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Notte africana 1973, ottone, carta dipinta, cm 100 x 48 x 38 Come una scatola trasparente, l’opera intona nell’aria un arpeggio di note musicali al di sopra della scatola: le stelle. All’interno della scatola esse si sono capovolte, guardando verso il basso a un blu fluente che scorre come un fiume a rispecchiare il colore della notte. Il rosso inonda la luna: effettivamente la luna si tinge in rosso certe notti, in Africa. Notte africana pone la questione del colore come fondamento della scultura spaziale di Melotti. A diverse riprese, iniziando dalla ceramica, la facoltà del colore prende campo e potere in modo direi quasi autoritario nella forma. I Teatrini sono supporto del colore incessantemente, dopo Le mani (1949). In essi si riesce agevolmente a controllare il percorso in cui Melotti sporge dalla scultura sulla pittura. Nella scultura spaziale il colore è portato su tele strappate, prevalentemente. [...] Non posso accettare la tesi di un’arte che...per il momento, non ha più nulla da dire, mentre nelle altre arti continuano ad avere qualcosa da dire... L’arte è una, e se muore la scultura, muoiono con essa la musica, la pittura e così via. Questo per rispondere al povero Martini.2 La scultura spaziale, aerea immateriale di fine anni 50 è la grande risposta. In questo episodio, l’intonazione del colore alle tonalità di Matisse è specialmente apprezzabile, dato il soggetto, l’Africa mediterranea della calda pittura marocchina di Matisse. Tra i Teatrini, Africa (1966) fa da sponda a Notte africana, sia per il soggetto, l’Africa, che spesso sorprende Melotti a fantasticare, sia per il colore. Nel Teatrino L’Africa il colore disposto a bande è inequivocabilmente quello delle Bandiere di Jasper Johns, mito della generazione anni 60; e questo ci interessa per valutare il livello su cui egli spinge l’approfondimento. Noi sappiamo che la scultura spaziale è la soluzione finale di una tormentata strozzatura accusata dalla scultura dopo la crisi di un personaggio importante per la generazione di Melotti: Arturo Martini. Il libro La scultura lingua morta (1947) di Martini aveva come paralizzato le mani degli scultori , timorosi della retorica, della ponderalità, dell’inefficacia e di tanti altri problemi portati dalla scultura tout-court. L’epistolario di Melotti e di Belli ci documentano sul travaglio come lo aveva vissuto Melotti. L’epicentro temporale è il 1955. In questo periodo Melotti esegue i dipinti cosiddetti di Zoagli dei quali tiene una mostra alla Galleria L’Annunciata di Milano all’inizio di gennaio 1956. L’influsso pittorico risentito è quello pst-impressionista, ma specialmente di Matisse, il cui colore penetra in senso fondamentale in Melotti. Vedi i viola, i rosa, i blu, come questo di Notte africana. Alfonso Gatto riferisce nella presentazione a quella mostra di aver udito Melotti argomentare circa il fatto che in pittura si potesse ancora dire qualcosa, mentre in scultura, essendo questa morta, si sentiva le mani legate.1 Belli ha molto da dire su questa questione. Egli rivendica con il compagno la loro formazione di base che insiste sul concetto di Arte totale. L’Arte totale è e rimane il traguardo imperativo quanto gratificante. Dopo aver visto il catalogo dei dipinti, Belli scrive: 1 In Melotti, cat. gentile. 199, p.725 2 C. Belli, Lettera a Fausto Melotti, Il Cairo, 21 gennaio 1956