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Un invito a voce
Estratto da
Ada Leverson, Un matrimonio in sospeso
Titolo originale dell’opera
Tenterhooks (1912)
Traduzione dall’inglese
di Clementina Liuzzi e Daniele Parisi
© 2012 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: aprile 2012
ISBN 978-88-96919-31-6
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Che Edith non fosse stata molto bene, non sembrava costituire una ragione sufficiente per essere al centro
dell’attenzione; e Bruce, geloso dei privilegi dell’infermo e
immerso in quel curioso spirito di rivalità che sua moglie
aveva tanto spesso osservato, aveva cominciato, con grande intraprendenza, un’indisposizione tutta sua, come per
sviare l’interesse altrui. La notizia lo raggiunse mentre era
a Carlsbad. Poi ricevette una lettera da Edith, che parlava
con riguardo e preoccupazione dei reumatismi di Bruce, lo
scongiurava di essere diligente nella cura, e proponeva che
chiamassero la bambina Matilda, dal nome di una ricca e
santa – sebbene ancora in vita – zia di Edith. Avrebbe potuto essere utile in futuro per la bambina (in tutti i sensi) avere
una madrina così benestante e religiosa. Dalla dettagliata
descrizione pareva che la nuova figlia avesse, come se fosse
una cosa naturale (e a due giorni di vita), capelli dorati,
lunghi ben oltre la vita, ciglia notevoli e sopracciglia ben delineate, una boccuccia di rosa, fronte da intellettuale, lineamenti ben cesellati e una figura alta ed elegante. Era una
magnifica creatura regale di una splendida bellezza classica,
eppure era graziosa e accattivante. Aveva un grande talento
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per la musica. Questo, a quanto pare, risultava evidente
dallo spazio ampio tra gli occhi e dal timbro della voce.
Sopraffatto dalla gioia per l’avvento di un simile modello
di virtù e scandalizzato per il nome scelto da Edith, Bruce
aveva risposto subito d’impulso per telegramma:
certamente non matilda preferirei
venisse chiamata aspasia.
Edith lesse questa colorita manifestazione d’opinione sul modulo incolore di un telegramma, ed essendo a
Knightsbridge, incapace quindi di sentire l’ironia del messaggio, lo prese alla lettera.
Disapprovava il nome, ma fu facilmente persuasa dalla
suocera a non obiettare. L’anziana signora Ottley le fece
notare che avrebbe potuto essere molto peggio.
“Ma non è un bel nome,” protestò Edith. “Se non Matilda, piuttosto le avrei dato un nome che in qualche modo
richiamasse Maeterlinck: Ygraine o Ysolyn o qualcosa del
genere.”
“Sì, cara, anche Mygraine è un bel nome,” disse la signora Ottley, assecondandola, “e lo è anche Vaselyn. Ma
importa veramente? Non mi intestardirei su una cosa del
genere. Ci si abitua a un nome. Lascia che la povera piccola venga chiamata Asparago se lui vuole così, e lasciagli
credere di averla avuta vinta.”
Così la bambina fu chiamata Aspasia Matilda Ottley.
Era tipico di Edith rimanere salda nella propria opinione,
benché senza aggressività. Quando Bruce fece ritorno dopo
essersi rimesso, era troppo tardi per cambiare le cose e lui
fece finta di aver inteso proprio quello.
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Archie chiamava sua sorella Dilly.
Archie si era sentito ferito dall’inutile – almeno secondo
lui – eccitazione riguardo a Dilly. Non che ne fosse in alcun
modo geloso. Piuttosto era preoccupato che tante attenzioni
la viziassero; che la rendessero, forse, egoista e vanitosa. Ma
non era da Archie mostrare queste paure apertamente. Non
scoppiava in gran pianti né lanciava oggetti in giro come
avrebbero potuto fare molti bambini. Aveva metodi più indiretti, più sottili. Lanciava allusioni e cenni sul suo punto di
vista che una persona intelligente avrebbe dovuto cogliere.
Una mattina disse con una certa tortuosità:
“Ho fatto un sogno così bello ieri notte, mamma”.
“Davvero, piccino mio? Che tenero. Cosa hai sognato?”
“Oh, niente di che. Non era male. Davvero piacevole.
Era un bel sogno. Ho sognato di essere in paradiso.”
“Veramente! Ma che bello. E chi c’era?”
Questa è sempre la prima domanda di una donna.
“Oh, ovviamente c’eri tu. E papà. Anche la tata. Che
sogno stupendo. Proprio un posto incantevole.”
“C’era anche Dilly?”
“Dilly? Ehm… no… no… non c’era. Lei era nella stanzina, con Satana.”
A volte Edith pensava che il nome di sua figlia fosse decisamente un fiasco – Aspasia per errore, Matilda per ostinazione, e Dilly per caso. A ogni modo, la bambina in sé
era un successo.
Aveva quattro anni quando si verificò l’episodio dei
Mitchell. Tutta questa storia alla fine si incentra sui Mitchell.
Gli Ottley vivevano in un piccolo appartamento bianco
a Knightsbridge. Il padre di Bruce gli aveva lasciato, qualche tempo prima, una buona rendita a certe condizioni;
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una era che non lasciasse il ministero degli Esteri prima
dei cinquant’anni. Un pomeriggio Edith stava parlando al
telefono con un tono di tale disperata supplica che avrebbe
sciolto il più duro dei cuori, ma che non sembrò avere un
grande effetto sul centralino, che evidentemente quel giorno non era sensibile al pathos.
“Oh! Centralino, perché vuole riattaccare? La prego riprovi di nuovo… Se voglio un numero? Sì, voglio proprio un
numero, certo, altrimenti perché starei telefonando? Voglio
il 6375 Gerrard.”
Qui si intromise Archie.
“Mamma, posso prendere il tuo allacciabottoni lungo?”
“No, Archie, non adesso, caro… Va’ via Archie… Sì, ho
detto 6375 Gerrard. Solamente 6375 Gerrard! È in linea?
Oh, la smetta di chiedermi se li ho in linea! No, non hanno
risposto… Lei è il 6375?… Oh – numero sbagliato – mi
scusi… 6375 Gerrard? Solo 6 – è in linea? Non 6375 Gerrard?… È qualcun altro? Oh, sei tu, Vincy? Voglio dirti…”
“Mamma, posso prendere il tuo allacciabottoni lungo?”
Qui sopraggiunse Bruce. Edith riattaccò. Archie sparì.
“È proprio meraviglioso, Edith, ciò che quell’allenatore
Sandow ha fatto per me! All’inizio ridevi di me, ma sono
migliorato in modo prodigioso.”
Bruce si aggirava per la stanza facendo una ginnastica
proprio molto blanda, e di tanto in tanto si colpiva il braccio sinistro con il pugno destro. “Guarda che muscolo –
guardalo – e tutto in così poco tempo!”
“Sorprendente!” disse Edith.
“Il motivo per cui so quale straordinario effetto abbiano
avuto su di me questi pochi giorni è una cosa che ho appena
fatto e che non avrei potuto fare prima. Certo, di base sono
un uomo molto forte, e ho solo bisogno di un piccolo…”
“Cosa hai fatto?”
“Beh, hai presente quella ridicola gran cassapanca di
legno che ti ha mandato per il compleanno la tua terribile
zia Matilda – la trovo un regalo assurdo, puro ciarpame.”
“Sì?”
“Quando è arrivata riuscivo a stento a spingerla da un
lato all’altro della stanza. Ora l’ho sollevata dalla tua camera fino al ripostiglio. Facilmente. Non male, no?”
“Sì, ti fa un gran bene fare tutti quegli esercizi; non dubito sia di importanza capitale… Ehm, sai, vero, che ho
fatto togliere tutte le cose dalla cassapanca da quando ci hai
provato l’ultima volta?”
“Cose, quali cose? Non sapevo ci fosse qualcosa dentro.”
“Solo un servizio da tè d’argento e un paio di vassoi,”
disse Edith a bassa voce.
Lui si tranquillizzò quasi subito e disse: “Edith, ho novità
per te. Conosci i Mitchell?”.
“Se conosco i Mitchell? Mitchell, il tuo eroe nell’ufficio,
con cui ti bisticci sempre? Diciamo che per lo meno conosco
i Mitchell di nome. Per forza.”
“Bene, cosa credi abbiano fatto? Ci hanno invitati a cena.”
“Davvero? Figurati!”
“Sì, e ho trovato particolarmente amichevole da parte
sua aver fatto l’invito verbalmente. Mitchell mi ha detto
proprio: ‘Ottley, vecchio mio, hai qualcosa in programma
per domenica sera?’.”
A quel punto Archie apparve alla porta e disse: “Mamma, posso prendere il tuo allacciabottoni lungo?”.
Edith scosse la testa e si accigliò.
“‘Ottley, vecchio mio,” continuò Bruce, “tu e tua moglie
avete qualcosa da fare domenica? Se siete liberi, spero proprio tralascerete i convenevoli e verrete a cena da noi. Credi
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che la signora Ottley perdonerebbe un invito a voce?’ Ho
risposto: ‘Beh, Mitchell, in effetti non credo che abbiamo
nulla in programma. Sì, vecchio mio, sarà un piacere’. Insomma ho accettato. Ho accettato subito. Quando si è trattati in modo amichevole, dico sempre, perché essere ostili? E
la signora Mitchell è una donnina incantevole – sono sicuro
che ti piacerebbe. Pare che muoia dalla voglia di conoscerti.”
“Davvero! Mi chiedo se sia ancora viva allora, perché tu
e Mitchell vi conoscete da otto anni, e io non l’ho ancora
incontrata.”
“Beh, la conoscerai adesso. Acqua passata, ormai. Vivono a Hamilton Place.”
“Oh sì… a Park Lane?”
“Ti ho detto che le cose gli vanno molto bene, e la moglie ha una rendita.”
“Mamma,” ricominciò Archie, come una litania, “posso
prendere il tuo allacciabottoni lungo? So dov’è.”
“No, Archie, certo che no; non puoi chiudere i lacci degli
stivali con un allacciabottoni… Beh, sarà divertente, Bruce.”
“Credo che dopo cena faranno qualche gioco,” disse
Bruce. “Tutti molto allegri, rime musicali, cose del genere… Cosa ti metti, Edith?”
“Mamma, lasciami prendere il tuo allacciabottoni lungo.
Lo voglio. Non è per gli stivali.”
“Certo che no. Che seccatura che sei! Va’ via… Penso che
indosserò l’abito color salmone con la fascia di quella specie
di color maionese… (No, non puoi averlo, Archie.)”
“Ma, mamma, l’ho preso… Tra poco lo posso sistemare,
mamma.”
Domenica sera il buonumore di Bruce sembrò vacillare;
ebbe una delle sue reazioni improvvise. Vedeva solo il lato
negativo delle cose.
“Che diavolo è quella cosa nei tuoi capelli, Edith?”
“È un bandeau.”
“Non mi piace. I capelli ti stanno molto bene senza.
Quanto diavolo l’hai pagato?”
“Circa sei e undici, mi pare.”
“Non essere frivola, Edith. Faremo tardi. Ah! Sembra
davvero un peccato, proprio la prima volta che si cena con
gente come i Mitchell.”
“Non faremo tardi, Bruce. Sono le otto in punto, e otto
in punto immagino voglia dire, beh, le otto. Sicuro di avere
il numero giusto?”
“Dai, Edith!… Ho una memoria infallibile, cara. Non
sbaglio mai. Non l’hai mai notato?”
“Ah… oh sì… credo di sì.”
“Beh, è a 168 Hamilton Place. Sbrigati, cara.”
Durante il tragitto in taxi le diede molte istruzioni e le
consigliò di essere perfettamente a suo agio e assolutamente
spontanea; non c’era nulla che inducesse a comportarsi diversamente, sia nel signore che nella signora Mitchell. Inoltre,
disse, non importava proprio cosa avesse indossato, purché
si fosse messa l’abito migliore. Sembrava un peccato che non
ne avesse preso uno nuovo, ma non c’era nulla da fare, dato
che adesso mancava il tempo. Edith ammise di non conoscere un posto adatto dove poter comprare un abito da sera
alle otto e trenta di domenica sera. E a ogni modo, le disse,
era davvero carina, proprio molto elegante; d’altronde, la
signora Mitchell non era il tipo di persona da pensare male
di una donna graziosa solo perché un po’ sciatta e fuori
moda.
Quando si accostarono a ciò che gli agenti immobiliari
nel loro modo sensazionale chiamano una superba, desiderabile, sontuosa residenza di città, videro che si stava chia-
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ramente dando una festa in grande. Un portiere e quattro
camerieri incipriati erano in bella mostra.
“Per Giove!” esclamò Bruce non appena scese, “non avevo idea che al vecchio Mitchell le cose andassero così bene.”
Il maggiordomo non aveva mai sentito parlare dei
Mitchell. La casa apparteneva a Lord Rosenberg.
“Al diavolo!” disse Bruce, mentre si fiondava nel taxi.
“Bene! Per una volta in vita mia mi sono sbagliato. Lo ammetto. Certo, ovviamente è Hamilton Gardens. Scusa. Eppure in qualche modo sono piuttosto contento che Mitchell
non viva in quella casa.”
“Hai perfettamente ragione,” replicò Edith, “il fallimento di un vecchio amico e collega non può essere motivo di
soddisfazione per nessun uomo.”
Hamilton Gardens era un posticino tetro, come una casa
popolare fuori da Marylebone Road. Bruce, provando a
suonare il campanello, sfortunatamente disattivò tutte le
luci della casa e se ne rimase tutto solo e disperato al buio
quando, per fortuna, il custode, allontanatosi per spedire
una lettera, si affrettò a tornare, e riaccese le luci. “Non
avrei dovuto pensare che qui giocassero alle rime musicali,”
disse ad alta voce a Edith mentre aspettava. “E adesso non
è buffo? Ho una strana sensazione che l’indirizzo giusto sia
Hamilton House.”
“Immagino tu sia perfettamente certo che non vivano
in un istituto privato per ritardati” suggerì dubbiosa Edith.
Dopo aver domandato venne fuori che i Mitchell non
vivevano a Hamilton Gardens. A Edith venne un’idea, e
chiese un elenco telefonico.
I Winthrop Mitchell vivevano a Hamilton Terrace, St.
John’s Wood.
“Finalmente!” disse Bruce. “Adesso saremo davvero ver-
gognosamente in ritardo, considerato che è la prima volta.
Ma sentiti del tutto a tuo agio, cara. Promettimelo. Entra
con tutta naturalezza.”
“Come altro potrei entrare?”
“Intendo come se nulla fosse successo.”
“Credo sia meglio dir loro cosa è successo,” ribatté Edith;
“li farà ridere. Spero abbiano cominciato a mangiare.”
“Di sicuro avranno finito.”
“Forse li troveremo che stanno giocando!”
“Suvvia, ora, non essere pungente, Edith cara – mai essere pungenti – la vita ha i suoi alti e bassi. Bene! Sono piuttosto contento, dopo tutto, che Mitchell non viva in quel
buchetto orrendo.”
“Non ne dubito,” disse Edith; “non sarebbe di alcuna
possibile soddisfazione per te sapere che un tuo amico e collega è penosamente al verde o disperatamente indigente.”
Arrivarono alla casa, ma non c’erano luci né alcun segno
di vita. Sì, i Mitchell vivevano lì, ma erano fuori, spiegò la
cameriera. La cena era stata sabato, la sera prima…
“Strano,” disse Bruce, quando rientrò. “Avevo un curioso presentimento che qualcosa sarebbe andato storto in
questa cena dai Mitchell.”
“Che cena dai Mitchell? Non sembra proprio essercene.”
“Sai,” Bruce continuò il filo dei suoi pensieri, “in qualche modo ero certo che sarebbe stato un insuccesso. Non
era strano? Spesso penso di essere un pessimista, eppure
guarda come la sto prendendo bene. Assomiglio più a un
fatalista – a volte so a malapena cosa sono.”
“Potrei dirti io ciò che sei,” commentò Edith, “ma non
lo farò, perché adesso devi portarmi al Carlton. Ci arriveremo prima che chiuda.”
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