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CULTURA
Corriere della Sera Mercoledì 9 Settembre 2015
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 In pagina
La cattedrale di Dante
secondo Ezra Pound
di Sandro Modeo
I
deata (e mai realizzata) da Vanni
Scheiwiller per festeggiare gli 80 anni
del poeta, l’integrale dei saggi
danteschi di Ezra Pound esce ora da
Marsilio (Dante, pp. 210, e 20). Come
ricordano i curatori Corrado Bologna e
Lorenzo Fabiani, in Italia quegli scritti
sono stati a lungo osteggiati e irrisi
dall’Accademia (Contini li vedeva carichi
di effetti «più penosi che grotteschi»),
prima che le avanguardie scorgessero nel
loro autore «uno stupendo artigiano
della critica» (Giuliani). Nonostante
indubbie lacune storico-filologiche
(dovute anche allo stato degli studi
coevi), quei saggi sprigionano infatti
macro e micro-intuizioni su Dante quali
troveremmo solo in altri critici-autori
(Eliot, Mandel’stam, Borges): vedi quelle
sulla matrice «sinfonica» del poema (col
primo movimento «scuro» per arrivare
alla radiance del Paradiso);
sull’importanza della dimensione
metaforico-speculativa (che dissolve
l’antitesi crociana tra «struttura» e
«poesia»); sul confronto DanteShakespeare come tra una «cattedrale»
e una «foresta». Sono tutti passaggi di
un’analisi-apoteosi in cui Pound delinea
in controluce il proprio debito; l’arco
immanente teso tra la Commedia e i
Cantos.
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inglesi. Sicché si ebbe il paradosso, evidenziato da
Snyder, che «quando tornarono in Palestina nel
maggio del 1939 quei radicali ebrei iniziarono a
usare le armi e l’addestramento ricevuti dai polacchi in operazioni contro il nuovo alleato della Polonia». Nello stesso momento Stalin — che preparava il colpo a sorpresa dell’alleanza con i nazisti (il
patto Molotov-von Ribbentrop) — qualche settimana dopo la rottura pubblica tra la Germania e la
Polonia «fece un gesto significativo nei confronti
di Hitler… liquidò Maksim Litvinov, il commissario ebreo agli Esteri». Il mondo sembrava impazzito.
U
Germania un patto analogo a quello sottoscritto
con l’Urss. E Hitler accettò tanto che i due Paesi lo
sottoscrissero già nel gennaio del 1934. I polacchi,
in base a quel patto, si impegnarono a impedire al
congresso internazionale delle organizzazioni
ebraiche di riunirsi nel loro Paese.
Stalin capì al volo l’antifona: da quel momento il
suo odio all’indirizzo della Polonia fu totale, inventò su due piedi un complotto polacco ai danni della patria del socialismo, fece fuori il Partito comunista polacco e avviò «la campagna di fucilazioni
etniche in tempo di pace più vasta della storia».
Per lui, come disse esplicitamente, si trattava di distruggere la «feccia dello spionaggio polacco nell’interesse dell’Urss».
A questo punto la Polonia iniziò a preoccuparsi
di cercare una destinazione per gli ebrei dei quali,
sulla base degli accordi presi con la Germania, intendeva liberarsi. Beck riprese in considerazione
un progetto del 1926, che era quello di indirizzarli
verso il Madagascar. Nell’ottobre del 1936 fu autorizzato dal primo ministro francese Léon Blum a
mandare sull’isola africana una missione esplorativa. Ad un tempo però i polacchi ritenevano più
realistica l’ipotesi che gli ebrei si concentrassero in
Palestina: fecero pressioni sul Regno Unito perché
ammorbidisse il blocco delle immigrazioni e offrirono armi e addestramento all’Haganah, la principale organizzazione sionista di autodifesa in loco.
Il leader del sionismo revisionista Vladimir Jabotinskij colse al volo l’opportunità e cominciò ad
operare perché la Polonia ereditasse dalla Gran
Bretagna il mandato sulla Palestina: quello che gli
appariva (e forse sarebbe stato) un primo passo
verso la nascita anzitempo dello Stato di Israele. Si
ebbe così il paradosso di uno Stato, la Polonia, ad
un tempo filonazista ed apprezzato da una componente di rilievo del movimento sionista.
Dopo il 1935, rileva Snyder, «il regime autoritario polacco tollerò l’uso della pressione economica
per indurre gli ebrei a lasciare il Paese; la polizia

Orrori dell’Holodomor
La milizia comunista
trascurava i cadaveri dei
morti di fame e arrestava
i vivi: agricoltori giunti
in città per sopravvivere
chiedendo l’elemosina
Scelte diplomatiche
La leadership polacca
fece pressioni su Londra
perché consentisse
l’immigrazione ebraica
in Palestina e appoggiò
le organizzazioni sioniste
stroncò i pogrom, ma considerò i boicottaggi delle
aziende ebree una scelta economica legittima; il
parlamento proibì la macellazione kosher, anche
se il divieto non fu mai applicato; la società civile si
mosse nella stessa direzione; le università tollerarono che gli studenti ebrei venissero picchiati e intimiditi perché andassero a sedersi nelle ultime file delle aule, dette “banchi del ghetto”; la Chiesa
cattolica romana, in Polonia e in altre parti dell’Europa, continuò a ribadire che gli ebrei erano responsabili dei mali della modernità in generale e
del comunismo in particolare».
M
a, ed è questo un punto assai rilevante, «a
differenza del regime nazista il governo
polacco non dipinse gli ebrei come la mano nascosta dietro le crisi internazionali e le sventure della Polonia; li descrisse piuttosto come esseri umani la cui presenza era indesiderabile dal
punto di vista economico e politico; l’idea di una
Polonia senza ebrei era sicuramente antisemita,
però non si trattava di un antisemitismo che identificava gli ebrei con i principali mali ecologici o
metafisici del pianeta». Inoltre «al contrario di
quanto accadde in Germania le proteste in Polonia
furono accese»: il Partito socialista polacco, il più
numeroso a Varsavia, «si oppose alla linea del governo, come anche il sindaco della capitale». Il
partito ebraico Bund, favorevole al socialismo in
Europa e alla permanenza degli ebrei in Polonia,
raccolse vasti consensi nelle elezioni amministrative del 1938.
Quello stesso anno, il 1938, a settembre, durante
la crisi cecoslovacca, nelle regioni dell’Ucraina sovietica vicine al confine polacco, unità dell’Urss «si
spostarono da un villaggio all’altro comportandosi
come squadre della morte». E mentre la Polonia
cercava la protezione dell’Inghilterra, la sua intelligence militare intensificò segretamente il tirocinio di un gruppo selezionato di attivisti dell’Irgun,
che in Palestina avrebbero combattuto contro gli
In guerra
Il generale
tedesco Heinz
Guderian (al
centro, porta il
cappello con la
visiera),
comandante
del II Gruppo
corazzato,
discorre con
due ufficiali
carristi (con le
uniformi nere e
la bustina)
durante
l’invasione
dell’Urss
nell’agosto
1941
(Bundesarchiv,
Bild 183L19885 /
Huschke / CCBY-SA)
n giovane scrittore di Kielce, Gustaw Herling-Grudzinski (che nel dopoguerra sarebbe approdato in Italia, dove avrebbe sposato
Lidia, una figlia di Benedetto Croce), fu catturato
dai russi, che lo accusarono di aver lasciato illegalmente la Polonia alla volta della Lituania «per
combattere contro l’Urss». Chiese ai funzionari di
correggere il capo di imputazione: voleva sì combattere, ma «contro i tedeschi». Gli fu risposto dai
russi di lasciar perdere dal momento che era «la
stessa cosa». In Palestina Avraham Stern provocò
una scissione dell’Irgun e fondò il Lehi, che nel
gennaio del 1941 propose una «collaborazione tra
la nuova Germania e una rinnovata comunità
ebraica razziale-nazionale». «Con lo smantellamento dello Stato polacco e l’espansione del potere tedesco», osserva Snyder, «un’alleanza con i nazisti poteva apparire logica, almeno ai radicali
ebrei persuasi che il vecchio ordine sarebbe crollato in ogni caso».
Terra nera mette in risalto il parallelo tra i comportamenti dei nazionalisti ebrei e ucraini, pur se
«le loro offerte di collaborazionismo erano destinate a fallire e, in un certo senso, fallirono insieme». Quella ucraina in maniera ancor più misconosciuta di quella israelita. In un bel libro, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale (Rubettino), Eugenio Di Rienzo
ricostruisce come nel marzo del 1921 il trattato di
Riga, sottoscritto tra Varsavia e Mosca, aveva sancito la spartizione dell’Ucraina, laddove la Polonia
aveva incorporato la Galizia orientale e la Volinia
occidentale, altre regioni erano state annesse dalla
Cecoslovacchia e dalla Romania e il resto divenne,
nel 1922, parte dell’Urss. E Stalin all’inizio degli anni Trenta la immolò in quello sterminio per fame
di cui abbiamo detto, l’Holodomor.
In un certo senso l’Holodomor produsse il «caso Bandera». Di che si tratta? In Anno Zero. Una
storia del 1945 (Mondadori), Ian Buruma si occupa
di Stepan Bandera, che in una parte dell’Ucraina,
quella sotto il controllo russo, «è ancora oggi visto
come un fascista per essersi schierato nel 1941 con
i nazisti», mentre a Kiev è considerato un eroe nazionale. In realtà Bandera finì in un campo di concentramento hitleriano per essersi schierato a favore dell’indipendenza dell’Ucraina dai sovietici,
ma anche dai tedeschi. I suoi uomini si resero responsabili dell’uccisione di non pochi ebrei e, nel
1944, di circa 40 mila polacchi. Ma la sua colpa fu
quella di aver continuato ad essere antisovietico
prima, durante e dopo la guerra. Al punto che fu
assassinato da un agente del Kgb nel 1959, mentre
viveva in esilio a Monaco di Baviera. Echi di una
guerra che in quella regione che ha come epicentro i confini tra Russia, Polonia e Ucraina. Una
guerra che non si è mai davvero conclusa.
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«Asterusher» di Michele Mari e Francesco Pernigo (Corraini) è presentato venerdì al Festivaletteratura di Mantova
Non aprite quella porta: dentro è pieno di libri
di Cristina Taglietti
S
ono case-libro, cioè case in
cui sono stati letti libri, case
in cui sono stati scritti libri,
case che sono entrate nei libri come personaggi. È un piccolo gioiello non solo per feticisti questa
«autobiografia per feticci» che Michele Mari ha realizzato con il fotografo Francesco Pernigo e che presenterà venerdì 11 al Festivaletteratura di Mantova.
Asterusher (Corraini, pagine
104, e 16) parla di stanze e di letteratura, come d’altronde suggerisce
immediatamente il titolo che mette insieme La casa di Asterione di
Borges e Il crollo della casa Usher
di Edgar Allan Poe. E come ci si
può aspettare da Mari che con la
metaletteratura, i pastiche, le ibridazioni e il manierismo ha sempre
amato giocare. Borges e Poe vengono posti all’inizio e alla fine come due fermaporte che tengono
aperte stanze dove stanno stretti
l’uno all’altro Proust e Landolfi,
Canetti e Gadda, Sebald e Buzzati,
Benjamin e Lovecraft, Gozzano e
Manganelli. Il legame tra gli «oggetti d’affezione» (come li chiama
l’autore nella prefazione) e la scrittura, tra parole e cose, ha per Mari
il suo precedente più significativo
nella grossa bottiglia di profumo
piena di tutti i mozziconi di matita
accumulati negli anni degli studi
liceali e universitari. La bottiglia
compare nell’atto unico Ballata
triste di una tromba, messo in scena nel 2012 per Pordenonelegge e,
un anno dopo, in un incontro con
Milano
Una fotografia
realizzata
da Francesco
Pernigo
e contenuta in
Asterusher
di Michele Mari
(Corraini).
L’autore ne parla
venerdì al
Festivaletteratura di Mantova
con Chiara
Valerio (chiesa di
Santa Maria della
Vittoria, ore
17.30)
Walter Siti nella seconda edizione
della rassegna milanese «Roland».
Le immagini di Pernigo, fotografo nato a Rovereto, che si dedica a progetti legati al territorio e alla relazione tra gli oggetti e il loro
contesto culturale, sono accompagnate dai testi dello stesso Mari, alcuni scritti espressamente, altri
tratti dai suoi libri, da Euridice
aveva un cane a Certi verdini, da I
giornalini a Verderame, ma soprattutto Fantasmagonia.
Pagina dopo pagina si compone
una biografia che soltanto in parte
appartiene all’autore, dal momento che alcuni degli oggetti sono
stati suggeriti dal fotografo per ragioni estetiche o di composizione
geometrica, costringendo lo stesso Mari a rileggere se stesso e i
suoi ricordi. I puzzle artistici (Cé-
zanne, Corot, Vermeer, Morandi)
realizzati da bambino su spinta
della madre Iela Mari, il coltello di
ferro privo del manico, quasi nascosto in mezzo ai mestoli, il seggiolone da cui l’autore cade a sette
anni battendo la testa, gli antenati
dei Sedici animali, opera del padre, il designer Enzo Mari, convocano nelle stesse stanze i familiari
e le loro abitudini, il Mari bambino
e il Mari adulto.
È a suo modo anche questo un
romanzo di formazione, una genealogia dell’autore che si personifica nelle due teste di legno massiccio comprate dal padre probabilmente alla fiera di Sinigaglia: «il
signore» e «il mostro», dove il secondo non può che essere la verità
del primo.
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