principale della attività psichica dell’uomo. ( Jeammet, 2005) il cui fallimento produce un effetto di “deumanizzazione” (Jeammet, ibid.) che viene avvicinato a manifestazioni autistiche. Da molti anni (Badoni, 1989, 1993, 1994, 2013), dialogando a distanza variabile con un gruppo di analisti delle Società svizzera e francese e con un piccolo gruppo di colleghi 6 italiani2, mi occupo di questa terapia che i miei colleghi francesi, per distinguerla da ogni forma di “anti-ginnastica” preferiscono oggi chiamare PPC. (Psicoterapia Psicoanalitica Corporea. Dechaud-Ferbus, 2011). Ho praticato negli anni questa cura, semplificando, con tre categorie di pazienti: pazienti che non chiedevano né avrebbero potuto ricorrere all’analisi, ma che portavano sofferenze importanti a livello somatico; pazienti che genericamente sperimentavano una esperienza del vivere rarefatta e che hanno potuto accedere, una volta resi consapevoli della loro competenza ad esistere, a un lavoro analitico; pazienti infine bene analizzati, che intuivano che qualcosa non era stato raggiunto nonostante le buone analisi fatte. Credo di non essere lontana dal vero se affermo che tutti questi pazienti, seppure a livelli molto diversi, non si sentivano completamente autorizzati a esistere, a dare un senso autentico e reale alle loro esperienze. I livelli ai quali mi riferisco riguardano, seppur schematicamente, l’accesso al corpo come “compagnia del sentire”, la fatica di passare dal sentire al rappresentare, il ricorso al simbolico come antidoto al sentire. Maria, vent’anni, viene da me dopo un break-down. La crisi psicotica ha lasciato importanti sequele: paura ad uscire da sola, della metropolitana, sensazione che si parli di lei alla tv. Maria è il suo sintomo: una pressione soffocante a livello dello stomaco che la obbliga a mantenere la stazione eretta, a evitare indumenti stretti; tutto la stringe, si sente soffocare. Come spesso faccio quando il corpo è così in primo piano chiedo se in altri momenti della sua vita il corpo le abbia dato fastidio. Maria mi racconta che in adolescenza per via della “schiena storta” si è trovata, senza poter interferire, imprigionata in un busto di gesso fin sotto il seno; presa da grande angoscia era riuscita a farsi fare un buco nel gesso per riuscire a respirare. Soprattutto era infastidita perché il gesso le metteva in risalto il seno, potremmo dire, senza consapevolezza e senza permesso da parte sua. Non sarà difficile collegare questa esperienza di ingessatura che le ha modellato forzosamente il corpo a una fobia grave soprattutto per lei che vuole lavorare nel mondo della moda: la fobia dei manichini. Mi accorgo tuttavia che la mia parola è accolta troppo rapidamente, senza suscitare associazioni. Penso allora che bisogna stare sul suo terreno e aiutarla a percepire il corpo. Un giorno, dopo qualche tempo, Maria prova a rilassarsi, ma le sue braccia sono visibilmente tesissime. Tocco il braccio destro: è molto teso, dopo poco tocco il sinistro, lo sento distendersi gradualmente e lo noto. Maria conferma la mia impressione e così aggiungo: “possiamo pensare che il braccio destro abbia mandato i suoi ambasciatori al braccio sinistro per dire che arrivavo e che non c’era da aver paura?” Maria accoglie le mie parole con un gran sorriso, le vive come una scoperta: ora non solo sa di aver un corpo, ma che il suo corpo può segnalarle e modulare la presenza dell’altro; il suo corpo non è né passivo né inerte, non è un manichino. A poco a poco a poco riesce a venire da sola e abbozza una esperienza di lavoro. Diversa è la situazione di Ines, braccata da una angoscia legata a malattie invalidanti, un morbo di Crohn e un glaucoma. Qui la paziente sente il suo corpo, ma è bloccata in una descrizione ripetitiva e strana: “sento la pancia gonfia come uno spillo”. Mi pare un’immagine aliena, perché penso allo spillo da sarta, ma nonostante le mie richieste di descrivermi cosa sente succedere nella sua pancia l’immagine non cambia e la pancia resta gonfia. Un giorno l’esperienza si ripete, la vedo e la sento incerta sulla parola 2 La nostra associazione è stata accolta dal 1989 presso la Cattedra di Neuropsichiatra dell’Università di Pavia, presso la quale sono stata per un periodo professore a contratto (1985/88). Il lavoro è stato coordinato nei primi anni dalla sottoscritta, poi da Giuliana Bagnasco e attualmente da Daniela Alessi. Partecipano: Paola Freo, Gaetana Negri, Anna Pezzuto, Giorgio Rossi, Anna Tavani. 7 spillo, mi pare che stia cercando una parola più convincente e poi emozionata mi dice, ritrovando la sua lingua materna: “ spillo… broche, si, è gonfia come un camée”. Siamo passati da una parola per lei straniera e per me aliena, spillo, prima a una traduzione letterale, broche, poi alla metafora, camée e all’idioma: nella sua lingua materna camée che è si un elemento leggermente rigonfio, come la sua pancia- non era solo la spilla tondeggiante che si portava sul petto, spesso contenente la foto di un parente perduto, ma anche, nel suo dialetto locale, il tossicomane. Il camée così visto può anche rappresentare un seno e la sua perdita. Quante volte avevamo dovuto ripetere gli stessi gesti per ritrovare negli archivi della memoria, oltre la sensazione, il suo potersi appoggiare sull’ idioma materno e da lì e solo da lì affacciarsi sui vuoti terribili della sua infanzia e sull’urgenza mai soddisfatta di natura tossica? Gioia è invece una paziente che è venuta dopo una lunga analisi e che è alle prese con una grande fatica a esistere, legata principalmente a una impossibile separazione dalla figura materna. La vedo in PPC. Poco prima di una separazione sogna: “…ero in vacanza, eravamo 4 donne e dovevo partire, ma avevo grossi problemi con le valige…mia mamma non mi aveva dato delle valige, ma come dei cesti di carta, fragili, bordati di scotch nero, non andavano bene, allora vedo cosa mi ha preparato mio padre e mio padre mi aveva preparato una valigia tipo aereo, rigida quindi…” Il precedente lavoro analitico ha lasciato le sue tracce e Gioia si muove agevolmente nei sogni, ritorna alle perdite subite e alla fragilità materna, ma neppure è soddisfatta del contenitore paterno: voleva fare qualcosa di trasgressivo, ma si è sentita ingabbiata. Nella stessa seduta: “Sono tutta testa, quando insegno non ho problemi, ma invidio le infermiere (che l’hanno curata) che sanno fare col corpo…per esempio, quando ero in ospedale una infermiera è arrivata e mi ha rimboccato le coperte…un altro mi ha insegnato a come lavare i denti…” Il ‘trasgressivo’ cui Gioia si riferisce parla di una trasgressività originaria, quella che avrebbe dovuto permetterle di partire per il suo viaggio una volta differenziata dal corpo materno (oggetto madre-oggetto soggettualizzante). Le valige fragili e bordate di nero rimandano a un contenitore inaffidabile, ingombrate come sono da un lutto, inadatte a reggere la pressione delle pulsioni; il contenitore paterno non potrà che essere rigido in quanto predisposto in opposizione e non a complemento del contenitore materno. Fanno sperare le infermiere che ‘sanno fare col corpo’, ma l’invidia non è un buon ingrediente per superare la disperazione primaria legata al vissuto di impotenza. Non nascondo che pratico questa terapia con un misto di inquietudine, di incertezza e di sorpresa. L’inquietudine è legata alla “nudità del setting”, a quel fronteggiarsi tra paziente e analista (Dechaud- Ferbus, 2011) senza altra regola che quella di un invito a occuparsi del sentire il proprio corpo; l’incertezza è, per me analista, legata al continuo chiedermi dove si situa questa terapia nell’ambito della teoria e della pratica psicoanalitica, la sorpresa è l’illuminarsi improvviso e imprevisto di memorie, di figure, di rappresentazioni. Inquietudine: occuparsi del corpo è solo in apparenza una limitazione del campo, in quanto il corpo, sede degli affetti, è anche fondamento dell’Io (Freud, 1922 ): è il nostro “notes magico” (Freud, 1924) puntuale registratore delle tracce lasciate dal mestiere del vivere, con le sue avventure, le sue catastrofi e i suoi limiti. Sappiamo bene che dietro una richiesta all’apparenza innocente ( non parliamo forse di rilassamento? ) la sfida va a indagare le origini del soggetto, e questa sfida noi la possiamo tollerare solo perché, in quanto analisti, siamo o pensiamo di essere attrezzati a conoscere e sostenere l’evolversi della soggettività. 8 Da qui l’incertezza: perché ricorrere a questo setting quando ne abbiamo a disposizione un altro, il setting psicoanalitico classico, basato su una esperienza più che centenaria e sostenuta da volumi e volumi di riflessioni? Stiamo tradendo la psicoanalisi o stiamo invece affacciandoci su un tradimento originario, quello che il bambino deve essere aiutato a compiere per differenziarsi dalla madre, tradimento tanto inevitabile quanto terrificante capace di indurre al ricorso di difese estreme, come la scissione e il diniego? Questo è stato per me motivo di riflessione. Che peso ha il tradimento nella storia di un paziente? Chi ha tradito, chi o che cosa è stato tradito? Di tradimento in tradimento arriva probabilmente, come è stato anche per me, la paura di tradire la casa-madre, la psicoanalisi. E se invece fosse un utile terreno di ricerca? Infine viene la sorpresa: essa riguarda tutte le categorie di pazienti e ha a che fare con delle caratteristiche di immediatezza che sono, credo, specifiche di questa cura, almeno se parliamo di pazienti adulti. Nella PPC questi accadimenti appaiono per lo più come il rivelarsi improvviso di connessioni e di legami: tali fenomeni non sembrerebbero tanto legati a un alleggerimento dei meccanismi di rimozione, ma a una scoperta che chiamerei accidentale di qualcosa di inedito per noi come per lo stesso paziente. Si tratta probabilmente di assestamenti delle tracce mnestiche, legate sembra alla possibilità di fare esperienza, nel dialogo tonico che intercorre tra paziente e analista, di stati del sé cui non fu mai possibile prestare attenzione e quindi ricevere risposta. Fare/Avere esperienza Esperienza/esperire: Vocabolario della Enciclopedia Italiana: si definisce come: “conoscenza diretta personalmente acquisita con l’osservazione, l’uso e la pratica di una determinata sfera della realtà”. Es. ‘credo oggi avere esperto Ch’essere amato per valor io merto’- Ariosto’ Si dice fare esperienza, ma anche avere esperienza, mettendo l’accento su un ruolo rispettivamente attivo o recettivo e, indubbiamente su un legame ripetuto e costante, premessa indispensabile per poter apprendere dall’esperienza (Bion,1962). Levine (2013)ci ha parlato recentemente di Esperienza con la E maiuscola, ( Esperienza reale o esistenziale ) e di una esperienza con la e minuscola, quella piccola parte che noi saremmo capaci di notare e di distinguere. Fare esperienza serve quindi se è di fatto possibile prendersela e giocarsela. Guardare, provare, riprovare, memorizzare, praticare seguendo le tracce, sono gradini diversi, ma connessi dell’esperienza. Mi preme qui sottolineare che l’esperienza richiede la ripetizione, non necessariamente come meccanismo coatto, ma come necessità vitale, come un non arrendersi della speranza e della voglia di vivere, una prova continua per renderci un po’ meno estranei in casa propria. La ripetizione ‘resiste e chiede’ (Riolo,2007), ricorre a memorie procedurali e a emozioni vissute e rivissute. Il gioco del rocchetto del nipotino di Freud non si limita a rappresentare una assenza e una ricomparsa, ma la padroneggia e ne fa fisicamente esperienza accompagnandosi col gesto della mano, mentre l’occhio segue e controlla e la memoria registra. Con il suo gioco il bambino si appropria così di una esperienza profonda: “essere amato per valor io merto”: la mamma tornerà perché io so che sono e valgo. Sappiamo oggi che il ruolo dell’oggetto non è soltanto quello di provvedere alla soddisfazione dei bisogni, al divenire delle tracce mnestiche, ma anche quello di organizzatore della esperienza psichica (Duparc, 2005) . Per provvedere a questo ultimo, ma fondante compito, l’oggetto non solo non deve sottrarsi alla presa (emprise) del soggetto, ma anche deve potergli restituire il senso dell’esperienza in corso (Bion, ibid.). 9 Nel rapporto intersoggettivo, l’oggetto soggettualizzante (Cahn, 2006) può rispondere al Soggetto se è una realtà vivente (vedi patologie legate alla depressione materna), se è disposto a lasciarsi impressionare o a ricevere una impronta, se la sua mente non è troppo occlusa da problematiche legate al qui ed ora o trasmesse nel corso delle generazioni. Gli infiniti studi sul ruolo, in analisi, del controtransfert, come della trasmissione tra generazioni ne sono testimonianza. Nell’insofferenza che spesso oggi riscontriamo rispetto al concetto di pulsione (Imbasciati,2013), utile insofferenza in quanto ci obbliga a pensare gli accadimenti psichici sotto diverse angolazioni, mi limiterei a sottolineare che, se da un lato, la pulsione non è una cosa, ma un concetto “misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della connessione con quella corporea” (Freud, VIII , 17), d’altro lato è giusto credo chiederci ancora una volta, come già si è chiesto Freud, se possiamo ancora distinguere sfera psichica e corpo come se fossero entità contrapposte. Se il corpo, sede degli affetti, diventa con la seconda topica IO-corpo, non dovremmo mai dimenticare che l’IO non è padrone in casa propria, che esso è largamente inconscio, che, tra cavallo e cavaliere, vince il cavallo (Freud, IX, 488 e seg.). Il corpo, sotto diverse angolazioni, attraversa quindi tutta l’opera di Freud e ne è elemento fondante, eppure incerto; forse proprio le grandi aperture del pensiero di Freud ci portano oggi a parlare di una terza topica, o topica del soggetto. Essa“… costituirebbe la teoria dei processi e delle strutture che intervengono nella costruzione della soggettività , in parte già presenti nelle precedenti e in parte elaborati inseguito o ancora da elaborare” ( Garella,2012). Io qui vorrei soffermarmi proprio sulla attitudine dell’oggetto/soggettualizzante (Cahn, 2006) a essere occupato dal soggetto in una forma che, confrontando corpo a corpo, apre una sfida di tolleranza e di libertà: il ruolo dell’oggetto è prima di tutto quello di non sottrarsi ,di poter tollerare il tempo necessario di non sapere, non sapere non solo quello che sta avvenendo nel soggetto, ma anche all’interno del proprio sé. Spingendo il compito, potremmo dire che l’oggetto deve non solo tollerare di non sapere (v. capacità negativa), ma anche di non essere per permettere all’altro di giocarsi la sua libertà. (Vedi attenzione sospesa, ruolo del tono etc.). Ritengo che il lavoro della PPC abbia come specifico l’allenamento’ alla capacità negativa: si tratta infatti di un setting che fa emergere l’originario in modo originale, a partire dal corpo. Non è un gioco di parole, ma credo sia il punto di impatto della cura, alle origini di un movimento di differenziazione. Nella PPC non solo non si teme la ripetizione, ma la si propone (attraverso la costanza del riferimento al corpo) e la si accompagna, paradossalmente la si incoraggia. Quello che a volte mi sconforta quando sento abusare del termine di rêverie è che spesso esso è presentato come una sorta di illuminazione, rischiando di fare della madre un essere onnipotente, dotato allora si, riprendo le preoccupazioni di Freud, di capacità soprannaturali. Una madre che tutto aggiusta e tutto capisce, ma non aiuta a differenziare (Sarno, 2014). Tutto questo mette in ombra quanto succede nel corpo della madre, quale esercizio di sopravvivenza deve compiere, tra cui quello di tenere viva la donna nella madre, quanta forza e quanta pazienza e quanta rabbia e quanta disposizione a navigare nel nulla ci sia, nell’accompagnamento al lavoro di differenziazione. La capacità negativa è tutto questo, e non è una passeggiata. La capacità negativa è capacità di reggere all’indispensabile tradimento che ogni traduzione, anche quella delle tracce mnestiche comporta. Il ruolo dell’oggetto soggettualizzante è quindi quello di riconoscere nell’inevitabile tradimento, il soggetto e il suo testo, altrimenti la relazione diventa contaminazione, l’accudimento appropriazione, a volte abuso. Nell’inevitabilità del tradimento vive la mia paura di tradire la psicoanalisi, ma anche la grande spinta ad andare oltre, e la inevitabile necessità di sopportare la perdita dei punti di riferimento abituali, di abbandonare le interpretazioni ‘firmate’. Forse è ora di dire che non per tutti i pazienti vale che qualunque cosa il paziente 10 dica, parla della coppia analitica; credo che i pazienti abbiano anche bisogno che si consideri la loro realtà e i modi per viverla. Milano, 9 marzo 2014 Ringrazio i miei pre-lettori: Daniela Alessi, Paolo Chiari, Giovanni Foresti e soprattutto Paola Molone, che da anni mi aiuta a sciacquare nell’Arno psicoanalitico, i miei scritti. Bibliografia Ajuriaguerra J de, Cahen, M. (1960) Tonus corporel et relation avec autrui. L’expérience tonique au cours de la relaxation. . Premier Congrès de Méd. Psychosomat. de langue fr. Vittel 8-10 julliet Rev. De Méd. Psychosomatique Psychosom, 2,89–124 Ambrosiano,L. Gaburri, E. (2008). La spinta a esistere. 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