Years of `68 (Gli anni del `68)

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Years of `68 (Gli anni del `68)
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UN’ARTICOLO DEL DISSIDENTE EBREO-POLACCO
Years of ’68 (Gli anni del ’68)
Aleksander Smolar
Il linguaggio dei rivoluzionari sessantottini occidentali –
sostiene Aleksander Smolar - suona, alle orecchie dei polacchi,
“carico del peso dell’oppressione”. Il ‘68 occidentale è stato
spesso contrario alle ragioni della rivolta del Marzo di
Varsavia, ed indifferente alle successive purghe anti-sioniste.
Quegli eventi furono una tragedia per gli Ebrei polacchi
dell’epoca e continuano ad essere un grave problema oggi,
a quarant’anni di distanza
o lasciato la Polonia nel 1971. Dopo un anno di prigione e
l’infruttuosa ricerca di un lavoro, non ho lasciato solo il
Paese ma anche gli amici ed un contesto sociale che ancora risentiva della tragedia che era stata il Marzo del ‘68.1
Ci era stato fatto il lavaggio del cervello, alcuni di noi non ressero psicologicamente, Jacek Kuron e Karol Modzelewski2 erano ancora in carcere. L’ombra della repressione sovietica in Cecoslovacchia si stendeva sulla Polonia ancora quando, nel dicembre del 1970, cominciava a tirare un vento di novità.3
Il primo anno di esilio lo trascorsi a Bologna. Anche la mia
Italia, con i suoi docenti universitari di sinistra ed i suoi studenti, aveva avuto i suoi guai. Altro paese, altri problemi. Si respirava aria di nostalgia, si parlava di rivoluzione e delle teorie di
Mao. Si cantavano strofe inneggianti la violenza. Si idealizzava
la violenza, e non solo nelle canzoni. Gli studenti intonavano “rovesciare lo Stato, non cambiarlo”, e “è la violenza il solo rimedio
quando la violenza è al potere”. Nasceva il terrorismo.
L’anno dopo andai a Parigi, dove rimasi a lungo. Sulla città era
ancora forte il ricordo del ‘68. Un’intera generazione si nutriva
dei ricordi della rivoluzione, di quella “meravigliosa malattia”,
per dirla con Leszek Kolakowski. Anche qui la protesta era stata diversa da quella dell’Est: più estetica, quasi sacra, eroica. Bernard Henri-Lévy, la star del dopo-Maggio, ha scritto che il ‘68 è
stato uno dei momenti più significativi della storia francese.
Io ho avuto la fortuna di entrare nel brillante circolo liberal-conservatore di Raymond Aron; qui non c’erano né eroi né vedove
della rivoluzione. Aron, il grande umanista, il severo libero pensatore, veniva boicottato dagli studenti e da gran parte del mondo accademico. Jean-Paul Sartre, che in gioventù era stato suo amico, chiese “l’espugnazione della Bastiglia di Aron”, dopo che questi aveva parlato del ‘68 come di un “carnevale”, e di uno “psicodramma” che aveva minacciato le fragili fondamenta dell’ordine democratico.
In effetti, quando dieci milioni di lavoratori in sciopero si
unirono alle manifestazioni degli studenti, fu come se davvero
il “potere” fosse “sulla strada”. Tuttavia i comunisti, che avevano il controllo degli scioperanti, fecero di tutto per isolare i lavoratori dagli studenti. Mosca non aveva interesse a destabilizzare la Francia, poiché le premeva migliorare le relazioni con
l’Occidente e aveva già abbastanza problemi per conto suo con
la Primavera di Praga.
I sessantottini occidentali chiedevano più libertà, più giusti-
H
zia, più rispetto per il bisogno di auto-realizzazione dell’individuo, più
uguaglianza, apertura e “piacere senza doveri”. I giovani cercavano di
aprirsi un varco sulla scena pubblica per contestare l’ordine creato con
la Guerra Fredda e la ricostruzione
post-bellica.
Chi vi prese parte, ma anche chi
vi si oppose, ricorda il Maggio ‘68 come un’epoca di grandi dibattiti (Aron
lo definì “verbalismo”). La gente si
apriva, passava in massa al “tu” in
famiglia e nelle università.
Aleksander Smolar
I rivoluzionari del ‘68 prendevano le distanze dalla working class
conservatrice, vedendo piuttosto nei nuovi proletari del Terzo
Mondo e negli studenti – la vera nuova forza rivoluzionaria – il
nuovo soggetto della Storia.
Si ebbero progressi incredibili per le donne. Moltissime furono le ragazze che parteciparono al Maggio, ma il loro fu il ruolo della Marianna di Delacroix che, a seno nudo, portava la gente sulle barricate. La donna come allegoria, come mascotte. E
tuttavia il cambiamento avveniva alla velocità della luce. Nel
1965 una donna doveva ancora chiedere l’autorizzazione del marito per aprire un conto in banca e non poteva firmare la ricevuta delle tasse. La vera rivoluzione socio-culturale, però, cominciò nel 1967, con l’introduzione della pillola; da quel momento
in poi la vita sessuale della donna non veniva più vincolata alla
procreazione. Le donne divennero indipendenti. Il ‘68 dette all’emancipazione una lingua popolare.
Alcune cause dirette di quell’esplosione apparivano ovvie sin
dall’inizio. La generazione dei baby-boomers riempiva le università: non c’era più posto nelle biblioteche, nelle sale di lettura, nelle residenze. Gli studenti avvertivano un senso di insicurezza ed
incertezza per il futuro. L’apertura e la democratizzazione degli atenei avevano provocato un decadimento nella qualità. I laureati che
fino a quel momento avevano rappresentato l’elite, cominciarono a trovare un mercato del lavoro sempre più incerto.
La contestazione echeggiava anche la protesta contro l’America. Il Vietnam aveva causato una crisi profonda negli Stati Uniti e nelle loro relazioni con il resto del mondo. In un rapporto
preparato all’inizio del ‘68 per il Congresso, il Segretario di Stato alla Difesa, Robert McNamara, scriveva: “Negli Anni 60 il sistema bipolare che abbiamo conosciuto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha cominciato a crollare. Non è più possibile riconoscere con certezza chi siano gli amici e chi i nemici”;
diventava sempre più difficile usare concetti come quelli di
“mondo libero” e “Cortina di ferro”.
Il ‘68 fu il trionfo della comunicazione, soprattutto della Televisione. “Il mondo intero ci guarda”, diceva Jerry Rubin - il militante hippie divenuto poi un noto imprenditore - durante i sanguinosi scontri di Chicago. E aveva ragione. Fu proprio grazie al-
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la TV che il “mondo intero” poté vedere l’assalto del Tet, compiuto dalla guerriglia comunista nel sud del Vietnam. Per la prima
volta, un’America terrorizzata vedeva in diretta i cadaveri dei
soldati americani. I Vietcong erano stati decimati, ma gli Usa
avevano perso la guerra, anche se la pace venne siglata solo sette anni dopo.
Il movimento studentesco del ‘68, da Berkeley a Tokyo – ma
non nell’Europa dell’Est – era tutto contro il Vietnam. Nasceva un
nuovo pacifismo. Riemergeva il nazionalismo in Germania, anche
se questa volta aveva una matrice di sinistra. L’America veniva
identificata con il Nazismo, e la Germania divisa con il Vietnam.
Il leader degli studenti tedeschi, Rudi Dutschke, minacciava
di espellere dal Paese chi non avesse ripudiato la politica imperialista. I nuovi tedeschi volevano la pace ma cominciavano a pretendere di poter insegnare agli altri cosa fosse la pace. L’estrema
forma di ribellione degli studenti tedeschi destava allarme e richiamava i peggiori ricordi del passato. Intellettuali di destra
ma anche di sinistra come Jürgen Habermas e Max Horkheimer
parlarono del rischio di un nuovo totalitarismo: il linguaggio
totalitario, il ricorso alla violenza, il disprezzo per la cultura borghese, il liberalismo ed il pluralismo.
Ma un altro aspetto del ‘68 in Germania fu la ribellione contro la “generazione silenziosa”, il fare i conti con la generazione
dei padri per i crimini e la codardia del passato. Fu solo allora che
la Germania cominciò davvero a “lavorare sulla propria memoria”, avviando una profonda riflessione sulle responsabilità nazionali. Qualcosa di simile accadeva anche in Francia, sebbene
la questione della collaborazione, di Vichy, del Petainismo emersero solo molti anni dopo.
Sono sempre stato affascinato da questo Occidente agitato
dal ‘68; ma ho anche avvertito un senso di solitudine ed alienazione. La gente incontrata a Bologna e Parigi mi era vicina per
età, sensibilità, gusti culturali ma nello stesso tempo mi era incredibilmente lontana. A cominciare dal linguaggio. Per loro, la
categoria fondamentale era la rivoluzione. Milan Kundera condannò la contestazione parigina con la sua “esplosione di lirismo
rivoluzionario” per la Primavera di Praga e la sua “esplosione di
scetticismo post-rivoluzionario”. Quello che lui diceva sui Cechi
e gli Slovacchi valeva anche per Varsavia e la Polonia, con la differenza che gli intellettuali polacchi credevano già nel “socialismo dal volto umano”. In Occidente, i prigionieri della semantica – marxisti, leninisti, trotskisti, maoisti, situazionisti, anarchici e persino socialisti – descrivevano il mondo con la stessa lingua di Brezhnev e Gomulka. Bastava questo per impedire il dialogo, figurarsi l’intesa.
I ribelli occidentali naturalmente pensavano a qualcosa di diverso. I loro ideali avevano a che fare con la liberazione, l’individualismo e spesso erano consapevolmente anti-stalinisti – condannavano la violenza ufficiale, la “burocrazia sovietica” e la
“borghesia rossa” – ma il loro non era il linguaggio dell’innocenza. Il loro linguaggio era carico del fardello di quella oppressione che noi avevamo sperimentato sulla nostra pelle. Nel messaggio inviato agli studenti di Francoforte che protestavano contro
la sua designazione ad un prestigioso incarico accademico, Leszek Kolakowski scrisse: “Non ho alcuna intenzione di arruolarmi nelle fila di questa vostra lotta di classe contro i professori.”
Dal punto di vista polacco, quel linguaggio non era solo portatore di oppressione, era anche noioso da morire. Jozef Tischner4
era solito raccontare una barzelletta su due Cavalieri di Tatra
che si incontravano alla fine della guerra. L’uno dice all’altro:
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“Arrivano i rossi e ci ridurranno alla fame”. E allora l’altro risponde: “Fame o no, quello che è certo è che ci faranno morire
di noia.”
A partire dagli Anni 60 anche le autorità si resero conto che
quel linguaggio era ormai completamente morto.
Questo senso di noia non colpiva solo noi polacchi. Una settimana prima del Maggio francese, un giornalista, Pierre Viansson-Ponté, profeticamente scriveva: “La France s’ennuie”. I giovani aspiravano ad un cambiamento nella politica e nella società che, dopo la guerra, avevano creato una società gerarchica,
chiusa, governata dai gaullisti in maniera autoritaria. I rivoluzionari del ‘68 cercarono di rinnovare il linguaggio con l’aiuto di profeti come Herbert Marcuse, il cui nome venne presto affiancato
a quello di Marx e di Mao.
Nonostante il nobile impulso, i protagonisti del Maggio ‘68
divennero prigionieri di questo linguaggio. Non avevano niente altro con cui esprimere la propria ribellione. E questo ha condizionato il loro modo di vedere la nostra Europa, la Primavera
di Praga come il Marzo polacco. Il loro atteggiamento era ambiguo, indifferente, spesso addirittura ostile.
Noi europei orientali eravamo per definizione “contro-rivoluzionari”. Le autorità comuniste erano il prodotto della “rivoluzione tradita”, ma erano pur sempre protagonisti di una rivoluzione. Il “socialismo burocratico” era pur sempre socialismo.
Da parte loro, i comunisti non tolleravano la contestazione giovanile. Il linguaggio libertario, rivoluzionario minacciava l’intero establishment, lo stesso monopolio ideologico che il comunismo aveva sempre avuto a Sinistra.
Insieme ai gaullisti, i comunisti gestirono la distruzione po-
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litica del Maggio francese. Grazie a Dio. Anche se non va dimenticato che questo, all’epoca, significava fare l’interesse di Mosca.
Gli estremisti occidentali avevano un’idea di libertà completamente diversa da quella dei giovani polacchi e cecoslovacchi.
Mentre la nostra idea di libertà era una idea tradizionale, liberale, non violenta, per loro ogni vincolo era un impedimento all’esercizio della libertà. E diversa da quella dei rivoluzionari occidentali, era anche la nostra idea di democrazia. Loro parlavano di “democrazia diretta” e consideravano la loro come una democrazia “formale” e falsa. Rifiutavano, così, quelle istituzioni
che per noi costituivano un modello ideale. Criticavano il mercato e la società dei consumi cui tutti noi ambivamo.
Il ‘68 esasperò l’antinomia tra protesta e norma costituita. Lo
spirito del ‘68 occidentale fu la negazione delle regole, dei doveri e della legge: la legge del diritto, la legge delle convenzioni sociali, la legge morale della tradizione e persino la legge marxista
della storia. Sui muri si leggeva: “Sii realista, chiedi l’impossibile!” e “Vietato vietare”.
I manifestanti di Varsavia o della Primavera di Praga non hanno mai pensato di sovvertire le regole. Al contrario: nel lottare
per la libertà, il loro obbiettivo era imporre le regole del diritto
e dell’etica – imponendole al regime, qualunque esso fosse, per
limitarne gli abusi. Il ‘68 orientale, inoltre, non assunse mai una
dimensione etica.
In Polonia, il movimento del ‘68 pose le basi dell’opposizione democratica degli Anni 70 e 80. Pochi anni prima, Jacek Kuron e Karol Modzelewski scrivevano la loro “Lettera aperta al
Partito” – un rivoluzionario manifesto anti-bolscevico, redatto nel
linguaggio del marxismo. Il 30 gennaio 1968, alla fine della rappresentazione di Dziady,5 intonammo le parole di Karol Modzelewski: “Indipendenza senza censura”.
Per la prima volta, e quasi per caso, un messaggio anti-politico diveniva strumento di lotta contro l’autorità. Nel protestare contro la censura e per la libertà di espressione, e nel difende-
re i colleghi repressi, gli studenti si appellavano al diritto ed alla costituzione. Il loro obbiettivo non era - né avrebbe potuto essere - prendere il potere e sovvertire il regime esistente, ma semmai quello di limitarlo e mettere un argine alla sua tirannia.
A distanza di anni, si riesce a distinguere con nettezza la dimensione libertaria, anti-bolscevica, anti-statalista del ‘68 occidentale. Non è un caso se molti leader del ‘68 in Occidente hanno poi simpatizzato e sostenuto l’opposizione in Europa orientale. Tra i politici, i più conosciuti sono Joschka Fischer, che è venuto a Varsavia ad imparare il polacco da alcuni amici della sua
generazione; Bernard Kouchner, che ha manifestato davanti all’Ambasciata polacca contro l’introduzione della legge marziale; e Daniel Cohn-Bendit, che è sempre stato presente lì dove c’era bisogno di difendere la libertà.
Si trovano spesso sessantottini occidentali in prima linea per
il KOR (Comitato di Difesa dei Lavoratori), Solidarnosc, Charter
‘77 ed i dissidenti russi. In quei circoli, guadagnavano credito le
idee della Sinistra anti-totalitaria, e si risvegliava la passione per
l’Europa centrale, grazie al famoso articolo di Milan Kundera
“L’Occidente rubato e la Tragedia dell’Europa Centrale” (1983).
Fu in gran parte merito dell’opposizione ai regimi dell’Europa
orientale se i diritti dell’uomo hanno cominciato ad esser visti
come un’arma nella lotta per lo Stato di Diritto. La società civile – altro importante fattore della professione di fede dell’Europa centrale – contribuì a sua volta ad insinuarsi in Occidente come dimensione essenziale alla politica dell’anti-politica.
Il libro di Daniel Lindenberg sui “nuovi reazionari”6, ha provocato grandi polemiche quando è stato pubblicato, nel 2002.
L’autore, sessantottino lui stesso, accusava molti dei suoi contemporanei - Alain Finkielkraut, André Glucksmann, Marcel Gauchet,
ed anche scrittori più giovani, come Michel Houellebecq – di
aver abbandonato gli ideali del ‘68 per occupare posizioni conservatrici. Non è un caso se molti tra loro, compreso l’attuale
Ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ed il filosofo
André Glucksmann, si sono pronunciati in favore della guerra
in Iraq – esattamente come molti altri membri della ex opposizione in Europa centrale, da Václav Havel, ad Adam Michnik, fino a György Konrád. Analogamente, non è un caso se, poco prima di morire, Rudi Dutschke dichiarava: “IIn retrospettiva, il
grande evento del ‘68 europeo non è stato Parigi, ma Praga. Ma
all’epoca non potevamo rendercene conto.”7
Cosa ci ha lasciato il ‘68 occidentale? L’utopia è morta da tempo. Ma il ‘68, nei fatti, ha contribuito alla democratizzazione,
dall’interno, delle società occidentali. La rivoluzione culturale,
sociale, morale che si perseguiva all’epoca, è ancora al centro
dello scontro e del dibattito pubblico.
I movimenti sociali nati all’epoca sono ancora vivi: le femministe, gli ecologisti, i gay, i consumatori ed i movimenti regionali. Durante la campagna elettorale, Nicolas Sarkozy ha ferocemente attaccato lo spirito del ‘68. “[I sessantottini] hanno ignorato le vittime per difendere i criminali. Hanno sostenuto che non
c’è una gerarchia di valori, che tutto è permesso”. Il futuro presidente ha esposto queste considerazioni alla presenza di André
Glucksmann che, per la prima volta nella sua Storia, decide di
impegnarsi con un partito politico, per sostenere il candidato
della destra. Mentre Sarkozy pronunciava il suo discorso, lui, in
piedi al suo fianco ha sorriso, visibilmente imbarazzato.
La risposta di Glucksmann arriva con un libro, scritto a quattro
mani con il figlio, pubblicato a febbraio con il titolo “Il ‘68 spiegato a Nicolas Sarkozy”8.
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ma non c’è una nazione Ebrea-Polacca.
Quello che si cerca di spiegare a Sarkozy è in realtà l’aspetto
Così come la secolare storia degli ebrei spagnoli ha avuto fieroico del ‘68. Come un cittadino come lui, mezzo ungherese
ne nel XV Secolo, anche la storia degli ebrei polacchi ha una fimezzo ebreo, abbia potuto mettere in scena pubblicamente l’ulne, a metà del XX Secolo, anche se ben più tragica. Ecco perché
tima “ricomposizione” della sua famiglia e, ciononostante, essel’argomento a cui si riduce spesso il ragionamento di Gross – l’ire eletto Presidente della Repubblica. Alain Finkielkraut, d’altra
nevitabilità del dialogo ebreo-polacco – denota una totale inparte, non ha trovato molti argomenti per giustificare il Maggio
comprensione dell’argomento. Non esiste un simile dialogo, né
‘68 e la sua contestazione di ogni forma di gerarchia, senza la quapotrà mai esistere, perché manca l’interlocutore ebreo. Si può diale non vi sarebbe né cultura né educazione. Per lui il culto che i
logare con Israele, con le organizzazioni ebraiche in America,
suoi contemporanei hanno creato dell’evento di quarantanni fa
ma non esiste nessun dialogo ebreo-polacco in Polonia. È la Poè una “grande pantomima”.
lonia che dialoga con se stessa. E le emozioni evocate da Fear –
Ancora meno rimane del Marzo polacco. Svanito con Atlana dispetto dell’estremismo delle tesi espresse dall’autore – contide insieme al popolo della Polonia, di cui fu ad un tempo espresfermano quanto quel dialogo sia difficile.
sione e negazione. Lo stesso è accaduto con la Primavera di PraLa Polonia ha problemi con i suoi vicini, ma nessuna delle atga che, più ancora del Marzo polacco, fu carica di speranze e tratuali guerre della memoria ha il potere di minare l’identità pogedie. È impossibile oggi trovare traccia degli eventi del ‘68 se
lacca. Dopotutto, nessuno pretende che siano i tedeschi le vittinon nei protagonisti di quella generazione presenti, a vari livelme dei polacchi – anche se Jaroslaw Kaczynski teme una simile
li, nella vita pubblica.
eventualità. Analogamente, nessuno cerca di dimostrare che siaCome spiegare allora la roboante commemorazione del Marno stati i russi le vittime dei polacchi. Anche il reciproco ricozo ‘68 nella Polonia di oggi? Sfinita dai lunghi anni della transnoscimento delle reizione, e costretta a fasponsabilità verso l’Ure i conti con la sua
craina è avvenuto con
stessa identità, alla Pouna certa facilità, poilonia di oggi non resta
ché non costituiva in
che guardare al passasé una minaccia all’ito. C’è stata una suggedentità nazionale postiva celebrazione del
lacca.
sessantesimo anniverLe immagini di Jedsario dei Moti di Varwabne o Radzilow, insavia, ed un grande
vece, le scene del temevento è stato organizpo di guerra, dei pozato anche per il ventigroms di Kielce e Cracinquesimo di Solidarcovia, creano seri pronosc. Nel contesto di
blemi all’immagine caquesta riflessione sul
nonica della Polonia
passato, e in questa atromantica, della Namosfera di ricostruziozione di Cristo, dell’ene dell’identità nazioroica, sofferente Polonale, il Marzo ‘68 ci sta
nia, sempre dalla parte
bene. Come movimendel bene, della libertà,
to di protesta, il Marzo
della dignità.
‘68 appare un fenomeAnche qui, nel dino chiaro e comprensibattito polacco-polacbile, è l’impegno per la
Lech Walesa
co sull’atteggiamento
difesa dei valori, cosa
dei polacchi verso gli
che non suona affatto
ebrei, fa nuovamente capolino il Marzo. Si conviene tutti nel ricome una novità. Quasi nulla tuttavia viene detto degli eventi
tenere che gli orrori del tempo debbano essere imputati a “loro”,
del 1956 che hanno un’importanza infinitamente maggiore nel
i “rossi”, i “comunisti”. Circoscrivere la responsabilità ci permetdopoguerra polacco9.
Il significato attribuito al Marzo, secondo me, è stato influente di parlare senza particolari problemi, con una coscienza limzato dal problema irrisolto che i polacchi hanno nei confronti
pida, del tragico destino di quello che rimane degli ebrei polacdegli ebrei, conseguenza di un peculiare mix di preoccupazione,
chi. Purtroppo, però, la faccenda non è così semplice: il regime
fastidio, rimorso ed avversione.
ha cominciato a “ripulire la Repubblica Popolare Polacca dagli
Dal 1989, la guerra virtuale tra polacchi ed ebrei è stata seebrei” perché poteva contare sul sostegno della popolazione.
gnata dapprima dal contenzioso sul monastero delle CarmelitaNon si è trattato di un errore di valutazione delle autorità.
ne e le croci nel sacrario di Auschwitz, e poi dai libri di Jan ToPer concludere, una considerazione sugli ebrei polacchi che
masz Gross, Neighbors10 e Fear11. È difficile risolvere la questiohanno contribuito in maniera significativa al ‘68. Il Marzo degli
ne ebraica secondo il modello cristiano, dove c’è spazio per il ristudenti, il Marzo dei movimenti di protesta e di solidarietà delmorso, la confessione della colpa, il perdono e la riconciliaziol’intelligentsia, hanno coinvolto la Polonia intera, compresi gli
ne. È difficile anche dire: “perdoniamo e chiediamo perdono”. Per
ambienti sociali più distanti dalla politica. E questa è la dimenuna ragione semplice: ci sono, in Polonia singoli individui ebrei,
sione migliore del Marzo. In questo movimento non c’era nulla
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di ebraico in sé, nonostante il regime cercasse di ricondurne la
responsabilità agli ebrei. Tuttavia, la propaganda anti-semita del
regime non fornisce una risposta alla questione seguente: perché
c’erano così tanti ebrei, ebrei polacchi, polacchi di discendenza
ebraica, polacchi con radici ebraiche tra gli iniziatori del ‘68?
Non solo in Polonia, ma anche nel Maggio francese, nel ‘68 americano, e forse anche altrove. Non credo si tratti di un interrogativo ipocrita o triviale – sebbene la sua importanza sia marginale, dal momento che gli eventi non sarebbero andati diversamente se non ci fosse stata la partecipazione degli ebrei.
La verità è che molti dei protagonisti della prima fase del Marzo proveniva dai circoli privilegiati della Polonia comunista. Si
trattava spesso dei figli non della classe dirigente, ma degli accademici, degli artisti, dei giornalisti.
In molte dittature (nella Spagna di Franco, ad esempio) i figli della classe dirigente hanno avuto un ruolo determinante nel
generare la ribellione contro il regime dei genitori. Erano istruiti, avevano un profondo senso della sicurezza (bizzarro il modo
in cui si è manifestato), e trovavano che le idee di cui facevano
esperienza in casa propria fossero ampiamente violate dalle pratiche di regime. La ribellione dei giovani ebrei polacchi, inoltre,
venne esasperata dall’anti-semitismo imperante nelle classi al potere durante gli Anni 60.
In un certo senso, il Marzo fu la ribellione dei figli contro la
subcultura comunista della generazione dei padri – sebbene ne
fossero stati alla larga, fino a quel momento – e contro la loro responsabilità per la dittatura. Esattamente come nel caso della ribellione contro la “generazione silenziosa” e le sue responsabilità per i crimini commessi in Germania e Francia.
Azzardo un’ipotesi, per concludere, che va aldilà del caso polacco. La generazione dei sessantottini ebrei è stata la prima generazione nata dopo l’Olocausto. Non aveva più la paura che ancora avvertivano quelli nati pochi anni prima – la paura dell’umiliazione, della perdita della dignità, dell’auto-spiazzamento.
Non furono solo gli anti-semiti a chiedersi il perché della passività degli ebrei rispetto alla morte, si pongono la stessa domanda anche Hannah Arendt e Raul Hilberg, il grande storico dell’Olocausto. A me pare che nel sub-conscio, il 68 sia stato anche la
rivolta della generazione del dopo-Olocausto contro il grande
fardello della storia portato dalla generazione dei padri. Un altro modo per sfuggire al peso di quell’eredità era l’identificazione con la vittoria di Israele sugli stati arabi e, indirettamente,
sull’Unione Sovietica del 1967.
Forse il 68 ha permesso di chiudere un ciclo della storia degli ebrei che è cominciato con la Rivoluzione Francese. Nel lasciare il ghetto, entrare nella storia d’Europa e, progressivamente, guadagnare pieni diritti, gli ebrei si ribellavano contro tutte
le forme di discriminazione ed ingiustizia. Esprimevano le loro
difficoltà, attraverso la loro stessa condizione e la loro sofferenza per l’assimilazione e lo sradicamento, attraverso il linguaggio
dei valori universali e di un impegno spesso radicale.
Dopo il cataclisma della Seconda Guerra Mondiale, gli ebrei
hanno cominciato a sentirsi sempre più a proprio agio nel mondo occidentale, spostandosi sempre più a destra nelle loro scelte politiche, muovendo dall’idea illuminata dell’universalismo,
dell’internazionalismo e del cosmopolitismo verso il particolarismo di Israele e del destino ebraico.
Ho cominciato il mio ragionamento guardando il Marzo polacco dal punto di vista dell’Occidente, per sottolineare la sua potenza e le sue modeste aspirazioni. Ho terminato, paradossalmente, con la dimensione ebraica del 68. Forse perché, nonostante le mie intenzioni, questo articolo è anche molto personale. Aleksander Smolar
NOTE
1
Nel Marzo del 1968, una rivolta guidata da studenti ed intellettuali polacchi, venne repressa dal Partito Unito dei Lavoratori Polacchi, controllato dall’Unione Sovietica. Il PLUP ha fatto
della rivolta un pretesto per una campagna anti-sionista sostenuta dall’Urss, che ha provocato il licenziamento in massa dei
lavoratori ebrei polacchi, oltre 20.000 dei quali furono costretti
ad espatriare.
2 Autori di una “Lettera aperta al Partito” inviata, nel 1956 al
Partito Unito dei Lavoratori Polacchi, chiedevano la liberalizzazione del sistema politico in Polonia.
3 Alla fine del 1970, manifestazioni di protesta sulle condizioni economiche scoppiarono a Gdansk e Szczecin; vennero represse nel sangue ma aprirono la strada a Edward Gierek che prese il
posto di Wladyslaw Gomulka come primo segretario del Partito.
4 Celebre prete di Solidarnosc.
5 Nel gennaio 1968, le autorità vietarono la rappresentazione
della tragedia romantica di Adam Mickiewicz, al Teatro Nazionale di Varsavia, perché giudicata portatrice di messaggi anti-sovietici. Quell’episodio fu tra le cause scatenanti la rivolta di Marzo.
6 Daniel Lindenberg, Le rappel à l’ordre. Enquête sur les nouveaux réactionnaires, Paris 2000
7 Rudi Dutschke, “The misunderstanding of ‘68.” (Interview
with Jacques Rupnik in 1978), in: L’Autre Europe no. 20 (1989)
(French version), The European Journal of International Affairs
no. 6 (1989) (English version). Also in Eurozine: http://www.eurozine.com/articles/2008-05-16-dutschke-en.html
8 André and Raphaël Glucksmann, Mai 68 expliqué à Nicolas Sarkozy, Paris 2008.
9 La rivolta di Poznan del 1956 – in cui si chiedevano migliori condizioni sociali – venne dapprima repressa e poi riabilitata
come “legittima” dal Partito Comunista. La manifestazione determino il ritorno di Wladyslaw Gomulka alla guida del partito.
10 Jan Tomasz Gross, Neighbors: The destruction of the Jewish community in Jedwabne, Poland, Princeton 2001.
11 Jan Tomasz Gross, Fear: Anti-semitism in Poland after Auschwitz. An essay in historical interpretation, Princeton 2006.