il narratario ottobre 31 2003
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il narratario ottobre 31 2003
Il narratario, nella moderna critica letteraria indica il lettore, non quello reale, che ha letto o che leggerà, ma l’implicito, quello cui si rivolge l’autore. Come scriveva Manzoni nel primo capitolo del suo capolavoro: “Pensino i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato”. il narratario i e Ap pon i l e M laboratorio di testi: racconti analisi rapsodie epopee giornale in foglio con editoria elettronica da tavolo direttore responsabile Fabio Trazza www.ilnarratario.info - Premio Nazionale “Verba Volant” 1999 con patrocinio Ministero Pubblica Istruzione - [email protected] anno nono numero diciotto redazione organizzazione fotocomposizione e stampa in proprio Periodico Quindicinale - Aut. Tribunale Milano 34/95 28.1.1995 - tel/fax 02/6123586 - via Arbe 29 - 20125 Milano Da Coquelicot Mafille, corrispondente del narratario, a tutti i miei venticinque lettori nota per il suo reportage «Una città nel vento» (viii, 20, 30/11/02) e per la presentazione di «Guerra straniera. Male dolce» di Joshua Massarenti (ix, 9, 15/5/03), riceviamo l’ampia e profonda testimonianza diretta di Azzurra Carpo: «Amazzonia, ultimo miele». Ne pubblichiamo qui la 2a parte con il sottotitolo «Chi lavora nella storia si infanga le scarpe». La 1a parte, con il sottotitolo «Una regione, esuberante di Generali e imbiancata di Cocaina», è stata pubblicata nel numero precedente. Oggi Azzurra vive ancora in Amazzonia. Ha scritto il suo testo da Rio Ucayali, Pucallpa—Perù. La ringraziamo per il suo testo e per la sua opera. Amazzonia, ultimo miele di Azzurra Carpo « Parte Seconda » « Chi lavora nella storia si infanga le scarpe » Q uello che qui si chiama “estate”, significa mesi senza acqua: un caldo senza pudori e senza rifugi. Dalle rive morse dal fango fuoriescono radici disordinate come criniere di streghe. Le liane si intrecciano alle radici in un gioco ansioso e creativo. Il fiume é sceso di 20 metri e la barca si è impantanata sulla sabbia. Si scende a spingere, senza stivali. Occorre agitare il piede prima di appoggiarlo, per evitare che la raya, una specie di sogliola grigia con una coda da scorpione transgenico, te la ficchi nella carne. Io —gringa— abbraccio nel sudore del terrore tutte le cosmovisioni religiose. Il volto degli indigeni è fresco come una rosa. Sanno curarsi dalla ferita di raya con erbe medicinali. E sono capaci di riprendersela con un palo appuntito, per farci una buona cenetta. Al ritorno facciamo benzina presso una comunità galleggiante di meticci. Un grosso pesce nero e rosso sbaglia clamorosamente il momento per fare un salto fuori dall’acqua, e atterra pesante ai miei piedi. «Ci voleva», ridacchia Angelito. Il pesce risparmia le energie e respira lentamente, lentamente. Verso il tramonto la barca si ferma. Smontando il motore, Angelito conclude che ci hanno venduto benzina adulterata. Ondeggiamo in silenzio per un’interminabile ora. Le zanzare ci accerchiano estasiate. Siringhe nere a cui devo il tributo di sangue. Entrambe le sponde paiono disperatamente lontane. I viveri rimasti sono zero: una mela. Angelito è un abile pescatore e un eccezionale meccanico: uno Shipibo del terzo millennio. Ripartiamo. Il cielo ci inonda di bellezza paziente. Sono passate 7 ore di navigazione, e il pesce continua a respirare lentamente, lentamente. . . Sanken Yaca indica con un dito il cielo luccicante di astri. «Vedi, noi bordiamo le nostre gonne di bianco su fondo nero, per rappresentare le stelle. Disegniamo i cammini nel cielo. Troveremo il nostro». Dall’estero arrivano richieste di migliaia di oggetti d’arte indigena. Ma li vogliono in serie. Le donne Shipibo ceramiste lavorano davanti a enormi forni industriali, per 12 ore di fila. Bisogna fare in fretta, è l’ordine dal mitico “Estero”. Venti centesimi di dollaro in tasca, al giorno. La riva del fiume è infestata da orde di mosquitos. I pidocchi vanno e vengono dai capelli come i contrabbandieri e i narcotrafficanti da Tres Fronteras, il triangolo dove confluiscono Brasile, Perú e Colombia sul Rio delle Amazzoni. Penso all’amica Roberta di Roma, sempre esaurita dallo “stress italiano”. Lavo i pantaloni con Putsun, sorella di Edith, e le sue amiche. Un caimano nero sonnecchia dove non dovrebbe. Non lontano da noi. «Non lo potrebbe ammazzare qualche uomo, Putsun?», chiedo sciacquandomi le mani e preparando la fuga. Sorride: «Abbiamo 3 chili di sale nella comunità, al momento. Non bastano per tutta la sua carne. Rischiamo che vada a male». Daset coltiva il suo piccolo campo cosí come lo faceva sua madre. Ma David, suo figlio, non trova molto da cacciare nella foresta, ormai. Il luccichio della modernità lo attira e lo repelle al contempo. Allora si sdoppia, per mantenere lo status in entrambe le culture. Torna alla comunità illuminata dalla luna piena, dove lo attende una donna Awajún. Nella maloka, questa prepara il masato come sua madre le ha insegnato fin da bambina. Offrire il masato agli ospiti del marito equivale ad assicurare il successo sociale di quest’ultimo. David, di ritorno dal viaggio, non è piú lo stesso. Ha tuffato la mano nel magro ruscello del lavoro salariato, ha provato il whisky, abbracciato bionde in affitto. Ha portato spaghetti e tonno. Nella riunione con gli amici, forse lui parlerà di rive lontane, proibite alla donna Awajún. . In mancanza di ebollizione. V elenoso Velenoso . .I giovani hanno occhi per vedere la telenovela (dalle 6 del pomeriggio per quattro ore al giorno funziona con una motobomba, un generatore a benzina donato dal “Chino” Fujimori, il televisore delle tiendas e bodegas) e curiosità per i racconti dei naviganti dei ríos. Nestor è il mio motorista, 45 anni portati male ma vissuti bene, assicura. Lo chiamano Cazador de viudas (cacciatore di vedove) per il suo instancabile spirito di consolatore. È specializzato nel raccontare storie di amanti del popolo Awajún che inciampano nella tragedia. Di Judith sa tutto. «Suo marito stava con la vicina. Andò a discutere con la rivale, e se ne tornò a casa. Subito dopo si sentirono urla nel villaggio: la rivale aveva preso Racumin. Judith capì che se moriva, la famiglia di “quella” avrebbe ucciso suo marito. I due scapparono dalla comunità con il primo colectivo di passaggio. La rivale non morì. La salvarono provocandole il vomito con uovo crudo e latte.Vive ancora e la famiglia di lei si appropriò del piccolo negozio di alimentari di Judith». Putsun mi parla della cognata. Studiava nell’Istituto Pedagogico Bilingue per professori indigeni di Pucallpa. Si innamorò di un uomo sposato e padre di 4 figli. Era stato il suo professore quando viveva nella comunità. Quando viaggiavano in cittá, vivevano “como marido y mujer”. Ma nella comunità, non si scambiavano una parola. Lui la preferì alla moglie per un tempo. Suo suocero gli chiese: “Allora, ti riconcilierai con tua moglie, sí o no?”. In caso negativo, lui doveva consegnare alla famiglia della moglie il motore della barca, i soldi, la escopeta. Tutti i suoi averi. L’uomo riguardò la moglie trovandola abbellita. La sua amante, incinta di 4 mesi, si suicidò, ingerendo — ancora— Racumin. Quattro ore di spasimi prima di rattrappirsi come un manjas selvatico, sulle rive del Marañon. Valentín era sindaco del distretto di Imasa. A sua moglie Juanita arrivò la voce che se la faceva con una joven, in cittá. Il barbasco é un vegetale della foresta. Pestato, produce un succo velenoso color latte. Nella pesca viene sparso nel fiume per stordire i pesci che galleggiano inebetiti. Se lo ingoiò Juanita, che rimase inebetita per quattro giorni. Quando si riebbe, riprovò con il Racumin. La riconobbero dai vestiti, perché i dolori avevano reso irriconoscibile il suo volto. L’antropologo Brown calcola che ogni anno ci siano almeno 72 suicidi di giovani donne Awajún, il che in proporzione al numero ridotto di abitanti —circa 40 mila— è un indice dieci volte superiore alla media di suicidi di Londra. La comunità é sempre attenta alle discussioni familiari. Appena circola la voce che un padre si é arrabbiato con la figlia adolescente, occorre assicurarsi che questa non sparisca dalla circolazione. Altrimenti tutti nel villaggio si mobilitano e vanno sulle rive del Marañon con la paura di trovare un barattolo vuoto. . . Residui della campagna elettorale, il Perú si avvia alla decentralizzazione democratica, i caciques locali (autorità imposte nell’epoca coloniale, capetti) d’ora in poi si chiameranno presidenti regionali. A Pucallpa un cartellone di proporzioni inimmaginabili offre il sorriso tutto denti di un signore roseo e grassoccio che assicura un barattolo pieno di lavoro, sicurezza e chakra per tutti. Lo slogan elettorale di tal Juan Paredes Ochoa é: “su palabra vale cuanto un cheque” (La sua parola vale come un assegno). É il piú grande imprenditore di questa fetta d’Amazzonia, con bandierine piantate su ogni tipo di attività economica. Il tutto é cominciato decenni fa con frequenti viaggi in Colombia. Il primo dollaruccio si tramutò presto in cheques da milioni di dollari. Il suo affare era esportare scimmie imbottite di ovetti non di Pasqua, bensì di cocaina, in giro per il mondo. Talvolta gli animali arrivavano morti a destinazione ma i militari della dogana non se ne sono mai accorti. Continuò a scorazzare con le scimmiette finché gli americani della DEA non catturarono il più famoso narcotrafficante di Cocalandia, tal “Mosca Loca”, gran buoncuore, si era offerto di pagare tutto il debito estero del Perú a patto che lo lasciassero lavorare in pace. Non lo lasciarono e Juan Paredes Ochoa si scandalizzò parecchio. Cambiò il nome dell’impresa e si mise ad esportare mogano, cedro e lupuna, imbottite sempre di ovetti di “blanca” senza che mai i militari sospettassero qualcosa. Poi gli americani della DEA presero il n. 2 di Cocalandia, tal “Vaticano”, incorreggibile benefattore di tutti i militari della zona. Questo era troppo anche per un Giobbe come Juan Paredes Ochoa che, coerente con la sua deontologia professionale, si mise personalmente in politica per assicurarsi che gli americani della DEA lo lasciassero lavorare in pace. Ora regala cheques alle televisioni regionali, grembiuli di plastica bianca ai venditori ambulanti di caschi di banane, palloni da pallavolo e quaderni ai bambini, che lo baciano commossi. “Juan amigo — el pueblo está con tigo”. “Se siente se siente — Juan Paredes presidente”. I reportages di tutto il bene che ha fatto alla gente vengono trasmessi costantemente, sull’onda di una musica ballabile. Una vaga puzza di dittatura infastidisce poche narici. L’amore per l’unico Messia moderno, quello populista, è incurabile. La Sindrome di Stoccolma fa il resto. . . Panchine sul perimetro di una voragine verde che sconfina nel fiume Tambopata. Strati sfumati di nebbiolina coprono il pueblo. Centottanta gradi di foresta: immobile, se sento l’aria cocente; piena di movimento, se ascolto il suo respiro. Dall’avioneta contavo le macchie di deserto dopo il passaggio delle ruspe del Progresso. Amazzonia rapata a sangue. Il fiume sdraia le sue curve argentate, languore che penetra ogni frontiera. Annuso pesce, banane fritte, birra, grattugiate di spazzatura. Nel ristorante del porto i 14 maestri indigeni e meticci dell’Instituto Tecnológico (solo due donne) celebrano qualcosa insieme e si godono un “originale” piatto amazzonico: pollo fritto con patatine fritte, che arriva dopo 40 minuti di attesa inumidita dal caldo e dalla birra, sorella e vergine. E con il pollo arriva — fritto pure lui nel suo sudore — un robusto meticcio che smanacca sui microfoni “Alò alò alò, probando, uno dos tres...”, con raffiche di acutissimi fischi che attraversano i cavi elettrizzando i commensali con un pezzo di pollo a mezz’aria, costretti a rifarsi con “otra cerveza, por favor “ —un’altra birra, per favore—. Cerveza, primo amore. . . —«Buenas tardes, señoras y señores. Benvenuti nella peña internazionale “Las Gaviotas”»— (Solo ora capisco il fenomeno delle migrazioni degli uccelli)—. «Somos pocos, somos machos! (Siamo pochi ma siamo maschi)». A bocca piena, i clienti ritmano le mani con forchette, e si afferrano alla cerveza, moglie amica amata amante. Arriva la sgonnellante gioventù di ballerine e coriste, con la tecnocumbia . venerdì 31 ottobre 2003 amazzonica. —«Otra cerveza!»— Il sudore evapora nell’eccitazione del ballo. Cerveza, unica dea. For ever. Il meticcio dei microfoni porta un trofeo in testa: il cappellino dei Chicago Bulls regalatogli da un gringo. Passa una splendida ragazza col vestito a fiori, e lui reagisce: «Stai all’ombra che ti sciogli, cioccolatino!». Una coppia al primo amore e alla prima fuga osserva abbracciata il tramonto sul fiume. Avranno quindici anni. . Ripassano i turisti fotofotofoto su tutto, estetica della miseria. Tutti a captare qualcosa perché è uno spettacolo raro: domani si estingue! Ricordo altri ragazzi in via di estinzione. Nella prigione di Albuquerque, New Mexico, c’era una stanza con delle pareti di vetro plastificato. Noi studenti adolescenti. Anche loro, dentro. Potevano essere guardati da tutte le angolazioni. Mentre dormivano o mentre non riuscivano a dormire, occhi puntati. Mentre ricordavano qualcosa o immaginavano un futuro, occhi puntati. Mentre si grattavano i piedi o si cambiavano le mutande, occhi puntati. Gli occhi degli addetti alla sicurezza, o quello ciclopico tondo della telecamera con la lucina rossa, piazzata in un angolo irraggiungibile.Tre di loro sui letti a castello, indifferenti anche a se stessi, fissavano il soffitto, in un’insonnia auto–indotta. Altri due, seduti insieme su un materasso, con un balzo saltarono giù, e si avvicinarono al vetro plastificato. Il direttore puntò l’indice addosso agli ospiti speciali, con lo stesso entusiasmo col quale uno studentino delle elementari proclama la sua conoscenza di una mappa geografica. —«Ragazzi, coloro che vedete sono tutti freschi di condanna a morte. Alcuni sono dei pluriomicidi. Quello lì è andato in giro con una macchina rubata a far fuori chiunque lo avesse obbligato a pagare la benzina che acquistava. Maneggiava proprio bene la pistola, quel piccoletto».E aspirò con il naso, fra lo schifato e l’eccitato. Il piccoletto cominciò a borbottare qualcosa con il ragazzo vicino. Presero a camminare su e giù per la stanza, come dei leoni ingabbiati. Noi annaspavamo in un dolore sconosciuto. —«Volete sapere cosa ha fatto quel moreno là a sinistra o quell’indio seduto per terra? È il mio lavoro, fatemi domande, no?»— e scoppiò a ridere senza poter comprendere il nostro silenzio. In quel momento i cinque condannati a morte si scaraventarono all’unisono contro il vetro plastificato, spalancando le bocche urlando vocali farcite di rabbia. Sbattendo i pugni, per protestare, insultare, e dichiararsi ancora vivi. Io non seppi se darmela a gambe, o sfondare qualche porta invisibile, prenderne uno per il collo e urlare con lui. . Tossico. Sviluppo e affini . Il lavoro degli uomini galleggia o affoga nel fiume come quello della donna nella chacra e nella maloka. Durante l’epoca delle piogge, le frane sono frequenti. Gli alberi pendono dalle rive, si aggrappano disperati alla terra fino a cedere alla libidine dell’acqua. Passano imbarcazioni di turisti che trasudano foto. Il luccichío dell’acqua inondata di sole, riflesso sugli occhiali a specchio. L’indigena Edith mi diceva di non mitizzare gli indigeni, perché hanno aspetti molto simili ai gringos. Gli indigeni —diceva Edith— hanno gli stessi aromi che caratterizzano il fetore e il sublime umano. I maschi pendono dal machismo, come tanti maschietti che circolano con cravatta e telefonino nelle università, negli uffici e nelle chiese europee. Gli indigeni possono aggrapparsi disperati al piccolo prestigio/potere come tanti europei si intossicano di arroganza bancaria e cedono alla libidine dell’etnocentrismo. Non hanno mai avuto l’innocenza del paradiso terrestre —diceva Edith— e meno ancora ora che sono stati invitati nel giardino del neoliberismo. Le loro organizzazioni hanno sofferto il dolore della crescita, con cambi di alleanze e frane frequenti. Esattamente perché —come tutti in questo mondo, soprattutto in quest’epoca internazionale di piogge fredde— non hanno le penne in capo e chi lavora nella storia si infanga le scarpe. . . Ecco, questo è il punto, qui devo decidermi a sporcarmi le scarpe e mi costa molto, abituata alle alchimie di Pilato e alla pedagogia televisiva dell’ovvio o del disumano, lasciare che questa realtà sporchi le mie scarpe, questionando i miei modelli e le mie sicurezze. È doppiamente difficile essere donna e bianca in un contesto dove il gioco di potere e il potere di genere hanno altri codici. Cooperazione —diceva Edith— può essere solo azione politica in risposta a diritti negati ma è complicato per un’occidentale parlare di diritti quando l’Occidente ha inventato sia le Dichiarazioni Universali sia la pulizia etnica e la guerra umanitaria. . . . Non è facile uscire dagli stereotipi che vogliono gli indigeni amazzonici sugli alberi ad aspettare specchietti e ninnoli, le donne di Kabul dietro le grate del burqà, i bambini con la pancia gonfia sulle colline di immondizie alla periferia di Nairobi, Bin Laden nella caverna e Bush sull’Air Force One. E per tutti questi personaggi stereotipati, un unico breviario di valori e un solo modello di sviluppo? . Sviluppo, parola tossica, insegna Latouche. Come tossico è stato ogni termine appioppato a questa gente in base alle distinte prospettive e interessi del “potere ad una sola corsia”, che ha inventato e fatto sparire il Terzo Mondo, “fabulizzato” l’Amazzonia: selvaggi da colonizzare; pagani da salvare; sottosviluppati da sviluppare; emarginati da assimilare; minoranze da integrare; poveri da assistere; campesinos da usare nello scontro fatale città—campo nell’immancabile vittoria del proletariato; categoria svantaggiata da favorire con “discriminazione positiva”; vulnerabili da “conservare”. I conservazionisti scalzi di mezzo mondo hanno ora inventato un altro termine: indigeno, come custode della foresta, una specie di guardaboschi. n arratario . il pagina 2 venerdì 31 ottobre 2003 laboratorio di testi: racconti analisi rapsodie epopee . Edith fremeva quando sentiva questi epiteti. Solo accettava: Cittadino. Fonte di diritti e doveri. Cittadino, con cultura differenziata in un Perù che finalmente si riconosca multiculturale e plurilingue, dato che solo il 12% dei suoi 25 milioni di abitanti è bianco. Cittadino, contro le logiche del Principe e del Mercante, in un secolo e in un mondo che considera solo le persone in quanto consumano. Cittadino, in una rete di solidarietà globalizzata, attenta sia ai bulldozer quando spianano gli ulivi vicini alla Basilica della Natività, sia ai martiri peones che fanno cadere come carte da gioco le Torri altissime e le Lupune gemelle, in qualsiasi parte della Terra. «Una nuova Abya Yala è possibile e questa è la nostra guerra: sporcarsi le scarpe». Accettare di essere —come Edith— a doppia corsia e cavallo di Troia a due teste, con il rischio di trovare una nuova se stessa. Claude Levi-Strauss era venuto in Amazzonia ed aveva avuto l’umiltà di chiedersi: perché ci turba e attrae “l’altro”, “l’indigeno”? E si rispondeva: «perché cerchiamo noi stessi, perché abbiamo l’angustiante speranza di afferrare l’essenza di ciò che è umano, di ciò che la nostra specie umana è stata e continua ad essere, prima del pensiero e oltre la società». E sul piano più ampio —diceva Edith— “sporcarsi le scarpe” vuol dire accettare che “gli alberi non crescono fino al cielo”, che non tutte le risorse sono rinnovabili, che ci sono tante forme di essere umano, e —come per la carretera Transoceanica— che ci sono tante strade con tante alternative di cittadinanza. Vivere processi e lasciar fiorire le differenze. Sognare sviluppi come etnosviluppi. “Un’altra Amazzonia è possibile”. Senza i fondamentalismi di chi si sente il principio e la fine di tutti i sogni, «impedendo a Dio di sognarci» —mi sussurrava Edith con un sorriso. Le api melipone hanno un regime alimentare diverso e piú vario rispetto a quello delle api che normalmente conosciamo, in quanto non solo si cibano del nettare dei fiori ma anche di sostanze di origine animale. Lévi-Strauss le descriveva piccole, prive di aculeo e di veleno, ma che possono provocare molestie. Infatti si possono agglutinare a decine, se non a centinaia, sul volto e sul corpo del viandante per succhiarne il sudore e le secrezioni nasali o oculari. Diviene presto impossibile sopportare queste titillazioni che si esercitano su punti particolarmente sensibili: interno delle orecchie e delle narici, angoli degli occhi e della bocca, e alle quali non si può porre fine con i movimenti bruschi che solitamente fanno fuggire gli insetti. Appesantite e come ubriache di alimento umano, le api sembrano aver perduto la volontà e forse anche il potere di volar vía. La loro vittima, scoraggiata dall’inutilità dei colpi vibrati in aria, finisce presto per picchiarsi il volto: gesto fatale, poiché i cadaveri, pregni di sudore e schiacciati, inducono gli insetti sopravvissuti a rimanere sul posto, e incitano altri a raggiungerli per un nuovo pasto. . . . In questa Amazzonia ci sono le Edith, i Gil, gli Evaristo, i Wrays, i Never, i Guillermo, le Terese. Si incontrano le Sanken Yaca, le Awajún, le Ashaninka, le Shipibo, ecc., mosaico composito di viandanti, prova dell’impensabilità della storia come corso unitario. E ci sono anche i Mascho-Piro, indigeni in isolamento. . Li hanno intravisti da lontano, ombre fuggenti nel groviglio della foresta. Orme molto grandi, resti di cibo ed evidenze di accampamenti temporanei confermano la presenza di questi piccoli gruppi umani che all’inizio del terzo millennio non hanno armi di metallo ma di pietra, vivono esclusivamente di frutta e radici, uova di taricaya (tartaruga) e di caccia. Vanno in gruppo. Corrono sempre, con le donne e i bambini all’interno del gruppo, come fanno le huanganas (specie di cinghiali dalla carne molto saporita) per proteggere le madri e i cuccioli. Non si fermano mai più di una notte nella stessa radura. All’alba riprendono la corsa. O la fuga. Li hanno intravisti dalle avionetas lungo il rio de Las Piedras, nudi, al confine tra Perú e Brasile, e tutte le api melipone della nostra società globalizzata vogliono lanciarsi in picchiata a succhiare questo ultimo sudore amazzonico. Qualcuno li ha definiti “non contattati”. Termine ridicolo. In realtà i piccoli peones dei grandi madereros di mogano e lupuna li hanno “contattati”da tempo. Impauriti dai motori delle barche e delle motoseghe, i Mascho-Piro, ombre nel secolo dei cellulari satellitari, lanciano frecce: gesto fatale che richiama sul posto altri piccoli peones che sparano all’impazzata, tra gli alberi. Quindici morti nel febbraio scorso.Tutti Mascho-Piro, casualmente. Dopo la “storica” battaglia, gran pranzo per festeggiare l’arrivo della civiltà occidentale cristiana al rio Las Piedras, ultimo angolo inesplorato del pianeta. Pranzo fatale, perché questo attira l’attenzione dei funzionari statali che iniziano le loro titillazioni cartografiche in vista dello “sviluppo” dei MaschoPiro. Maggiore appetito dimostrano i grandi madereros che celebrano regalando fucili automatici ai peones. Allegria di musica country e menù rigorosamente vegetariano con brindisi all’acqua minerale, per alcuni conservazionisti convinti di essere vicini all’Eden dove abbondavano il latte, il miele e nuove specie rare di farfalle e caimani, da conservare. Pasto al sacco per i turisti di avventure e per gli sposi in luna di miele in cerca del primo scatto con cannibale. Discreta, ma evidente, acquolina in bocca per le decine di mister Billy Graham del mitico estero in sacra concorrenza per dare il miele della salvezza a questi senza anima di Mascho-Piro. Una crociata di api-attrici che interpretano la commedia consistente nel fingere di nobilitarli mentre stanno terminando di sopprimerli. Quando sente queste cose, il padre di Edith,vecchio apus del popolo indigeno Harakmbut, ha un groppo in gola e sibila piano. . . Edith, l’amica mia, è morta un mese fa. Niente di eroico o di strano. Di epatite B. Nessun fischio dalla motonave. Solo un piccolo annuncio, scaricando il peque-peque, notizia–di–un–solo–Dia, mai stata–di– moda. Sua madre, eternamente intenta alla sua tela. Nella mano sinistra prende tre fibre di chambira (preparate il giorno prima, bollite in acqua e seccate al sole) e le colloca sulla gamba, vicino alla rotula. Passa la mano destra sulle fibre, facendole ruotare una sopra l’altra componendo un filo che a poco a poco si snoda dalla mano e si ricongiunge con altri fili fino a comporre una rete. Cosa sta tessendo, señora? Quello che succederà. . Il ceucy oltre la carretera . Succederà che ancora tante api verranno sull’Amazzonia. Da secoli succhiandone le secrezioni. Qui hanno cercato l’Eldorado e il Paititi, aspirato l’oro dalla sabbia dei fiumi, il caucciù dalle piante, il gas e il petrolio dalla terra, i saperi dalla mente, la composizione chimica dalle piante medicinali, l’identità dalle anime. Succederà che l’Amazzonia si picchi il volto ed inizi un nuovo pasto. Succederà che n anche i Mascho-Piro, gli ultimi indigeni che ancora vivono nudi, in isolamento, nel triangolo inesplorato di foresta peruviana che confina con il Brasile, lungo il rio Las Piedras, saranno presto “scoperti”, titillati, civilizzati, convertiti, assistiti con i distinti mieli dello “sviluppo”, della modernizzazione, del turismo con “primitivo” incorporato. Succederà che il Governo istituirà per loro un’altra “riserva protetta” contro i fucili automatici dei 2.000 peones dei grandi madereros illegali che stanno abbattendo le ultime Torri di lupuna, di mogano e cedro. Succederà allora che qualche mister Billy Graham vorrà “contattarli”, con metodi altrettanto letali quanto i fucili assassini dei madereros. Una volta scoperta l’affinità linguistica fra i Mashco-Piros e gli Yines, infatti, il mister Billy Graham di turno organizzerà con decine di avionetas un trasloco collettivo di 50 famiglie indigene Yine dalla loro comunità di Puija, alla Riserva dell’Alto Purús. Le cavie Yine potranno disporre di una comunità artificiale con piste di atterraggio, cibo, utensili, armi e tutte le comodità: a condizione che attirino i Mashco-Piros e li consegnino ai conquistatori di anime, ai civilizzatori, ai dottori dello sviluppo, ai consumatori del turismo. Poco importa se una epatite B o un semplice raffreddore potrà decimarli, o loro si lasceranno morire con un groppo alla gola, come é già successo con altri popoli “contattati” solo qualche decennio fa. Una riserva, una specie di zoo per una specie rara, in via di estinzione: «venghino, venghino, signori turisti in cerca di emozioni forti!» o un laboratorio/alveare, da dove prelevare un miele sperimentale per il genoma umano. Vecchia storia: nessun fischio dalle motonavi. «Non è vero, diceva Edith —la mia amica morta a trentasette anni di epatite B—, che la globalizzazione voglia assimilarci e trasformarci, noi indigeni. Esattamente il contrario. Gli occidentali vogliono che rimaniamo come loro ci hanno sempre pensato e dove continuano a confinarci nel disco duro dei loro cervelli e dei loro computer: bisognosi e disponibili nella “riserva del mito e del ripetitivo” mentre loro si ritengono gli unici padroni del pensiero. Noi saremmo gli ascientifici con “cittadinanza riservata”, inebetiti con il dolciastro Racumin delle telenovelas. Loro, i signori della innovazione. Dei diritti e della guerra». . . . Edith se n’è andata senza dirmi come si può essere donna, indigena e dirigente in una Amazzonia e in un mondo che cambia ogni giorno. Qualche decennio fa le cose erano definite in base a codici antichi che la nuova carretera Interoceanica, dalla segnaletica bianca e androcentrica, sta scalzando. . Donna indigena non si nasce. Si diventa, mi diceva. E alludeva alla cosmovisione succhiata con il latte materno, ai significati nell’iniziazione per i maschi e ai simboli usati durante l’evento delle mestruazioni per le bambine. Al matrimonio, alla cura della nidiata di bimbi mentre lo sposo andava con il machete ad eliminare la sterpaglia di un terreno ai bordi della foresta (“roza”), tagliava gli arbusti (“talla”) e bruciava quanto non serve (“quema”) perché lei potesse seminare la yuca, il mais, il manì ed il camote. Non si faceva l’amore. Si apprendeva l’amore con roza, talla e quema. Per giungere ad una vita di coppia, bisognava eliminare la sterpaglia della propria individualità. Nell’atto d’amore, la roza corrispondeva al fatto che gli uomini si dovevano tagliare la barba e le donne depilare il vello pubico. I colpi d’ascia della talla richiamavano i ripetuti tentativi di approccio nel gioco limpido il laboratorio di testi racconti analisi rapsodie epopee il arratario periodico quindicinale anno nono numero diciotto 2003 venerdì trentuno ottobre narratario www.ilnarratario.info autorizzazione tribunale di Milano 34/95 - 28.1.1995 la didascalia nel sito Lab.A.S. Webmaster Pierpaolo Crudo affidato per la consegna alle poste italiane Esemplare unico in edizione elettronica conforme all’edizione cartacea della tiratura della presente edizione: in seicento copie distintamente contrassegnate e raggruppate in quattro serie 31.10.2003 A B C D serie « », « », « », « » di centocinquanta esemplari La copia cartacea viene distribuita in edizione filatelica dal «Laboratorio Altiero Spinelli» alla cortese attenzione dei Visitatori del Sito www.ilnarratario.info Premio Nazionale “Verba Volant” 1999 con patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione Edizione fuori commercio - Vietata la vendita - Proprietà letteraria e artistica ® Distribuzione a cura del «Laboratorio Altiero Spinelli» . . della seduzione, fino alla quema, il fuoco del desiderio e il seme della Vita. Codici antichi come le sicurezze dei rituali. E nel caso, era la donna che perdonava sempre per l’ultima volta. . Chi non interiorizzava le leggi del “parentesco”, era reietta dalla comunità. Leggi dure per le giovani indigene che ora vanno all’Instituto Superior Pedagogico e navigano in Internet. Leggi con sapore cosí intenso da diventare quasi insopportabili. Alcune sono costrette a diluirle nell’acqua della “tarda modernità” per poterle ingerire, vivendo traumi, sensi di colpa e contraddizioni interiori che possono provocare il vomito della propria condizione e qualche volta si possono concludere con un barattolo di Racumin. . Le indigene Shipibo hanno conquistato il diritto a scegliere il marito da due generazioni. Prima, appena sperimentavano la menarca, già diventavano mogli di un cacciatore, il quale poteva anche richiedere l’amore dell’altra sorellina. La donna era “buena mujer” se le veniva amputata la clitoride. I figli piovevano a decine nelle grandi malokas. Le donne li partorivano da sole, o con l’assistenza della mamma o della nonna, che alleviavano le loro fatiche con straordinarie piante medicinali. Le giovani generazioni di donne indigene ora conquistano lo scettro degli studi superiori, si sposano con chi preferiscono e hanno i figli che desiderano. In compenso alcune non insegnano piú la loro lingua ai figli. Ogni fiume amazzonico parla di vissuti paralleli e alle volte, tragicamente opposti. Qui, le donne partoriscono i propri . . . diritti attraverso processi storici eterogenei e irripetibili. . Edith non si nasce, si diventa. Quante doglie al dover assumere nel tempo di soli trentasette anni tutti i tempi della storia, dai MaschoPiro ad oggi! Quanta solitudine nel lasciare che la “mediatizzazione” del suo “essere dirigente” la metta di fronte a possibilità di trasformazioni radicali del modo di vivere la soggettività femminile indigena. E la faccia scontrare con eventi che rappresentano cambi nel “senso dell’essere”, chiedendole di cambiare in fretta, senza dirle cosa si può diventare e come si può morire. . L’harakmbut Edith se n’è andata senza essere invitata all’American Entreprise Institute di Washington. Sapeva di essere nata nel piatto bucato della storia, nella parte sud dell’emisfero, con la pelle e il sesso sbagliati, ma si sentiva cittadina di questa comune Abya Yala, con l’Orgoglio della cultura del suo popolo e la Rabbia per quanti attentavano ad essa. Non conosceva l’inglese Wake Up, Occidente! ma era ben sveglia e sapeva che senza “passione” i pozzi si ritrovano senz’acqua. Ma non la passione che nasce dall’alto della propria centralità e dai tank dei propri modelli di vita garantiti. . Aveva la passione di chi decide di mettersi dentro le cose, sporcarsi le scarpe nell’incontro delle diversità che cercano soluzioni agli inevitabili conflitti. Una passione, miele forte, contro tutte le nuove forme di colonialismo. Il colonialismo consiste nell’incapacità di concepire la “foresta” e chi ci vive sotto, “l’altro”, se non come puro giornale in foglio con editoria elettronica da tavolo 20125 Milano via Arbe 29 tel./fax 02/6123586 direttore responsabile Fabio Trazza [email protected] . . e semplice oggetto, nell’ignoranza e nella negazione della possibile reciprocità, della carretera a doppia corsia. . Miele forte significa assumere la complessità come valore e conquista. Assumere il conflitto come un’opportunità, indispensabile ‘koine’ di tutti noi viandanti, tra continuità e cambio. I conflitti esigono nuovi equilibri, benvenuti siano i nuovi equilibri! «Non sono i conflitti ciò che dobbiamo temere, bensì la mancanza di chiavi per comprenderli, e di meccanismi per mediarli» —mi ripeteva Edith quando si accingeva a “ricominciare da capo ogni giorno”. . Piove forte, stanotte. È il tempo in cui il Sur continua a portare la sua Cruz, i profeti si sono dileguati dietro le nubi e le Pleiadi ancora non hanno annunciato la tierra sin mal. Ma è la nostra stagione. Bisognerà buscar algo nuevo. Ceucy, ultima occasione. Per vivere la solidarietà come processo mai finito di conoscenza dell’umano. È certamente a quest’altro miele che si riferisce la Madre degli dei quando, in un mito del popolo indigeno Tupi-Guaraní, dice: “Sotto . la folta erba delle nubi eterne, ho disegnato l’alveare e ho chiamato a raccolta le api buone, affinché gli uomini possano sciacquarsi la bocca”. Come fece Edith della foresta, prima di morire. (Fine)