Istituto MEME: Le Musique nous Portera

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Istituto MEME: Le Musique nous Portera
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Le Musique nous Portera
Scuola di Specializzazione: Musicoterapia
Relatore: Dott.ssa Roberta Frison
Contesto di Project Work: Centro Socio Riabilitativo
S. Piero in Bagno
Tesista Specializzando: Jacopo Zanelli
Anno di corso: Primo
Modena: 5 settembre 2009
Anno Accademico: 2008 - 2009
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Jacopo Zanelli - SST in Musicoterapia (Primo anno) A.A. 2008 - 2009
Indice dei Contenuti
Prima di un inizio
4
Introduzione
5
Nascita della Musicoterapia
6
Setting
14
La mia esperienza Musicale nella pratica terapeutica
16
I membri del Gruppo/Anamnesi
16
Sedute Musicoterapia: setting e attività
23
Seduta di gruppo
24
Classificazione degli strumenti
25
Classificazione degli strumenti secondo il loro uso
27
Modalità d’intervento
28
Sequenze tecniche proprie del contesto non verbale
29
La scelta degli strumenti e il procedere della seduta
30
Risultati Ottenuti
34
Concetto ed importanza del contesto
37
Premessa storica
38
Diverse definizioni di contesto: da una prospettiva oggettivista
al costruzionismo sociale
41
Il contenitore della comunicazione
45
Il contesto come messaggio
48
Il contesto di apprendimento
52
Il contesto in campo clinico
55
Conclusioni
58
Perché parliamo di contesto
59
L’autismo
60
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Autismo, descrizione generale
61
Visione d’insieme
61
I sintomi
62
Comunicazione Verbale e Non verbale
62
Interazione Sociale
63
Immaginazione e repertorio d’interessi
63
Possibili cause
64
Trattamenti
65
Anamnesi di N.
65
Massaggio Infantile
Tatto e Pelle
68
Sedute Musicoterapia con N.
70
Setting
70
Risultati ottenuti con N.
73
I principi base della Musicoterapia
74
Conclusioni e Ringraziamenti
76
Riferimenti Bibliografici
77
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Prima di un inizio
Trovandomi con una penna in mano, tante idee ben definite per la testa e tuttavia
poca capacità di fissare tramite la scrittura concetti altrettanto nitidi, mi sono detto che,
riferendomi al mio particolare percorso di studi, colui che si appresta a mettere insieme
i pezzi che compongono una tesina ha in sé la presunzione di chi si sta formando
nell’ambito della Musicoterapia e pensa di fare il più bel lavoro di sempre, di stupire
tutti con grandi risultati e frasi che scorrono perfette come il nostro tempo e si ritrova
invece il più delle volte spiazzato, incapace di dare forma e voce ai propri pensieri da un
lato, di raggiungere risultati significativi dall’altro. Ecco, questo è stato il mio grande
problema: la voglia incredibile di raccontare qualcosa di talmente importante e il timore,
anzi, la certezza di rendere tutto troppo banale e forse poco incisivo.
Nonostante ciò, vorrei definire questa tesina in modo che sia per quanto possibile
chiara e come dire, corretta.
Ho deciso di dividere questa tesina in tre paragrafi, secondo me importanti, che
posso rintracciare nel percorso del progetto che ho svolto nella struttura riabilitativa e
che mi hanno accompagnato nella mia personale formazione. Il primo paragrafo
definisce la musicoterapia in generale e il mio approccio con essa ai ragazzi disabili; il
secondo paragrafo parla invece del contesto e della sua importanza; il terzo ed ultimo
paragrafo definisce la differenza fra musicoterapia ricettiva e attiva. Ogni paragrafo sarà
a sua volta suddiviso in mini paragrafi.
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Introduzione
Il progetto svolto durante i mesi di project work che andrò a presentare in questa
tesina è un lavoro diviso in più situazioni musicoterapiche. Tale progetto ha comportato
da parte mia la massima partecipazione e il massimo coinvolgimento fisico-emotivo,
permettendomi fin da subito di capire, nonostante questo fosse il mio primo approccio
alla musicoterapia, l’importanza di un dialogo non verbale.
Il centro socio-riabilitativo di San Piero in Bagno è un istituto gestito da una
cooperativa sociale (Cop. L’alveare), dove operatori specializzati (psicologi, psicoterapeuti, educatori), si occupano della riabilitazione e del reinserimento sociale di alcuni
utenti disabili. Il centro svolge attività di assistenza e supporto dalle ore 9.00 alle ore
16.00, mentre per i casi in cui è richiesta un’assistenza costante, è previsto un gruppo
appartamento dopo l’orario di chiusura. In tale sede ho svolto il mio project work,
prendendo in carico un gruppo di quattro utenti. Così, il mercoledì organizzavo sedute
di gruppo con tre di loro, essendo adatti ad una musicoterapia collettiva, mentre con il
quarto, affetto da una grave forma di autismo, ho lavorato individualmente. I tre
componenti del gruppo presentavano patologie più o meno simili, insufficienza mentale
di varia gravità spesso associata a disturbi psicotici e con essi è stato possibile realizzare
delle sedute costruttive, sia per me che per loro. Per quanto riguarda il ragazzo autistico
invece, le probabilità di successo erano sicuramente già scarse in partenza, poiché N. è
ormai adulto e le sue stereotipie sono già in una fase avanzata e di difficile
comprensione e miglioramento. Tuttavia ho potuto riscontrare una serie di feedback
positivi, che mi hanno indotto a persistere nella terapia.
L’idea che mi sono formato della Musicoterapia durante il primo anno di studi, è che la
musica possa penetrare, modificare e rendersi utile anche in molti contesti lavorativi.
Sono arrivato a questa conclusione grazie a esperienze lavorative personali non legate
alla professione del musicoterapeuta, ma totalmente d’altro genere. In particolare mi
riferisco ad una azienda specializzata nella lavorazione di materiale grezzo come pietre
e sassi, nella quale ero impiegato come operaio.
Prima di concentrarmi sulle attività svolte con gli utenti del centro e dei risultati da me
ottenuti, vorrei descrivere alcuni aspetti basilari della Musicoterapia, il lavoro
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Musicoterapico, modelli di musicoterapia, concentrarmi sul significato del contesto e
sulla differenza tra Musicoterapia Ricettiva e Musicoterapia Attiva.
Nascita della musicoterapia
Dai tempi preistorici, in tutte le culture troviamo rituali per curare mediante suoni e
musica. Le forme di cura con la musica, il canto ed il movimento erano rivolte verso la
totalità della persona e, spesso, coinvolgevano il gruppo sociale in un approccio
ecologico alla salute. La continuità di queste pratiche nel tempo è però più ascrivibile a
concetti filosofici e religiosi che alla medicina. Negli ultimi decenni, la Scienza
moderna ha dato un contributo alla comprensione del complesso fenomeno uomo-suono
da differenti prospettive, uno riguarda la moderna fisica dei quanti con la dimostrazione
dello stato della materia come onde e particelle simultaneamente; un altro contributo
viene dalle neuroscienze e dai metodi di indagine mediante strumenti e metodiche
avanzate, come la brain imaging, ecc. Anche i nuovi approcci alla ricerca di tipo
qualitativo nella pratica terapeutica permettono di studiare, in modo scientifico non
deterministico, l’esperienza soggettiva complessa ed i cambiamenti ascrivibili
all’intervento con la musica. Per cui comincia ad emergere l’efficacia specifica
ascrivibile a metodi e tecniche mirati per determinati disturbi con esperienze
musicoterapeutiche ed, in parte, comincia a diventare più comprensibile quello che c’era
di misterioso, come le risposte neurofisiologiche, i processi immaginativi ed emotivi e
la loro associazione alla salute.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti si è cominciato l’utilizzo
sistematico della musica e di esperienze musicali, attive e ricettive, per il reinserimento
dei reduci di guerra, come anche nelle cure palliative (ustionati), nonché nei disturbi
psichici. Successivamente la musicoterapia si è diffusa a livello mondiale, assumendo le
caratteristiche di una vera e propria disciplina e di una professione per interventi in
ambiti molto diversificati (disturbi dello sviluppo e della comunicazione, autismo,
problemi cognitivi, patologie psichiatriche, Alzheimer, handicap psico-fisici, …, ecc.).
Studi e ricerche forniscono dati per la comprensione dell’interazione tra l’essere umano
e la musica ed il suono. Ad esempio, sembra che l’ascolto di musica in uno stato di
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rilassamento, come nella Guided Imagery and Music, influisca sui soggetti abbassando
il livello di beta endorfine nel plasma (McKinney et at., 1994), così come si è
evidenziata una modulazione del sistema oppioide e serotoninergico all’ascolto di input
sonori (Scifo, 1998). Siccome alcuni studiosi sostengono che il sistema oppioide riveste
un ruolo basilare nel modulare il comportamento sociale (Panksepp, 1996) e che gli
psicoterapeuti evidenziano la fondamentale importanza di esperienze emotive molto
intense per modificare i modelli operativi interni, allora gli interventi con la
musicoterapia possono rappresentare modalità efficaci nella prassi terapeutica come
nella promozione e nello sviluppo della salute bio-psico-spirituale.
Definizione di Musicoterapia
La Musicoterapia è una disciplina organizzata ed una professione che presenta aspetti
scientifici, artistici ed interpersonali, raggruppati intorno a due poli principali: la musica
(suono) e la terapia. Gli interventi vengono effettuati nell’area pedagogica, clinicoriabilitativa e per la promozione e lo sviluppo di potenzialità anche nella dimensione
spirituale, sulla base di teorie psicologiche, psicoterapeutiche e modelli clinici. In questa
prospettiva vanno considerati quattro fattori principali: la preparazione professionale di
chi la pratica, i bisogni e le risorse del paziente, la situazione/livello di intervento e le
modalità di approccio utilizzate nel trattamento.
Un’ampia definizione di Musicoterapia è quella della World Federation of Music
Therapy – WFMT (1996):
̀
La Musicoterapia è l’uso della musica e/o di elementi musicali (suono, ritmo,
melodia ed armonia) da parte di un musicoterapista qualificato con un cliente o un
gruppo, in un processo studiato per facilitare e promuovere la comunicazione, la
relazione, la mobilità, l’espressione, l’organizzazione ed altri rilevanti obiettivi
terapeutici, per incontrare i bisogni fisici, emozionali, mentali, sociali e cognitivi. La
Musicoterapia ha lo scopo di sviluppare il potenziale e/o ristabilire le funzioni
dell’individuo in modo che possa raggiungere una migliore integrazione intra ed interpersonale e, conseguentemente, una migliore qualità di vita attraverso la prevenzione, la
riabilitazione o il trattamento.
Il Prof. Kenneth Bruscia, nella seconda edizione di Defining Music Therapy, propone:
‘La Musicoterapia è un processo sistematico d’intervento dove il terapeuta aiuta
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il cliente a promuovere la salute, usando esperienze musicali e la relazione che si
sviluppa mediante le esperienze stesse come forze dinamiche di cambiamento’ (Bruscia,
1998, 20)
Oltre alla definizione, Bruscia offre un contributo rilevante in quanto chiarisce che la
musicoterapia viene praticata nell’area didattica, medica, psicoterapeutica, relativa alla
salute, ricreativa ed ecologica, a quattro differenti livelli di intervento e di responsabilità
clinica del terapista/terapeuta (1998, 163):
 Livello Ausiliario: tutti gli usi funzionali della musica e di ciascuno dei suoi
componenti per scopi associati ma non terapeutici.
 Livello Accrescitivo: ogni pratica nella quale la musica o la musicoterapia è
utilizzata per aumentare gli sforzi di altre modalità di trattamento e per fornire
un contributo di sostegno al piano generale di trattamento del cliente.
 Livello Intensivo: ogni pratica in cui la musicoterapia riveste un ruolo centrale e
indipendente nell’affrontare obiettivi prioritari nel piano di trattamento del
cliente e, come risultato, produce cambiamenti significativi nella situazione
attuale del cliente.
 Livello Primario: ogni pratica in cui la musicoterapia ha un ruolo indispensabile
o originale per i bisogni principali terapeutici del cliente e, come risultato,
induce cambiamenti pervasivi nella vita del cliente.
La Musica e l’esperienza musicale nella pratica terapeutica
Per quanto riguarda l’utilizzo della musica, delle sue componenti e delle esperienze
musicali, ho qui riportato due punti di vista particolarmente rilevanti e significativi, che
possono essere considerati come riferimenti nella pratica, a prescindere dai modelli e
dalle scuole di pensiero.
Il primo riguarda la classificazione del Prof. Even Ruud (in Wigram, Nygaard Pedersen,
Bonde, 2002, 40), che considera quattro livelli nell’esperienza e nelle proprietà
fondamentali della musica:
 Livello fisiologico: il suono come fenomeno fisico, o musica come stimolo.
 Livello sintattico: la musica come fenomeno estetico con le sue forme e strutture,
o musica come terapia.
 Livello semantico: musica come espressione e comunicazione di significati
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metaforici e simbolici, o musica in terapia.
 Livello pragmatico: la musica come fenomeno sociale ed interpersonale, o
musica come comunicazione ed interazione sociale.
Il secondo è quello del Prof. Bruscia, che parte dall’idea che “analizzare le dinamiche
della musicoterapia comporta analizzare i vari modi coi quali il paziente sperimenta la
musica” (Bruscia 1998, 132). Il musicoterapeuta considera, quindi, le esperienze
musicali insieme ai bisogni del paziente, in relazione ad uno, o più, dei sei modelli
dinamici proposti, centrati ciascuno sulle sei proprietà di base dell’esperienza con la
musica:
 Objective MusiC: Musica come esperienza oggettiva (pratiche che utilizzano la
musica come stimolo).
 Universal Music: Musica come forma di energia universale (suoni dell’universo
e vibrazioni della natura utilizzati in quelle pratiche che ritengono che la
“musica è una forma di energia vitale” il cui ordine è efficace per ripristinare un
equilibrio nella salute).
 Subjective
Music:
Musica
come
esperienza
soggettiva
(ascolto
ed
improvvisazione nel processo terapeutico per rappresentare o far emergere
emozioni, modi di relazionarsi, ecc. del paziente).
 Collective Music: Musica come esperienza collettiva in una cornice socio –
culturale per promuovere una ”identità condivisa nelle persone che
appartengono ad una comunità” (es. riti con la musica).
 Aesthetic Music: Musica come esperienza estetica di bellezza e significato.
 Transpersonal Music: Musica come esperienza transpersonale di unione e
totalità.
Le ultime due possibili esperienze sono trasversali e possono essere sperimentate anche
in ciascuno degli altri quattro modelli.
Modelli, Metodi di Musicoterapia e di Musica nell’ambito della salute
Nel panorama internazionale emergono modelli di musicoterapia che presentano un
“approccio sistematico ed originale a metodi, procedure e tecniche, fondato su
determinati principi” (Bruscia 1998, 115), oltre ai metodi e ai procedimenti che
riguardano le risposte fisiologiche alla musica ed alle vibrazioni, la musica in medicina
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e la musica e la salute. Qui di seguito riporterò sinteticamente alcuni modelli per
esemplificare diversi orientamenti e pratiche cliniche. Data la specifica conoscenza
della Guided Imagery and Music - GIM e del Modello Integrato di Musicoterapia.
Behavioural Music Therapy – BMT
Questo metodo è rivolto alla modifica del comportamento in un’ampia accezione
(fisiologico, emozionale, cognitivo, ecc.) e si basa sulle Teorie comportamentali e
cognitive (Madsen et al. 1968). All’interno di questa cornice teorica, la musica è
considerata uno stimolo, una ricompensa, per accrescere o diminuire certi
comportamenti, compresa l’attenzione o il modo di camminare in soggetti con il
Parkinson (Thaut et Alii, 1996). Ai suoi esordi negli Stati Uniti, la musicoterapia si è
sviluppata sui principi comportamentisti. Attualmente questo modello è molto praticato
e diffuso, con un certo numero di studi e ricerche per comprovarne l’efficacia, come
musica in terapia (con metodi attivi e ricettivi), ad un livello accrescitivo, in quanto gli
scopi riguardano specialmente i sintomi, osservabili in comportamenti manifesti
disadattivi, piuttosto che uno sviluppo integrale della personalità o le cause remote del
disturbo. Le aree di applicazione includono problemi di sviluppo, anziani fragili, ecc.
comunque può essere utile nei casi che possono beneficiare di un approccio
comportamentale insieme ad altri interventi.
Free Improvisation Therapy – di Juliette Alvin
Il modello, elaborato da Juliette Alvin dagli anni ’50, prevede l’uso controllato della
musica, da parte del musicoterapeuta, nel
trattamento, nella riabilitazione,
nell’educazione e nella formazione di adulti e bambini che soffrono di disordini fisici,
mentali o emotivi (Alvin, 1975). Sui concetti analitici freudiani, l’Autrice considera la
musica come una creazione dell’uomo e, quindi, l’uomo può vedere se stesso nella
musica che egli compone. Perciò la musica può essere il mezzo per far emergere il
mondo inconscio interiore. Nel suo lavoro clinico, spesso i riferimenti teorici sono
basati su orientamenti umanistici e dello sviluppo, uniti a quelli sulle funzioni
fisiologiche e psicologiche della musica ed alla funzione della musica nei gruppi
terapeutici.
Questo approccio alla musica come terapia, situabile ad un livello accrescitivo e
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primario, prevede di utilizzare insieme al paziente, in una relazione paritetica, metodi di
improvvisazione libera (vocale e strumentale), senza particolari regole stabilite dal
terapeuta o forme musicali già definite e convenzionali (tonalità, armonia, schemi
ritmici, ecc.). Un altro metodo, considerato dalla Alvin un mezzo efficace di
comunicazione ed interazione, riguarda “l’improvvisazione empatica” elaborata dal
musicoterapeuta per riflettere la comprensione che il terapeuta ha del cliente o per
presentarsi al cliente in modo da stabilire una relazione di fiducia e rassicurante.
Il modello include metodi di valutazione descrittiva riguardanti gli effetti della terapia,
della musica come stimolo, le risposte del cliente all’ascolto di brani, le risposte vocali e
strumentali del cliente nelle diverse esperienze musicali.
Analitically Oriented Music Therapy – AOM – di Mary Priesley
Il modello, elaborato dalla violinista Mary Priesley negli anni ’70, è da lei definito come
segue:
‘Analytical Music Therapy è il nome che è prevalso dall’uso simbolico, orientato
analiticamente, di musica improvvisata dal musicoterapeuta e dal cliente. E’ utilizzata
come mezzo creativo per esplorare la vita interiore del cliente in modo da disporre di
una via verso la crescita ed una maggiore auto-conoscenza’ (Priestley, 1994, 3).
La sua cornice teorica include, oltre le teorie analitiche e psicoanalitiche, anche quelle
psicosociali, della comunicazione (tra madre e bambino) e dello sviluppo.
Utilizzato inizialmente con pazienti psichiatrici, il modello AOM è impiegato con
soggetti capaci di simbolizzazione, con bambini ed adolescenti con un ego debole e per
la formazione di musicoterapeuti.
Per scopi d’integrazione, di sviluppo di una meglio definita immagine di sé e di auto
consapevolezza, nella seduta vengono utilizzati metodi di improvvisazione, tonale o
atonale in base alla modalità utilizzata dal cliente per esprimere se stesso, con “regole”
per esplorare con la musica un argomento significativo emerso nel colloquio iniziale
con il cliente. Altre tecniche prevedono la composizione di canzoni o di musica
strumentale, insieme all’utilizzo di musica pre-composta. Non è l’aspetto estetico che
viene considerato ma la funzione che le esperienze ed i prodotti musicali hanno per i
fini terapeutici.
Mediante le scale elaborate da Bruscia, da lui denominate Improvisational Assessment
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Profiles – IAPs (1987), viene valutata sia la musica del terapeuta che del cliente in
modo da rilevarne l’influenza reciproca.
Creative Music Therapy – di Nordoff-Robbins
E’ uno dei più conosciuti ed applicati modelli di musicoterapia centrato sul fare musica,
come terapia. Elaborato dalla fine degli anni ’50 da Paul Nordoff e Clive Robbins e,
successivamente, in collaborazione con Carol Robbins, è impiegato, specialmente con
bambini, con disturbi lievi e gravi di apprendimento (inclusa la Sindrome di Down), con
l’autismo, con handicap psico-fisici, con disturbi dell’udito.
La base teorica fa riferimento alle teorie antroposofiche di Steiner ed alle teorie
umanistiche di Maslow, ritenendo che in ciascun essere umano vi sia un “bambino, o
persona, musicale” che da una risposta innata alla musica. E’ su questa idea e sul potere
della musica che si basano gli interventi del modello rivolti verso l’auto-espressione e la
comunicazione, come anche verso l’autorealizzazione e lo sviluppo di potenzialità
creative, mediante una relazione calda ed accettante che riconosce, rispecchia e rispetta i
sentimenti del “bambino” e le sue scelte. Oltre a requisiti di empatia, al musicoterapeuta
sono richieste eccellenti capacità d’improvvisazione clinica per elaborare musicalmente
le espressioni ed i comportamenti del cliente, durante le fasi della terapia volte a:
‘Incontrare il bambino musicalmente… Evocare la risposta musicale… Sviluppare
abilità musicali, libertà espressiva e mutua risposta…’ (Bruscia, 1987, 45).
Una vasta mole di materiale musicale, da utilizzare nelle sedute e per la formazione dei
musicoterapeuti, è stata pubblicata, come pure sono state costruite numerose scale per
l’analisi e la valutazione della produzione musicale e della relazione bambino/terapeuta.
Infine molti casi clinici, riportati in un’ampia letteratura, testimoniano l’efficacia di
questo modello che è sempre più diffuso a livello internazionale.
MusicMedicin – Musica e Medicina
Dal 1976 la cosiddetta musica ansiolitica è stata utilizzata nel Dipartimento di
Anestesiologia nell’ospedale Sportkrankenhaus Hellersen di Ludenscheid, in Germania,
per alleviare ansia e stress associati ad interventi chirurgici. Dal Simposio internazionale
su “Ansia, Dolore e Musica in Anestesia” è nata la International Society for Music in
Medicine – ISMM, per trattare di tutte le possibili applicazioni della musica in
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medicina. Quest’approccio considera il ritmo come il parametro più potente ed efficace
in musica, anche se sono studiati altri componenti musicali ed i relativi effetti. I due
terzi dei partecipanti a quest’approccio sono medici collegati in una rete con altre figure
professionali in modo da favorire lo sviluppo di ricerche e dati per le applicazioni
terapeutiche della musica in differenti specialità in medicina. MusicMedicine è
penetrata in tutte le aree della pratica medica tradizionale, con una gamma d’interventi
che vanno dal benessere dei neonati ai bisogni degli anziani che soffrono per varie
forme di demenza e fragilità fisica. Esempi degli effetti si hanno sulle funzioni
cerebrali, sui ritmi interni, nella riabilitazione, nelle situazioni pre, peri e post
chirurgiche, nel sollievo dal dolore, con problemi di traumi per ripetuti ictus. Infine
terapie con suoni e vibrazioni sono esempi dell’ampiezza di questa specialità in
medicina (Rebollo Pratt, R. & Spintge, R., 1996).
Obiettivi
Obiettivo della Musicoterapia nella riabilitazione psichiatrica è l’apprendimento (o il
riapprendimento) di norme relazionali socialmente adeguate; fornire quindi al gruppo o
al singolo un mezzo nuovo di esprimersi e comunicare, usufruendo di un linguaggio non
verbale, che, spesso, rimane sconosciuto e inutilizzato. Questo mezzo arricchirà le
possibilità espressive del soggetto per comunicare aspirazioni e bisogni, aiuterà a
rimuovere inibizioni motorie psicologiche, procurerà un certo grado di distensione,
svilupperà la creatività.
La pratica riabilitativa si propone di aumentare le funzionalità corporee residue e
di facilitare la comunicazione sfruttando l’utilizzo di canali alternativi cercando di
migliorare la propriocezione corporea globale, il tono dell’umore, la socializzazione e le
capacità empatiche del gruppo e del soggetto.
Metodologia
In generale la metodologia da usare in musicoterapia deve tener presente e
combinare due prospettive:
 la
prima
dà
importanza
alla
spontaneità,
alla
libera
produzione,
all’improvvisazione;
 la seconda, al contrario, mira all’organizzazione, alla ricostruzione controllata e
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razionale.
Questa seconda prospettiva implica una programmazione ferma, ma anche flessibile e
sempre capace di arricchirsi di nuovi elementi, in pratica aperta all’utilizzazione di
qualsiasi proposta musicale. Verrà quindi fatto uso, a seconda dei casi trattati, di forme
alternative quali la voce, gli strumenti, il corpo e i vari elementi scompositivi della
musica come il ritmo, la melodia, l’armonia. Si cercherà inoltre, (secondo le efficaci
esperienze sulla “globalità dei linguaggi” della Guerra Lisi - Roma) di interessare aree
sempre più vaste della personalità dell’individuo, invitando i pazienti, con modalità ben
precise, a muoversi liberamente, danzare, cantare, disegnare, dipingere, dando luogo a
forme espressive anche di carattere figurativo (ovviamente i due orientamenti devono
continuamente combinarsi e controllarsi in un processo di reciprocità).
Un primo intervento consiste nell’ascolto musicale ed espressione verbale: vengono
proposti brani musicali opportunamente selezionati in base a precise caratteristiche
strutturali e timbriche, ma anche in relazione alla formazione del gruppo in terapia,
tenendo cioè in considerazione il livello culturale medio e le caratteristiche di identità
sonora (ISO Vedi R. Benenzon) individuali.
Un’altra importante via da seguire consiste nell’espressione attraverso gli strumenti
musicali: questa modalità rappresenta un ulteriore tentativo di attivare processi
comunicativi e animare un setting relazionale.
Setting
Il setting è il luogo dove si scambiano e si aprono emozioni, dove il problema non
è considerato solo espressione di disagio, ma il disagio è espressione di terapia e forza
per combattere qualcosa che infastidisce il contesto quotidiano della persona. Per avere
un buon setting, per facilitare la libera espressione del corpo e della psiche
dell’individuo, il terapeuta dovrà impegnarsi a scegliere una stanza di dimensioni
adeguate, non troppo piccola per non impedire il movimento corporeo, ma neanche
troppo grande per creare dispersione fra gli individui. Dovrà stare attento alla scelta dei
colori della stanza, dovranno essere presenti colori tenui o neutri per non sviare
l’attenzione dei pazienti, sarà arredata di soli materiale essenziali, come un mobile
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contente gli strumenti, qualche tavolo e sedia; possibilmente dovrà avere un pavimento
in legno per consentire il contatto delle vibrazioni con il corpo; qualsiasi suono fuori dal
setting dovrà essere incluso nella seduta (operai al lavoro, canto degli uccelli) e
ovviamente il terapeuta dovrà disporre del suo strumentario G.O.S. Ogni
Musicoterapeuta deve avere un proprio G.O.S. e con questo insieme di strumenti, il
musico terapeuta lavorerà con i pazienti, sia individualmente che in gruppo. Gli
strumenti saranno sempre gli stessi; se ne inseriranno dei nuovi solo eccezionalmente, a
seconda della strategia d’intervento decisa dal terapeuta. Quanto più a lungo il
musicoterapeuta manterrà nel suo percorso professionale il Gruppo operativo
Strumentale (G.O.S.), tanto più chiare saranno le sue percezioni e la sua comprensione
del legame con il paziente, e più facile il riconoscimento della scelta dello strumento
come oggetto intermediario.
Il setting può svilupparsi sia all’interno di una struttura che all’aperto, come nei pressi
di laghi, fiumi o prati di montagna, e in qualsiasi altro posto dove il terapeuta pensi
possa ricevere importanti feedback da parte dei pazienti. Un altro aspetto importante per
un buon setting, è la messa in gioco del corpo e della mente da parte del terapeuta. Egli
dovrà immergersi nel problema presentato, capirlo ma soprattutto accettarlo, perché
qualora non vi fosse la completa padronanza delle capacità terapeutiche, così come delle
facoltà umane, egli non potrebbe creare un sano legame con il paziente ed il suo
problema. Quindi il terapeuta avrà modo, attraverso gli studi fatti, le competenze
acquisite, le esperienze personali, di rafforzare il proprio carattere e la propria
padronanza terapeutica.
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La mia esperienza musicale nella pratica terapeutica
I membri del Gruppo/Anamnesi
I Membri del gruppo
I tre utenti che compongono il gruppo sono due uomini di 30(E.) e 58(L.) anni e una
donna di 31(S.)
Anamnesi di L.
L. sano di nascita, viveva tranquillamente con i genitori e la sorella nel paese di
San Piero in Bagno, ma la sua adolescenza resterà profondamente segnata da un
lutto:all’età di dodici anni egli assistette all’incidente nel quale il padre perse la vita. Da
qual momento in poi L. si è chiuso in se stesso, rifiutandosi di comunicare con il mondo
esterno e di esternare le proprie emozioni. Ora vive nel centro di San Piero in Bagno e
manifesta irritabilità, depressione e scarsa convinzione nei propri mezzi, il che l’ha
condotto a una sorta di regressione. È questo il motivo per cui L. non risponde a
nessuno stimolo, al contrario s’irrita a qualsiasi domanda gli venga rivolta
dall’operatore. Egli produce suoni inarticolati al posto di parole e ciò avviene
soprattutto quando si guarda allo specchio.
Nel corso dell’anno 2008/2009 L. ha mantenuto stabili le sue autonomie con un lieve
incremento nelle abilità pratiche, laboratoriali e di vita quotidiana in generale. Nel corso
del tempo risulta essere meno frettoloso, dimostrandosi più concentrato nello
svolgimento dei compiti assegnati, soprattutto in caso di attività che non richiedono un
alto grado di precisione. Si sono verificati anche episodi in cui l’utente riesce a livello
cognitivo a organizzare ed elaborare correttamente più informazioni date dall’operatore,
per esempio se l’operatore gli fornisce una serie d’informazioni per trovare un oggetto
situato in una stanza diversa da quella in cui si trova riesce a portare a termine il
compito assegnato. Tutto ciò è supportato da una maggiore comunicazione verbale: in
caso di difficoltà nel portare a termine il compito, egli comunica a parole ciò che sta
cercando e che non riesce a trovare; non rimane quasi mai bloccato senza sapere come
affrontare il problema, ma si rivolge all’operatore per essere aiutato; oppure se
l’operatore gli chiede il motivo per cui non ha svolto quella mansione capita più
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raramente che risponda con un boh?!, ma la risposta è pertinente alla domanda.
All’interno del G.A. si è sempre cercato di creare collaborazione fra gli abitanti della
casa; L. è sicuramente una di quelle persone che ha partecipato abbastanza attivamente
(nei periodi in cui manifestava una maggiore apertura relazionale), per cui lo si è
coinvolto ulteriormente, valorizzandolo con rinforzi positivi, andando a fortificare così
il suo io fragile ed innalzare la sua autostima. Ultimamente L. è più sciolto nei
movimenti, questo lo facilita anche nelle autonomie: si allaccia le scarpe con minor
difficoltà, quando dà lo straccio si abbassa senza fatica, mentre in passato appariva più
rigido etc., ora quando si veste è più attento nel mettere gli indumenti in modo
appropriato (riconosce il dritto dal rovescio) e non dimentica nulla. Per quanto riguarda
l’aspetto relazionale, non sempre utilizza le stesse modalità di approccio all’Altro:
queste rispecchiano la sua maggiore o minore apertura del momento, dimostrando di
avere giornate in cui è propenso ad accettare e a ricercare un contatto sia fisico che
verbale, mentre altre in cui tende ad isolarsi sia fisicamente che mentalmente. Con
l’utilizzo della Musicoterapia L. sembra essere più presente e partecipe alla vita
quotidiana, manifestando interesse a tutte le attività e molte volte agli stimoli
dell’operatore. Un altro punto importante che L. dovrà superare sarà l’immagine di se
stesso rispetto al mondo: non accetta la propria figura riflessa allo specchio, provando
forte disagio ed emettendo gemiti e lamenti. Ho trovato difficile far capire ad L.
l’importanza ed il giusto peso da attribuire al cibo. L. infatti non accetta domande e frasi
di senso compiuto, quando esse si presentano scatta in L. ira trasformata in pianto per
non poter mangiare quello che lui desidera e quando lo desidera. Tutto ciò mi porta ad
intuire il grosso senso di vuoto che L. ha dentro di sé, come se niente potesse riempirlo,
come se il cibo fosse per lui l’unica fonte di sollievo e gioia momentanea. Ma non è
così. L. attacca e divora il cibo in brevissimo tempo, come a voler colmare il vuoto
dentro di sé.
Le attività che piacciono di più a L. sono la pittura, il canto, la libera espressione
attraverso uno strumento e tutte quelle tecniche in cui si usa molto il tatto.
Per quanto riguarda la pittura, egli predilige situazioni in cui non vi siano schemi da
seguire, così la sua lunga ed energica pennellata dà sfogo alla sua ansia ed alla sua
insicurezza interiore.
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Mi sembra dunque opportuno accennare alla modalità di percezione del colore da parte
degli esseri umani. Possiamo infatti constatare che tutti i colori che si riferiscono alle
ore notturne sono quelli che rallentano il ritmo e che vanno dal viola al blu, al verde,
che sono freddi; tutti i colori che vanno dal giallo, arancione al rosso, marrone sono
invece colori caldi. Se vediamo un qualcosa di giallo, arancio o rosso questo ci
comunica una sensazione di apertura, di allegria, di attività. L’azzurro e il verde, sono
invece più distensivi, si suole dire: “vado a distendermi al mare o in collina”. La luce
agisce sulla respirazione poiché venire alla luce è coinciso con il primo atto inspiratorio
di assorbimento dell’ambiente vitale. Il primo piacere è la sensazione di luce, infatti la
luce ci garantisce la sopravvivenza; la luce è una spinta a vivere. Al contrario, quando
subentra uno stato depressivo di esaurimento o diminuzione della proiezione di sé, per
difesa dalla realtà o regressione, non ci va più di metterci in luce, si sta (si vive) in
penombra. Per questa ragione, con gli individui affetti da handicap è possibile
recuperare il piacere, utilizzando sia il suono che il colore. Infatti, L. predilige colori
come il rosso e il nero: rosso è il momento della scarica dell’energia che ormai è stata
canalizzata verso il raggiungimento del desiderio, il momento dell’investimento
energetico totale. Le persone che si esprimono sempre in rosso, descrivono
inconsciamente un grande bisogno di scarica, per esempio, un bambino che si esprime
in rosso ed in nero, ci dice del suo gran bisogno, gran piacere, nello scaricarsi, ma che
normalmente questo bisogno gli viene boicottato. Il nero, infatti, trattiene tutto dentro di
sé, manifestando negazione alla luce con aggressività e contrasto.
Per quanto riguarda invece le attività musicali, L. ama il flauto. Cambiando setting e
posizione degli strumenti egli sceglie sempre questo strumento, che suona forte e senza
il supporto di una base ritmica, mentre non degna nessuno di uno sguardo,
concentrandosi esclusivamente sul proprio strumento. Appena smette di suonare, ritorna
al consueto dondolamento che lo contraddistingue. Un altro strumento del quale si serve
è la voce: egli infatti ama cantare, soprattutto canzoni della sua giovinezza come quelle
di Battisti, dei Nomadi e alcuni canti romagnoli. Egli è abbastanza intonato e in questo
caso riesce a seguire il ritmo delle canzoni.
Al di fuori del contesto musicoterapico, ho potuto osservare L anche in situazioni di vita
quotidiana: una buona colazione, la lettura del giornale al bancone del bar, l’aperitivo
prima di pranzo costituiscono per lui un’esperienza piacevole e gratificante in cui egli
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possa sentirsi ben accetto ed integrato.
Anamnesi di E.
E. ha trent’anni, vive dall’Aprile 2008 a Monteguidi, una frazione del comune di
Bagno di Romagna. In passato viveva nei pressi di un paesino modenese e frequentava
un centro diurno in cui faceva a seconda della giornata attività di: musica (ama suonare
il tamburo), biblioteca (lettura di libri, giornali, fiabe per le quali era previsto un
confronto con gli altri utenti), giochi come la tombola o semplici mansioni da svolgere
presso negozi di frutta e verdura locali, equitazione. E. sembra una persona con
maggiori potenzialità rispetto a quelle che tende ad utilizzare. Nelle autonomie sembra
avere poche risorse: deve essere seguito nell’igiene intima, non si pulisce dopo aver
espletato le proprie funzioni corporali e presenta difficoltà durante i pasti. Egli infatti
tende a mangiare poco se non stimolato dall’operatore, inoltre talvolta rigurgita il cibo.
E. beve tantissima acqua e si ferma solo al rimprovero dell’operatore; non taglia la
carne da solo. Nelle attività tende ad essere abbastanza passivo prima di iniziare, per
questo deve essere continuamente stimolato e se viene richiesta la sua partecipazione,
probabilmente la sua risposta sarà negativa. E. presenta inoltre dei tratti ossessivi: odia
sporcarsi le mani, detesta trovare oggetti fuori posto, è schivo al contatto fisico.
Tra le attività che E. predilige vi è il canto, infatti egli conosce quasi tutto il repertorio
musicale italiano, soprattutto se si tratta di Celentano, la cui musica permette di
instaurare delle situazioni di gioco e piacevole armonia sia con me che con gli altri
operatori. Ad esempio, durante l’ora di viaggio dalla sua abitazione alla struttura, mi
sono trovato più volte ad improvvisare, fischiettando o cantando i motivi da lui
prediletti. E. mi guardava sorridendo, portando le mani a livello del collo in forma di X.,
poi subito l’esplosione: egli iniziava a cantare seguendo il tempo da me imposto,
correggendomi qualora non ricordassi le esatte parole del testo.
Al contrario di L., E. non ama affatto pitturare in quanto teme di sporcarsi. Infatti, se
non esortato dall’operatore, tende ad isolarsi e a rifiutarsi di partecipare all’attività.
Questo sua difficoltà è causata in parte dalla madre, altrettanto ossessionata dalla
pulizia.
Ritengo ora necessario fare un breve cenno alla situazione familiare di E.. La madre di
E. presenta qualche tratto maniacale–depressivo, che si ripercuote sul figlio. La sorella
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invece, sposata e madre di una bambina di due anni, chiama E. zio, aspettandosi che egli
agisca di conseguenza. Per questo E. si sente molto responsabilizzato, il che a volte fa
crescere in lui un po’ di ansia.
E. ama inoltre suonare il pianoforte, il triangolo, il tamburo, le maracas e la chitarra.
Ogni volta che facciamo attività di questo tipo, come ad esempio improvvisazioni al
pianoforte, E. si mostra subito attento e desideroso di mettersi a sua volta in gioco.
Infine E. non ama dedicarsi alla falegnameria, alla fabbricazione di strumenti
rudimentali, rimanendo in disparte immerso nei propri pensieri.
Attualmente E. è più sicuro di se stesso, durante il viaggio riesce ad aprire da solo lo
sportello dell’auto ed il finestrino qualora lo ritenga opportuno, ad allacciarsi la cintura
ed infine ad inserire il nastro nella radio. Quando l’ho conosciuto invece, circa sei mesi
fa, tutto questo era per lui motivo di ansia, e queste semplici azioni erano ostacoli
insormontabili.
Anamnesi di S.
S. è una ragazza di trentuno anni, vive in un piccolo paese nelle colline toscoRomagnole, frequentando da febbraio 1999 il centro socio riabilitativo di San Piero in
Bagno, data di apertura. Dal momento dell’inserimento nella struttura di S. a oggi
(prima dell’inizio del suo percorso Musicoterapico), ci sono state delle evoluzioni in
diverse aeree: sul piano cognitivo, delle autonomie di base, delle abilità sociali,
relazionali e comportamentali. Ad ogni modo, nel corso degli anni, queste evoluzioni,
sono state interrotte da brusche regressioni, con particolare rilievo in quest’ultimo anno;
talvolta dipese dalla difficoltà nel far propria una fase evolutiva più matura, altre dettate
dalla difficoltà nel gestire le piccole frustrazioni della vita quotidiana, ad esempio: S.
ripone un oggetto personale in qualche posto, dimentica dove l’ha lasciato e
immediatamente manifesta uno scompenso emotivo con atteggiamenti fortemente etero
aggressivi, mettendo a rischio la sua incolumità e quella degli altri utenti; oppure un
utente nello spostarsi la urta involontariamente o semplicemente la sfiora e S., anche in
questo caso manifesta scompensi emotivi con comportamenti fortemente inadeguati.
Queste regressioni sono inoltre caratterizzate dall’assunzione di atteggiamenti
marcatamente infantili (sia nel modo di camminare, di parlare, della gestualità e della
postura). Ad ogni modo, soprattutto a partire da aprile 2008, è stata rilevata una
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maggiore tensione nella ragazza, che si è protratta a fasi alterne, fino al mese di luglio,
ultimo periodo in cui S. ha frequentato il Centro Diurno prima della chiusura estiva.
Questa forte instabilità dell’umore, quando si presenta, ha sempre penalizzato S. nella
partecipazione alle attività laboratoriali di tipo educativo - riabilitativo proposte dagli
operatori; in questi casi la ragazza tende ad allontanarsi dal setting, buttando prima a
terra alcuni oggetti, poi sbattendo le porte e uscendo dal laboratorio urlando
rabbiosamente, in questi casi il viso le diventa rosso bordò, il corpo sempre più
contratto e rigido. Questa sua agitazione ha sempre avuto risvolti negativi anche nella
relazione con gli altri utenti e gli operatori. Infatti, S. esprime la propria sofferenza
interiore attraverso l’aggressività fisica (dando sberle, pugni, calci e sputando) e verbale
(ricoprendo d’insulti chi le è a fianco); è capitato in più occasioni che ha fatto male ad
alcuni utenti e anche agli operatori.
Nel momento in cui S. manifesta la massima agitazione, gli operatori intervengono
cercando di accompagnare la ragazza in un contesto in cui non possa fare male a se
stessa e agli altri utenti. L’operatore si relaziona a S. partendo dalla consapevolezza che
la ragazza sta esprimendo un sintomo di una sofferenza personale profonda e pesante.
Lo sforzo è quello di instaurare un clima accogliente, che possa essere rassicurante per
la persona, nel tentativo di arginare, di circoscrivere temporalmente la manifestazione
acuta. Durante questi episodi il contatto con la realtà è praticamente assente e la persona
sembra essere sempre più assorbita in una dimensione psicotica e delirante. Quando
l’agitazione della ragazza è meno intensa, si è sempre provato ad aiutarla ad esprimere
la sua aggressività mettendola nella condizione di poterlo fare senza vissuti di colpa: la
si è accompagnata nella stanza morbida (stanza appositamente adibita allo sfogo degli
utenti) e le si è offerto la possibilità di prendere a pugni i cuscini, proponendole un
percorso di primo spostamento, da modalità comportamentali aggressive ritenute lesive
ed inaccettabili (etero aggressive), ad un’attività in cui possa esprimere l’aggressività in
modo ludico e innocuo. Quando la rabbia era stata sfogata, gli operatori condividevano
con lei quell’esperienza, affiancandola e sostenendola emotivamente, ed aiutandola nel
riconoscere e valorizzare la serenità raggiunta. Per far fronte all’aggravamento della
ragazza, era stato anche avviato, in accordo con la famiglia, un progetto individuale
all’interno del contesto familiare a partire dal mese di ottobre 2006 dal lunedì al
venerdì; un operatore del centro si recava presso l’abitazione per seguirla dal momento
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dell’alzata. Questo progetto sperimentale avrebbe permesso a S. di avere una figura
professionale che la supportasse fin dal risveglio, in tutte le fasi della preparazione per
agevolarla poi nel distacco dalla famiglia; inoltre sarebbe stato anche di aiuto per la
madre, alleggerendola dalla responsabilità della preparazione della figlia al mattino, che
a sua volta aveva manifestato stanchezza nella gestione dei figli (entrambi con ritardo
mentale). Il progetto, attualmente con una riduzione a tre giorni la settimana, ha dato
risultati positivi, in quanto S. ha avuto minor difficoltà nel passaggio da casa al centro,
ad ogni modo il momento dell’alzata è continuato ad essere motivo di agitazione,
manifestata attraverso comportamenti etero aggressivi fisici e verbali.
Attraverso questa aggressività ed il suo modo regressivo di comportarsi e relazionarsi
agli altri, si è cercato di individuare attività che potessero liberare ma nello stesso tempo
accettare questo sfogo, permettendole di capire e migliorare i suoi stati d’animo. Le
attività a cui è più interessata sono: la pittura, il canto e la produzione sonora di uno
strumento, la bagno terapeutico, il ballo, la cura della persona e le passeggiate
all’aperto. Ovviamente le decisioni e la partecipazione alle attività avvengono attraverso
i suoi stati d’animo.
Il mio progetto di Musicoterapia prevede l’inserimento di S. all’interno di un gruppo, in
modo che essa possa accettare i propri stati d’animo e soprattutto aprirli al gruppo,
imparare l’importanza del lavorare insieme, affrontare più serenamente gli aspetti
quotidiani della vita e rafforzare il proprio carattere.
Così le ho proposto attività di libero sfogo con strumento, accompagnandola in certi
momenti ad un livello ritmico-musicale da me prefissato, attività di pittura, balli di
gruppo o libera espressione corporea ed insieme ad altri operatori ho seguito le attività
di “cura della persona” ed “bagno terapeutico”, quest’ultimo accompagnato da musiche
appropriate.
Tale progetto ha permesso a S. quindi di riscontrare minore difficoltà nel passaggio da
casa al centro, di conseguenza le attività da lei svolte hanno dato migliori risultati e
motivo di fiducia per gli operatori. S. predilige la pittura, manifestando particolare
interesse per i disegni di grandi dimensioni, per questo adora la pittura effettuata con i
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piedi oppure quella che le permetta di dar sfogo a grandi pennellate continue. S. ama
anche spalmarsi il miele caldo sulle mani per poi tracciare dei segni. Ama dedicarsi alla
falegnameria, in particolare alla costruzione di strumenti musicali e cornici in legno.
Un’altra attività molto importante per lei, proposta dalle operatrici del centro, con le
quali ho collaborato in alcuni casi, è la cura della persona. Le piace infatti mettersi in
mostra, sfoggiando un bel vestito ed un volto truccato. S. è molto loquace, infatti
durante le uscite racconta di sé a chiunque incontri per strada. Essa adora andare nella
piscina termale: in questo modo può rilassarsi e abbandonarsi a se stessa. Infine, S. ama
cantare, in modo del tutto personale, le sue canzoni preferite, soprattutto quelle di Neck.
Ad esempio se le propongo Laura non c’è S. la rende in questa maniera: “Laura non
c’è, è andata via eh eh eh via, Laura eh eh eh eh via, cosa mia”. Ciò deriva dalla sua
difficoltà nel pronunciare le parole. A partire da questi suoni ho deciso di svolgere delle
attività sulla pronuncia dei suoni vocalici, che le
permettessero una miglior
articolazione delle parole. Spiegherò più approfonditamente questa attività quando
descriverò le sedute di musicoterapia.
Sedute di musicoterapia: setting e attività
I setting che ho proposto nelle diverse
attività sono stati adattati ad ogni situazione nel
modo consentito, e soprattutto agli utenti con cui
dovevo operare. Per prima cosa ho cercato di
individuare una stanza o un luogo ideale dove
l’iso musicale di ogni paziente potesse emergere
così da instaurare una comunicazione. Una
stanza il più possibile isolata dai rumori esterni e
caratterizzata da colori poco sgargianti per
evitare di distogliere l’attenzione degli utenti.
Tuttavia, la più parte delle volte mi sono trovato
a lavorare in condizioni ben lungi da quelle
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appena descritte. Questo perché sono stato il primo ad inaugurare un’esperienza
musicoterapica al centro, mentre in passato si cercava, ad esempio attraverso i colori
della struttura, di distrarre gli utenti coinvolgendoli in un’atmosfera di allegria e
armonia. Spesso dunque durante le sedute l’attenzione degli utenti veniva meno, il che
mi arrecava grandi difficoltà.
Seduta di gruppo
Collocando alcuni strumenti al centro della stanza (Benenzon identifica il centro
come raccoglitore di emozione e disagi e lo chiama posizione del fuoco) sistemavo il
gruppo in cerchio attorno ad essi, delineando, sia verbalmente o semplicemente
suonando, lo svolgimento della seduta. L’attività era generalmente aperta da una fase di
riscaldamento finalizzata a scaricare le energie e ad incanalarle sui tamburi o su
qualsiasi altro strumento a percussione, costruito da noi stessi oppure presente nella
struttura. Questa fase mi permetteva di armonizzare il gruppo e di creare una relazione
per quanto possibile terapeutica attraverso l’uso di tali strumenti. Osservando la scelta
degli strumenti potevo già intuire le sensazioni e gli stati d’animo degli utenti e pormi
delle domande sul perché di tale scelta. Ogni strumento a mio avviso possiede un suo io,
ovvero ogni strumento ha una sua speciale caratteristica che permette di avvicinarsi ai
pazienti scavando e rivelando il loro profondo.
Prima di passare allo svolgimento delle sedute vere e proprie è dunque necessario
mettere in chiaro quali siano gli strumenti utilizzati in musicoterapia e come questi
possano essere classificati e ricordare inoltre quale sia la modalità di intervento alla
quale il musicoterapeuta dovrebbe il più possibile attenersi.
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Classificazione degli strumenti
Una classificazione che abbraccia la maggioranza degli strumenti esistenti,
convenzionali e non, folcloristici o di fabbricazione spontanea, è quella di HornbostelSachs e prevede:
 IDIOFONI
 AEROFONI
 MEMBRANOFONI
 CORDOFONI
 ELETTROFONI
La classificazione degli strumenti corporeo-sonoro-musicali da utilizzare in
musicoterapia secondo Benenzon prevede:
-
CORPORALI
-
NATURALI
-
QUOTIDIANI
-
CREATI convenzionali
-
MUSICALI: non-convenzionali, folcloristici, primitivi
-
ELETTRONICI
Corporali
Il corpo umano è lo strumento più importante fra tutti quelli che il musicoterapista ha a
sua disposizione. Il corpo in sé può convertirsi in un idiofono, un aerofono, un
membranofono e un cordofono. Infatti tutti gli strumenti hanno origine dal corpo umano
e sono, in linea di principio, un prolungamento di questo. Ricordiamo che il corpo è il
primo strumento ad essere utilizzato nel relazione che si stabilisce tra la madre e il feto
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e, successivamente, tra la madre e il neonato. Il musicoterapista deve imparare a
riconoscere appieno il proprio corpo e a sfruttarne tutte le potenzialità sonorovibrazionali. Il suo allenamento personale è rivolto a eliminare blocchi psicologici,
pregiudizi e inibizioni che potrebbero impedirgli di esprimersi liberamente attraverso il
corpo.
Naturali
Definiremo strumenti naturali quegli oggetti che si trovano spontaneamente nella natura
e che producono dei suoni da se stessi senza il concorso delle mani dell’uomo.
Quotidiani
Uno strumento quotidiano è quell’oggetto di uso giornaliero capace di produrre suoni
per il solo fatto di essere usato.
Creati
Si tratta di strumenti che sono il prodotto della combinazione, modificazione e
ristrutturazione, operate dall’uomo, delle suddette categorie. In Musicoterapia gli
strumenti creati sono quelli fabbricati, creati o improvvisati dal paziente o dal
musicoterapista con l’obbiettivo di stabilire un vincolo mediante il loro uso. Questi
strumenti sono fabbricati con i materiali più diversi, con oggetti della vita quotidiana,
dando così origine a un insieme polimorfo che favorisce la libera proiezione di chi li
fabbrica. Gli strumenti creati hanno caratteristiche tali che li portano ad essere fra quelli
più importanti nella pratica musicoterapica.
Musicali convenzionali
Sono fabbricati su scala industriale o artigianale e sono propri di una determinata
cultura, alla quale appartengono sia il paziente sia il musicoterapista. Tutti questi
strumenti comportano una determinata forma di esecuzione e richiedono un certo
tirocinio per arrivare a produrre dei suoni già formati.
Musicali non-convenzionali
Sono quegli strumenti fabbricati che hanno smesso di appartenere o non hanno mai fatto
parte della cultura proprio del paziente. Questi strumenti posti nel setting
musicoterapico provocano curiosità e possono stimolare domande di tipo verbale.
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Folcloristici
Sono quegli strumenti artigianali che, al pari di quelli folcloristici veri e propri, hanno
un preciso carattere etnico.
Elettronici
Appartengono a questa categoria tutti i riproduttori di suoni, come l’audio registratore,
il lettore di compact-disc, i sintetizzatori, i computer, etc.
Classificazione degli strumenti secondo il loro uso
-
oggetto sperimentale;
-
oggetto catartico;
-
oggetto difensivo;
-
oggetto incistato;
-
oggetto intermediario;
-
oggetto integratore.
Oggetto sperimentale
Quando accede a un setting di Musicoterapia il paziente è colpito dalla vista degli
strumenti. Questo provoca in lui il bisogno di guardarli, osservarli, toccarli e suonarli
istintivamente. Il paziente ne sperimenta la percezione tattile, la forma, il colore, il
suono, sollecitandone le risonanze etniche.
Oggetto catartico
Lo strumento oggetto di sperimentazione permette a poco a poco di cominciare a
scaricare la tensione accumulatasi.
Oggetto difensivo
L’elemento ignoto del setting va a sommarsi a quello rappresentato dagli altri pazienti
appartenenti al gruppo, scatenando così una sensazione persecutoria. Lo strumento e la
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produzione sonora permettono al paziente di occultare le pulsioni interne destate in lui
dalle ansie che lo allarmano. Il paziente tende a mantenere lo strumento scelto per tutta
la seduta; gli sarà difficile sceglierne un altro.
Oggetto incistato
Alcuni pazienti trasformano lo strumento in una specie di “ciste” avvolta dal proprio
corpo. Lo strumento non viene utilizzato per produrre suoni, ma viene manipolato. In
particolare i pazienti affetti da autismo prendono lo strumento e lo avvolgono con le
mani o con la bocca.
Oggetto intermediario
Si tratta di qualunque oggetto capace di permettere il passaggio di energia comunicativa
da un individuo all’altro.
Oggetto integratore
È l’oggetto che permette la comunicazione tra vari individui.
Modalità d’intervento
Osservazione: nei primi momenti di una seduta il musicoterapeuta deve astenersi
dall’agire, produrre o esprimersi. La tecnica suggerisce di saper aspettare. E’ la
posizione della ricettività che gli permette di ascoltare, percepire, ricevere, accettare,
comprendere.
Associazione corporea Ð sonora Ð musicale: questo termine ricorda quello delle
associazioni libere che il paziente effettua nelle psicoterapie verbali. Il paziente
comincerà ad esprimersi liberamente e il musicoterapista potrà cominciare ad usare le
associazioni corporeo-sonoro-musicali. Generalmente queste associazioni sono il
risultato anche dell’elaborazione dei contenuti transferali e contro transferali.
Isolamento riflessivo-attivo: il musicoterapista smette di attuare e scinde la sua
attenzione fra ciò che sta succedendo fuori e ciò che sta succedendo in se stesso. E’ il
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momento di maggior contatto con le sensazioni di controtransfert, in cui si distingue ciò
che proviene dal paziente e ciò che proviene dalle proprie sensazioni.
Sequenze tecniche proprie del contesto non - verbale
In un semplice processo di comunicazione in musicoterapia vengono ripercorse tappe
simili alle seguenti:
 Imitazione: il musicoterapeuta prova l’eco ritmica, risponde in maniera
esattamente uguale a ciò che esprime il paziente. Quest’eco ritmica significa che
il musicoterapista ha compreso il paziente, che lo ha ascoltato. Utilizza lo stesso
strumento o un altro simile. E’ un atteggiamento molto simile a quello di una
madre che di fronte ai primi balbettii di un figlio risponde imitandolo ed
utilizzando la stessa parte del corpo che ha utilizzato il figlio.
 Imitazione parziale: il musicoterapeuta accompagna la manifestazione
espressiva del paziente o risponde imitandolo, però in un’altra tonalità o
modificando alcuni aspetti o parametri della produzione sonora.
 Domamda-Risposta: il paziente si esprime e il musicoterapeuta risponde con
altre sequenze o altre produzioni sonore e utilizza un altro strumento.
 Associazioni Corporeo-Sonoro-Musicali: dalla somma di tutto ciò possono
sorgere nel musicoterapeuta espressioni o produzioni sonore riguardanti
l’impatto che il fenomeno comunicativo con questo paziente sta avendo su di lui
e che lo porta ad agire di conseguenza.
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La scelta degli strumenti e il procedere della seduta
Durante le sedute ho potuto constatare che spesso gli utenti erano attratti da uno
strumento in particolare, L., ad esempio, si concentrava sull’utilizzo del flauto,
scoprendo poi che quel suono gli ricordava il fischio di un treno con a bordo un
familiare(in genere la madre). Essendo L. uno degli elementi più attivi nel gruppo, ho
spesso deciso di porre il flauto al centro della terapia di gruppo, forse anche per il fatto
che io personalmente ricevevo molte sensazioni da questo strumento. Così ho spesso
costruito attraverso di esso la musicoterapia di gruppo, affidando agli altri ragazzi
strumenti che potessero ricordare alla lunga il fischio di un treno, ma che fossero per
loro motivo di attenzione ed espressione. L. è stato dunque un tramite tra me e tutto il
gruppo in quanto a causa sua ho modificato i setting prefissati. Solo alla fine dell’intero
percorso musicoterapico ho scoperto che gli strumenti utilizzati richiamavano alla
mente degli utenti un ricordo indelebile dell’infanzia e non solo, un ricordo ancora vivo
in loro e che associavano alla fine del mondo, intesa come espressione della massima
realizzazione. Ad esempio, E. preferiva il triangolo, il cui suono può ricordare la
partenza o l’arrivo di un treno, se ci riferiamo all’immagine creata da L., S. invece
prediligeva il tamburo, l’ansia della partenza oppure l’andamento del treno.
Dopo la fase di riscaldamento la seduta andava da sé, nel caos più totale mi avvicinavo
ad ognuno di loro cercando nel loro sfogo un ritmo che mi permettesse di muovermi e
di interagire con loro. Dopo qualche minuto cambiavo strategia, richiamando la loro
attenzione ed improvvisando a mia volta un ritmo che potesse entrare in comunicazione,
in modo che il mio ruolo potesse essere visto da loro, come portatore di calma e di
tempo per se stessi. Dopo aver improvvisato e trovato un ritmo giusto, che permettesse
al gruppo di armonizzarsi ma che possibilmente lasciasse aperto canali di libero
sfogo(non insistevo su di un solo ritmo, ma attraverso i feedback che percettivo dai
singoli utenti cambiavo la base ritmica, permettendo così al gruppo di aver altre
possibilità di sfogo e di non monotonia musico-emozionale), cercavo di dare spazio alle
emozioni che gli utenti esprimevano sia nel movimento corporeo che nello strumento
suonato. Quindi il mio obbiettivo era di dare tempo all’ansia, cancellare i brutti pensieri,
vivendo momenti più sani. Un po’ di tempo, soprattutto in L., vuole dire tanto, trovarlo
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significa allontanarsi dall’indebolimento del corpo e della mente, dall’ansia della vita e
tutto quello che essa comporta (mangiare, dormire, star bene al mondo). Attraverso il
mio ritmo davo loro un tempo, così da poter entrare in sintonia con loro e aiutarli a
superare le difficoltà che la vita comporta in una maniera diversa. Ad esempio infatti L.
si comporta costantemente come se non avesse tempo, mangiando, lavandosi e
vestendosi ansiosamente e nervosamente. Lo stesso vale, anche se in maniera più
attenuata, per gli altri utenti. Attraverso la musicoterapia ho cercato in qualche modo di
definire il loro tempo e creare spazio nella loro vita.
Altre volte invece usavo come intermediario l’uso della voce. Questo è uno strumento a
mio avviso importantissimo, cha dà vita non solo alle parole, ma anche alle emozioni.
Con il gruppo in carico ho potuto, attraverso l’uso di musicoterapia ricettiva, lavorare
attraverso la voce. Questa tecnica mi ha permesso di entrare a stretto contatto con gli
utenti e di scavare nel loro profondo attraverso le parole delle canzoni. Ognuna di esse
era indirizzata ad un utente a seconda dell’età, del sesso e del carattere. Ad esempio con
L. sceglievo canzoni classiche italiane degli anni 60/70 come quelle di Battisti,
Celentano e tanti altri, insomma musiche che sono nate e cresciute insieme ad L.; con E.
invece sceglievo canzoni più moderne, dei Nomadi, di Ligabue, di Vasco Rossi, sebbene
lui fosse appassionato soprattutto a Celentano, il suo mito; infine con S. mi sono
semplicemente adeguato alle sue richieste. Le canzoni che mi richiedeva erano
soprattutto di Nek, in seguito sono stato io a farle conosce Ligabue. Quest’attività, come
ho già detto, mi ha permesso ancor più di una seduta basata sull’utilizzo di strumenti, la
creazione di uno stretto legame con gli utenti, in quanto le parole dei testi delle canzoni
erano segnali che in ogni momento essi inviavano a me e agli operatori che di volta in
volta mi affiancavano nel mio progetto.
Un’altra seduta che mi ha particolarmente affascinato, coinvolto e stupito è stata quella
in cui ho utilizzato il mio strumento, il contrabbasso, durante l’attività musicoterapica.
Si sa che questo non è lo strumento più adatto per tale disciplina, anche perché non è
facilmente maneggevole, ma i feedback che ho ricavato mi hanno permesso di riflettere
a lungo. Assieme agli altri operatori del centro ho stabilito un giorno in cui potesse
essere svolta questa attività, che è stata così fissata in quattro mercoledì successivi. Con
l’aiuto dei miei colleghi, anche loro partecipanti all’attività, ho adibito una stanza
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sistemando tavoli e divani nell’angolo più lontano dalla porta e fatto posizionare in
ordine sparso su dei materassini gli utenti del centro. Brandendo il mio strumento, mi
sono sistemato nel limite del possibile in mezzo agli utenti ed ho iniziato a mettere in
vibrazione le corde, per richiamare la loro attenzione. Dopodiché, mi sono avvicinato ad
ognuno di essi con lo strumento, appoggiandolo su una parte del loro corpo in modo che
potessero percepirne le vibrazioni. Successivamente, ho posto una sedia nel centro della
stanza facendovi sedere uno ad uno gli utenti col volto rivolto verso lo schienale della
sedia, di modo tale che la loro schiena fosse appoggiata e sostenuta dalla parete
posteriore del contrabbasso. Il risultato è stato inaspettato: dalla loro espressione potevo
percepire la sensazione di benessere e stupore, che mi ha fornito un ulteriore spunto per
lo svolgimento delle sedute successive. Le vibrazioni che esso produceva facevano si
che l’utente percepisse nuovi stimoli, instaurando un nuovo contatto con la realtà.
Questo genere di attività è in genere svolto con non vedenti che hanno fatto del tatto lo
strumento privilegiato di percezione esterna. Grazie alle vibrazioni infatti, essi riescono
ad orientarsi nello spazio e a percepirlo. Tramite questa esperienza volevo far capire agli
utenti del centro come il loro corpo fosse vivo, carico di vibrazioni al pari di quello del
contrabbasso.
Un’altra attività svolta con tutto il gruppo, è stata quella del “bagno terapeutico”.
Immergendosi nell’atmosfera pacata, tranquilla creata dall’acqua, il soggetto rivive le
sensazioni già vissute nel grembo materno. Ad uno stato di rilassamento si aggiunge il
contatto corporeo, con l’obbiettivo primario di una ridefinizione del confine tra il sé e il
non-sé recuperando il concetto dell’Io-pelle, con lo scopo cioè di ottenere una migliore
percezione del sé. In tale ambito si lavora anche sulle autonomie di base. Un giorno
prestabilito a settimana, il martedì, ci recavamo nella piscina termale di uno
stabilimento di Bagno di Romagna, per rilassarci e dare la possibilità agli utenti di
inserirsi in un contesto nuovo, rilassante, ma anche moderno ed elegante. Quest’attività
permetteva sia al gruppo preso in carico che il ragazzo autistico con il quale lavoro
individualmente, di esprimersi solo ed esclusivamente attraverso il movimento del
proprio corpo. Ciò ha permesso agli utenti di distaccarsi, almeno momentaneamente, dai
propri pensieri e dalle proprie preoccupazioni e di dar libero sfogo alle proprie
emozioni. Quest’attività è stata indubbiamente utilissima per L., che manifesta enormi
difficoltà nel comunicare un suo stato d’animo, oppure semplicemente nell’accettarlo,
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nonostante le sue capacità
mentali
non
impediscano.
risultato
glielo
Un
altro
importante
di
questa terapia è l’effetto
immediato
che
ha
provocato l’acqua in N, il
ragazzo autistico del quale
parlerò
più
approfonditamente
nei
paragrafi successivi. Egli
appariva molto più rilassato, cullato da quell’acqua che era forse per lui un ricordo del
grembo materno. E così anche gli operatori ne hanno tratto vantaggio, potendosi
rapportare all’utente in maniera più serena e proficua. Questo potere rilassante e lenitivo
dell’acqua termale, unito ad un contesto accogliente e giocoso, forse dettato anche dalla
scelta del sottofondo musicale (alternavo musiche propriamente da massaggio e
rilassamento a musiche blues-jazz) che utilizzavo per queste sedute termali, riusciva
anche una volta finita la piscina a far rimenare tranquilli e sereni tutti gli utenti fino alla
chiusura del centro.
Le tecniche qui elencate mi hanno permesso di lavorare proficuamente con tutti gli
utenti e di mettermi alla pari in gioco. Da queste sedute inoltre ho tratto un
insegnamento fondamentale: l’importanza di saper aspettare, di cogliere il momento
giusto e di non lasciarsi sfuggire quei segnali che gli utenti inviano quando meno ce lo
aspettiamo, per tentare di capire il perché delle loro scelte e quali significati essi gli
attribuiscano. Tutte queste cose insieme mi hanno permesso un lavoro attento, dandomi
prima di tutto la possibilità di muovermi in qualche direzione, di ipotizzare una scelta
appropriata in base al tipo di feedback ricevuto. Saper cogliere l’aspetto verbale è
dunque di vitale importanza, così come lo è il poter risalire al contesto della persona,
alla sua completa anamnesi, partendo dalle radici dell’individuo per poi seguirne la
crescita, gli sviluppi e infine arrivare alla malattia e ad un suo potenziale miglioramento.
Dopo aver letto le opere di Freud, sostengo che, per arrivare al significato della malattia,
sia necessario conoscere approfonditamente il contesto di una persona per poter capire il
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significato che dà a determinate scelte, il perché ha fatto tali scelte e come il suo corpo
risponde ad esse. Di conseguenza, sarà possibile delineare un ipotetico percorso che
possa essere d’aiuto a tale persona, rispettando il suo io.
Risultati ottenuti
Le sedute di musicoterapia mi hanno innanzitutto permesso di scoprire me stesso, di
iniziare a capire e ad imparare, almeno nel mio piccolo, l’arte dell’aiutare.
Nelle attività in cui si suonava ho instaurato una comunicazione, o meglio, un nuovo
linguaggio di comunicazione non verbale e per alcuni casi feedback verbali straordinari.
Mi viene in mente ad esempio L. quando attraverso la pittura associata alla musica
realizza un dipinto che egli associa a un treno con sua madre dentro ad aspettarlo.
Questo per un operatore significa molto, un punto di partenza, un nuovo inizio dal quale
poter costruire insieme all’utente progetti validi per un percorso che gli fornisca nuovi
mezzi comunicativi ed espressivi.
Attraverso un’analisi congiunta degli operatori L. è riuscito a ritagliare più spazio per le
sue emozioni, a sentirsi più padrone della sua immagine riflessa allo specchio, mentre
prima non la riconosceva come propria. Il suo comportamento durante i pasti e nei
confronti del cibo non ha registrato nessun cambiamento notevole, tuttavia L. è ora
disposto a riordinare la stanza da pranzo. Talvolta è proprio lui a richiamare alla mia
attenzione quelle che sono le attività del giorno, mentre altre volte sembra non
ricordarlo. Ora egli è senza dubbio più accondiscendente e accetta le attività proposte da
tutti gli operatori. Ad esempio se mi mettevo a cantare una canzone da lui conosciuta,
normalmente L. mi seguiva cantando con me. Tutte queste cose mi hanno permesso di
capire più approfonditamente il lavoro del musicoterapeuta, che cosa significa mettersi
in gioco, lasciarsi andare e accettare il disagio.
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Per quanto riguarda E., l’attività di musicoterapia ha permesso di trovare in lui nuovi
mezzi di comunicazione verbali e non verbali, di lasciarsi andare e di attenuare un po’
della sua ansia. Tuttavia, mi sono accorto che il mio lavoro non è stato molto incentrato
sui suoi bisogni, i suoi stati d’animo e le sue preoccupazioni. Egli non è
sufficientemente migliorato nell’igiene intima e durante i pasti. Riscontri positivi si
sono verificati invece in ambito cognitivo. Di fronte ai rimproveri e alle osservazioni
degli operatori egli mostra, dopo un iniziale rifiuto, maggior volontà di collaborare e di
migliorarsi. L’uso della voce è stato per E. l’attività di maggior interesse ed espressione,
alcune canzoni per lui rappresentavano come la vita andrebbe vissuta (Il ragazzo della
via Gluck). Sono arrivato a questa conclusione analizzando in primis la sua famiglia
durante il viaggio dalla sua abitazione al centro, la sua casa in collina e la sua vecchia
città nella periferia modenese e il significato che hanno quelle canzoni per lui. E. è un
ragazzo con un margine di miglioramento altissimo, sebbene ancora non riesca ad
esprimersi e ad operare al meglio delle proprie potenzialità. Rimane il fatto che E. si è
lasciato trasportare dalle attività svolte, nonostante le sue ansie continuassero a fluttuare
da una percussione all’altra, rimanendo libere nell’aria. Inoltre, ho potuto costatare che
questo liberarsi di emozioni e ansie, anche solo durante l’attività, permette a E., e non
solo, di scaricarsi e di lasciare libero il proprio corpo di entrare in comunicazione in
modo sano con il mondo esterno.
Il lavoro svolto con S. è stato sicuramente affascinante e coinvolgente, questo forse
perché mi sono trovato di fronte ad una ragazza, con pensieri ed emozioni molto diversi
dagli altri membri del gruppo. S. all’inizio del lavoro si mostrava volenterosa e
partecipe a qualsiasi attività, mi aiutava nella preparazione della seduta e cercava in
qualsiasi modo di essermi d’aiuto. Ciò ha finito per diventare un problema, poiché il
rapporto che si andava a creare non era certamente terapeutico né seguiva le regole della
seduta, anzi, era un rapporto amichevole a tratti morboso nei miei confronti.
Nonostante io abbia cercato fin da subito di instaurare quella distanza che si deve creare
tra terapeuta e paziente, S. continuava a vedermi più come un ragazzo carino più o
meno suo coetaneo, che come una figura professionale. I risultati ottenuti con S. sono
stati comunque positivi e soddisfacenti. S. infatti si mostrava interessata ad ogni attività,
soprattutto come gli altri utenti a quella del canto. Attraverso le canzoni esprimeva
disagio, euforia e tristezza che l’aiutavano così ad esprimersi e a dimenticare i suoi
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problemi. Alcuni miglioramenti si sono verificati anche durante i pasti: S. era più
convinta nella scelta delle pietanze, chiacchierava di meno fra una portata e l’altra ed
era più composta a tavola. Tuttavia, non posso stabilire con sicurezza che siano state le
attività svolte a provocare i miglioramenti di S. o se fosse solo la mia presenza a
determinare reazioni positive da parte sua, in quanto essa cercava costantemente di
mettersi in mostra e di ottenere la mia approvazione. Un’attività che finora non ho
evitato di approfondire, ma che ritengo sia stata di grande aiuto ad S. è stata la
riproduzione di suoni vocalici con il sostegno del pianoforte. S. ha difficoltà
nell’articolare correttamente i suoni e questo esercizio avrebbe dovuto aiutarla a
colmare questa lacuna. L’attività consisteva nella produzione di note nell’ordine della
scala, che facevo associare a lettere dell’alfabeto. Quando poi suonavo più note insieme
veniva composta una parola: ad esempio, prendendo il mi come prima nota, il re, il do e
il sol formavo la parola ciao che S. doveva ripetere più volte e così via. Quest’attività ha
così aiutato S. a raggiungere una migliore articolazione dei suoni vocalici,
permettendole di esprimersi con maggior scioltezza. Di altrettanta importanza sono state
l’attività della pittura e della produzione sonora con lo strumento. Per quanto riguarda la
prima, attraverso la scelta dei colori, l’ampiezza della pennellata S. dava libero sfogo al
proprio io, mentre nella seconda, attraverso musiche che coinvolgevano il corpo, S. si
scaricava tramite la percussione insistente del tamburo.
Un esempio di esercizio molto approssimativo che eseguivo con S.
In un primo momento con l’aiuto del pianoforte facevo pronunciare le lettere che
corrispondevano alle note (c=mi-i=re-a=do-o=sol), …, etc., poi successivamente
venivano pronunciate insieme, formando la parola ciao. E cosi tante altre parole per
aiutare una scorrevole articolazione, ma anche per memorizzarsi certe parole in modo
da modificare quel suo linguaggio infantile.
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Concetto ed importanza del contesto
Il concetto di contesto è stato uno dei concetti più importanti per la teorizzazione
dell’approccio sistemico. Usato per la prima volta da Gregory Bateson nell’ambito delle
scienze sociali è stato successivamente ripreso da altri studiosi nelle discipline più
disparate: si pensi agli sviluppi di Erving Goffman in sociologia, a quelli di Gardner in
pedagogia, a quelli di Minski nei campi dell’intelligenza artificiale, ecc.
Com’è facile comprendere, quindi, esiste una mole impressionante di materiale
sull’argomento, molto spesso con traiettorie assai diverse le une dalle altre. Ho deciso
per questo motivo di restringere il campo di questa tesina all’ambito psicoterapeutico
cercando di individuare le caratteristiche essenziali di questo concetto.
Ho pensato di iniziare il lavoro facendo un breve excursus storico: come si è passati dal
modello psicoterapeutico individuale a quello sistemico e di come a poco a poco ci si è
cominciati ad interessare ai contesti del paziente e della sua famiglia (contesto di vita,
contesto terapeutico, ecc).
Sono quindi entrato nel vivo del discorso individuando 3 concetti chiave che mi
sono sembrati fondamentali per comprendere l’importanza del contesto: contesto come
contenitore della comunicazione (come una qualcosa cioè che pur non appartenendo alla
comunicazione concorre a darle significato); contesto come messaggio (il contesto, in
altre parole, può essere considerato esso stesso un messaggio su come vada intesto un
certo fenomeno) e contesto di apprendimento (e la sua relazione con la formazione del
carattere).
In conclusione, ho parlato delle applicazioni di questo concetto in ambito clinico,
tenendo conto anche del rapporto tra contesto pubblico e contesto privato.
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Premessa storica
Agli inizi degli anni Cinquanta si registra da parte di alcuni psicologi clinici una certa
insoddisfazione nell’applicazione del modello psicoanalitico ortodosso nel trattamento
delle psicosi e negli interventi di psicoterapia infantile. Chi lavora con i bambini sente
sempre di più il bisogno di coinvolgere maggiormente i genitori: i concetti di “madre
patogena” e “padre inadeguato” formulati alla fine degli anni Quaranta suggeriscono la
possibilità di abbandonare il setting più ortodosso legato esclusivamente al rapporto
paziente-terapista, introducendo una maggiore elasticità nel lavoro clinico.
Anche all’interno della psichiatria vengono denunciate alcune difficoltà e sorgono
interessanti interrogativi relativi alla nascita dei disturbi da trattare, e in particolare si
inizia a dubitare circa l’efficacia, in alcune situazioni, dell’intervento condotto solo
sull’individuo portatore del sintomo. Nel trattamento di alcuni adulti schizofrenici, per
esempio, s’inizia ad intravedere la possibilità di leggere il comportamento del soggetto
come legato a particolari situazioni relazionali che l’individuo si trova nel suo contatto
sociale e familiare a vivere concretamente.
Negli stessi anni l’etologia suscita un notevole interesse per i significativi risultati
ottenuti nei numerosi studi sulla vita degli animali condotti effettuando ricerche “sul
campo” e osservando dal vivo i comportamenti, le abitudini e comunicazioni del mondo
animale. Questo approccio tende a focalizzare l’attenzione di numerosi professionisti
che lavorano nel campo della salute mentale, specialmente di coloro che iniziano a
pensare che ci possa essere un legame tra patologia e ambiente sociale e familiare in cui
il soggetto vive.
L’esempio dell’etologia porta infatti i pionieri (N. Ackerman, M. Bowen, C. Whitaker,
S. Minuchin, G. Bateson, ecc.) ad organizzare interventi conoscitivi del contesto di vita
dei pazienti in terapia. Si sviluppa così una certa forma di antropologia a domicilio della
quale assumono la guida i clinici e in cui, per la prima volta, viene osservato il contesto
familiare in cui vivono i soggetti portatori di disturbi psichiatrici. L’unità di analisi
sembra quindi poter diventare la famiglia in quanto contesto di apprendimento primario
per ciascuna persona e luogo delle relazioni privilegiate. Naturalmente non s’ignorava
che a sua volta la famiglia è aperta al mondo e scambia informazioni con ciò che è
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esterno ad essa, ma si sottolineava che è all’interno della famiglia che ogni individuo
sperimenta gli effetti del suo comportamento e impara a reagire a quello degli altri.
Parallelamente a queste prime esperienze cliniche, si diffuse la cibernetica sotto
l’impulso di Norman Wiener, disciplina che studia i meccanismi con cui uomini,
animali e macchine comunicano con l’ambiente esterno e lo controllano. Wiener inizia
ad interessarsi del comportamento umano attraverso una serie di studi e di riflessioni,
anche se in un campo ben lontano, fino ad allora da interessi per l’uomo, ma si accorge
ad un certo punto che proprio il funzionamento di certe macchine gli fornivano lo
spunto per osservare l’uomo ed il suo comportamento, in un modo completamente
diverso, cioè come “macchina” che comunica, che “trasmette” informazioni e che
“corregge” il suo comportamento in base alle informazioni che riceve di ritorno. Questo
viene realizzato attraverso due meccanismi fondamentali che vengono denominati
informazione e retroazione. Secondo questi due concetti in un sistema interpersonale
ogni persona influenza le altre con il proprio comportamento ed è parimenti influenzata
dal comportamento altrui. La stabilità e il cambiamento inerenti al sistema sono
determinati da tali circuiti di retroazione: l’informazione in ingresso può venire così
amplificata (è il caso della retroazione positiva) e provocare un cambiamento nel
sistema, oppure può venire neutralizzata (e allora si parla di retroazione negativa) e
mantenere la stabilità dello stesso.
Accanto alla cibernetica si va diffondendo la teoria generale dei sistemi che sembra
offrire nuovi strumenti per comprendere realtà più complesse. Agli inizi degli anni
Cinquanta in America, a Palo Alto, Boulding, un economista, Rapaport, un
biomatematico, Gerard, un fisiologo e von Bertalanffy, un biologo, fondarono una
società per la ricerca generale sui sistemi; le riflessioni e analisi dei risultati delle
ricerche portarono ad un interessante e proficuo confronto fra diverse discipline: dalla
matematica alla cibernetica, alla teoria dell’informazione e dei giochi.
Enorme è stata l’influenza di questa prospettiva sulle scienze umane, in quanto ha
aperto la possibilità di leggere i comportamenti dei singoli soggetti non più solo in
termini di energia individuale (energia psichica, libido) ma in termini di informazione,
cioè come risposta ad altri messaggi provenienti dal contesto. Ferdinand de Saussure1
definisce il sistema come «una totalità organizzata fatta di elementi solidali che non
1
Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari-Roma, Laterza, 1967.
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possono essere definiti isolatamente ma solo in rapporto gli uni agli altri, in funzione del
posto che occupano nella totalità».
Sempre in questo periodo storico si colloca la produzione scientifica di Gregory
Bateson. Bateson era un antropologo, sociologo e studioso di relazioni umane. Pioniere
della cibernetica, Bateson ha evidenziato la relazione tra contesto di apprendimento e
formazione del carattere, riprendendo la teoria dei tipi logici di Bertrand Russel,
applicandola allo studio dei meccanismi di comunicazione e delle relazioni sociali, e
formula assieme a Paul Watzlawich, la teoria del doppio vincolo applicandola allo
studio della schizofrenia; è stato ispiratore della scuola di Palo Alto, autore di ricerche
sperimentali sulla comunicazione animale, epistemologo, studioso dei processi di
cambiamento delle culture… Un lungo percorso per fondare e perfezionare una scienza
della mente, ovvero l’Ecologia della Mente.
Ecologia per Bateson significa una complessa armonia di connessione tra le idee e le
cose, la partecipazione ad una unica entità; una entità che può essere chiamata mente. Il
sistema di pensiero ecologico di Bateson si basa sulla convinzione che l’unità di misura
dell’evoluzione non è il singolo organismo o la singola specie, bensì “l’organismo-piùil-suo-ambiente”. Sulla base di una concezione assolutamente laica, Bateson dichiara
che tutto ha la stessa struttura, dalla pietra all’essere vivente.
Bateson utilizza strumenti differenti per descrivere un qualsiasi fenomeno, strumenti
provenienti da discipline e campi a volte anche contrastanti, che ridanno visioni
differenti dello stesso oggetto osservato; una volta fatto il confronto delle diverse
descrizioni, Bateson inizia a segnalare gli elementi ricorrenti e uguali, fondamenti della
forma e della struttura nel mondo, che si possono desumere da ogni descrizione
raccolta: mostra una metastruttura, una rete di relazione che ritorna sulla base di principi
trasversali, orizzontali. Perfino le idee stesse possono essere considerate come degli
esseri viventi: soggiacciono a leggi di evoluzione, selezione e propagazione.
Nel 1967 Watzlawick, Beavin e Jackson pubblicano un importante volume dal titolo
Pragmatica della comunicazione umana che consacrò e diffuse nel mondo la prima
teorizzazione completa dell’approccio sistemico. In questo volume riportano le
riflessioni e le ricerche da loro compiute sugli effetti che la comunicazione ha sul
comportamento ovvero i modi in cui ciascuno conferma, rifiuta, squalifica l’altro nella
relazione. I risultati degli studi del gruppo di Palo Alto sembrano confermare che il
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disagio, la patologia si manifestano là dove esiste confusione a livello comunicativo e di
conseguenza nell’organizzazione delle regole del sistema.
L’idea del contesto come matrice dei significati applicata all’analisi dei fenomeni
psicopatologici e del setting psicoterapeutico ha introdotto una rivoluzione nel modo di
considerare categorie cliniche quali il sintomo, la diagnosi e il trattamento,
ridefinendole in termini relazionali. Il sintomo cessa di essere trattato come
un’espressione di disfunzioni individuali e viene invece assunto come informazione
riguardante l’intera rete dei rapporti in cui la persona è inserita; la diagnosi non è
l’attribuzione di categorie patologiche ad un singolo individuo, ma fa riferimento a
modalità di funzionamento di un gruppo; l’intervento terapeutico non si fonda
sull’analisi dei processi intrapsichici, ma sull’osservazione dei modelli interattivi
dell’intero gruppo familiare e si propone di modificare il contesto entro il quale il
disagio è emerso e mantenuto, e non soltanto le dinamiche individuali della persona
portatrice di tale disagio.
Diverse definizioni di contesto:
da una prospettiva oggettivista al costruzionismo sociale
Contesto è stato indubbiamente un concetto chiave dell’approccio sistemico alla
psicoterapia fin dai suoi esordi. In generale per contesto si intende il complesso delle
circostanze entro cui un determinato fatto emerge e si sviluppa. Nel corso degli anni
queste circostanze sono state diversamente definite ed identificate dai terapisti sistemici,
senza tuttavia che mutasse il principio metodologico a cui l’idea di contesto rimanda e
che possiamo sintetizzare con le parole di Bateson2: “Senza l’identificazione del
contesto non si può capire nulla. L’azione osservata è del tutto priva di senso finché non
viene classificata come “gioco”, “minaccia” o quant’altro”. Il contesto, aveva scritto
altrove Bateson3, è la “matrice dei significati”. Con questa definizione, questo autore
non identifica cosa sia il contesto, né ci suggerisce che cosa noi dobbiamo considerare
per contesto, ci fornisce invece una indicazione metodologica: nessun fatto può essere
2
3
Bateson, G., Una sacra unità, Adelphi, Milano, 1975.
Bateson, G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1972.
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spiegato senza considerare l’intreccio delle circostanze entro cui tale fatto emerge e si
sviluppa.
Nicola Abbagnano4, nel dizionario di filosofia, definisce contesto «l’insieme degli
elementi che condizionano, in un modo qualsiasi, il significato di un enunciato» e che
rendono possibile afferrarne il senso. Rifacendosi alla definizione di Ogden e Richards,
ulteriormente precisa: «Un contesto è l’insieme di entità (cose ed eventi) correlate in un
certo modo; queste entità hanno ciascuna un carattere tale che altri insiemi di entità
possono avere gli stessi caratteri ed essere connessi dalla stessa relazione; ricorrono
quasi uniformemente. Un contesto letterario è un gruppo di parole, incidenti, idee ecc.
che in una data occasione accompagna o circonda ciò che si dice abbia un contesto,
laddove un contesto determinante è un gruppo di questa specie che non solo ricorre ma
è tale che uno almeno dei suoi membri è determinato dagli altri». Una definizione,
quindi, che indica come il significato psicologico di un messaggio non può essere
compiutamente compreso se non analizzando i precisi significati che esso assume
all’interno degli scambi tra emittente e ricevente.
Nel corso degli anni e in sintonia con l’approfondimento epistemologico che ha
caratterizzato la riflessione dei terapisti sistemici, la nozione di contesto è stata
differentemente articolata: da una prima definizione fattuale si è passati, grazie alla
introduzione di una impostazione costruttivista, alla sottolineatura della dimensione
simbolica contenuta in tale nozione. Le molteplici ridefinizioni teoriche, tuttavia, non ne
hanno modificato l’importanza metodologica. Non hanno cioè mutato il principio in
base al quale nessun fatto può esser considerato al di fuori del complesso delle
circostanze in cui si origina e si sviluppa. Ciò che è cambiato è l’idea di che cosa si
debba intendere per tali “circostanze”.
Secondo una prospettiva oggettivista, questo insieme di circostanze s’identifica con la
realtà dentro cui gli individui compiono azioni ed intrattengono relazioni; secondo
un’ottica costruttivista, il contesto si identifica invece con il sistema di rappresentazioni
(più o meno condivise) in base al quale gli attori sociali costruiscono il mondo
circostante e all’interno del quale compiono azioni e intrattengono rapporti.
Nel primo caso l’analisi è rivolta a quelle circostanze, rilevabili da un osservatore
esterno, all’interno delle quali un determinato fatto emerge; nel secondo caso, l’analisi
4
Abbagnano, N., Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1971.
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si focalizza sui significati che tali circostanze assumono in funzione dei sistemi di
rappresentazioni dei vari soggetti coinvolti. Quindi si è passati da una definizione che
faceva leva sugli aspetti comportamentali, interattivi e strutturali coinvolti in un
determinato fatto alla considerazione degli aspetti simbolici racchiusi in questo fatto.
Bateson5 aveva sottolineato che «i contesti non sono altro che categorie della mente» e
che, in questo senso, non ci sono semplicemente contesti, ma contesti di contesti,
sottolineando come l’idea di contesto rimandi più ad un metodo che a un oggetto. I
terapeuti sistemici, tuttavia, hanno ignorato per diverso tempo questo contributo e in
accordo con la cultura oggettivista predominante hanno identificato il contesto con il
luogo fisico e sociale dell’interazione (indipendentemente dal fatto che fosse
un’interazione familiare o terapeutica). Così, mentre nell’analisi della psicopatologia ciò
che risultava centrale era la rilevazione dei modelli relazionali osservabili, nello
sviluppo delle tecniche di intervento, centrale era l’identificazione delle caratteristiche
strutturali-istituzionali in cui la terapia veniva condotta.
In tempi più recenti, tuttavia, si è fatta strada un nuovo metodo in seno alla teoria
sistemica che ha permesso di sottolineare la dimensione più simbolica del contesto. Mi
riferisco all’approccio costruttivista che si è sviluppato sulle ricerche dei biologi cileni
Humberto Maturana e Francisco Varela. Secondo quest’approccio ogni individuo è
costruttore della realtà a partire da processi cognitivi presieduti da strutture mentali 6. A
seguito di ciò il contesto dell’insorgenza e mantenimento di un sintomo è stato
identificato con l’intreccio tra modelli interattivi e processi simbolici, e da questo punto
di vista sono i contesti di apprendimento delle varie sindromi ad essere posti al centro
dell’analisi e della ricerca.
Le caratteristiche della situazione socio-istituzionale in cui la psicoterapia ha luogo
inoltre non sono più state considerate come aventi un significato universalmente e
oggettivamente definito. Il loro significato è considerato come costruito a partire dai
sistemi di rappresentazioni dei soggetti racchiusi all’interno del contesto7. La stessa
richiesta fatta allo stesso servizio, come si capisce, può avere significati diversi per
pazienti diversi, poiché l’atto stesso di rivolgersi ad un servizio, le prestazioni che ci si
5
Bateson, G., Una sacra unità, Adelphi, Milano, 1975.
Bogliolo, C., Psicoterapia Relazionale delle Famiglia. Teorie, tecniche, emozioni nel modello
consenziente, Franco Angeli, Milano, 2001.
7
Fruggeri, L., Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psicosociali, Carocci, Roma, 1998.
6
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aspetta di ricevere, le caratteristiche della istituzione su cui si fa affidamento per
risolvere i propri bisogni, possono essere diversamente rappresentate da utenti diversi o
da diverse categorie di utenti. Le rappresentazioni che i soggetti hanno di ogni singola
fase, circostanza, persona, funzione implicata nel processo dell’intervento, sono diverse
in quanto sono connesse alla storia individuale e sociale della persona. Questo significa
che il contesto socio-istituzionale, all’interno del quale un terapista opera, non può
essere universalmente e aprioristicamente condiviso, in quanto esso dipende a sua volta
dai sistemi di significato delle persone implicate.
Nei primi anni ’90 si è fatta strada una nuova teoria: il costruzionismo sociale. Secondo
questa teoria il sé e l’identità personale sono dei costrutti delle relazioni interpersonali,
che a loro volta sono determinate nel contesto sociale. Mentre il costruttivismo, quindi,
fa leva sul ruolo costruttivo della persona a partire da processi cognitivi, il
costruzionismo è maggiormente focalizzato sulla genesi sociale delle idee. Secondo
questo punto di vista, il contesto non è semplicemente il luogo o il contenitore
dell’interazione, non è neanche soltanto il sistema di rappresentazioni in base al quale i
partecipanti all’interazione attribuiscono senso alle rispettive azioni e al luogo in cui
l’interazione si svolge, esso è caratterizzato dalle dinamiche relazionali derivanti dai
sistemi di rappresentazione e di significato dei soggetti coinvolti nell’interazione. Le
aspettative delle famiglie o dei pazienti nei confronti dell’intervento terapeutico, il loro
modo di rappresentarsi il luogo della terapia, i loro miti o paradigmi familiari, le loro
teorie implicite relative alla malattia, così come le aspettative, rappresentazioni, miti e
teorie implicite dei terapisti, vengono assunti a oggetto di analisi, non separatamente,
ma per come essi si coordinano nell’azione congiunta che costruisce il processo
terapeutico8. Il contesto, secondo l’approccio costruzionista, diventa la matrice dei
significati delle azioni compiute dai soggetti nel corso della loro interazione.
Lo stesso intervento, quindi, messo in atto da un terapista, di fronte allo stesso tipo di
problema, presentato però da persone diverse può, proprio perché si coordina con
persone diverse (ognuna con i propri sistemi di rappresentazione di sé, degli altri e della
8
Cronen, V., Johnson, K., Lannamann, J., Paradossi, doppi legami, circuiti riflessivi: Una prospettiva
teorica alternativa. Terapia Familiare, 1983, 14, pp. 87-120).
9 Zucchelli, A., Il comprendonio. Perché è tanto difficile farsi capire dagli altri, Firenze Libri, Firenze,
1995.
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situazione) dare luogo alla costruzione di diversi contesti interattivi che dunque
generano significati diversi dell’intervento.
Il contenitore della comunicazione
Il concetto di contesto da numerosi anni è al centro di un dibattito che ha coinvolto
professionisti provenienti dai settori più disparati: psicologia, sociologia, antropologia,
etologia, linguistica, ecc. Nonostante la molteplicità di contributi che sono stati prodotti
in questo campo è possibile delimitare una serie di concetti chiave che accomunano le
varie definizioni di questo concetto.
Contesto, innanzitutto, può essere definito, per utilizzare le parole di Alberto Zucchelli 9
tutto ciò che, pur non appartenendo alla comunicazione, concorre a darle significato.
Senza questa componente, senza questo contenitore della comunicazione, la
comunicazione stessa diventa impossibile. Anche se l’attenzione di chi trasmette è
concentrata sul farsi capire e quella di chi riceve sul cogliere il significato del
messaggio, di fatto non si può comunicare in modo astratto, e le parole, i gesti, i fatti
avverranno sempre all’interno di una situazione che non può non esistere, non può
essere asettica, non può non influenzare la relazione tra i comunicanti.
E’ comprensibile, per questo motivo, l’invito di Watzlawick e collaboratori10 a non
limitare l’osservazione al singolo “fenomeno che resta inspiegabile finché il campo di
osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si
verifica”. Un evento comunicativo, un sintomo o un disagio psicologico rimangono
inspiegabili, pertanto, se interpretati solo in chiave intrapsichica e isolati dall’intreccio
delle relazioni nelle quali si inscrivono. Watzlawick11 e Maria Grazia Cancrini12, a
questo proposito, riportano tutta una serie di esempi che chiariscono il concetto esposto
precedentemente. Vorrei riportare, tuttavia, l’esperienza che mi è stata raccontata da una
mia amica che lavora come insegnante presso la Scuola Media di Sant’Agata Feltria
10
Watzlawick, P., Beavin, J. H., Jackson, Don D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio,
Roma, 1971.
11
Ibidem, p. 13.
12
Cancrini M. G., Zavattini G. C., Individuo e contesto nella prospettiva relazionale, Bulzoni, Roma,
1977.
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(PU) e che trovo sia efficace per spiegare l’importanza del contesto e della sua
comprensione.
“A circa un mese dall’inizio ufficiale dell’anno scolastico si presenta in classe (si tratta
di una Iª) un nuovo alunno proveniente dalla Cina trasferitosi recentemente nel paesino
dell’Alta Valmarecchia con i genitori da una città più grande. Questo ragazzino da
subito dimostra di essere uno studente modello nonostante le difficoltà linguistiche e
integrandosi alla perfezione con i compagni di classe che lo cercano regolarmente per
andare a giocare a calcio nel campetto polivalente del Comune. C’è però un aspetto del
suo comportamento in classe che infastidisce notevolmente le insegnanti, compresa la
mia amica ed è il suo atteggiamento nei loro confronti: sembra assente ed ha lo sguardo
costantemente abbassato, quando viene interpellato mantiene questo comportamento
apparentemente sottomesso, se rimproverato tende a rinchiudersi come una tartaruga
incassando la testa tra le spalle. Le cause di questo problema vengono attribuite ad
un’estrema timidezza da alcuni, ad una mancanza di rispetto da altri o ad un non meglio
specificato problema di carattere psicologico.
Parlando con un insegnante di sostegno presente all’interno della scuola viene fuori
un’altra ipotesi che non era mai stata presa in considerazione e che si rivela essere
quella vincente: in Cina è comune avere un atteggiamento “sottomesso” nei confronti
degli insegnanti e l’atto di fissare negli occhi è considerato un affronto. Da noi, in Italia,
è l’esatto opposto ed è prassi comune dire ai nostri interlocutori «guardami negli occhi
mentre ti parlo!…».
In questo esempio è chiaro il ruolo del contesto. E’ evidente che il comportamento di
questo ragazzino, in sé non ha nulla di strano, ma si colloca in un contesto che ne
deforma il contenuto rendendolo strano ed incomprensibile. Il nostro compito quando ci
troviamo di fronte ad un comportamento che ci risulta inspiegabile, quindi, è proprio
quello di andare ad osservare e conoscere il contesto in cui si situa, tenendo sempre
presenti i nostri limiti che sono quelli ovvi di non essere mai osservatori neutrali, ma
sempre in qualche modo partecipi alla situazione che abbiamo di fronte. Contesto può
essere definito pertanto come un reticolo comunicativo, dominato da regole precise, in
cui gli esseri umani sono costantemente inseriti.
Questo concetto ha ricadute importanti nell’ambito della clinica. L’idea del contesto
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come matrice dei significati applicata all’analisi dei fenomeni psicopatologici e del
setting psicoterapeutico ha introdotto una rivoluzione nel modo di considerare categorie
cliniche quali il sintomo, la diagnosi e il trattamento, ridefinendole in termini
relazionali. Il sintomo cessa di essere trattato come un’espressione di disfunzioni
individuali e viene invece assunto come informazione riguardante l’intera rete dei
rapporti in cui la persona è inserita; la diagnosi non è l’attribuzione di categorie
patologiche ad un singolo individuo, ma fa riferimento a modalità di funzionamento di
un gruppo; l’intervento terapeutico non si fonda sull’analisi dei processi intrapsichici,
ma sull’osservazione dei modelli interattivi dell’intero gruppo familiare e si propone di
modificare il contesto entro il quale il disagio è emerso e mantenuto, e non soltanto le
dinamiche individuali della persona portatrice di tale disagio.13
Come si può vedere, quindi, senza contesto non è possibile comprendere gli individui e
il loro comportamento, soprattutto se essi stanno male: i loro sintomi hanno un
fortissimo valore comunicativo nel contesto in cui si verificano. Per questo i terapeuti
relazionali non si concentrano tanto su cosa non funzioni nell’individuo, ma osservano
cosa succede tra gli individui appartenenti allo stesso contesto.
Osservando tutto il sistema contemporaneamente si possono raccogliere una serie
d’informazioni importanti:
 Chi è l’individuo.
 Come si vede.
 Come s’immagina.
 Come vede il rapporto con gli altri.
 Come il suo comportamento condiziona gli altri.
 Come il comportamento degli altri lo condiziona.
 La stima che ha di se stesso, ecc.
Se osserviamo lo stesso individuo sintomatico all’interno dell’ospedale o nel suo
contesto di appartenenza ci accorgiamo che i suoi sintomi acquisiscono un significato
molto diverso: l’ospedale è un ambiente fortemente normalizzante, in cui la persona
13
Malagoli Togliatti, M., Il contesto nella psicoterapia relazionale. In: Malagoli Togliatti, M., Telfner, U.
(a cura di) Dall’individuo al sistema, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
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viene confrontata con una normalità precostituita, mentre nel contesto originario i suoi
sintomi appaiono come un’esagerazione di un credere comune all’intero sistema.
Dunque il contesto è importante per attribuire significato al comportamento e ai
messaggi del soggetto, ma perché ciò sia possibile è necessario allargare il contesto, non
limitarsi al mittente e al ricevente, ma allargare il campo di osservazione fino ad
includere gli effetti che tale comportamento ha sugli altri, le reazioni degli altri a questi
comportamento, e il contesto in cui tutto ciò accade. Il centro dell’interesse si sposta
dalla monade isolata artificialmente alla relazione tra le parti di un sistema più vasto.
Il contesto come messaggio
Precedentemente ho detto che il contesto ha un’importanza fondamentale nel momento
in cui vogliamo comprendere il significato da attribuire a un fenomeno. Ho anche detto
che una caratteristica del contesto è quella di definire implicitamente o esplicitamente
quali siano le regole di relazione significative e rilevanti al suo interno. Il contesto,
tuttavia, possiede un’altra caratteristica fondamentale: se è vero che possiede al suo
interno delle strutture qualitative e relazionali allora possono essere considerate esse
stesse messaggi. Il contesto, in altre parole, può essere considerato esso stesso un
messaggio su come vada intesto un certo fenomeno.
Al mutare del contesto mutano anche le regole che gli sono proprie, determinando
quell’inevitabile fenomeno di slittamento di contesto e quindi di confusione e
incomprensione delle regole e dei significati comunicativi. Quando cambia il contesto,
quindi, cambia anche il tipo di relazione (come abbiamo avuto modo di verificare
personalmente durante il training nell’esperienza delle due sedie poste in posizioni
differenti). In questa chiave di lettura, la classica situazione nella quale si sviluppa la
nevrosi sperimentale ne è un esempio: «Negli esperimenti di Pavlov», sostiene
Bateson14, «viene fornita all’animale l’informazione questo è un contesto per la
discriminazione fin dall’inizio della sequenza e tale informazione viene resa sempre più
difficile. Ma quando la discriminazione diviene impossibile, la struttura del contesto
cambia totalmente. Le marche di contesto (context markers) ora confondono l’animale,
14
Bateson. G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976.
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il quale si trova in una situazione che richiede decisioni basate sulla congettura o
sull’azzardo e non sulla discriminazione. L’animale è posto in un tipico doppio vincolo
che è presumibilmente schizofrenogenico».
Nell’interazione umana i processi e i meccanismi ben più complessi, i vincoli di
dipendenza e la contraddittorietà della comunicazione in contesti confusi e confondenti
possono produrre effetti altrettanto patologici, come ben evidenza il famoso saggio sul
doppio legame “Verso una teoria della schizofrenia” elaborato da Bateson15 e dagli altri
componenti il gruppo di Palo Alto nel 1956: saggio che tanta influenza ha esercitato
nella riconcettualizzazione della patologia. Secondo questa teoria (assolutamente
rivoluzionaria rispetto a tutte le precedenti legate sempre all’evidenziazione di un deficit
organico o psichico) i sintomi della schizofrenia non sono altro che un modo di
comunicare che diventa congruo e comprensibile se inserito all’interno del contesto in
cui avviene.
Ovviamente gli esempi che ho riportato fanno riferimento a condizioni patogene e
alterate che sono il prodotto di una comunicazione disturbata, che rende incomprensibili
i messaggi. Solitamente gli individui sono in grado di identificare correttamente i vari
contesti attraverso il riconoscimento dei context marker (si tratta di messaggi che
possono essere rappresentati da un elemento dell’ambiente, dal comportamento di un
con specifico che ci permettono di riconoscere un determinato contesto), richiamando le
proprie precedenti esperienze in contesti di quel tipo, adattando di conseguenza il
proprio comportamento e le proprie aspettative circa il comportamento altrui,
selezionando una data classe di comportamenti, tra i molti possibili, in quanto
appropriati. L’interazione può essere dunque segmentata in contesti, ciascuno contrassegnato da metasegnali, il riconoscimento dei quali attiva in un soggetto una classe di
comportamenti, in relazione alle esperienze precedenti16. Secondo questo concetto,
contesto non è un semplice sinonimo di circostanze obiettive ma rimanda a precedenti
contesti di apprendimento.
Bateson17 ha identificato una serie di segnali non verbali il cui riconoscimento da parte
del soggetto permette di contestualizzare le loro comunicazioni. Questi segnali
15
Bateson, G., Jackson, D. D., Haley, J., Weakland, J. H., in Cancrini (a cura di), Verso una teoria della
schizofrenia, Boringhieri, Torino, 1977.
16
Viaro, M., «Concetto di contesto e teoria sistemica». In: Di Blasio, P., Contesti relazionali e processi di
sviluppo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.
17
Ibidem.
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metacomunicativi sono:
 mood signals, vale a dire segnali che informano circa la disposizione interna, lo
stato emotivo del soggetto;
 messaggi che simulano i precedenti, per esempio, nell’istrionismo, o
nell’inganno;
 messaggi che permettono a chi li riceve di distinguere i primi dai secondi (il
messaggio “questo è un gioco” appartiene a questa categoria).
I mood signals, in particolare, informano circa l’umore, lo stato emozionale e la
disposizione interna del soggetto. Nelle specie sociali non umane, questi segnali
liberano, con un rigido meccanismo chiave-serratura, una risposta comportamentale
automatica nel con specifico; questa risposta rappresenta un segnale che a sua volta
agisce retroattivamente con analogo meccanismo, sul primo individuo. Anche
nell’uomo, sottolinea Bateson, pur essendo i meccanismo molto meno rigidi, vi è
tuttavia una tendenza a rispondere in modo automatico a questi segnali fondamentali di
relazione, affidati prevalentemente al comportamento non verbale e al codice analogico.
In questo senso la relazione definita da questi segnali non verbali è il contesto
necessario per la decodificazione del significato del linguaggio.
Bateson denomina frame il particolare contesto che si costituisce mediante questi
segnali
metacomunicativi.
Tale
concetto
viene
utilizzato
per
rappresentare
quell’interfaccia attraverso cui gli esseri viventi entrano in relazione con la realtà.
Secondo l’autore ogni cultura elaborerebbe un insieme istituzionalizzato di copioni
(scripts) che dettano non solo criteri di rilevanza tra informazioni, ma anche ruoli
reciproci da osservare e modi di strutturare l’interazione. Ecco un esempio riportato da
Maurizio Viaro che può essere utile per comprendere questo concetto. Tannen e Wallet18
analizzano una consultazione pediatrica che si svolge in un centro di formazione, dove
le visite vengono videoregistrate a uso degli studenti. Il pediatra in questa situazione
alterna tre diversi tipi di registro linguistico e intonativo (commutazioni di codice): il
motherese (linguaggio degli adulti indirizzato ai bambini), il tono professionale, il tono
conversazionale convenzionale. L’adozione dell’uno o dell’altro registro lessicale è
18
Tannen, D., Wallet, C., Inetractive Frames and Knowledge Schemas in Interaction: Examples from a
Medical Interview, Social Psychology Quarterly 50.2: p.205-216.
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sufficiente a designare un interlocutore (facendo “come se” gli altri non fossero
presenti) e un certo tipo di attività, proiettando un seguito immediato al quale tutti gli
altri partecipanti si adattando. Il frame d’incontro sociale richiede che il pediatra
stabilisca un rapporto con la madre e intrattenga il bambino, ignorando del tutto
telecamera e operatore. Il frame dell’esame clinico in un centro di addestramento
richiede che il pediatra si accerti che operatore e cinepresa siano pronti (per poi
ignorarli) e che compia determinate manovre guadagnandosi la collaborazione del
bambino, spiegando in tono neutro e linguaggio tecnico quanto va evidenziando. Infine,
il frame di consultazione richiede che dia le proprie spiegazioni alla madre, tenendo il
bambino in attesa, e ignorando tutti gli altri.
Ciascun frame si riferisce non solo a criteri di rilevanza di alcune informazioni rispetto
ad altre, ma detta anche dei ruoli, copioni e strutture d’interazione, alle quali tutti di
regola si allineano: per esempio, quando si seleziona una persona particolare come
interlocutore principale, e di altri come semplici spettatori autorizzati. Successivamente
tale concetto è stato ripreso dallo psichiatra William F. Fry e dal sociologo Erving
Goffman.
Nell’interazione, quindi, è frequente il passaggio da un frame ad una altro, passaggi che
vengono segnalati mediante variazioni intonative, cenni non verbali, ma anche mediante
indicatori strettamente lessicali, come appunto la variazione di codice (nell’esempio, il
passaggio a una terminologia tecnica, a un linguaggio informale, o al motherese).
Le caratteristiche di un frame sono state così riassunte da Bateson:
 un frame è esclusivo, in quanto seleziona, escludendole, alcune informazioni
come irrilevanti;
 è inclusivo, in quanto esalta alcune informazioni come rilevanti rispetto ad altre;
 è legato alla percezione, in quanto organizza una Gestalt percettiva;
 è metacomunicativo, in quanto qualifica altri messaggi elementari, modificandone il significato;
 un frame è, infine, in relazione alle premesse implicite che guidano un soggetto
(al modo di punteggiare la sequenza di eventi).
Una volta definito un frame, ognuno di noi si comporta “come se” alcune informazioni
o dati percettivi non esistessero: alcune informazioni vengono attivamente represse,
escluse e vanno a costituire uno sfondo, rispetto a quelle che vengono incluse come
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figura.
Il contesto (o un frame) come si è visto non sono da intendersi come “ciò che limitano”
l’individuo, e neppure come dei contenitori “dentro” i quali stanno le persone o le loro
azioni. Le persone e ciò che esse fanno creano un intreccio di relazioni che
contestualizzano le loro comunicazioni, “un tessuto di contesti e di messaggi che
propongono un contesto (ma che, come tutti i messaggi, hanno “significato” solo grazie
al contesto). I messaggi creano contesti, che ininterrottamente danno significato ai
messaggi. E questo intreccio di relazioni è in costante movimento, in evoluzione19.
Il contesto di apprendimento
Il concetto di apprendimento è inseparabilmente collegato da Bateson al concetto di
contesto nel senso che nessun apprendimento è concepibile al di fuori di un contesto
ipotizzato come avente carattere di ripetibilità. Questa definizione, quindi, presuppone
un’assunzione circa la costanza del contesto: presuppone, cioè, che la situazione al
momento t2 sia riconosciuta dal soggetto in qualche modo come la stessa situazione al
momento t1. In caso contrario, ci si troverebbe di fronte semplicemente a una risposta
diversa in una situazione diversa, quindi a un apprendimento 0. L’assunzione della
costanza del contesto è per Bateson la pietra angolare per l’utilizzazione della teoria dei
tipi logici (secondo questa teoria esiste discontinuità fra una classe e i suoi elementi: la
classe non può essere un elemento di se stessa e uno degli elementi non può essere la
classe).
In altri termini, ciò che assicura la stabilità dell’identità psicologica dell’individuo è la
costanza dei segni di riconoscimento del contesto (detti anche marche di contesto o
context marker), che costituiscono impliciti e indispensabili criteri di osservazione, di
decodifica e di analisi degli innumerevoli contesti relazionali all’interno dei quali
l’individuo viene a trovarsi.
La relazione tra contesto di apprendimento e formazione del carattere, definita da
19
Bertrando, P., Testo e Contesto. Narrativa, postmoderno e cibernetica, Connessioni, Rivista dei Centri
di Terapia della Famiglia.
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Bateson20, può essere sinteticamente illustrata nei seguenti punti:
 L’apprendimento 0, avviene quando il soggetto che apprende è preprogrammato per dare risposte stabilite. La fame, la sete, e probabilmente alcuni
livelli dell’interesse sessuale, sono esempi di comportamenti "cablati". Non c’è
alcuna scelta nell’esperienza di questo livello: si ha fame o si ha sete.
 Apprendimento 1: Bateson fornisce numerosi esempi di apprendimento 1
citando l’apprendimento in laboratorio, così come viene descritto negli
esperimenti
psicologici:
abituazione,
condizionamento
Pavloviano,
apprendimento strumentale, apprendimento meccanico e annullamento che
avviene in mancanza di rinforzo. Ciascuno di questi fenomeni, illustra un
cambiamento che non è caratteristico del livello 0 di apprendimento. In altri
termini, può accadere che un soggetto, agendo in un particolare contesto,
apprenda una nuova risposta, modificandosi in tal modo l’insieme delle
alternative tra cui operare la scelta, da quel momento in poi. Un contesto di
apprendimento è definito da un pattern di contingenze di rinforzi, il contesto
pavloviano classico è, per esempio, definito dal seguente pattern: se si dà lo
stimolo e un dato intervallo di tempo, allora segue il rinforzo.
 Il concetto di deuteroapprendimento, o apprendimento di tipo 2 (apprendere ad
apprendere) consiste nella capacità di discernere fra livelli comunicativi di
diverso tipo logico che sono solitamente riconoscibili attraverso delle
etichettature (cornici, contesti). Bateson dice che il deutero-apprendimento
consiste nell’apprendere a riconoscere e a sapere interagire dinamicamente con
queste etichettature che contrassegnano i messaggi. Nel deutero-apprendimento
viene appreso un modo di segmentare gli eventi , un modo di vedere le cose. Il
contesto porta con se', accanto agli eventi esterni, anche il comportamento del
soggetto, ma questo comportamento, regolato dall'apprendere ad apprendere,
sarà tale da plasmare il contesto globale fino ad adattarlo alla segmentazione
voluta. Bateson afferma che il deutero-apprendimento ha una sua funzione
specifica nell’economia dei processi del pensiero cioè, che tendiamo ad
utilizzare gli stessi canali neuronici, configurati in un determinato contesto, in
20
Viaro, M., «Concetto di contesto e teoria sistemica». In: Di Blasio, P., Contesti relazionali e processi di
sviluppo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.
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contesti simili per evitare dispendio di energia. Tale Apprendimento 2 viene a
costituire per Bateson il prototipo di un certo tipo di fatalismo.
 L’apprendimento di tipo 3 può essere considerato un vero e proprio
cambiamento dei punti di riferimento (una sorta di riorientamento cognitivo).
Secondo Bateson è questa un’evenienza abbastanza difficile, visto il grado di
rigidità e di autoconvalida che possiede l’apprendimento di tipo 2. Si tratta
dunque di un processo di liberazione, di disintossicazione, un po’ misticismo
zen, un po’ pratica clinica.
Nell’apprendimento di tipo 3 avviene una
ridefinizione dell’io.
Come si può vedere, il passaggio da un livello ad un altro implica la capacità di
generalizzazione, attribuendo il caso singolo ad una classe di casi, e di particolarizzazione, applicando le proprietà di una classe al caso singolo. Questo modello logico e
gerarchico dei livelli di apprendimento non è, dunque, unidirezionale: l’uomo è in grado
di gestire procedimenti induttivi, per generalizzazione (parte  tutto), e deduttivi, per
particolarizzazione (tutto  parte); è, inoltre, capace di attuare procedimenti abduttivi,
cioè il passaggio trasversale parte/parte o tutto/tutto.
I concetti che ho espresso a proposito del contesto di apprendimento hanno
un’importante cruciale nella pratica clinica: il superamento dei paradossi e delle
situazioni di doppio vincolo, infatti, si possono attuare mediante la rottura con il
contesto di riferimento, e attraverso la relativizzazione mediante il passaggio ad un
contesto più generale. Il passaggio ad un contesto più ampio permette, quindi, di
considerare il paradosso “dal di fuori”. Scrive Bateson:
«L’apprendimento dei contesti della vita è cosa che deve essere discussa non come
fattore interno, ma come una questione di relazione esterna tra due creature […]. Come
la visione binoculare fornisce la possibilità di un nuovo ordine d’informazione (sulla
profondità), così la comprensione (conscia e inconscia) del comportamento attraverso
la relazione fornisce un nuovo tipo logico di apprendimento (deuteroapprendi-mento)
[…]. Io sostengo che esiste un apprendimento del contesto, un apprendimento che è
diverso da ciò che vedono gli sperimentatori, e che questo apprendimento del contesto
scaturisce da una specie di descrizione doppia, che si accompagna alla relazione e
all’interazione; come tutti i tipi di apprendimento contestuale, anche questi temi di
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relazione si autocondividono».
Secondo Bateson, ogni sottovalutazione dell’importanza del contesto di apprendimento
porta alla sopravvalutazione delle determinanti individuali e, alla lunga, genetiche del
comportamento umano.
Il contesto in campo clinico
Mara Selvini Palazzoli nel 1970, quando ha iniziato a interessarsi in modo sempre più
specifico del discorso relazionale, ha dedicato al concetto di contesto un breve articolo
che ha influenzato parecchie generazioni di terapeuti della famiglia soprattutto in Italia
(Contesto e metacontesto nella psicoterapia della famiglia). In questo lavoro la Selvini
afferma che «… parole, frasi, constatazioni e comportamenti assumono significato in
rapporto alla situazione in cui vengono osservati, cioè a quelle particolari circostanze
che, in un preciso momento, circondano una persona (o più persone) e ne influenzano in
comportamento».
Sempre in quest’articolo l’autrice si occupò delle implicazioni di questo concetto nella
pratica clinica dello psicoterapeuta sottolineando la diversa lettura di un contesto da
parte dei partecipanti. Per indicare la possibilità di una diversa lettura, di una diversa
attribuzione di significato, la Selvini parla di slittamento di contesto: sottolinea che le
regole implicite ed esplicite che definiscono i ruoli, le relazioni e le aspettative di coloro
che partecipano a un certo contesto comunicativo possono non essere condivise.
Per creare un contesto terapeutico il terapeuta deve fare attenzione a tutti quei fattori
che influenzano la relazione terapeutica senza venire esplicitamente espressi. Dice la
Selvini: «… senza un quadro di riferimento contestuale condiviso almeno su un livello
minimo, il fraintendimento e il deragliamento comunicativo sono inevitabili. Per creare
un contesto terapeutico è necessario un rapporto di fiducia che il lavorare assieme alla
soluzione di un problema possa portare a qualcosa di potenzialmente valido».21
Afferma anche che: «permanere nella confusione dei contesti equivale a permanere
nella confusione dei significati».
21
Malagoli Togliatti, M. «Il contesto nella psicoterapia relazionale». In: Malagoli Togliatti, M., Telfener,
U., (a cura di) Dall’ individuo al sistema. Manuale di psicopatologia relazionale, Bollati Boringhieri,
Torino, 1991.
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L’esistenza o meno di tale contesto deve essere continuamente sottoposta a controllo
(metacontesto). Solo comunicando sulla comunicazione (meta-comunicazione) e sul
contesto in cui essa a luogo, i messaggi possono acquisire un significato condivisibile. Il
terapeuta deve quindi interrogarsi per capire se il suo punto di vista sul contesto sia
condiviso o meno dai membri della famiglia che partecipano agli incontri terapeutici, e
cerchi di chiarire quali sono le aspettative, le finalità e gli obiettivi propri e dei membri
della famiglia.
Poiché il contesto è matrice di significati, in campo clinico-diagnostico lo
psicoterapeuta dovrà fare attenzione all’influenza esercitata dall’insieme dei gruppi di
cui l’individuo fa parte (scuola, lavoro, famiglia), dalle reazioni del sistema sociale al
comportamento deviante di cui l’individuo si è reso protagonista; ma anche al processo
di sviluppo della sua modalità di relazionarsi, cioè al suo contesto di apprendimento.
Non abbiamo, quindi, un singolo “luogo di osservazione”. Abbiamo al contrario una
rete di rapporti che si evolve continuamente fra una molteplicità irriducibile di luoghi di
osservazione e di spiegazione che si mischiano e correlano continuamente tra di loro.
Non esiste, quindi, un vero contesto ma una situazione con regole, ruoli, aspettative e
funzioni costruiti dai suoi partecipanti. Il contesto non ci si presenta ordinatamente in
collaborativo, terapeutico, giudiziario, accusatorio e così via. Queste sono divisioni che
operiamo noi stessi con vari scopi. Proprio questa soggettività richiede uno sforzo
particolare per conoscere l’oggettività peculiare di ogni specifico luogo d’intervento.
Come si è visto, quindi, è possibile arrivare a comprendere il comportamento umano
secondo un’ottica relazionale, inserendo tale comportamento nel contesto in cui si
manifesta. Partendo da questo presupposto è chiaro che il comportamento disturbato
(apparentemente inspiegabile) può essere considerato come adeguato alla situazione
comunicativa in cui è inserito. Se osserviamo, ad esempio, lo stesso individuo
sintomatico all’interno dell’ospedale o nel suo contesto di appartenenza ci accorgiamo
che i suoi sintomi acquisiscono un significato molto diverso: l’ospedale è un ambiente
fortemente normalizzante, in cui la persona viene confrontata con una “normalità”
precostituita, mentre nel contesto originario i suoi sintomi appaiono come un’esagerazione di un credere comune all’intero sistema.
Il tentativo di cambiare, cioè di togliere il disagio ed il malessere del singolo individuo,
passerà, ovviamente, per una strada diversa, sarà cioè il tentativo di cambiare la
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situazione comunicativa che vive quel dato individuo e che in qualche modo sembra
determinare l’esistenza del problema. Il lavoro psicoterapeutico viene così inteso come
un lavoro di rielaborazione della propria storia nel senso che, con l’aiuto del terapeuta,
il singolo individuo, la coppia, la famiglia escono dal contesto in cui sono immersi,
ristrutturano i dati della loro storia passata ed attuale in quanto creano e trasformano
nuovi processi storici di cui diventano protagonisti.
Dice Maria Grazia Cancrini22 «Nel momento in cui non pensiamo più al disturbo
mentale come da un congegno che si è rotto dentro l’individuo, come la psicopatologia
classica l’ha sempre considerato, ma lo consideriamo come l’espressione di una
comunicazione in qualche modo adeguata al contesto, ciò che tenteremo di cambiare
sarà la situazione in cui questa comunicazione avviene, cioè il sistema interattivo che
ha fra le sue regole quella comunicazione; su tali presupposti gli strumenti del
cambiamento saranno ovviamente quelli della comunicazione, verbale e non verbale,
digitale e analogica».
Secondo la teoria del doppio legame, il sintomo schizofrenico viene considerato come il
tentativo di non comunicare, di “non esserci”, al fine di sfuggire al dilemma presentato
dalla comunicazione paradossale, è evidente come in questa situazione lo sforzo del
terapeuta, cioè della persona cui viene richiesto un cambiamento, dovrà essere quello di
modificare la rete di messaggi paradossali ed incongrui che vengono a determinare la
situazione schizofrenica.
Nel corso degli ultimi anni il concetto di contesto è divenuto sempre più articolato e
complesso in quanto i “luoghi” in cui si situa la relazione terapeutica si correlano a
problematiche più ampie. I terapisti sistemici cominciano a constatare che il dove viene
condotta la psicoterapia non è soltanto un contenitore di azioni, ma una variabile
incidente sull’effetto di tali azioni. Prendono così atto che non sono soltanto i
comportamenti dei membri della famiglia ad assumere significati in relazione alla
situazione; il principio della contestualizzazione vale anche per le azioni dei terapisti.
Ad esempio il rapporto tra contesto pubblico e contesto privato implica un’analisi delle
modalità secondo cui psicoterapeuta e utente si mettono in relazione tra di loro in
situazioni sociali diverse. Ad esempio si è potuto constatare che nell’ambito privato la
domanda del cliente-paziente è orientata dalla competenza del terapeuta cui egli si
22
Cancrini M. G., Zavattini G. C., Individuo e contesto nella prospettiva relazionale, Bulzoni, Roma,
1977.
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rivolge e dalla tecnica che questi utilizza. Il terapeuta a sua volta prende in carico il
paziente valutando se esistono le condizioni necessarie e indispensabili per applicare
quella specifica tecnica psicoterapeutica alla situazione in esame.
Nell’ambito del servizio pubblico la domanda di aiuto che viene rivolta al terapeuta è
estremamente eterogenea e può essere fatta da o per utenti di differente età e differente
diagnosi clinica, provenienti da contesti socioculturali anch’essi molto differenti tra di
loro.
Quanto i diversi contesti influiscano sulla relazione ci viene indicato anche dal nome
con cui i partecipanti a tale relazione vengono indicati: terapeuta-cliente nel privato,
operatore-utente-paziente nel pubblico. Anzi, nel pubblico si ha la doppia
denominazione utente-paziente, che in genere distingue chi ha già una diagnosi
psichiatrica (paziente) e si rivolge a un servizio di salute mentale, da chi non è stato
etichettato e si rivolge a quello o ad altri servizi sociosanitari.
In questi ultimi anni è stato compiuto in modo accurato un lavoro d’indagine e di
riflessione sull’intervento relazionale-sistemico in contesti non terapeutici. In questa
direzione si sono mossi numerosi autori: prima fra tutti la Selvini Palazzoli occupandosi
di macrosistemi; Malagoli Togliatti approfondendo le esperienze d’intervento da parte
degli operatori che svolgono ruoli non terapeutici o, più recentemente, Stefano Cirillo
attraverso un lavoro di valutazione e di controllo per la tutela del minore attraverso le
esperienze del centro milanese per il bambino maltrattato.
Conclusioni
Per studiare il comportamento umano, abbiamo visto nei paragrafi precedenti della tesi,
non possiamo isolare l’individuo dal suo contesto, ma dobbiamo sempre considerare gli
effetti che il suo comportamento ha su gli altri, le loro reazioni e il contesto in cui
avviene l’interazione. Ne deriva che, se pensiamo che per studiare il comportamento
umano dobbiamo prendere in considerazione la relazione tra le parti all’interno di un
sistema, allora studieremo la comunicazione umana come veicolo delle manifestazioni
comportamentali osservabili nella relazione stessa.
Come ha affermato Gregory Bateson la comunicazione si crea attraverso le incessanti
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alchimie e trasformazioni che si generano all’interno delle relazioni tra gli elementi che
compongono il sistema; la comunicazione, dunque, nasce e si sviluppa nel segno delle
differenze e del cambiamento, in un universo di messaggi che acquisiscono un chiaro
significato solamente se collocate nel loro contesto relazionale e ambientale.
Il contesto, tuttavia, non è da intendersi come “ciò che limita” l’individuo, e neppure
come un contenitore “dentro” il quale stanno le persone o le loro azioni. Le persone e
ciò che esse fanno creano un intreccio di relazioni che contestualizzano le loro
comunicazioni. Come ha affermato Minuchin «… la vita psichica di un individuo non è
un processo totalmente interno. L’individuo influenza il suo contesto e ne è influenzato
tramite costanti e ricorrenti sequenze interattive» I messaggi creano contesti, che
ininterrottamente danno significato ai messaggi. E questo intreccio di relazioni è in
costante movimento, in evoluzione.
Abbiamo visto, infine, come ciò che assicura la stabilità dell’identità psicologica
dell’individuo sia la costanza dei segni di riconoscimento del contesto (detti anche
marche di contesto o context marker), che permettono di discriminare tra gli
innumerevoli contesti relazionali all’interno dei quali l’individuo viene a trovarsi.
L’interazione può essere dunque segmentata in contesti, ciascuno contrassegnato da
metasegnali, il riconoscimento dei quali attiva in un soggetto una classe di
comportamenti, in relazione alle esperienze precedenti. Secondo questo concetto,
contesto non è un semplice sinonimo di circostanze obiettive ma rimanda a precedenti
contesti di apprendimento.
Perché parliamo di contesto
Perché descrivere per quasi metà tesina il contesto e la sua importanza ? A mio avviso il
contesto è la parte più importante per definire sia la malattia che la cura. Questo perché
per poter tracciare delle linee, o ipotizzare una causa per cui quella persona possa avere
agito in quella determinata maniera invece che in un’altra, bisogna in primo, valutare il
contesto della persona. Si prenderanno in considerazione tutti gli aspetti quotidiani che
caratterizzano la persona, analizzandoli e spiegando il motivo di determinate scelte e
meccanismi messi in atto nelle diverse situazioni. Che si tratti di un colloquio fra
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psicologo e paziente, o musicoterapeuta e gruppo disabile grave non cambia niente, il
contesto di essi ha influenzato positivamente o negativamente lo sviluppo della persona,
determinando la causa della malattia. Ad esempio L., sano di nascita, assiste alla morte
del padre, fatto a cui nessuno di noi vorrebbe mai assistere. In questo modo il contesto
inizia ad entrare in gioco, modificando la crescita della persona. Il contesto quindi è
portatore di messaggio e senza di esso a mio avviso non vi sarebbe una concreta presa
in carico. Decido quindi di inserire in questo paragrafo il lavoro che ho individualmente
svolto con N. poiché con lui più che con gli altri, è necessario soffermarsi su tutti gli
aspetti non verbali e sul contesto che lo circonda in quanto egli non è in grado di fornire
risposte concrete alle attività e agli stimoli, mentre come già spiegato, il contesto è alla
base del messaggio, messaggio come matrice di significati.
Per parlare di N. è però necessario introdurre la patologia dalla quale è affetto:
l’autismo.
L’autismo
Dal mio punto di vista le persone affette da autismo sono come un sole che non
sprigiona né luce né calore. Questo perché, riferendomi alla mia esperienza con un
autistico grave, quando si prova ad entrare in comunicazione con loro è come cercare un
punto di incontro tra due rette parallele, destinate a non incrociarsi mai. In realtà tale
affermazione è un’esagerazione, in quanto nell’autismo esistono speranze di incontro e
avvengono per lo più in contesti che non utilizzano il canale verbale. Ecco perché la
musicoterapia e altre forme terapeutiche non verbali sono importanti forme di
comunicazione e di apertura.
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L'autismo è un disturbo di cui attualmente l'eziologia (ossia la causa) non è nota. E' per
questo che la diagnosi viene ancora effettuata in base ad indicatori comportamentali.
Ciò significa che come sintomi vengono considerati specifici comportamenti del
paziente.
Tale modalità di classificazione e diagnosi del ''disturbo autistico'' è quella attualmente
adottata dai due manuali diagnostici più utilizzati: il DSM IV e l'ICD 10. Essi
forniscono semplicemente una griglia d'osservazione (la più diffusa, ma non
univocamente accettata) che lo specialista potrà seguire per la diagnosi.
Attualmente molti quadri sintomatici differenti vengono designati (talvolta anche
impropriamente) con il termine autismo. Per questo si preferisce spesso parlare più
genericamente di disturbi dello spettro autistico.
All'interno di tale definizione si fanno oggi rientrare tutte quelle patologie caratterizzate
da gravi alterazioni del comportamento, della comunicazione e dell'interazione
sociale. Questo tipo di disturbi è classificato dall'American Psychiatric Association
(DSM IV) col nome di Disturbi generalizzati dello sviluppo, poiché altera
diffusamente la normale evoluzione della personalità.
In questa sezione diamo una descrizione in generale dei tre disturbi dello sviluppo più
studiati (autismo, sindrome di Asperger e sindrome di Rett), per poi analizzare più in
dettaglio quanto riportato a questo proposito dal DSM IV e dall'ID 10.
Autismo, Descrizione generale
Visione d'insieme
L'autismo è considerato dalla comunità scientifica internazionale un disturbo che
interessa la funzione cerebrale. Normalmente i sintomi sono rilevabili entro il
secondo/terzo anno di età e si manifestano con gravi alterazioni nelle aree della
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comunicazione verbale e non verbale, dell'interazione sociale e dell'immaginazione o
repertorio di interessi. Le persone con autismo presentano spesso problemi
comportamentali che nei casi più gravi possono esplicitarsi in atti ripetitivi (rituali,
stereotipie, ecc.), anomali, auto o etero-aggressivi.
L'autismo si trova a volte associato ad altri disturbi che alterano in qualche modo la
normale funzionalità del Sistema Nervoso Centrale: epilessia, sclerosi tuberosa,
sindrome di Rett, sindrome di Down, sindrome di Landau-Klefner, fenilchetonuria,
sindrome dell'X fragile, rosolia congenita. L'incidenza varia da 2 a 20 persone su
10.000, a seconda dei criteri diagnostici impiegati e colpisce i maschi 4 volte di più
che le femmine in tutte le popolazioni del mondo di ogni razza o ambiente sociale.
L'autismo fu descritto come quadro clinico per la prima nel 1943 da Leo Kanner.
I sintomi
I sintomi riguardano le tre aree della personalità viste più sopra (comunicazione
verbale e non verbale, interazione sociale e immaginazione o repertorio di interessi).
Comunicazione verbale e non verbale
La persona utilizza il linguaggio in modo bizzarro o appare del tutto muta; spesso
ripete parole, suoni o frasi che sente pronunciare (ecolalia). Anche se le capacità
imitative sono integre, queste persone spesso hanno notevoli difficoltà ad impiegare i
nuovi apprendimenti in modo costruttivo in situazioni diverse. Spesso è presente
ritardo mentale.
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Interazione sociale
Apparente carenza di interesse e di reciprocità con gli altri; tendenza all'isolamento e
alla chiusura; apparente indifferenza emotiva agli stimoli o ipereccitabilità agli stessi;
difficoltà ad instaurare un contatto visivo (es. guardare negli occhi le persone), ad
iniziare una conversazione o a rispettarne i turni, difficoltà a rispondere alle domande
e a partecipare alla vita o ai giochi di gruppo. Non è infrequente che bambini affetti da
autismo siano inizialmente diagnosticati come sordi, perché non mostrano alcuna
reazione, come se non avessero udito appunto, quando sono chiamati per nome.
Immaginazione o repertorio d’interessi
Di solito un limitato repertorio di comportamenti viene ripetuto in modo ossessivo; si
possono osservare sequenze di movimenti stereotipati (per es. torcersi o mordersi le
mani le mani, sventolarle in aria, dondolarsi, ecc.) detti appunto stereotipie. Queste
persone possono manifestare eccessivo interesse per oggetti o parti di essi, in
particolare se hanno forme tondeggianti o possono ruotare (biglie, trottole, eliche,
ecc.). Si riscontra una resistenza al cambiamento che per alcuni può assumere le
caratteristiche di un vero e proprio terrore fobico. La persona può esplodere in crisi di
pianto o di riso. Può diventare autolesionista, iperattiva ed aggressiva verso altro o
verso oggetti. Al contrario alcuni mostrano un'eccessiva passività e ipotonia che
sembra renderli impermeabili a qualsiasi stimolo.
La gravità e la sintomatologia dell'autismo variano molto da individuo a individuo e
tendono nella maggior parte dei casi a migliorare con l'età (soprattutto se il ritardo
mentale è lieve o assente), anche se una remissione totale dei sintomi è un evento
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particolarmente raro.
Possibili cause
Non è stata individuata una causa specifica per l'autismo, anche se molti e diversi sono
i fattori osservati che possono contribuire allo sviluppo della sindrome. Poiché nel
60% dei casi gemelli omozigoti (che hanno lo stesso patrimonio genetico) risultano
entrambi affetti, con tutta probabilità una componente genetica esiste, anche se non è il
solo fattore scatenante: in questo caso la percentuale di concordanza dovrebbe essere
non del 60% ma del 100%. Gli studi di genetica si stanno attualmente concentrando su
alcune regioni dei cromosomi 7 e 15.
Come fattori implicati sono stati riscontrate anche anomalie strutturali cerebrali
(cervelletto, amigdala, ippocampo, setto e corpi mammillari), anomalie a livello di
molecole che hanno un ruolo nella trasmissione degli impulsi nervosi nel cervello
(serotonina, beta-endorfine).
Come precedentemente visto, l'autismo può inoltre presentarsi insieme ad altre
sindromi già note: X-fragile, sclerosi tuberosa, fenilchetonuria (non trattata) e rosolia
congenita.
E' importante ribadire che nessuno dei fattori precedentemente illustrati può essere
identificato come "la causa dell'autismo", poiché, anche presi tutti insieme, essi
rendono conto solo di una parte della popolazione di persone affette da autismo.
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Trattamenti
Data l'alta variabilità individuale, non esiste un intervento specifico valido per tutti
allo stesso modo. Inoltre raramente è possibile ottenere la remissione totale dei
sintomi. Per questo sono molti e diversi i trattamenti rivolti all'autismo. Gli unici però
supportati da studi scientifici sulla loro validità sono gli interventi di tipo
comportamentale e quelli di tipo farmacologico.
Gli interventi educativo-comportamentali risultano tanto più efficaci quanto più i
bambini sono piccoli. Gli interventi più efficaci risultano spesso essere quelli effettuati
in età precoce. L'intervento si basa su un training altamente strutturato e spesso
intensivo adattato individualmente al bambino. I terapisti lavorano sullo sviluppo delle
capacità sociali e di linguaggio.
L'impiego dei farmaci è volto alla riduzione o all'estinzione di alcuni comportamenti
problematici o di disturbi associati come l'epilessia e i deficit di attenzione, col fine di
evitare ulteriori aggravamenti o per migliorare la qualità della vita.
Anamnesi di N.
N. si presenta come un ragazzo che, malgrado sia tendenzialmente restio al contatto
sociale, si dimostra vivace, dinamico e sembra aver raggiunto una qualche
consapevolezza sociale. Anche se il suo atteggiamento è quasi sempre passivo, vale a
dire di attesa che la relazione si concretizzi grazie all’avvicinamento alle situazioni
sociali per esplorarle e stabilire un contatto.
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N. stabilisce delle relazioni gradualmente: inizia con un contatto fisico fortuito che è
agevolato dal suo stereotipo movimento delle mani con le quali tocca l’altro e poi,
annusa la propria mano per captare, evidentemente, odori familiari che lui può
identificare come rassicuranti o, al contrario sconosciuti. In quest’atteggiamento si può,
forse, dedurre una qualche apertura all’altro che si protrae nel tempo e si ripete in tutte
le occasioni in cui N. incontra la stessa persona, mostrando in questo modo, anche una
certa intenzionalità alla relazione sociale. Anche lo sguardo di N. non è sempre evitante,
ma si può osservare, ogni tanto, la ricerca dell’altro attraverso sguardi seppure sfuggenti
e di qualche secondo. Inoltre, N. dimostra anche una certa capacità ad esprimere stati
affettivo – emozionali come ad esempio il mettere attraverso gesti intenzionali come ad
esempio il mettere un braccio intorno alla spalla di un’altra persona (solitamente
l’operatore) o cercando la mano dell’altro per tenerla nella sua per molto tempo. A
volte, la relazione è solo strumentale e messa in atto per raggiungere propri scopi: può
accadere che N. si avvicini ad una persona per sollecitare proprie stimolazioni
sensoriale, toccando delle parti morbide dell’altro con le mani (ma verso cui si dirige, a
volte, anche con il viso), traendone visibile piacere tattile.
Per quanto riguarda il linguaggio e la comunicazione, N. presenta notevoli difficoltà:
non ho ancora osservato in lui la capacità di esprimere, anche solo attraverso gesti di
assenso o di dissenso, una sua opinione o preferenza, quando gli si rivolge una
domanda. La sua volontà la si deduce attraverso il comportamento improvviso di tutto il
corpo: N. è capace di chiedere qualcosa solo attraverso il suo avvicinarsi
prepotentemente verso la meta desiderata in quel momento, oppure, attraverso
l’allontanarsi da essa. In certi momenti, emette dei suoni che assomigliano ad una
cantilena ma non appaiono specifici di una data situazione. Mostra di possedere delle
abilità (mangiare utilizzando le posate, vestirsi e svestirsi durante l’utilizzo dei servizi
igienici) ma, spesso, ha bisogno di essere continuamente stimolato per intraprendere tali
attività. Infatti, N. tende ad un atteggiamento dipendente, attendendo che sia l’operatore
ad aiutarlo o a stimolarlo a fare da sé.
Il comportamento di N. appare abbastanza ripetitivo: tende a girovagare per il centro
diurno, a volte, mettendo in atto una specie di gioco con l’operatore, facendosi inseguire
e verificando che ciò stia avvenendo, girandosi spesso all’indietro e, in alcuni casi,
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sorridendo e mostrandosi divertito.
Tende ad intrattenersi in attività legate al
movimento della mano che tocca il proprio corpo (il viso e all’altezza della caviglia),
tocca l’altro se è vicino, annusa. Mentre cammina fa dei giri su se stesso e, a volte,
sembra obbligato a mettere in atto tali gesti per potere proseguire; se è insieme
all’operatore con cui è abbracciato, si distacca per qualche secondo per effettuare il
movimento, per poi riabbracciarlo. Tende ad esplorare l’ambiente che lo circonda
attraverso lo sguardo, il tatto, ma soprattutto tramite la bocca: quasi tutto ciò che
colpisce la sua attenzione, dopo averlo annusato (in certi casi) arriva alla bocca, fino ad
ingerirlo, senza riuscire a discriminare ciò che è innocuo da ciò che può essere nocivo
per la sua salute. In alcuni momenti, compare un comportamento che può essere, sia in
interpretato come l’espressione di una forte emozione di difficile gestione, ma anche
come una atto autolesionistico (stringe fortemente un braccio alla testa, a volte, stringe
quello dell’operatore, piegando la sua testa in avanti) esprimendo, con il volto, una
notevole sofferenza.
Durante le attività laboratoriali, N. tende a partecipare sempre in maniera marginale,
interagendo con i membri del gruppo in modo da apparire causale, pur mostrando una
certa intenzionalità di condivisione dell’esperienza. Nel corso di un’attività di
pedipolazione con i colori, in un gruppo allargato, N. è riuscito a partecipare per tutta
l’attività, immergendosi nel gruppo che colorava con i piedi a ritmo di musica. In certi
momenti, esprimeva il bisogno di girare da solo, senza il contatto dell’operatore, in altri,
ne accettava volentieri la sua vicinanza. In quest’occasione, appariva divertito dal
constatare che i suoi piedi, colorati ogni volta con colori diversi, lasciavano una traccia
sul foglio bianco: camminava e guardava le sue impronte. Anche in questo caso,
mostrava la tendenza a conoscere attraverso la bocca, tentando di portare alla bocca, le
bottiglie di colore. Anche l’attività di rilassamento sembra essere un attività che N.
apprezza. Tuttavia, ho potuto constatare che se N. tende a restare ipervigile e a
mantenere un controllo costante sull’ambiente circostante. La stessa attività, quando è
effettuata in un rapporto individualizzato, diviene un’esperienza emotivamente
pregnante e gradevole: pian piano N. si rilassa, distende i suoi muscoli, abbandonandosi
molto di più all’esperienza di rilassamento. Nel momento in cui N. incomincia a
mostrare segni d’insofferenza rispetto al permanere in gruppo, lui stesso si dirige fuori e
il fatto di camminare nel giardino circostante in Centro diurno, a ritmo sostenuto, lo
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aiuta a distrarsi e a permettersi ancora, successivamente, di ritornare al’interno del
gruppo.
A volte, la passeggiata fuori dalla struttura diviene un’attività programmata in cui è
possibile instaurare con N. un rapporto di maggiore conoscenza attraverso il quale
stabilire anche delle semplici regole come ad esempio, la necessità di mantenere sempre
un contatto ed una vicinanza per ridurre al minimo le situazioni di pericolo (attraversare
improvvisamente, ingerire sostanze ecc); stimolare N. ad osservare l’ambiente esterno
(conoscere la natura circostante, le strade, orientarsi nel centro del paese); rinforzare la
relazione attraverso una maggiore conoscenza ed un rapporto che si ripete nel tempo.
Altre volte, uscire fuori a camminare rappresenta, semplicemente, un’attività catartica
per aiutare N. a tirare fuori la tensione (visibile anche attraverso il movimento del suo
corpo che diviene quasi, incontrollato) e riacquisire una maggiore distensione
psicofisica.
Massaggio Infantile
Tatto e Pelle
La pelle è il primo organo che si sviluppa, e il TATTO il primo senso ad essere attivo.
Il senso del tatto è pienamente formato a sette settimane di gestazione, quando il feto è
lungo due centimetri. Con N. Infatti, il principale strumento di comunicazione è il tatto.
Attraverso di esso, egli comunica un suo stato, di rifiuto o di accettazione, mandando
così feedback all’altra persona. Ad esempio, dalle prime attività, all’ultimo giorno di
progetto, N. per prima cosa mi odorava, toccandomi in qualsiasi parte del corpo, e se il
mio corpo produceva sudore o profumo, lui comunicava un suo stato d’animo, di
tranquillità se mi sentiva sudato, perche a mio avviso, voleva dire che io facevo
qualcosa, anche solo corrergli dietro per lui, nell’altro caso, nella maggior parte,
comunicava rifiuto nei miei confronti.
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Il TATTO è diverso da tutti gli altri sensi in quanto implica sempre la presenza del corpo
che tocchiamo e del nostro corpo che tocca l'altro. A differenza che nella vista e
nell'udito, nel CONTATTO sentiamo cose DENTRO di noi, dentro il nostro corpo.
Nel gusto e nell'olfatto le esperienze sono limitate alle superfici della cavità nasale e del
palato.
Il senso del TATTO è diffuso sull'intera superficie della pelle, ma le terminazioni
nervose sono concentrate soprattutto in alcune zone: palmo della MANO e DITA pianta del PIEDE - LABBRA.
L'area della mano occupa un terzo del centro motorio del cervello. Le mani, e
specialmente le punte delle dita, sono collegati al cervello con un numero di nervi
infinitamente superiore a quello dei nervi che collegano al cervello altre parti del corpo.
L'area del cervello dedicata alle labbra, è sproporzionatamente vasta rispetto a quella
dedicata ad altre strutture che sono anche in relazione con le labbra.
Nella pianta del piede terminano 72.OOO nervi. Durante o prima delle infezioni virali
di qualunque tipo, i piedi dei bambini presentano parecchi punti dolenti. Pressioni
giornaliere su tali punti, e un delicato massaggio, lo aiutano a "rivitalizzarsi". (v.
Reflesssologia)
Anche se il tatto non è di per sé un fatto emotivo, non è sentito solo come semplice
modalità fisica, ma, affettivamente come sentimento.
Le esperienze del bambino di contatto col corpo della madre, costituiscono il suo primo
e fondamentale mezzo di comunicazione, il suo primo linguaggio, il suo primo
CONTATTO con un altro essere umano.
Il bambino s’identifica con le ESPERIENZE TATTILI che fa nei primi sei mesi di vita.
Col massaggio lo aiutiamo a prendere coscienza del suo corpo. Solo acquisendo la
coscienza dei propri CONFINI, all'inizio costituiti dal CORPO, può allargarli, acquisire
autonomia, andare verso spazi sempre più aperti.
TOCCARE è far passare L'AMORE attraverso la PEL.
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Seduta musicoterapica con N.
Setting
Le sedute musicoterapiche con N. non si svolgevano mai in un luogo prestabilito, tanto
meno mi prefissavo setting specifici, poiché dovevo adattarmi alle sue esigenze. Questo
perché, come già detto, per noi operatori è impossibile e controproducente tenere N.
obbligatoriamente in una stanza a fare attività. Ho dovuto dunque agire di conseguenza,
cambiando anche all’interno della stessa seduta setting e attività che mi ero riproposto
di svolgere. Nei momenti in cui N. si mostrava più disposto a collaborare, le attività
erano le seguenti:
 Giocare con una palla grande a suon di musica.
 Ascoltare suoni regressivi come il battito del cuore, rumori intestinali.
 Ascoltare rumori della vita quotidiana, come l’abbaiare e di un cane, il rumore
dell’acqua che scorre, il fischio di un vigile, il vento, il tuono, la pioggia, le
macchine che passano, operai al lavoro e le onde del mare.
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 Tentativi di approccio a vari strumenti musicali: dejeredoo, legnetti, bongos,
maracas, triangoli e tamburo.
 Pattinaggio musicale.
 Massaggi.
 Imitazione.
Accompagnati da musiche stimolanti il movimento, io ed N. giocavamo con una palla di
grandi dimensioni, divertendoci soprattutto a farla rimbalzare contro il muro, a
passarcela e in molte occasioni io la tiravo contro di lui. Quest’attività è stata la più
semplice, ma forse la più coinvolgente per entrambi, poiché invece di bloccare il
movimento con attività calmanti, invitavo N. al libero sfogo.
Per quanto riguarda l’ascolto di suoni regressivi, il battito del cuore è per lui rilassante,
suscita la sua curiosità e a tratti N. sembra divertito. I rumori intestinali invece
sembrano per lui momenti di scoperta. Anche in questo caso N. s’incuriosisce e pare
rilassato, manifestando inoltre il bisogno del contatto con l’operatore.
I rumori della vita costituiscono per me e per N. una fonte importante di stimoli. A mio
avviso, questi suoni possono essere utilizzati come stimolo per diverse attività e per
alcune persone possono rimandare ad esperienze totalmente personali. Il significato che
questi suoni assumono per N. non si può sapere con esattezza, penso solo che essi
possano costituire importanti fonti di comunicazione col mondo che lo circonda. Dico
questo perché quando gli facevo ascoltare questi suoni egli non dava importanti segnali
a livello verbale e non, continuando imperterrito nella sua monotona rotazione del
corpo. In effetti, N. sembrava manifestare curiosità a qualsiasi suono gli venisse
proposto, alzando lo sguardo verso lo stereo ogni volta, indistintamente, senza tuttavia
comunicare lo stimolo percepito.
Per quanto riguarda l’approccio ai vari strumenti qui sopra elencati, ho potuto constatare
che il dejeredoo è uno strumento potente e invasivo a cui N. reagiva talvolta scoppiando
a ridere e incuriosendosi molto, provando anche lui a soffiarvi dentro. I legnetti invece,
uno strumento di piccole dimensioni, non erano apprezzati da N. infatti ogni volta che li
usavo egli li gettava a terra, di conseguenza io facevo lo stesso, provocando anche in
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questo caso il sorriso di N. e suscitando la sua curiosità. Il bongos invece è uno
strumento anch’esso potente, ma con un timbro orientaleggiante, per il quale N. provava
scarso interesse. Ho usato questo strumento perché ho pensato di riuscire ad entrare in
comunicazione con il suo corpo attraverso tale suono. Anche con le maracas ritenevo di
poter stabilire una comunicazione con l’utente, creando un clima di festa ed allegria, in
quanto questo strumento ricorda danze brasiliane e ritmi latini. Il triangolo è uno
strumento perforante, il suo suono esprime calma, ansia, dolcezza, ma anche l’esatto
contrario, per questo N. era da un lato rilassato, dall’altro quasi infastidito da tale suono.
Infine il tamburo è uno strumento il cui suono è potente tanto da poter arrivare ad
incutere timore e ad esprime angoscia (non a caso il rullo di tamburi è utilizzato per
creare suspense e attesa). N. ne era attratto, a più riprese ha tentato di suonare con le
bacchette, o semplicemente con le mani, lo strumento, che suscitava in lui grande
interesse e lo faceva sentire forte e protetto.
Il pattinaggio musicale è dal mio punto di vista una delle attività più appropriata per N.,
in quanto stimola e non impedisce il suo movimento, anzi, lo invita alla libera
espressione corporea. Partivamo da una stanza chiusa con musiche di Beethoven,
Mozart e Chopin e, inseguendo N. per la stanza instauravamo una specie di “guardia e
ladri” nel quale lui doveva fuggirmi, il che suscitava in lui grande ilarità. La musica
accompagnava il tutto, creando per entrambi un’atmosfera giocosa dalla quale traevamo
la giusta energia per la nostra attività.
I massaggi erano per N. fonte di rilassamento. Insediandoci in una stanza appositamente
adibita (luce soffusa, materassini, cuscini di varie dimensione etc.), ci stendevamo su un
materasso lasciandoci cullare dalle musiche rilassanti che coinvolgevano e
armonizzavano corpo e spirito. Così iniziavo dai polpacci, per poi risalire alle cosce,
soffermandomi sulla pancia per trasmettere energie e calore, passando dalle braccia con
movimenti dolci per arrivare infine alla testa, massaggiandola lentamente,
distaccandomi e avvicinandomi in base a ciò che mi trasmetteva.
Quando notavo che N. non era particolarmente ben disposto per la seduta, tentavo di
entrare in comunicazione con lui imitando le sue azioni. Così poteva andare avanti dalla
mattina sino all’ora di pranzo, nel tentativo di trovare un punto d’incontro, che potesse
essere d’aiuto a N.. Ad esempio, all’ora di pranzo, se lui gettava a terra il piatto, io lo
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imitavo, ma subito dopo raccoglievo il piatto enfatizzando il gesto, avvicinando a lui
quell’oggetto senza che lo toccasse. N. rimaneva incuriosito dal mio gesto, senza però
che questo lo conducesse a qualche miglioramento. Cercavo quindi, attraverso
l’imitazione, di produrre azioni terapeutiche importanti per N., dandogli modo,
attraverso l’uso del canale non verbale, di trovarsi un miglior comportamento per le
varie situazioni quotidiane della vita (mangiare, dormire, vestirsi, relazionarsi anche
solo non verbalmente agli altri etc.).
Risultati ottenuti con N.
Non posso raccontare né affermare che si siano creati, durante le sedute individuali di
musicoterapia, grandi miglioramenti. Per quasi tutto il periodo del project work N. mi
ha messo a dura prova, spingendomi al limite delle facoltà umane. Egli mi ha sempre
provocato anche durante le attività, manifestandosi raramente partecipe. I soli
miglioramenti, se così possiamo chiamarli, sono il rapporto che si è creato solo alla fine
del progetto tra me e N.. Solo alcune attività gli sono state d’aiuto, tra cui il pattinaggio
musicale, il suono dell’acqua e il rilassamento con il dejeredoo. Per tutto il resto, non mi
è stato possibile ottenere risultati positivi e feedback importanti, poiché era quasi
impossibile tenere N. all’interno di una stanza. Questo lavoro, sicuramente il più
difficile, mi ha però permesso, e solo ora che non mi occupo più di N. lo posso dire, di
capire l’efficacia della musicoterapia, l’importanza di una comunicazione non verbale,
le difficoltà che l’autismo comporta e mi ha sicuramente dato modo di pensare e di
rafforzare il mio carattere in vista di un successivo contatto con questo problema.
Sicuramente i risultati sperati non sono stati raggiunti, ma posso affermare che per poter
vedere un miglioramento bisogna, con la massima pazienza, aspettare e cogliere ogni
sfumatura, emozione, sguardo che ogni paziente presenta, imparando dalle piccole cose
si può aspirare a qualcosa di più importante.
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I principi base della pratica musicoterapeutica sono:

il paziente è assolutamente parte attiva della terapia;

la centralità del rapporto di fiducia e l’accettazione incondizionata rispetto al
paziente;

l’adattamento e la personalizzazione della tecnica volta per volta;

scambio reciproco di proposte tra paziente e musicoterapeuta.
La musica dà alla persona malata la possibilità di esprimere e percepire le proprie
emozioni, di mostrare o comunicare i propri sentimenti o stati d’animo attraverso il
linguaggio non verbale.
Tipico è il caso degli individui affetti da autismo, cioè individui che sono in una
condizione patologica della personalità, per cui tendono a rinchiudersi in se stessi
rifiutando ogni comunicazione con l’esterno. La musica dunque permette al mondo
esterno di entrare nella mente del malato, favorendo l’inizio di un processo di apertura.
La Musicoterapia si divide in tre rami principali:

la Musicoterapia recettiva;

la Musicoterapia attiva;

la Musicoterapia integrata.
Nella Musicoterapia recettiva al paziente viene fatta ascoltare musica registrata o
eseguita dal vivo dal terapeuta.
La Musicoterapia attiva si basa invece sull’applicazione di tecniche che prevedono una
partecipazione creativa sia dell’utente che dell’operatore. Tra le tecniche maggiormente
usate ci sono:

l’improvvisazione musicale;

il dialogo sonoro;
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
la composizione di canzoni (songwriting);

il movimento sulla musica;

il canto e la vocalizzazione.
Il paziente diventa soggetto attivo, partner musicale (per questo non è necessario che il
paziente abbia avuto alcuna formazione musicale precedente). Questo tipo di
musicoterapia è riuscita a volte ad attenuare blocchi neurologici seri.
La musicoterapia integrata utilizza elementi della musicoterapia attiva, elementi della
musicoterapia passiva e elementi di altre metodologie e discipline (ad esempio training
autogeno, fantasia guidata, tecniche di visualizzazione, yoga).
La musicoterapia viene utilizzata anche con finalità preventiva.
Un altro aspetto importante che mi ha portato a pormi delle domande, e a darmi delle
risposte, è stato l’utilizzo di Musicoterapia recettiva in una fabbrica operante nel settore
delle materie prime, come sassi e pietre. Gli operai sono costretti all’uso di tappi e
cuffie a causa dei pesanti rumori che i macchinari producono, concentrandosi quindi
solo sul lavoro. Quest’aspetto, mi ha permesso di fare delle ipotesi, arrivando ad
installare una piccola radiolina, dove il rumore era meno assordante e ovviamente in
orari prestabiliti. Io per primo, dopo il pranzo, ascoltando un po’ di radio o di musica da
cassette, mi distraevo, pensando meno alla fatica e alla grossa difficoltà di
comunicazione cui sarei andato incontro. Per molti aspetti, quella semplice radiolina è
stato un punto d’incontro dopo la pausa, ci si scherzava su, e questo ha permesso a tutti
sicuramente di iniziare il lavoro con più serenità. Dopo qualche periodo, addirittura il
responsabile si presentava nel nostro luogo di ritrovo per fare qualche chiacchiera, e
successivamente, ha cominciato presentarsi al lavoro munito di lettore mp3. E così
anche un altro dipendente ha iniziato ad ascoltare tutti i giorni la propria musica,
prediligendo, musica folk, regge e rock allo stato puro, ad esempio i Guns&Roses.
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Conclusioni e Ringraziamenti
La musica è indubbiamente uno stimolo per tutti, portatore di energia e carica personale.
La musica non fa domande, basta solo saperla indirizzare al punto giusto, saperla
ascoltare e lasciarsi trasportare da essa. So che ancora, purtroppo o per fortuna, questo
punto giusto non l’ho trovato, ma tutte queste esperienze mi stanno conducendo alla sua
ricerca, e dopotutto, inseguire qualcosa d’importante è all’ordine del giorno per tutte le
persone e ci fa, come dire, sentire più vivi perché abbiamo uno scopo per il quale
lottare.
Ringrazio la mia ragazza, attenta e precisa, che mi ha dato man forte nello svolgimento
di questa tesina, ringrazio il Centro Socio-Riabilitativo, ringrazio la canzone che mi ha
accompagnato nella stesura della tesina, colonna sonora di quasi tutta un’estate,
ringrazio il mio collega Lorenzo, (psicologo e psicoterapeuta) che mi ha offerto
tantissimi spunti e fonti per ampliare le mie ricerche sul contesto, ringrazio infine me
stesso, per lo meno per averci provato.
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