Senza titolo-1 - Angelus Novus

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Senza titolo-1 - Angelus Novus
Luglio 2001
RIVISTA QUADRIMESTRALE
DI STUDI COMPARATI E RICERCHE SULLE AVANGUARDIE
Diretta da
Gabriele-Aldo Bertozzi
26
Angelus Novus
Introduzione alla lettura di Bérénice - Che cosÕè una rivista? Innanzitutto 1) scelta e 2)
precisione: 1) La scelta, come tale, è sempre partigiana e quindi soggetta a giudizio critico. Le
riviste che oggi si trovano in reprints, divenute ÒstoricheÓ, perché anticiparono il percorso
degli eventi oppure perché vi si opposero, non sono quelle che pubblicarono a suo tempo
articoli più o meno interessanti, lavori ÒdignitosiÓ, talvolta perfino encomiabili, in una
mescolanza di punti di vista eclettici, ma quelle, appunto, che furono coerenti con le teorie
del gruppo che le promosse. 2) La precisione, intesa nel senso più pregnante, è attenzione
rivolta contro la sciatteria, lÕapprossimazione, la superficialitˆ non solo delle idee, ma anche
del linguaggio. Non mi riferisco quindi a irregolaritˆ, anticonformismo, originalitˆ, errore
pure, che se ragionati, voluti, costituiscono un livello sempre auspicabile, risultato di vera
creazione, ma tanto raro quanto il cosiddetto ÒgenioÓ.
Che cosÕè Bérénice? Oltre a questo, è una rivista che si accresce di altri requisiti: a) volontˆ
del nome; b) riflesso o contraccolpo della storia; c) presenza Òextra cunaÓ; d) équipe o
casting; e) essenzialitˆ del discorso; f) settore operativo; g) forza trainante. Mi soffermo sui vari
punti: a) La volontˆ del nome. Nel primo numero della Nuova Serie, marzo 1993, dopo più
di dodici anni di silenzio sullÕorigine del nome, spiegavo che non si trattava di un omaggio
alla letteratura francese per i più o meno noti riferimenti a Racine, Corneille, Barrès, Verlaine, Claude Simon, ˆ Bertozzi lui-même - caso mai a Berenice Pancrisia, mitica e perduta
cittˆ egiziana dellÕoro e dei papiri -, ma alla celebre chioma per gli evidenti riferimenti con
lÕinfinito e lÕinfinitesimale, riscontrabili soprattutto nei saggi dedicati allÕInismo. b) Il
riflesso o contraccolpo della storia. Lo spirito reazionario degli ultimi decenni del Novecento,
proprio nel 1980, anno di nascita della rivista, inizia la sua folle accelerazione che giunge ai
nostri giorni. Da tempo avevamo espresso in mille modi che Òla fede in unÕidea vince lo
stato più forte della TerraÓ, precisando sempre per˜ che la fede in unÕidea pu˜ essere un
mostruoso errore se germogliata dal seme delle barbarie e non da unÕideologia avanzata
(É ed è nella sua grettezza perfino controproducente perché sollecita un Unanimisme alla
Jules Romains a favore del suo bersaglio). Nella mia Guida del Rivoluzionario scrivevo:
ÒArriviamo fino allÕinsolenza; la creativitˆ rivoluzionaria e lÕinsolenza sono sempre state
sorelle. Ma distinguiamo: lÕinsolenza senza creativitˆ è pura idioziaÓ. Le grandi teorie
dunque si sono affievolite, sono svanite, ma Bérénice resta sul campo, isolata da un mondo
la cui mancanza di valori, di identitˆ permette il proliferare di false forme di misticismo,
di esoterismo, di new ages più old del cucco (eppure non dovremmo dimenticare che il
maggior bersaglio dei poeti rivoluzionari di fine Ottocento, i cosiddetti Òpoeti maledettiÓ
fu rappresentato dalla lotta contro la degenerazione del Romanticismo). Le grandi ricerche
prima sullÕalchimia, sulla magia, sulla potenza delle antiche scritture vengono banalizzate.
Un esempio canonico è lÕEgitto, ormai protagonista delle nostre edicole con Cd e dispense,
librerie con romanzi e saggi, film colossali, trasmissioni televisive, i quali, tutti, continuamente ci svelano finalmente il grande segreto delle piramidi. Anche il resto della vecchia
avanguardia, prima indeciso tra il comico e il grottesco, sceglie definitivamente la via del
bricolage, sotto il nome di sperimentazione. Delitto, frustrazione e castrazione trovano il
loro più grasso alimento non tanto nella mancanza di identitˆ, quanto da una errata ricerca
dÕidentitˆ. Ma Bérénice, ripeto, resta sul campo e si associa alla Terza Fase dellÕavanguardia rappresentata dallÕInternazionale Novatrice Infinitesimale. c) La presenza Òextra
cunaÓ. Intendo dire che Bérénice non viene divulgata solo nella stretta area di produzione
(Roma, Pescara), ma è presente, ogni primavera, al Salon du Livre di Parigi. Talvolta è stata
la sola rivista italiana con uno stand. Perché? Eppure è noto il potere anche politico della
nostra editoria. La risposta è semplice: i nostri mass media mirano alla quantitˆ più che alla
qualitˆ, perché è con la prima che va lÕestablisment. Non solo figura al Salon du Livre
(marzo), ma per fare altri esempi parigini, partecipa pure al Salon Euro-Arabe (giugno), e
nel Salon de la Revue (ottobre). é pure a Torino, Bologna, Nizza, Francoforte! d) ƒquipe
o casting. Devo dire che siamo stati sempre molto severi nella scelta dei collaboratori, ma
anche molto fortunati. Collaboratori nel senso più ampio perché una rivista come la nostra
non si fa solo scrivendo, come illustra la quarta di copertina del n.7 (marzo 1995): ÒAsi se
hace la revistaÓ. Primo fra tutti il primo, lÕeditore Luciano Lucarini
(segue a pagina 160)
Bérénice ISSN (Paris): 1128-7047
Bérénice, n. s., I, 1 (marzo 1993)
Di qua e di lˆ dalla parola.
La Lettera e il Segno nelle ÒScrittureÓ
contemporanee
Bérénice, n. s., I, 2 (luglio 1993)
ÒPrefuturismo belgaÓ
Avanguardia spagnola
Bérénice, n. s., I, 3 (novembre 1993)
Le riviste dalla ÒBelle ƒpoqueÓ
ai nostri giorni
Bérénice, n. s., II, 4 (marzo 1994)
Letteratura odeporica e arte postale iniste
Bérénice, n. s., II, 5 (luglio 1994)
Realtˆ virtuale - Suoni % Segni
Bérénice, n. s., II, 6 (novembre 1994)
Le riviste dalla ÒBelle ƒpoqueÓ
ai nostri giorni, II
Bérénice, n. s., III, 7 (marzo 1995)
Messina Õ96. Avanguardia e Modernismo
Manifesto della fotografia inista
Bérénice, n. s., III, 8-9 (luglio-nov. 1995)
Arti comparate. LÕidea di ÒvisionarioÓ
Semiologia inista
Protomanifesto inista
Bérénice, n. s., IV, 10-11 (mar.-lug. 1996)
Arti comparate. LÕidea di ÒvisionarioÓ, II
Bérénice, n. s., IV, 12 (novembre 1996)
Arkitettura & Avanguardia
Manifesto inista
Bérénice, n. s., V, 13 (marzo 1997)
Speciale Internazionale
Pluridisciplinare sulla Magia
Bérénice, n. s., V, 14 (luglio 1997)
Magia again
Bérénice, n. s., V, 15 (novembre 1997)
Futurismo Dada Surrealismo etc.:
inediti sui ÒprecursoriÓ dellÕInismo
Bérénice, n. s., VI, 16 (marzo 1998)
Dal Futurismo allÕInismo e altre escursioni
Bérénice, n. s., VI, 17 (luglio 1998)
Speciale Letteratura occitana
Inchieste inediti codici
Bérénice, n. s., VI, 18 (novembre 1998)
Speciale Teatro italiano e spagnolo
contemporaneo
Bérénice, n. s., VII, 19 (marzo 1999)
I mostri
Bérénice, n. s., VII, 20 (luglio 1999)
I mostri II
Speciale per il Salon du Livre 2000
Bérénice, n. s., VII, 21 (novembre 1999)
Speciale Poetas en Buenos Aires
Bérénice, n. s., VIII, 22 (marzo 2000)
Speciale Salon du Livre Paris 2001
Bérénice, n. s., VIII, 23 (luglio 2000)
Speciale Brasile
Bérénice, n. s., VIII, 24 (novembre 2000)
Abbigliamento e moda dalla guardia
allÕavanguardia
Bérénice, n. s., IX, 25 (marzo 2001)
La Menzogna nelle Arti e nelle Scienze
(1a parte)
ANNO IX - N. 26 - LUGLIO 2001 - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
Illustrazione di copertina:
INI on Wheels, by Maryclaire Wellinger
Bérénice
RIVISTA QUADRIMESTRALE
DI STUDI COMPARATI E RICERCHE
SULLE AVANGUARDIE
Diretta da
Gabriele-Aldo Bertozzi
DIRETTORE:
Gabriele-Aldo Bertozzi
CAPO REDATTORE:
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COMITATO DI REDAZIONE:
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Giammarco, Rosa Maria Palermo Di Stefano, François Pro•a
REDAZIONE ESTERA:
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alla Ricerca e allo studio della Creativitˆ) - Viale Pindaro, 42 - 65127 Pescara
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Bérénice
RIVISTA QUADRIMESTRALE
DI STUDI COMPARATI E RICERCHE SULLE AVANGUARDIE
Diretta da
Gabriele-Aldo Bertozzi
Angelus Novus Edizioni
1
Nuovo sito internet di
Bérénice
http://www.angelusnovus.it/berenice
Finito di stampare nel mese di ottobre 2002
Editoriale Eco srl - S. Gabriele (TE)
Tel. 0861.975924 - E mail: [email protected]
Volume stampato con contributo del
Dipartimento di Studi Comparati
dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti
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BÉRÉNICE
Rivista quadrimestrale di studi comparati e ricerche sulle avanguardie
diretta da Gabriele-Aldo Bertozzi
anno IX, n. 26, luglio 2001
SOMMARIO
Arti comparate, IV edizione
Convegno internazionale, pluridisciplinare “La Menzogna” (seconda parte)
Gabriele-Aldo Bertozzi
Editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
Francesco Marroni
Dalla menzogna alla fiction: Jonathan Swift e i
paradossi dell’immaginazione utopica . . . . . . . . . .
Dom Juan ou l’éloge du mensonge . . . . . . . . . . . .
Sistemi complessi e menzogna: artificio o etica? . .
“Le menteur” di Jean Cocteau: una drammatizzazione della menzogna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Menzogne e sortilegi teatrali tra Corneille e
Marivaux . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Del vero e del falso nel “Cratilo” di Platone . . . . .
Mentire nelle letterature medioevali romanze . . .
L’occhio ingannato. Ambiguità e lusinga nell’illusione di realtà. Motivazione e poetica dell’inganno: Escher, Kosuth, Warhol . . . . . . . . . . . . . .
Les maux/mots du mensonge dans Le sang noir
de Louis Guilloux . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
“Pierre et Jean” ou l’ère du soupçon chez Guy
de Maupassant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il sol dell’avvenire e la teoria degli atti illocutivi
L’espressione della menzogna: strategie stilistiche
e comunicative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Fra bugie buone e menzogne cattive . . . . . . . . . . .
L’amant de Sonia préfère le nez de Pinocchio à celui
de Cléopâtre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’anamorfosi nell’arte moderna e contemporanea
Mediocrità e genio: gambe corte, gambe lunghe.
Rimbaud, Apollinaire e gli “interpreti” . . . . . . . . .
“Life is it, whatever it is”. Una “Bloomsbury”
fiorentina: il circolo Berenson . . . . . . . . . . . . . . . .
La menzogna in Jules Romains. Unanimismo e
patologia del collettivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giovanni Dotoli
Claudio Spisni
Ada Speranza Armani
Rosalba Gasparro
Alfonso De Petris
Vincenzo Minervini
Eugenio Giannì
Nicole Le Dimna
Marisa Bove
Alina Kreisberg
Paola Longo
Filippo Motta
François Poyet
Brigida Di Leo
Gabriele-Aldo Bertozzi
Kiki Franceschi
Gabriella Giansante
3
5
»
»
»
7
15
22
»
27
»
»
»
33
43
65
»
74
»
81
»
»
92
103
»
»
110
119
»
»
126
134
»
141
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147
»
156
4
Editoriale
Qual è il senso di un’indagine su un autore, un argomento, alla quale partecipano
specialisti provenienti da varie università e intellettuali particolarmente selezionati?
Senza dubbio portare contributi nuovi e, nel contempo, esigenza ancora più pressante, provare a stabilire come e quanto quell’autore, quel tema, si pongano di fronte alla
contemporaneità, in particolare se si tratta di MENZOGNA. Così nelle pagine che seguono, come nel precedente fascicolo di questa Rivista rivolta decisamente alla
comparatistica, hanno preso la parola scienziati (giuristi, economisti, artisti, letterati,
medici e altri ancora) per pronunciarsi sul fenomeno attuale della menzogna, in
un’orchestrazione così ampia, difficile da riscontare altrove (il convegno che lo ha
promosso si è svolto in cinque giorni a pieno ritmo di interventi).
È questo d’altronde il carattere di Bérénice, prevalentemente monotematico, come
è dato di rilevare leggendo il testo di IV di copertina e l’elenco dei temi affrontati in
passato (II risvolto), al quale si collegano in modo evidente, più sul piano dell’intuizione, del “sentire”, che della scienza, quelli dedicati all’“idea di visionario”, alla
“magia”, ai “mostri”, forse perché tutti appartenenti a zone limite dell’inconscio
collettivo.
Il risultato dell’indagine sulla menzogna è stato sorprendente e, per il fondatore
di questa rivista, davvero sconcertante (non prova vergogna per la sua ingenuità): è
emerso con evidenza che l’antico concetto etico ha ceduto spazio a nuove forme (non
osa dire correnti) di pensiero che mirano a sostituire l’idea di “falso” con quella di
“manipolazione della realtà” dovuta principalmente al “negarsi alla relazione con
l’altro”. Con la conseguente messa in discussione della verità che diviene una menzogna che non è stata ancora scoperta. In ambito creativo poi sembra essere uno degli
utensili più abituali in aperto antagonismo con la Musa (sempre raffigurata trasparente, luminosissima dall’autore di questa nota), la quale, pure lei, in ogni forma di
arte, ispirerebbe una menzogna che permette di conoscere la verità a quei pochi utopisti
che ancora ci credono.
Gabriele-Aldo Bertozzi
5
6
DALLA MENZOGNA ALLA FICTION:
JONATHAN SWIFT E I PARADOSSI
DELL’IMMAGINAZIONE UTOPICA
di FRANCESCO MARRONI
Quale Preside della Facoltà desidero porgere a tutti i convegnisti un cordiale benvenuto e insieme gli auguri di buon lavoro. Come molti colleghi dell’ateneo
dannunziano già sanno, il convegno sulla menzogna che oggi si apre non è un’iniziativa scaturita da un progetto di recente formazione, ma al contrario – e questo
è merito esclusivo dell’ideatore il Prof. Gabriele-Aldo Bertozzi che desidero subito ringraziare – s’inscrive in un disegno più ampio e articolato intorno a una ricerca sulle Arti Comparate che, negli anni scorsi, ha visto la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere e il Dipartimento di Studi Comparati attivamente impegnati in
una serie di convegni la cui validità scientifica trova una puntuale documentazione negli atti regolarmente pubblicati sulla rivista Bérénice. Qui vorrei solo citare il
convegno sul Visionario (1995), quello sulla Magia (1997) e quello sui Mostri (1999).
Oggi, per l’appunto, ha inizio il convegno sulla Menzogna che non può non stimolare una serie di associazioni letterarie che, come anglista, rinviano alla nascita del
romanzo inglese. Se posso rubare qualche minuto ai lavori della mattinata – lavori
che si preannunciano molto interessanti anche dal punto di vista della letteratura
inglese –, devo confessare che proprio ieri, mentre ammiravo nel grande corridoio
principale della facoltà il suggestivo manifesto del convegno, mi è capitato di associare la parola menzogna alla parola fiction. Beninteso, si tratta di un’associazione
abbastanza ovvia. Quello però che ha suscitato il mio interesse è stata un’evidenza
linguistica molto semplice: in inglese il termine fiction è adottato all’inizio del Settecento per indicare il romanzo realistico, il novel. Vale a dire, il grande testo
narrativo dell’avventura borghese. Fuor di metafora, mi riferisco ai padri del romanzo inglese: Samuel Richardson, Daniel Defoe e Henry Fielding. Nell’immaginario letterario, quasi come un automatismo, s’impone la sequenza di quattro elementi linguistici che sono, in pari tempo, confliggenti e convergenti: menzogna,
finzione, fiction, narrativa. Dal codice negativo della non-verità al codice positivo
della realtà intesa come il luogo in cui, per dirla con la prima proposizione di
Wittgenstein, ci è dato di verificare che “[i]l mondo è tutto ciò che accade”1 .
Come attestato dall’OED, nello sviluppo diacronico del termine fiction, vi è un
graduale passaggio dal concetto di finzione, imitazione, inganno a quello – eticamente meno negativo – di invenzione, immaginazione, creazione. Così, una prima
definizione utile appare quella che enuclea il termine fiction nel modo seguente:
“That which, or something that, is imaginatively invented; feigned existence, event,
7
or state of things; invention as opposed to fact”. Per inciso va detto che Herbert
Spencer, nei suoi Principles of Psychology (1872), istituisce l’antitesi fact/fiction,
connotando negativamente il secondo termine. Non molto dissimile dalla definizione precedente appare quella che l’OED riporta subito dopo: “A statement or
narrative proceeding from mere invention; such statements collectively”. L’aspetto interessante di questa formula è che, fra le attestazioni presentate dal lessicografo,
vi è anche una derivata da Robinson Crusoe, nel quale leggiamo: “Though this was
all a Fiction of his own, yet it had its desir’d Effect”. Non si può omettere di
notare il nesso istituito tra finzione e realtà. Defoe informa il lettore che il gesto
finzionale sortì il giusto effetto – il che, in prospettiva etico-comportamentale,
sposta il campo semico della menzogna in un ambito positivo, su un palcoscenico
proairetico sul quale si mostra e si drammatizza la fattiva incidenza della fiction
sul reale.
Menzogna come parte necessaria della realtà.
Menzogna come scelta artistica.
Menzogna come ampliamento delle possibilità.
Menzogna come linguaggio in grado di creare mondi alternativi, spazi nuovi
sottratti alla tirannia della razionalità. E, infine, menzogna come menzogna – atto
di creatività, gesto di immaginazione, disegni di una psiche paradossale, chiastico
inseguimento della verità attraverso l’affermazione del suo contrario. Non una
difesa acritica della “importuna nebbia della menzogna”2 , ma la sua collocazione
nel contesto di un quadro storico in cui, con l’avvento della borghesia e del mercantilismo, si dichiara apertamente che non esiste verità senza veli, allo stesso modo
in cui non esiste essere umano che si presenti allo sguardo altrui nella sua nudità:
“Da che ‘l primo uomo aperse gli occhi, e conobbe ch’era ignudo, procurò di
celarsi anche alla vista del suo Fattore; così la diligenza del nascondere quasi nacque col mondo stesso, ed alla prima uscita del difetto, ed in molti, è passata in uso
per mezzo della dissimulazione […]”3 . Torquato Accetto scrive queste parole nel
1641, grosso modo, negli stessi anni in cui Baltazar Gracián scrive il suo Oráculo
Manual y Arte de Prudencia (1647) ove, a più riprese, si dimostra come, sul piano
del codice dell’azione, si dia un processo di non-disgiunzione tra verità e menzogna, l’una partecipe degli inganni dell’altra: “La simulazione s’accresce nel vedere
sventato il primo artificio, e la sagacia tenta di trarre in inganno con la verità medesima. Cambia gioco sol per cambiare astuzia, e fa un artificio della sua stessa franchezza, fondando la propria furberia sul più grande dei candori”4 . Se questo era il
clima che si respirava in Europa in pieno Seicento, va subito detto che, non diversamente, in Inghilterra si cominciava a preparare la strada a un’interpretazione
della coppia verità/menzogna nient’affatto in linea con la tradizione moralistica.
Non solo il teatro di Shakespeare ma anche la poesia di John Donne sembra operare in direzione di una non-disgiunzione dell’antitesi verità/menzogna; antitesi
che chiama in causa una profonda e radicale relativizzazione dei parametri eticocomportamentali nel quadro di trasformazione assiologica in cui tutto viene rimesso
8
in discussione e nessuna verità sembra vera fino in fondo. Se nelle primissime
battute del Macbeth le streghe ci insegnano che “Fair is foul, and foul is fair” (I, i,
11), John Donne, nella poesia “The Anniversary”, proclama la straordinaria prossimità morfosintattica tra il vero e il falso, gettando non poca luce sulla convergenza e sulla circolarità dei valori confliggenti che modellizzano sia la sua prosa sia la
sua poesia: “True and false fears let us refrain, / Let us love nobly, and live, and
add again / Years and years unto years, till we attain / To write threescore, this is
the second of our reign” (“The Anniversary”, vv. 27-30)5 . Verità e finzione non
sono più territori distinti, e non a caso, dal punto di vista epistemico, s’impone un
strategia realistica per cui alla realizzazione del disegno viene piegata ogni legge
morale. In tal modo, in A Treatise of Equivocation6 il gesuita Henry Garnet postula
la legittimità dell’ambiguità linguistica che conduce alla verità parziale. O, se si
vuole, alla verità che è costruita con la menzogna, e alla menzogna che è costruita
con la verità. Il trattato di Garnet, che tra l’altro partecipò alla Congiura delle
Polveri e fu giustiziato il 3 maggio 1606, non sfuggì a Shakespeare che nel Macbeth
fa un riferimento esplicito all’equivocator7 nel discorso del porter (II, iii, 9-13):
Faith, here’s an equivocator, that could swear in both the scales against either
scale; who committed treason enough for God’s sake, yet could not equivocate
to heaven: O! come in equivocator.
Significativamente, Macbeth, nel momento in cui sente l’approssimarsi della sua
fine, sembra rendersi conto che quando si tratta di interpretare le parole nulla è
semplice: l’equivoco e l’inganno sono sempre in aggiuato: “I pull in resolution; and
begin / To doubt th’ equivocation of the fiend, / That lies like truth” (V, v, 42-44).
Non rientra tra gli scopi del mio intervento la definizione di un romanzo come
Gulliver’s Travels (1726). Credo comunque che in tema di menzogna Jonathan
Swift rappresenti una tappa obbligata, la pietra angolare di una testualizzazione la
cui straordinaria vitalità immaginativa esercita da sempre un’influenza formativa
nella cultura occidentale. Come dire che senza la satira pungente e paradossale
dei Gulliver’s Travels il nostro pensiero sarebbe diverso. Una chiave di lettura
importante del capolavoro swiftiano si trova proprio nelle sue pagine conclusive,
esattamente dove Lemuel Gulliver racconta la sua storia al capitano del veliero
portoghese che lo ha tratto in salvo:
I gave him a very short relation of my voyage, of the conspiracy against me by
my own men, of the country where they set me on shore, and of my three years’
residence there. All which he looked upon as if it were a dream or a vision;
whereat I took great offence; for I had quite forgot the faculty of lying, so peculiar
to Yahoos in all countries where they preside, and consequently the disposition
of suspecting truth in others of their own species. I asked him, Whether it were
the custom of his country to say the thing that was not? I assured him I had
almost forgot what he meant by falsehood, and if I had lived a thousand years
9
in Houyhnhnmland, I should never have heard a lie from the meanest servant;
that I was altogether indifferent whether he believed me or no; but however,
in return for his favours, I would give so much allowance to the corruption of
his nature, as to answer any objection he would please to make, and then he
might easily discover the truth8 .
Raccontando le sue avventure nel paese degli houyhnhnm al capitano Pedro
de Mendez (“a very courteous and generous person”), il narratore fa leva sul principio comportamentale che caratterizzava la popolazione presso la quale ha avuto
la fortuna di soggiornare per tre anni, cioè l’assenza della menzogna. Di qui la
trasformazione della terra dei cavalli parlanti in una sorta di paradiso terrestre in
cui, non dandosi una rappresentazione verbale sottratta alla voce della verità, l’uso
della lingua risulta notevolmente ridotto. Se il dominio linguistico si esercita solo
in un utilizzo strumentale, è facile concludere che ad essere escluso è anche e
soprattutto il linguaggio dell’individualità, il linguaggio come espressione delle
facoltà creative. Una società totalmente razionale come quella degli houyhnhnm
presenta, insieme alla estromissione definitiva del male, anche la morte dell’immaginazione. Va da sé che l’utopia delineata da Swift ha un senso solo se immaginiamo che essa serve a muovere un’aspra critica ai comportamenti umani, la maggior
parte dei quali, nell’ottica swiftiana, sono improntati all’arte del mentire.
Nel succinto resoconto che Gulliver offre al suo benefattore, non dimentica di
sottolineare che i tre anni trascorsi nell’isola dei cavalli sono bastati a fargli dimenticare la stessa esistenza della menzogna (“I had quite forgot the faculty of lying
[…] I had almost forgot what he meant by falsehood”) che, nel ridotto vocabolario a disposizione degli houyhnhnm, non trova nessuna corrispondente parola atta
ad esprimerne il senso. Gli houyhnhnm riescono a parlare di qualcosa che non
cade sotto il concetto di verità solo come la cosa che non è. Vale a dire con una
perifrasi che, epistemologicamente, dichiara l’impossibilità di trovare riscontro
nell’ambito di una fenomenologia basata soltanto su ciò che è visibile, sui fenomeni che risultano empiricamente verificabile. Detto brevemente, l’utopia rappresentata dalla Houyhnhnmland appare come lo spazio in cui si impone un primato
della verità che, nella sua assolutizzazione, finisce per essere una autentica tirannia. Ma risulta evidente che Swift assume questo termine come centro semanticostrutturale per significare ai suoi lettori che l’Inghilterra del Settecento – e più in
generale la natura umana – trova nella menzogna il perno fondamentale di ogni
suo agire, di ogni sua scelta, di ogni progetto intorno alle sorti delle sue popolazioni. Stabilendo uno stimolante parallelismo fra Robinson Crusoe e Gulliver’s Travels,
A. L. Morton ha notato: “[…] where Defoe completely identifies himself with
Crusoe, Swift deliberately creates Gulliver as a mask behind which his criticism
may be delivered with more telling effect […] Defoe accepted and rejoiced in his
age, its achievements and its order: Swift rejected them with bitterness, with
contempt and with horror”9 . Nell’assumere entrambi un eroe borghese desideroso di conquistare nuovi territori e di accumulare ricchezza, Defoe e Swift mostrano
10
un atteggiamento totalmente diverso nella loro modellizzazione del mondo:
Robinson Crusoe è difensore della memoria, mentre Lemuel Gulliver sta dalla
parte dell’oblio.
Più esattamente: dopo il naufragio, Crusoe si ingegna a ricreare nella sua isola
sconosciuta la società che si è lasciata alle spalle, e nella quale non dispera mai di
ritornare. Per lui esiste solo quella verità che non vuole dimenticare. Così, anche
nei momenti più tristi e malinconici del suo isolamento, Robinson Crusoe non
abbandona mai la speranza, convinto che la cultura di cui è portatore non abbia
alternativa alcuna: gli altri popoli possono essere solamente dominati e piegati ai
principi etico-sociali dell’Inghilterra. Invece, per Gulliver vale esattamente il contrario: egli non vuole assolutamente abbandonare l’isola dei cavalli della quale
apprezza i principi morali, e nella quale è convinto di avere trovato il migliore
modello di organizzazione sociale. In tal modo, dopo avere appreso la lezione
morale degli houyhnhnm, Gulliver cerca in ogni modo di dimenticare la madre
patria, cerca di cancellare tutte le tracce possibili della cultura di origine per assimilare invece quella della popolazione equina in mezzo alla quale si sente sicuro e
protetto. Tuttavia, a ricordargli un’umanità dominata da mille vizi, dall’ingiustizia, dalla corruzione e tante altre nefandezze entrano in scena i terribili yahoo che,
con la loro straordinaria somiglianza a Gulliver stesso, sembrano avere trasferito
sul piano fisiognomico l’abbrutimento interiore e la brutalità che caratterizzano i
rappresentanti della razza umana.
In poche parole, l’unico grande obiettivo di Gulliver è dimenticare la menzogna, cancellarne le tracce linguistiche, rimuoverne ogni residuo mnestico del passato per giungere ad essere totalmente simile ai cavalli parlanti che lo ospitano.
Dietro questo atteggiamento, vi è il desiderio di una fuga dalla realtà, della conquista di un mondo totalmente altro che, a ben vedere, implica il rifiuto da parte
di Swift della società coeva. Ma in questa fuga che si omologa a un oblio del mondo riconosciamo anche e soprattutto, sul piano della realizzazione letteraria, il
trionfo della finzione. La verità cercata da Swift è finzione, il modello di mondo
delineato dalla sua immaginazione è finzione, le esperienze narrate sono finzione.
Dopo avere ascoltato il racconto di Gulliver, Pedro de Mendez si convince di
trovarsi di fronte a un sognatore, un essere in preda a visioni che nulla hanno a che
fare con la verità: il paradosso sta in questo scontro tra la verità (letteraria e pertanto finzionale) di Gulliver e la verità di Don Pedro, basata epistemicamente sul
buon senso e sui valori appartenenti alla cultura occidentale. Vero è che il padrone della parola non è Pedro de Mendez ma, per convenzione, il narratore stesso al
quale noi non possiamo non credere quale testimone della sua stessa scrittura:
“Thus, gentle reader, I have given thee a faithful history of my travels for sixteen
years, and above seven months, wherein I have not been so studious of ornament
as of truth”10 . Al lettore Gulliver consegna la sua verità che vuole essere lo
smascheramento della verità che persone come il capitano Pedro de Mendez, in
perfetta buona fede, non sanno interpretare per quello che sono: verità come inganno,
11
verità come truffa, verità come menzogna. Non a caso, in una delle pagine più
sarcastiche del romanzo, Swift cerca di dimostrare come la società inglese sia fondata in ogni sua manifestazione – e soprattutto a partire dal tema della giustizia –
sul trionfo della finzione, sul linguaggio assoluto e totalizzante di ciò che non è:
I said there was a society of men among us, bred up from their youth in the art
of proving by words multiplied for the purpose, that white is black, and black is
white, according as they are paid. To this society all the rest of the people are
slaves. For example, if my neighbour hath a mind to my cow, he hires a lawyer
to prove that he ought to have my cow from me. I must then hire another to
defend my right, it being against all rules of law that any man should be allowed
to speak for himself. Now in this case, I who am the true owner lie under two
great disadvantages. First, my lawyer, being practised almost from his cradle in
defending falsehood, is quite out of his element when he would be an advocate
for justice, which as an office unnatural, he always attempts with great
awkwardness, if not with ill-will. The second disadvantage is, that my lawyer
must proceed with great caution, or else he will be reprimanded by the Judges,
and abhorred by his brethren, as one who would lessen the practice of the law.
And therefore I have but two methods to preserve my cow. The first is to gain
over my adversary’s lawyer with a double fee, who will then betray his client by
insinuating that he hath justice on his side. The second way is for my lawyer to
make my cause appear as unjust as he can, by allowing the cow to belong to
my adversary; and this if it be skilfully done will certainly bespeak the favour of
the Bench11 .
Nella società raffigurata da Gulliver la giustizia significa ingiustizia, la pace
significa guerra, l’onestà significa corruzione. Le parole non veicolano più la certezza di un significato univoco, ma sono diventate lo spazio dell’illusione e dell’inganno. Sia che si tratti di una mucca o di una nazione intera, la regola che s’impone sempre è quella della menzogna che, ovviamente, chiama in causa il problema
etico del rapporto tra il bene e il male. Di qui la decisione di Gulliver di seguire
l’insegnamento degli houyhnhnm difendendo la verità come il supremo bene —
“an utter detestation of all falsehood or disguise; and truth appeared so amiable
to me, that I determined upon sacrificing everything to it”12 . Tanto più necessaria
gli appare la lotta contro ogni falsità in quanto i repellenti yahoo, con la loro degradata e degradante presenza, gli ricordano in ogni istante della sua vita tra i
cavalli parlanti i vizi che soggiogano da sempre gli esseri umani: “[…] the Yahoos
appear to be the most unteachable of all animals […] For they are cunning,
malicious, treacherous and revengeful. They are strong and hardy, but of a cowardly
spirit, and by consequence insolent, abject and cruel”13 . Questo è il mondo che
Gulliver si è lasciato alle spalle, questa è l’Inghilterra i cui mali Swift desidera
denunciare senza mezzi termini. Da un lato, l’utopia dei cavalli parlanti che conoscono solo la verità intesa come fondamento di ogni virtù — e qui vale forse ricordare che “Friendship and benevolence are the two principal virtues among the
12
Houyhnhnms”14 . Dall’altro la distopia della società inglese in cui l’ingiustizia e la
menzogna, oltre a costituire gli ingredienti basilari dei quotidiani discorsi e insieme lo stimolo di ogni individuale ricerca linguistica, sono i pilastri politico-culturali su cui si regge l’ordinamento sociale15 . Ma, insieme alla trionfante presenza e
persistenza della verità, qual è il tratto saliente della Houyhnhnmland? Come si è
già accennato, nel mondo dei cavalli parlanti non esistono gli artisti: l’utopia
swiftiana, così come narrata nella quarta ed ultima parte dei Gulliver’s Travels,
non conosce il “peccato” dell’ immaginazione e, di conseguenza, non conosce nemmeno il piacere estetico: l’unico piacere che esiste riguarda il piacere di vivere in
un mondo senza inganni e infingimenti. Ne consegue che, dal punto di vista artistico, la verità si configura come il luogo della morte: morte dell’arte, morte dei
linguaggi, morte della libera espressione dell’individuo.
A questo punto, come non pensare a Oscar Wilde? Come non citare il suo
famoso saggio The Decay of Lying (1891) in cui ad essere postulato è il primato
delle menzogna su ogni altra modalità di rappresentazione artistica? “One of the
chief causes that can be assigned for the curiously commonplace character of most
literature of our age is undoubtedly the decay of Lying as an art, a science, and a
social pleasure. The ancient historians gave us delightful fiction in the form of
fact; the modern novelist presents us with dull fact under the guise of fiction”16 .
Contro le verità del naturalismo, Wilde restituisce la parola all’artista che è il vero
depositario della menzogna. Beninteso, menzogna qui significa rifiuto del codice
letterario del realismo, rifiuto della tradizione romanzesca che circa trent’anni
prima, con George Eliot, aveva dichiarato guerra alla falsità nella letteratura e
nelle arti: “Falsehood is so easy, truth is difficult”17 . Nella concezione wildiana
dell’arte, la formula eliotiana risulta ribaltata semplicemente perché l’opposizione
che egli instaura è tra copiare e inventare. Se il realismo aveva posto al centro della
sua teoria l’idea di una fedeltà assoluta al reale, l’estetismo wildiano proclama il
primato assoluto dell’invenzione. La strada più difficile è quella dell’invenzione
che conduce alla creazione letteraria. Se “[a]s a method realism is a complete
failure”18 , allora possiamo ben comprendere come la lezione wildiana sia proiettata verso la conquista di nuovi spazi che, riaffermando il primato della menzogna,
configurano una parola senza pastoie di sorta, una parola cioè in grado di dire al
tempo stesso una cosa e il suo contrario. Una parola che, al di là di ogni definizione estetica, al di là di ogni orizzonte assiologico, diviene luogo di verità e menzogna, senza porre steccati etici e limitazioni socio-comportamentali. Ed è chiaro
che in questo processo di scontro tra le polarità opposte del vero e del falso, l’unico palcoscenico di cui occorre tenere conto è quello della produzione artistica
semplicemente perché, per tornare alle geniali e provocatorie teorizzazioni wildiane,
“[a]rt never expressed anything but itself”19 . A questo punto l’unica conclusione
possibile sembra essere che le parole di Wilde ci conducono molto lontano dal
mondo che non conosce menzogna dell’utopia swiftiana. Siamo lontani eppure
siamo incredibilmente vicini. I lillipuziani, i cavalli parlanti, gli yahoo e tutte le
13
straordinarie avventure di Lemuel Gulliver, con il loro insistito riferimento alla
verità, non sono altro che uno splendido esempio di invenzione letteraria. Uno
splendido esempio di menzogna.
1
L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus/Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo
G. Conte, Torino, Einaudi, 2001, p. 25.
2
T. ACCETTO, Della dissimulazione onesta, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Torino,
Einaudi, 1997, p. 9.
3
Ibid.
4
B. GRACIÁN, Oracolo manuale e arte di prudenza, a cura di Antonio Gasparetti,
Milano, TEA, 1991, p. 39.
5
J. DONNE, The Complete English Poem, ed. A. J. Smith, Harmondsworth and New
York, Penguin, 1982, p. 42.
6
Il manoscritto di A Treatise of Equivocation si trova alla Bodleian Library di Oxford.
Il trattato, scritto da Garnet per difendere il gesuita Robert Southwell (processato e mandato a morte nel 1595), fu pubblicato a stampa solo nel 1851. Sul tema della equivocation
in rapporto al Macbeth si rinvia a C. MUCCI, Il teatro delle streghe. Il femminile come costruzione culturale al tempo di Shakespeare, Napoli, Liguori, 2001, pp. 130-131.
7
Come l’uditorio elisabettiano ben sapeva, gli equivocators erano i congiurati della
“Gunpowder Plot” (5 novembre 1605) che volevano fare saltare il Parlamento e uccidere il
monarca.
8
J. SWIFT, Gulliver’s Travels, ed. P. Dixon and J. Chalker, Harmondsworth, Penguin,
1975, p. 336 (corsivi nel testo).
9
A. L. MORTON, The English Utopia, London, Lawrence and Wishart, 1978 pp. 124-125.
10
Swift, op. cit., p. 340.
11
Ibid., pp. 295-296.
12
Ibid., p. 305, corsivi nel testo.
13
Ibid., pp. 313-314.
14
Ibid., p. 316.
15
M. FOOT ha sottolineato come, per il pubblico dei lettori, il romanzo swiftiano contenesse precisi rimandi alla società contemporanea: “The book is stuffed with personal,
literary and political allusions. On every page there are more or less abstruse references
which had a special meaning for the readers of Swift’s own age” (M. Foot, “Introduction”,
Gulliver’s Travels, cit., pp. 26-27).
16
O. WILDE, The Decay of Lying, in The Artist as Critic. Critical Writings of Oscar
Wilde, ed. Richard Ellmann, New York, Vintage, 1970, p. 293.
17
G. ELIOT, Adam Bede, ed. Valentine Cunningham, Oxford and New York, Oxford
University Press, 1996, p. 176. Sui temi del realismo eliotiano si veda il mio La verità difficile. Uno studio sulla narrativa di George Eliot, Bologna, Pàtron, 1980, pp. 75-131.
18
WILDE, op. cit., p. 303.
19
Ibid., p. 313.
14
DOM JUAN OU L’ÉLOGE DU MENSONGE
par GIOVANNI DOTOLI
1. Le paradoxe du mensonge
Dans tous les répertoires des thèmes du Dom Juan de Molière, celui du mensonge
est absent. Toutes les interprétations de cette pièce que l’on définit justement
comme énigmatique, de Rochemont à nos jours, ne fixent jamais leurs points de
repère sur le mensonge. Les lectures les plus récentes posent l’accent sur l’éloge
paradoxal (Patrick Dandrey) et sur le baroque ou le burlesque (les miennes)1 .
Pourquoi n’a-t-on jamais pris acte de cette présence si évidente? Dom Juan ne
fonde-t-il pas ses démarches sur le mensonge aussi bien que sur le défi, par le
biais du paradoxe? Est-ce une évidence trop évidente, pour constituer un élément
d’approfondissement d’une pièce sur laquelle on a versé des fleuves d’encre?
Et toutefois le texte de cette comédie de Molière est là, bien clair dans les
procédés dont se sert son personnage principal, Dom Juan. Nous pourrions dire
que toute ses actions démarrent grâce à des mensonges. Je pense que ce parcours
est possible parce que Molière connaît tous les secrets de la forme paradoxale,
comme le montre si profondément Patrick Dandrey2 .
Une analyse attentive nous prouve que dans Dom Juan Molière connaît l’art du
mensonge. Les disproportions amoureuses de son personnage principal se déroulent
sur l’axe de la vérité cachée.
En suivant les plus hautes lois de la rhétorique, Dom Juan procède par
raisonnements paradoxaux fondés sur le mensonge. A tout moment, il démontre
la contre-vérité. C’est une sorte d’ “encomium charlatanesque”3 , avec un effet
moqueur extraordinaire, sous les yeux du spectateur. Par exemple, à propos de la
beauté des mains de Charlotte, l’une des deux paysannes qu’il tente de conquérir,
nous entendons (II, 2):
DOM JUAN: Sganarelle, regarde un peu ses mains.
CHARLOTTE: Fi! Monsieur, elles sont noires comme je ne sais quoi.
DOM JUAN: Ha! Que dites-vous là! Elles sont les plus belles du monde; souffrez
que je les baise, je vous prie.
CHARLOTTE: Monsieur, c’est trop d’honneur que vous me faites, et si j’avais
su ça tantôt, je n’aurais pas manqué de les laver avec du son.
Le comique de Dom Juan se déroule par traits allusifs et évidents axés sur le
mensonge, sans quoi il serait impossible d’obtenir le même “effet ludique, satirique
ou critique”4 . Si le mensonge frise le blasphème, peu importe. L’essentiel c’est que
15
Dom Juan prouve ses thèses par le contraire de la norme. N’est-ce pas le mensonge
une antinorme? Et si le mensonge atteint le cynisme, au fond Molière est satisfait
d’avoir réussi à hiperboliser les connotations de son personnage.
L’emphase du mensonge confond le pauvre Sganarelle, qui est obligé de se
confier à l’expérience, contre tous les livres du monde (III, 1): “Avec mon petit
sens et mon petit jugement, je vois les choses mieux que tous les livres”. Malgré le
contexte (éloge du vin émétique, du Moine-bourru et de l’impiété), est-ce que là
Molière accuserait les livres de dire des mensonges?
En effet, Molière ne fait que se placer sur la lignée de la tradition européenne
du paradoxe, dont il utilise les règles de l’éloquence. Les caprices italiens et les
facéties françaises du XVIe siècle et la littérature française du début du XVIIe
utilisent énormément les principes du mensonge, sorte de discours d’alter ego5.
Chez Molière, le mensonge n’est pas un simple paradoxe, mais un moyen de
faire passer le message de son comique, social et littéraire.
2. Mensonge et hypocrisie
Dom Juan dit clairement qu’il est un menteur, dans les scènes I, 3, rencontre
avec Done Elvire, la femme qu’il a abandonnée, II, 2, colloque avec Charlotte, III,
3, rencontre avec Dom Carlos, frère d’Elvire (Dom Juan feint d’être l’ “ami de
Dom Juan”), V, 1, aveu de Dom Juan à son père Dom Louis qu’il se serait converti, V, 2, débat avec Sganarelle, où il défend le mensonge et l’hypocrisie, V, 3,
justification avec Dom Carlos de son comportement avec Elvire.
On me pardonnera cette longue citation de la fin de II, 2, symbolique de l’allure
des dialogues de Dom Juan fondés sur le mensonge:
DOM JUAN: Et dites-moi un peu, belle Charlotte, vous n’êtes pas mariée sans
doute?
CHARLOTTE: Non, Monsieur; mais je dois bientôt l’être avec Piarrot, le fils
de la voisine Simonette.
DOM JUAN: Quoi? Une personne comme vous serait la femme d’un simple
paysan! Non, non: c’est profaner tant de beautés, et vous n’êtes pas née pour
demeurer dans un village. Vous méritez sans doute une meilleure fortune, et
le Ciel, qui le connaît bien, m’a conduit ici tout exprès pour empêcher ce
mariage, et rendre justice à vos charmes; car enfin, belle Charlotte, je vous
aime de tout mon cœur, et il ne tiendra qu’à vous que je vous arrache de ce
misérable lieu, et ne vous mette dans l’état où vous méritez d’être. Cet amour
est bien prompt sans doute; mais quoi? C’est un effet, Charlotte, de votre
grande beauté, et l’on vous aime autant en un quart d’heure qu’on ferait une
autre en six mois.
CHARLOTTE: Aussi vrai, Monsieur, je ne sais comment faire quand vous parlez.
Ce que vous dites me fait aise, et j’aurais toutes les envies du monde de vous
16
croire; mais on m’a toujours dit qu’il ne faut jamais croire les monsieux, et que
vous autres courtisans êtes des enjoleus, qui ne songez qu’à abuser les filles.
DOM JUAN: Je ne suis pas de ces gens-là.
SAGANARELLE: Il n’a garde.
CHARLOTTE: Voyez-vous, Monsieur, il n’y a pas plaisir à se laisser abuser. Je
suis une pauvre paysanne; mais j’ai l’honneur en recommandation, et j’aimerais
mieux me voir morte que de me voir déshonorée.
DOM JUAN: Moi, j’aurais l’âme assez méchante pour abuser une personne
comme vous? Je serais lâche pour vous déshonorer? Non, non: j’ai trop de
conscience pour cela. Je vous aime, Charlotte, en tout bien et en tout honneur;
et pour vous montrer que je vous dis vrai, sachez que je n’ai point d’autre dessein
que de vous épouser: en voulez-vous un plus grand témoignage? M’y voilà prêt
quand vous voudrez; et je prends à témoin l’homme que voilà de la parole que je
vous donne.
SGANARELLE: Non, non, ne craignez point: il se mariera avec vous tant que
vous voudrez.
DOM JUAN: Ha! Charlotte, je vois bien que vous ne me connaissez pas encore.
Vous me faites grand tort de juger de moi par les autres; et s’il y a des fourbes
dans le monde, des gens qui ne cherchent qu’à abuser des filles, vous devez me
tirer du nombre, et ne pas mettre en doute la sincérité de ma foi. Et puis votre
beauté vous assure de tout. Quand on est faite comme vous, on doit être à couvert
de toutes ces sortes de crainte; vous n’avez point l’air, croyez-moi, d’une personne
qu’on abuse; et pour moi, je l’avoue, je me percerais le cœur de mille coups, si
j’avais eu la moindre pensée de vous trahir.
CHARLOTTE: Mon Dieu! Je ne sais pas si vous dites vrai, ou non; mais vous
faites que l’on vous croit.
DOM JUAN: Lorsque vous me croirez, vous me rendrez justice assurément, et
je vous réitère encore la promesse que je vous ai faite. Ne l’acceptez-vous pas, et
ne voulez-vous pas consentir à être ma femme?
CHARLOTTE: Oui, pourvu que ma tante le veuille.
DOM JUAN: Touchez donc là, Charlotte, puisque vous le voulez bien de
votre part.
CHARLOTTE: Mais au moins, Monsieur, ne m’allez pas tromper, je vous prie;
il y aurait de la conscience à vous, et vous voyez comme j’y vais à bonne foi.
DOM JUAN: Comment? Il semble que vous doutiez encore de ma sincérité!
Voulez-vous que je fasse des serments épouvantables? Que le Ciel…
CHARLOTTE: Mon Dieu, ne jurez point, je vous crois.
DOM JUAN: Donnez-moi donc un petit baiser pour gage de votre parole.
CHARLOTTE: Oh! Monsieur, attendez que je soyons mariés, je vous prie; après
ça, je vous baiserai tant que vous voudrez.
DOM JUAN: Eh bien! belle Charlotte, je veux tout ce que vous voulez;
abandonnez-moi seulement votre main, et souffrez que, par mille baisers, je lui
exprime le ravissement où je suis.
Bien sûr, la fausse conversion est un acte grave, le plus grave, au XVIIe siècle,
mais Dom Juan ne s’arrête pas devant le mensonge extrême (V, 1):
17
J’en repasse dans mon esprit toutes les abominations, et m’étonne comme
le Ciel les a pu souffrir si longtemps, et n’a pas vingt fois sur ma tête laissé
tomber les coups de sa justice redoutable. Je vois les grâces que sa bonté m’a
faites en ne me punissant point de mes crimes; et je prétends en profiter comme
je dois, faire éclater aux yeux du monde un soudain changement de vie, réparer
par-là le scandale de mes actions passées, et m’efforcer d’en obtenir du Ciel une
pleine rémission. C’est à quoi je vais travailler; et je vous prie, Monsieur, de
vouloir bien contribuer à ce dessein, et de m’aider vous-même à faire choix
d’une personne qui me serve de guide, et sous la conduite de qui je puisse marcher
sûrement dans le chemin où je m’en vais entrer.
Aux personnages qui croient que Dom Juan a quitté l’axe du mensonge, il
répond avec clarté (V, 2): “Non, non, je ne suis point changé, et mes sentiments
sont toujours les mêmes”.
Le mensonge devient une forme haute d’hypocrisie. Ainsi est-il “un vice à la
mode”, “un vice privilégié, “un manteau de la religion”, un “abri favorable”, qui
permet à Dom Juan de s’ériger en “censeur des actions d’autrui”, en “sage esprit”,
qui “s’accommode aux vices de son siècle”.
Quand le mensonge va être découvert, Dom Juan a recours aux trouvailles
extrêmes. Il appelle le Ciel, pour confirmer sa droiture et ses changements (V, 3):
Mais le ciel s’oppose directement: il a inspiré à mon âme le dessein de changer
de vie, et je n’ai point d’autres pensées maintenant que de quitter entièrement
tous les attachements du monde, de me dépouiller au plus tôt de toutes sortes
de vanités, et de corriger désormais par une austère conduite tous les
dérèglements criminels où m’a porté le feu d’une aveugle jeunesse.
J’ai entendu une voix qui m’a dit que je ne devais point songer à votre sœur, et
qu’avec elle assurément je ne ferais point mon salut.
Enfin, Dom Juan affirme avec la force d’un guerrier: “J’obéis à la voix du Ciel”.
N’a-t-il pas justifié son comportement initial, l’enlèvement d’Elvire d’un couvent
pour l’épouser, par “les yeux de l’âme” et “le courroux céleste”(I, 3)? Dès le début,
Dom Juan est obligé de présenter sa contre-vérité: “Je vous avoue, Madame, que
je n’ai point le talent le dissimuler, et que je porte un coeur sincère”, “le repentir
m’a pris”(I, 3).
La pièce se déroule sur l’axe stratégique du mentir. L’impiété de cet acte se
révèle ab initio. Ainsi l’action est-elle une escalade de mensonges vers la punition
finale, par la mort. Les réconciliations provisoires sur le mensonge sont des étapes
vers l’effondrement. Feindre c’est vivre, en ce monde baroque, où Dom Juan est
un symbole. Sa fausse dévotion se présente par effets de théâtre. Dom Juan est-il à
genoux, prie-t-il, soupire-t-il, fait-il des gestes de confirmation? Le mensonge est
l’arme des dévots de la Compagnie du Saint-Sacrement, et Molière les attaque de
toute la force de sa parole. Le mensonge de Dom Juan est révélateur.
18
Le séducteur, l’inconstant et le flatteur défient le Ciel par la parole du mensonge.
“Epouseur du genre humain” et “fourbe” (II, 4), Dom Juan agit en menteur pour
transgresser le sacré. Si l’on est en train de découvrir sa conduite, il n’a pas peur
de dire que son mensonge est un acte de vérité. Si Sganarelle se félicite de le voir
“converti”(V, 2), il le détrompe: “Non, non, je ne suis point changé”, “C’est un
dessein que j’ai formé par une pure politique, un stratagème utile, une grimace
nécessaire où je veux me contraindre, pour […] me mettre à couvert, du côté des
hommes, de cent fâcheuses aventures”(V, 2).
Dom Juan est un simulateur dont le masque est celui de l’imposteur. Par le
mensonge il brave les convenances. Sur la ligne de Bruscambille, maître de Molière
ès mensonges6 , Dom Juan transforme le paradoxe de cet art en parole utile. A-t-il
lu Les Provinciales, où Pascal utilise ce même procédé7 ? Schéma diabolique ou
moyen élégant pour être au-dedans de la société de son temps? Plutôt le premier.
Dom Juan est un “orateur lucide”8 qui joue sur le rythme de la parole mensongère,
élément d’ “humiliation d’autrui”9 . Le mensonge de Dom Juan révèle tout son
double. Ses négations sont des flammes de lumières. Done Elvire les illumine dès
l’acte I, scène 3: “Ah! Scélérat, c’est maintenant que je te connais tout entier”.
3. Encore un autre Dom Juan
Le personnage de Dom Juan n’arrête pas de révéler ses secrets inépuisables.
L’analyse de ses répliques par mensonges nous montre un langage de spiritualité.
Ses motifs de conscience, ses scrupules, ses connaissances de la casuistique et de
toute manifestation religieuse nous signalent le comportement d’un grand seigneur
qui lutte contre “une société qui ne permet pas l’expression ouverte d’idées non
conformes au système de pensée en vigueur”. Molière s’accommode-t-il de son
temps? Ne fait-il pas “autre chose que ce qu’ont fait avant lui bien des penseurs
qui s’étaient donné comme règle de vie: Intus ut libet, foris ut moris est (“A
l’intérieur, pense comme il te plaira; au-dehors, comme il est coutume de
penser”)10 ?.
Le mensonge de dissimulation va au-delà même de la constatation baroque (le
mensonge est une forme du “change” baroque”). Comme le souligne Monique
Schneider11 , il transforme “l’opération négatrice” en “fonction motrice” des
différents couples qui agissent. Dom Juan a toujours besoin de réitérer, d’attribuer
ses pensées à l’autre, de transférer ses opérations, de se montrer en couple.
La parole du mensonge de Dom Juan s’énonce par “délégation-dénégation”12,
“puisque, dès son entrée en scène, le séducteur agit comme double, en se revêtant
de l’identité d’un autre; mais la structure de redoublement dépasse de beaucoup
la dualité qui s’instaure entre le sujet et l’instance qui le juge”13.
Dom Juan a toujours besoin de duplication, d’écho, de porte-parole, d’aidemémoire, de performance double, d’énonciation réitérée. Il postule sur l’axe
19
A vers B vers C. Connaît-il le sens du “je ne sais quoi” de Dominique Bouhours?
Et le mensonge n’est-il pas une forme de mobilité, de déroute sur autrui, de logique
de conquête, de légitimation et de transgression?
Molière connaît le pouvoir du contretemps du “langage fallacieux”14 , de l’effet
multiplicateur du mensonge. Virtuose du comique, Dom Juan caricaturise l’autre.
Sa force est dans sa burla-mensonge, sacrilège et violation, dissonance et paradoxe,
promesse non tenue et défi, dissimulation et diversion.
L’axe du mensonge l’amènera à la perdition. Dom Juan s’effondrera dans l’abîme
de l’enfer en lançant encore une fois sa parole double, face au spectre de la mort.
Leçon terrible du mensonge: la fausse parole et la ruse conduisent à la ruine finale.
4. Vérité de l’œuvre et vérité du monde
L’utilisation du mensonge dans le Dom Juan s’insère dans le “rejet des absolus”15 :
Molière refuse tout impératif théâtral. Il réaffirme que le théâtre est le domaine du
relatif, et non des règles qui l’étouffent.
C’est surtout la vraisemblance qui subit des entorses. Pour exploiter au
maximum la ligne du mensonge, Molière place les événements au fil de l’inattendu.
L’arrivée d’Elvire, l’interview de Dom Juan avec Charlotte, la rencontre de Dom
Carlos et Dom Louis, le tombeau du Commandeur, apparaissent d’une façon
inopinée.
Le hasard conduit l’axe du mensonge. Toute barrière tombe. La vie est fragile
et fluctuante: atmosphère baroque, où le mensonge fait ressortir la mutabilité des
choses. Même les bienséances se trouvent non respectées: le mensonge met en
relief le manque de galanterie, de piété filiale et de respect de la part de Dom Juan.
Les équilibres de la pièce théâtrale classique se brisent.
L’oeuvre est ouverte à toute solution. Le mensonge est le ressort d’orientations
imprévues, ouvertes, comme s’il était le moteur de réflexions interdites, par
contraste avec le monde, que le dramaturge défie dans son ordre établi.
De fait, l’utilisation du mensonge est un jeu d’antithèse pour dire la vérité
mouvante de la vie. Le personnage de Granger, admiré par Molière, dans Le Pédant
joué de Cyrano de Bergerac (1654), ne dit-il pas: “Ecoutez parler l’antithèse: si,
mais je ne dis point si: il est plus véritable que la vérité” (IV, 2)?
L’ambiguïté du mensonge comporte “un système de contradictions”16 , que
Molière dévoile impitoyablement. Elle nous fait découvrir qu’à ce moment de
l’histoire “les voies du bien et du mal se croisent, interfèrent”17 . Le mensonge se
fonde sur le décalage et sur la discordance: il va vers le burlesque18 , moyen de
vérité et de lutte contre le pouvoir. Il est un acte de liberté. L’effet de distanciation
de la réalité nous place au-dedans de la réalité. La dissonance du monde se montre
par le biais de la disproportion du mensonge. La contrefaçon de la réalité donne
plus de vérité que la vérité elle-même.
20
La supériorité verbale et “la maîtrise des signes”19 donnent à Dom Juan la
possibilité de montrer toute la grandeur du monde renversé. La mystification des
choses est une exigence d’ouverture sur le monde, une marque de la langue comme
un acte de liberté.
1
P. DANDREY, L’éloge paradoxal de Gorgias à Molière, Paris, PUF, 1997, et G. DOTOLI,
Littérature et société en France au XVIIe siècle, préf. de J. Mesnard, vol. III, Fasano – Paris,
Schena – Presses de l’Université de Paris Sorbonne, 2001, pp. 301-20 et Dom Juan de Molière
comédie burlesque?, in Mélanges à l’honneur de Ronald Tobin, sous presse.
2
P. DANDREY, Ibid. et “Dom Juan” ou la critique de la raison comique, Paris, Champion,
1993 et La médecine et la maladie dans le théâtre de Molière, Paris, Klincksieck, 1998, 2
voll., passim.
3
ID., Dom Juan ou la raison comique, cit., 23.
4
ID., L’éloge paradoxal de Gorgias à Molière, cit., p. 244.
5
Ibid., passim.
6
DESLAURIERS DE BRUSCAMBILLE, Les oeuvres de Bruscambille, contenant ses Fantasmes,
Imaginations et Paradoxes et autres discours comiques. Le tout nouvellement tiré de l’escarcelle
de ses Imaginations […], Rouen, Martin de La Motte, 1626, p. 113.
7
P. DANDREY, Dom Juan ou la critique de la raison comique, cit., p. 39.
8
ID., La médecine et la maladie dans le théâtre de Molière, cit., I, p. 311.
9
J. SCHERER, Sur le Dom Juan de Molière, Paris, SEDES, 1967, p. 89.
10
G. COUTON, Notice [sur Dom Juan], in Molière, Le Tartuffe, Dom Juan, Le Misanthrope,
éd. G. C., Paris, Gallimard, Folio, 1973, p. 157.
11
M. SCHNEIDER, Don Juan et la double tentation, Paris, Aubier, 1994, pp. 50-63.
12
Ibid., p. 52.
13
Ibid., pp. 52-53.
14
P. DANDREY, Dom Juan ou la critique de la raison comique, cit., p. 195.
15
R. HORVILLE, Dom Juan de Molière. Une dramaturgie de rupture, Paris, Larousse,
1972, p. 233.
16
P. DANDREY, L’éloge paradoxal de Gorgias à Molière, cit., p. 251.
17
Ibid.
18
Voir aussi mon essai Dom Juan de Molière comédie burlesque?, cit.
19
C. REICHELER, La diabolie, Paris, Les Editions de Minuit, 1979, p. 28.
21
SISTEMI COMPLESSI E MENZOGNA:
ARTIFICIO O ETICA?
di CLAUDIO SPISNI
Alcuni mesi fa il Prof Bertozzi mi parlava amichevolmente del convegno sulle
Arti comparate che stava organizzando, dicendomi che l’argomento scelto era quello
della menzogna.
Ebbi purtroppo l’ardire di affermare che anche in campo medico (alla luce
delle nuove recenti scoperte scientifiche) il problema della menzogna avrebbe
potuto diventare di rilevante importanza.
Voi tutti conoscete il Prof. Bertozzi per cui inutile vi dica che più rapido del
lupo di capuccetto rosso ha fatto di me un sol boccone invitandomi (e uso un
eufemismo) a fare questa relazione.
Personalmente mi scuso fin da ora non per ciò che dirò, ma per come lo dirò,
conscio del fatto che facile è comunicare dati scientifici o fenomeni, ma ben altra
cosa esprimere concetti. Poiché ritengo comunque utile fin da subito dire dove
cercherò di portare il mio ragionamento, tenterò di argomentare che una scienza
sempre più sofisticata e curiosa inevitabilmente costringerà tutta la società ad affrontare pragmaticamente il problema della menzogna “etica” a fronte del rischio
del collasso sociale o economico. E questa non vuole essere una risposta, semmai
la richiesta di un aiuto per comprendere dove andremo.
Complessità è una parola-problema non una parola-soluzione e l’uso di sistemi
sempre più complicati per codificarla non è detto che ci porti alla soluzione. William
Osler (1849-1919) famoso clinico della J. Hopkins di Baltimora nel suo “Principles
of Clinical Practice” affermava: chiedete ad un medico con venti anni di attività
come sia diventato bravo nella sua arte e vi risponderà che ciò che ha imparato
all’università è completamente diverso dalla medicina imparata al letto del paziente.
Oltre alla casistica veniva sicuramente loro incontro la “CASUISTICA” ovvero
quel sistema di regole per distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato nelle
situazioni di ogni giorno, in genere associato ad un concetto di moralità che intende
la giusta condotta come obbedienza ad un insieme di regole strettamente definite.
Questi principi o regole sono ancora validi nel tempo del progetto genoma
umano e di Internet? Ma andiamo con ordine. Manzoni poteva parlare con una
certa ironia delle superstizioni e degli untori del XVII secolo forte delle conoscenze del suo XIX secolo. Rimaneva però il fatto che a distanza di due secoli la malattia o la morte dovevano essere espressamente spiegate facendo ricorso a cause
“inconsuete e cattive”. Solo rimuovendo tali cause potevano essere evitate. Era il
tempo degli sciamani e delle superstizioni. Poi la scienza moderna ha introdotto
il concetto di “causalità naturale” che può quindi avere effetti sia desiderabili,
22
sia indesiderabili. Questa nuova concezione portò Denis Diderot nel 1779 ad affermare “tutto cambia, tutto passa, solo il tutto resta”.
Per paradosso, però, la smisurata crescita della conoscenza scientifica e tecnologica ha avuto come conseguenza un ritorno ad atteggiamenti sociali propri di
uno stato prescientifico molto più arretrato che nel recente passato.
La vera o presunta possibilità di intervenire sulla natura per soddisfare i desideri umani ha determinato un cambiamento della consapevolezza di quali siano le
relazioni naturali. Ci riteniamo superiori in quanto abbiamo sostituito un’idea superstiziosa e sbagliata delle relazioni naturali con una meccanicistica ritenuta più
giusta. Dall’incantesimo siamo passati alla volontà di modificare il gene cattivo.
Possiamo anche affermare che gli ultimi residui di consapevolezza della mortalità – come una caratteristica naturale e normale della vita – sono stati distrutti dal
progresso della biologia molecolare. Ma la biologia più di altre scienze è sempre
stata profondamente influenzata dalle metafore che hanno dominato nelle varie
epoche il discorso sociale.
Il XIX secolo fu caratterizzato dalla metafora della macchina e la biologia aveva come programma la spiegazione e la manipolazione degli organismi viventi
intesi letteralmente come macchine a funzionamento ad orologeria con lo scopo
di riuscire a ricostruire una macchina complessa partendo dai singoli pezzi.
Il Frankenstain di Mary Shelley è la summa letteraria di questa concezione. Nel
XX secolo alla metafora della macchina isolata si è sostituita quella della catena di
montaggio, influenzata da flussi di informazioni e retroazioni.
Così la metafora-guida della biologia è diventata quella della fabbrica vivente
con i processi meccanici della vita divisi in due parti:
1) il meccanismo produttivo formato da enzimi, proteine strutturali, membrane, cellule, tessuti e quant’altro produce gli effettivi processi fisici;
2) il meccanismo stesso nel suo progetto di controllo del ritmo di funzionamento, ovvero i geni capaci di dominare il ciclo produttivo così come il lavoro
intellettuale dei dirigenti è considerato superiore e dominante rispetto al lavoro
degli operai.
Dalla metafora della fabbrica derivano i tre principi che determinano l’attuale
direzione della ricerca:
1) noi non anatomizziamo più l’organismo, ma sequenziamo i geni per conoscere l’organismo ideale;
2) se dalla fabbrica esce un prodotto di qualità inferiore e l’impresa rischia il
fallimento, noi cerchiamo gli errori nel progetto così che le cause della cattiva
salute o della morte non sono semplicemente la conseguenza del cattivo funzionamento dei meccanismi viventi, ma il risultato di un progetto sbagliato ovvero la
presenza di geni mal progettati o inferiori;
3) il modo migliore per correggere ciò che è sbagliato è correggere i geni
difettosi.
Tutto ciò ha portato al progetto “genoma umano” ed è Walter Gilbert,
23
co-inventore del primo metodo per la sequenziazione del DNA, ad affermare
“quando conosceremo l’intera sequenza genica sapremo quel che vuol dire essere
uomini!”.
Fortunatamente almeno rispetto a questa affermazione qualche problema
permane.
1) Non esiste una singola sequela nucleotidica di riferimento che caratterizzi
l’essere umano. Infatti ogni due persone scelte a caso, esse differiscono per circa
tre milioni di nucleotidi tra circa i tremila milioni che costituiscono il genoma e
ciò può ovviamente comportare dalle piccole alle grandi differenze. Poiché ogni
persona porta un corredo completo di geni provenienti da ciascuno dei suoi genitori, è possibile che un individuo possegga una copia di un gene difettoso che
sarebbe letale se non fosse compensata dalla seconda coppia sana.
Ovviamente questo ha aperto una nuova affascinante via nel comprendere e in
alcuni casi trattare malattie rare sino a pochi anni orsono letali; ma lasciamo questo problema per dopo. Ogni persona è portatrice di geni difettosi in copia singola
cosicché il catalogo ideale del “genoma umano” di riferimento conterrà sempre
una quantità di informazioni sbagliate, del tutto sconosciute. Il progetto non ha
pertanto, almeno per ora, la capacità di comprendere le variazioni meno drastiche,
cioè i circa tre milioni di differenze che ci sono tra un individuo e l’altro. Una
prima mezza verità o una menzogna?
2) Gli organismi non sono fortunatamente specificati solo dai loro geni. Nonostante l’affermazione di Sydney Brenner – uno degli scopritori del codice genetico
– secondo il quale conoscendo la sequenza del DNA e avendo a disposizione un
computer sufficientemente potente, si potrebbe ricostruire in maniera automizzata
un organismo vivente. Lo sviluppo di un organismo è anche la conseguenza unica
di una interazione tra i geni che esso contiene e la successione temporale degli
ambienti attraverso cui passa.
Fortunatamente, come afferma Lewontin nel suo Human Diversity, la sequenza completa del DNA umano non prevede una sola riga della Divina Commedia.
Esiste però una verità inconfutabile. Se un gene anomalo non produce un enzima
o lo produce difettoso, si creano malattie gravissime e mortali come la galattosemia
o le malattie lisosomiali spesso incompatibili con la vita.
Senza volere scendere nei paradossi che questo discorso portato alle estreme
conseguenze potrebbe comportare (ovvero della ricerca nel gene di tutte le spiegazioni alle nostre problematiche) sicuramente va detto che, falliti almeno in parte
i modelli di benessere sociale nei paesi industrializzati, la nuova chimera di governi e grandi gruppi industriali è la genetica.
Non preoccupatevi, le risorse disponibili sono sempre meno e mal distribuite,
ma con la genetica, che ha tempi lunghi se non lunghissimi, tutti i problemi
saranno risolti. Non so se questa sia menzogna, ma certamente, non tutto viene
detto: se la prevenzione primaria sulle malattie batteriche e virali ha portato alla
scomparsa delle grandi epidemie e quindi ad un allungamento della vita, quella
24
secondaria, specie sulle malattie dismetaboliche come il diabete e la ipertensione,
è fallita e nel 2010 si prevedono nel mondo più di 250 milioni di pazienti.
Il problema dei grandi interessi economici e sociali che sono dietro al progetto
genoma e più in generale alla medicina, introduce l’altro grande problema della
gestione e della diffusione delle notizie.
Paolo Fabbri, Semiologo, Docente di filosofia del linguaggio all’Università di
Palermo, scrive: “Chi ha visitato un grande centro di ricerca sa che i laboratori
funzionano con i testi già pronti sulle telescriventi mentre ancora si fanno i calcoli,
per battere sul tempo i laboratori avversari in modo da potersi aggiudicare nuovi
fondi per la ricerca. E nello stesso tempo chi pensa che potrebbe perdere questa
corsa è già pronto a riorganizzare la dimostrazione dei risultati per orientarli altrimenti”.
Ciò che ci interessa è di nuovo più la circolazione dei segreti che non la loro
natura, più la modalità del loro processo che il loro stato.
Cosa è una cosa che è e sembra quello che è? La verità.
Cosa è una cosa che è e non sembra quello che è? Il segreto.
Cosa è una cosa che sembra ma non è? La menzogna.
Cosa è una cosa che non è e non sembra? L’indifferenza, l’adiaforo, quello da
cui tutto il resto parte, la comunicazione irrilevante.
Un articolo recentemente pubblicato su Annals of Internal Medicine ha rilevato come il 47% delle ricerche eseguite su Internet da cittadini statunitensi riguardi la salute. Su di un campione di 1000 pazienti in Germania e Svezia il 66% si è
detto disposto a pagare tra i 10 e 25 euro per i servizi forniti in Internet. Per
quanto riguarda gli italiani una indagine del Censis rivela che il 15% circa ricerca
su Internet informazioni sulla salute.
E questo pone il problema del controllo della informazione con la necessità di
inventare sistemi di certificazione della qualità, codici di autoregolazione e vere
linee guida.
20 luglio ’69 sbarco sulla luna;
29 ottobre ’69 primo tentativo di collegamento a distanza tra computers
(università di Los Angeles e San Francisco);
’73 primo collegamento transatlantico;
’74 prima apertura al pubblico della rete;
’72 primo programma di E-mail;
’89 prima proposta a Ginevra di creare un sistema per la reperibilità di documenti e del loro collegamento logico e semantico;
’90 definitiva separazione tra il sistema militare e quello civile.
E ha inizio la grande favola, che come tutte le favole contiene la grande
mistificazione tra fantasia e realtà. La prossima grande sfida della ricerca risiederà
nella possibilità di valutare sperimentalmente e in maniera sistematica l’impatto
della informazione medico-scientifica su indicatori rilevanti della salute pubblica,
morbilità, qualità di vita, ecc., ad esempio, in riferimento al controllo del
25
sovrappeso, dell’abuso di alcool, del controllo della pressione. Purtroppo nella
nuova globalizzazione dell’informazione le risorse economiche e culturali non sono
equamente ed ugualmente distribuite; il vero corno del dilemma sarà che non è
sufficiente sapere per potere pensare di risolvere tutti i problemi. Basti per tutti
l’esempio dei farmaci anti AIDS nel terzo mondo. Ovviamente i grandi vantaggi
della rete sono e saranno innegabili: dalla formazione permanente al nuovo rapporto medico paziente, alla possibilità di una nuova cartella sanitaria elettronica,
alla telemedicina e in un futuro che è già oggi, la telechirurgia robotica.
Il problema limitante sarà sempre più quello dei costi sostenibili, problema
per il quale non ho alcuna risposta, ma che mi auguro la società del XXI secolo
riuscirà a risolvere.
Rifugiandomi però nel mondo delle fiabe voglio concludere con il Guido
Gozzano di Piumadoro e Piombofino, da La danza degli Gnomi: Piumadoro si
risollevò in alto con i suoi compagni, e capì che quello era il Castello della Menzogna e che il chicco gettato era il grano della Prudenza.
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LE MENTEUR DI JEAN COCTEAU:
UNA DRAMMATIZZAZIONE DELLA MENZOGNA
di ADA SPERANZA ARMANI
«Je suis plutôt un mensonge.
Un mensonge qui dit toujours la vérité»
J. C.
In una lettera del 17 giugno 1955, Jean Cocteau prega Jean Marais di ricercare fra
le sue carte, affinché possa essere pubblicato, il Menteur «ton monologue ou
chanson chanté» che, scritto dal poeta per il giovane attore cui egli era notoriamente legato, era stato da quest’ultimo declamato alla radio con accompagnamento musicale di Jean Wiener1.
L’autore palesa un certo attaccamento a quel breve testo a proposito del quale
sembra scherzosamente rivendicare un primato nella letteratura francese: proclama, infatti, con trasparente allusione all’omonimo titolo della commedia di
Corneille: «II n’y a qu’un Menteur en prose». Se pur sapientemente costruita per
far risaltare le doti dell’interprete, l’opera è tutt’altro che occasionale: la scelta
stessa del tema rivela un autobiografismo che mal nasconde l’intento di far dell’apparente destinatario – che il poeta vede come un altro se stesso – il portavoce
di quel perenne dissidio tra verità e menzogna da lui denunciato e sofferto attraverso le più varie avventure, letterarie come esistenziali.
In questa stessa ottica, nella prefazione al Bacchus, Jean Touzot, uno dei
più attenti studiosi dell’opera di Cocteau, deplora che Jacques Schérer;
nella Dramaturgie du vrai-faux 2 accordi un esiguo spazio al nostro autore:
“On sait que le théâtre de Cocteau est peuplé de menteurs, de mythomanes et
d’imposteurs [...]”3.
Touzot evoca, oltre ai sortilegi e agli spettacolari funambolismi le menzogne e
i trucchi su cui si edificano testi come La Machine infernale5, L ‘Aigle à deux têtes6,
Les Parents terribles7: e appunto Bacchus, opera in cui il procedimento del deus ex
machina si attua nelle forme di “un pieux mensonge”. L’elenco può ulteriormente
allungarsi: ad ogni passo, nell’ammiccante scrittura di Cocteau ci imbattiamo in
apparenze menzognere: nei «Mensonges» dei Poèmes épars, gli inganni attengono
alla sfera dei sentimenti; in Vocabulaire, Miss Aérogyne, “femme volante”, con più
concreta presenza, “ment avec son corps” e egualmente illusorie in “Dos d’ange”
si rivelano le immagini allettanti suscitate dagli angeli “bossus”.
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Scavando più nel profondo, scorgiamo nella menzogna il sintomo di un lacerante conflitto esistenziale che rivela, nel suo manifestarsi, l’inquietante profondità della coscienza.
In tal senso si muove la sottile indagine di Vladimir Jankélévitck che, nel saggio dal titolo Du mensonge, si richiama alla distinzione istituita da Agostino nel
De mendacio tra mentiens e mendax, tra il fatto epifenomenico del mentire e l’animi sententia: una distinzione non dichiarata ma percepibile, in forme più o meno
celate, in tanti testi di Cocteau ove l’assunzione di ciò che appare un provvisorio,
fittizio “jeu de rôle” si radica nel protagonista fino ad un’identificazione che può,
per una coerenza quasi involontaria di scelte, condurre alla morte.
Esemplare, in tal senso, la vicenda simbolica di Thomas l’Imposteur, che inscrive
il suo fatale destino in una “étoile de mensonges”: in lui, come indica Cocteau, “la
fiction et la mort ne formaient qu’un”.
Trovando nelle menzogne “une antichambre des aventures”, il giovane Thomas,
nel pieno della guerra 1914-18, si spinge arditamente in prima fila con un’improbabile divisa ed una fittizia identità di nipote di un noto generale non dichiarata
tacitamente ma espressamente accettata che sarà il suo lascia-passare per introdursi nel quadro “d’un vaste mensonge de sable et de dunes” in una scena irreale
ove incontrerà la morte9.
Nella raccolta Opéra (il cui titolo affianca al significato di «opera omnia» l’evocazione del teatro per antonomasia, di quel “mal rouge et or”10 contratto da Cocteau
sin dall’infanzia) il “Paquet rouge” ci introduce nel cuore di una crisi esistenziale:
il poeta non vuol più tacere “il a lâché le paquet” e protesta per le fallaci promesse
di felicità svanite nel nulla assieme alla scomparsa di esseri amati (evidente il riferimento alla morte di Radiguet) che, come “reliés au ciel, par un élastique”, erano
stati risucchiati nello spazio, ormai per sempre lontani dalla sua vita.
Respingendo le lusinghe fallaci di un mondo estraneo in cui non si riconosce
più, egli giunge al rifiuto di un’identità percepita come non autentica: “ J’ai volé
mes papiers à un certain J.C. né à M.L., mort à 18 ans après une brillante carrière
poétique”.
Poi, la sfida finale: “Comprenne qui pourra: je suis un mensonge qui dit toujours
la vérité”.
Che si tratti di una conclusione sentita come un punto d’approdo ce lo prova il
fatto che la frase è ripresa più volte dall’autore: la ritroviamo in esergo ai PortraitsSouvenir e nella chiusa del “Menteur”, breve prosa inclusa nel Théâtre de poche,
raccolta di cui Cocteau, nella prefazione, tiene a spiegare il titolo: esso, egli dice,
non sta ad indicare un’opera tascabile ma un insieme di “textes-prétextes”, destinati a noti artisti desiderosi di poter far risaltare al meglio le proprie qualità
interpretative grazie a brevi performances opportunamente ideate:
ballets, mimes dont l’écriture véritable n’était qu’une écriture virtuelle et dont il
faudrait oublier la choréographie.11
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I vari scritti sono preceduti da disegni inediti di Cocteau: quello del Menteur
è dominato da un giovane volto maschile (di cui Marais è ovviamente il modello),
abbozzato in un’enfatizzazione di tratti somatici essenziali: uno schizzo seducente
(grandi occhi luminosi dallo sguardo accattivante, naso leggermente camuso, labbra turgide) da cui scaturiscono inquietanti suggestioni.
Un’analisi del testo rivela che l’apparente immediatezza di una lingua
pianamente comunicativa cela sottili artifici stilistici e retorici: oltre alla particolare attenzione riservata alla dispositio (nell’ambito della quale sono da rilevarsi
l’esordio in medias res, l’abile alternanza tra passaggi diegetici e il ricorso a forme
di captatio benevolentiae) va sottolineata la piena consapevolezza delle esigenze
dell’actio in relazione allo specifico tipo di canale comunicativo rappresentato dalla
trasmissione radiofonica: allo scopo di conferire agli enunciati – non sostenuti
dall’immagine visiva – un’icasticità fondata sulla sola suggestione verbale, era infatti necessario puntare, in mancanza dell’ausilio della mimica e della gestualità,
sulle potenzialità oratorie del testo correlate alle qualità espressive dell’interprete.
Passando al suo contenuto, può rilevarsi che il Menteur insiste su una dinamica
sapientemente articolata in momenti di opposizione /composizione in cui si snoda, con ossessiva ripresa tematica, il rapporto tra menzogna e verità che approda
talora ad una sorta di ossimoro esistenziale o addirittura all’impasse.
Il testo partecipa sia delle modalità della confessione rivolta ad un presunto
interlocutore sia del monologo interiore nell’ottica del flusso di coscienza. La
drammatizzazione si affaccia in esso non tanto nella tipologia della disputatio tra
opposte tesi quanto nelle intenzioni di evidenziare le ambigue potenzialità comunicative di cui l’uomo dispone: con sorprendenti strategie su cui si edifica la messa
in scena della menzogna, il teatro, per la sua natura di fictio, può simulare o dissimulare la verità, eludere e illudere, progettare e sventare inganni.
Nel “Menteur” quello che può apparire un gioco disimpegnato o una programmata esibizione di destrezza e di acrobazie verbali nel succedersi di continui mutamenti di punti di vista (dall’esordio in cui il protagonista proclama il suo amore
per la verità all’interrogazione finale rivolta soprattutto a se stesso: “Suis-je un
menteur?”) lascia quanto prima trasparire il reale coinvolgimento dell’autore: il
testo si segnala per il ritmo vibrante, teso, ottenuto con rara abilità dialettica.
Valutando il pro e il contro derivanti dall’infrazione al vero, il bugiardo proclama di amare la verità soprattutto perché più facile da dire: essa è “un luxe de
paresseux” confrontata con il disagio che la bugia provoca in colui che la pratica e
che, a causa del rischio di essere scoperto, si sente sempre sospeso, in bilico come
sulle montagne russe. Lo affermava anche Cliton nel Menteur di Corneille di fronte alle temerarie invenzioni del bugiardo Dorante: “Il faut bonne mémoire après
qu’on a menti”12.
Ogni predica è, peraltro, inutile: a nulla vale “se sermonner devant la
glace”: il nostro bugiardo sembra essere fatalmente indotto a mentire. E c’è di
peggio: la verità sulle sue labbra muta subito aspetto ed assume immediatamente
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l’apparenza del falso:“Elle change de figure et se retourne contre moi. J’ai l’air de
mentir et tout le monde me regarde de travers”.
Sembra qui di udire le vane recriminazioni che Giono in Naissance de l’Odyssée
fa esprimere al figlio di Ulisse, Telemaco, che non riesce a conferire attendibilità
alla narrazione di traversie realmente vissute, mentre tutti prestano fede alle scaltre invenzioni di suo padre che viene anzi sollecitato da ammirati ascoltatori a
intrattenerli più a lungo con i suoi straordinari racconti13.
II nostro bugiardo è mosso da impulsi contraddittori: non può non ammettere
che, come deplorava Montaigne, il mentire sia un maledetto vizio che arreca soprattutto danno a chi lo pratica, ma non riesce a tollerare che gli altri lo
colpevolizzino senza rendersi conto del suo intimo disagio non placato nemmeno
da una spontanea confessione: “Je ne voulais pas mentir et je ne peux supporter
qu’on ne comprenne pas que je mens malgré moi et que le diable me pousse”.
Ribellandosi con improvvisa baldanza, da peccatore pentito egli si fa accusatore e contesta ai suoi critici di praticare la peggiore forma di insincerità, quella
verso se stessi, difetto di cui egli si dichiara con orgoglio assolutamente immune:
“Vous mentez à vous-mêmes. Mais je ne mens pas à moi-même”.
Deplora, inoltre, che essi nascondano la loro falsità, giustificandola capziosamente grazie alle sottili scappatoie della casuistica: si tratterebbe, secondo loro,
di “pieux mensonges” cui si ricorrerebbe a scopi di bene: “pour rendre service,
pour ne pas faire de la peine”. Da ben più profonda e autentica motivazione nasce
il suo impulso a mentire: “Je n’ai menti que pour vous dire que je mentais”.
In tale groviglio di vero e falso, di sincerità e di menzogna, il nostro bugiardo
sembra raggiungere l’anfibologia del più famoso paradosso dell’antica scuola retorica di Megara: il paradosso del mentitore detto anche del bugiardo cretese (menzionato da Cicerone e da San Paolo e tramandato da Diogene Laerzio nella Vita e
sentenze dei filosofi) con il quale l’eristica, denunciando l’inaffidabilità delle premesse, confutava ogni conclusione, finendo per mettere fuori uso lo stesso strumento linguistico.
Ma all’improvviso, con guizzo spontaneo, il protagonista esce in un grido quasi trionfalistico: “Le mensonge c’est magnifique!”.
Siamo qui prossimi alla convinta perorazione con cui Lelio, il bugiardo di
Goldoni, proclama: “Ignorante, queste non sono bugie; sono spiritose invenzioni
prodotte dalla fertilità del mio ingegno”14.
Si ripropone così l’antica tradizione che esalta il valore creativo della menzogna: nell’Odissea, le invenzioni di Ulisse sono ascoltate con compiacimento da
Atena che vede in esse una riprova dell’ingegno del suo protetto; non diversamente, nell’Ippia Minore, Platone considera colui che mente volontariamente e coscientemente ben superiore, per le sue poliedriche potenzialità progettuali, a chi
dice la verità.
Procedendo oltre su questa linea, Eco acutamente rileva in coloro che
mentono,“con eleganza inventiva” assieme all’aspirazione ad essere creduti un
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contraddittorio desiderio “di essere smascherati in modo che venga riconosciuta
la [propria] bravura15.
Con sottile slittamento, dalla concezione della menzogna come impostura alla
sua riabilitazione come invenzione creativa, giungiamo alle finzioni della Letteratura come menzogna di Giorgio Manganelli: “L’opera letteraria è un artificio,
un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione”16. Ogni finzione poetica che, correlata alla realtà fenomenica, viene tacciata di menzogna, perseguirebbe, attraverso i suoi fantasmi, una verità che riflette metaforicamente l’identità
del suo autore. In tale ottica, più recentemente, la critica ha visto nel testo del
Menteur una ripresa vistosamente autobiografica della tematica affrontata in
Thomas l’Imposteur: la ricerca del vero e della propria reale identità. Ben lontano dall’ostile lettura riduttiva del Jean Cocteau ou la vérité du mensonge di Claude
Mauriac che conclude all’identificazione – respinta con sdegno dal poeta – di un
Cocteau “tricheur” con il suo personaggio mendace17 Serge Dieudonné, in un
saggio dal significativo titolo antifrastico Le poète imposteur, ricerca un parallelismo più sottile18.
“Il n’a pas une ligne de vie, il en a plusieurs” aveva sentenziato, incredula ella
stessa, a proposito di Thomas, la giovane veggente che al fronte gli aveva letto la
mano: di tale metafora, Dieudonné trova riscontro nell’ “exubérante versatilité”
del genio di Cocteau. Per lui, Thomas l’Imposteur non è un’opera qualunque ma
un “livre fatal”, culminante nell’apoteosi della coerenza esistenziale del giovane
eroe che, colpito al cuore, muore di fronte alle linee nemiche senza altro pensiero
che quello di perseverare fino alle estreme conseguenze nella sua innocente
impostura: “Je suis perdu”, sono le sue ultime parole, “si je ne fais pas semblant
d’être mort”.
Nel Journal d’un inconnu, Cocteau spiega il significato della frase finale del
“Paquet rouge” ripresa a conclusione del Menteur: la sua intenzione era stata quella
di sottolineare l’intento sociale del poeta che denuncia le proprie presunte
imposture al fine di far emergere il supremo valore del vero19.
Procedendo ulteriormente in tale prospettiva, Dieudonné chiosa che le menzogne dell’artista non sono che l’espressione di una creatività, attraverso la quale
egli perviene alla sola realtà che gli stia a cuore: “la seule vérité qui compte pour
lui, l’accomplissement dans la poésie20.
1
Lettres à Jean Marais (1938-63), Paris, Michel, 1987.
J. SCHÉRER, Dramaturgie du vrai-faux, Paris, Puf, 1994.
3
J. TOUZOT, Préface in J. COCTEAU. Bacchus, Paris, Gallimard, 1980, p. 26.
4
Salvo diversa indicazione, per le opere poetiche di Cocteau rinviamo alle Œuvres
Poétiques complètes, Paris, Gallimard, 1999, I.
5
Paris, Grasset, 1934.
6
Thêatre complet, II, Paris, Gallimard, 1948.
2
31
7
Ibid., I, 1947.
V. JANKÉLÉVITCH. Du Mensonge, Paris, Flammarion, 1968, p. 11.
9
Thomas l’imposteur, Paris, Gallimard, 1923.
10
La Difficulté d’être, Monaco, Ed du Rocher, 1947.
11
Théâtre de poche, Monaco, Ed. du Rocher, 1955.
12
P. CORNEILLE, Le Menteur, IV, 5 in Théâtre complet, II, Paris, Garnier, 1996.
13
J. GIONO, Naissance de L’Odyssée, Paris, Grasset et Fasquelle, 1938.
14
C. GOLDONI, Il bugiardo, Venezia, Marsilio, I, 4, 1994.
15
U. ECO, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985, p. 1995.
16
G. MANGANELLI, La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 1985.
17
CL. MAURIAC, Jean Cocteau ou la verité du mensonge, Paris, Lieutier, 1945.
18
S. DIEUDONNÉ, Le poète imposteur; in Cahiers Cocteau n. 8, 1979.
19
Journal d’un inconnu, Paris, Grasset, 1953, p. 16.
20
S. DIEUDONNÉ, Dionysus et Orphée, in Cahiers Cocteau n. 10, 1985.
8
32
MENZOGNE E SORTILEGI TEATRALI
TRA CORNEILLE E MARIVAUX
di ROSALBA GASPARRO
Il teatro, per sua felice natura, è tutto basato su giochi di finzione in cui l’unica
verità possibile è il corpo nudo dell’attore. Costui quindi vive la sua storia, muovendosi sopra una semplice pedana di legno, e la alimenta con passione, regalando
fiato e gesto alla performance, perché è certo dell’assoluta complicità con il
pubblico.
L’effet de réel, riflesso ludico che ne deriva, è quindi sempre limitato dal patto
finzionale stabilito sin dall’inizio con lo spettatore, che paga per assistere, muto o
plaudente, oltre lo schermo impalpabile della quarta parete.
Gli attori in scena sono quindi, sin dalla semplice apparizione alla ribalta, il
frutto di una menzogna sorridente, di un ‘paradosso del commediante’ che non ha
mai un effetto concreto sulla realtà1.
Una volta stabilito questo primo, importante, elemento di riflessione, questo
trionfo del facciamo finta che, ci accorgiamo subito che esso opera sulla prospettiva minima del travisamento degli attanti, in quel luogo che è théatron: sintesi dello
sguardo incrociato e della mimesi del quotidiano.
A questo punto facciamo ancora un passo innanzi per svolgere una nuova indagine proprio all’interno di quel meccanismo formale, certo più complesso, che
mostra spesso, in scena, elementi di una menzogna di secondo grado, intrafinzionale, coinvolgendo, in modo palese, i personaggi del testo spettacolare.
Ma il pubblico, che è chiamato a testimoniare della bontà e degli esiti delle
azioni performative, spesso giudica con severità i diversi gradi di focalizzazione
interna della pièce, che rendono i personaggi più o meno consapevoli della loro
realtà affabulativa. Ed è sempre lo spettatore implicato che, in un certo senso, si fa
garante della qualità degli indizi che portano i protagonisti dell’opera ad essere
gradualmente informati - per via di monologhi, lettere, coincidenze o altre cose del grado di veridicità delle azioni figurate e della sincerità simulata degli attori.
La trinità referenziale: attore/ personaggio/pubblico rischia infatti ad ogni istante di essere delusa o negata dalla vischiosità dell’azione bugiarda, che sembra
sperdersi nei meandri di un labirinto discorsivo ornato di specchi equivoci o travestimenti fantasiosi. Mentre la verità esclusiva della commedia talora si annacqua
o si spreca, cadendo nelle numerose trappole dell’intreccio, tra censure, contraintes
aristoteliche e fughe perigliose nell’universo del comico e dell’irrazionale.
Soffermandoci adesso ad analizzare il senso oscuro della menzogna teatrale,
in Francia, tra società barocca ed epoca dei Lumi, ci è sembrato interessante
33
verificare i colori della veste ‘nuova’ che tale parola assume nell’Encyclopédie di
Diderot e d’Alembert. Il vocabolo, in realtà, si presenta subito nella sua duplice
accezione: affabulazione/volontà di nuocere agli altri.
Mensonge s. m. (morale) fausseté deshonnête ou illicite. Le mensonge consiste
à s’exprimer de propos délibéré, en paroles ou en propos, d’une manière fausse,
en vûe de faire du mal, ou de causer du dommage, tandis que celui à qui on
parle a droit de connoître nos pensées, & qu’on est obligé de lui en fournir les
moyens, autant qu’il dépend de nous. Il paroît de là que l’on ne ment pas toutes
les fois qu’on parle d’une manière qui n’est pas conforme, ou aux choses ou à
nos propres pensées, & qu’aussi la vérité logique, qui consiste dans une simple
conformité de parole avec les choses, ne répond pas toujours à la vérité morale.2
Appare subito evidente che la principale preoccupazione dell’estensore di questa
voce dell’enciclopedia, è di origine morale. Egli infatti emette un giudizio di condanna senza appello nei confronti di colui che mente, in modo spudorato e sistematico per nuocere al prossimo e causargli quindi un danno, materiale o psicologico. Costui dunque è considerato passibile di una immediata sanzione intellettuale,
appunto perché, in situazione di comunicazione interattiva, si ha comunque diritto ad uno statuto di reciproca “trasparenza” del dialogo.
La riflessione procede poi con un certo impaccio là dove la menzogna non
appare così grave nella strategia discorsiva del locutore, proprio perché – si è costretti ad ammettere – il rapporto parola/cosa non è mai univoco, anzi assai spesso
la verità logica non corrisponde necessariamente ad una verità morale.
La fiducia nell’abilità illocutiva degli individui pare flettersi per un istante; ma
immediatamente si propone il problema della profonda differenza che sta tra il
mentire e il dire una bugia.
Il s’en suit encore que ceux-là se trompent beaucoup, qui ne mettent aucune
différence entre mentir & dire une fausseté. Mentir est une action deshonnête &
condamnable, mais on peut dire une fausseté indifférente, on peut en dire une
qui soit permise, louable et même nécessaire, par conséquent une fausseté que
les circonstances rendent telle, ne doit pas être confondue avec le mensonge, qui
décèle une âme foible, ou un caractère vicieux.
Mentre si ribadisce che lo statuto di mentitore implica una continuità strategica, un habitus mentale incancrenito e consolidato, la bugia veniale non ha
conseguenze gravi; può essere quindi accettata, anzi, in certi casi è addirittura
necessaria.
Come ad esempio, per calmare un iracondo, la cui collera può avere effetti
deleteri sul prossimo, per somministrare utilmente le medicine ad un malato grave, per serbare un segreto di stato, che potrebbe causare danno alla cosa pubblica
se incautamente divulgato.
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Di particolare interesse per noi è il segmento testuale in cui si allude all’arte
affabulatoria, all’inventare storie per divertire ed istruire.
Il ne faut donc pas accuser de mensonge, ceux qui emploient des fictions ou des
fables ingénieuses pour l’instruction.
La menzogna letteraria, la capacità finzionale del visionnaire viene quindi assolta, anche se con la necessaria restrizione che orienta l’invenzione verso
l’acculturazione e l’esempio che, tramite uan certa simpatia mimetica di segno
aristotelico, dovrebbe far riflettere sulla necessità di tenere a freno le passioni.
L’uomo saggio, dunque, non scopre i suoi segreti disegni o le intime perplessità progettuali, ma esercita il freno razionale che l’obbliga a discernere con chiarezza se l’interlocutore ha il diritto di conoscere per intero il suo pensiero, o se sia
meglio non scoprirsi e riflettere di volta in volta su cosa dire, come e soprattutto
quanto dire della verità che giace perenne in fondo ai cuori.
Concluons que si le mensonge, les équivoques & les restrictions mentales sont
odieuses, il y a dans le discours des faussetés innocentes, que la prudence exige
ou autorise, car de ce que la parole est l’interprète de la pensée, il ne s’en suit
point qu’il faille dire tout ce que l’on pense. Il est au contraire certain que l’usage
de cette faculté doit être soumis aux lumières de la droite raison, à qui il appartient
de décider quelles choses il faut découvrir ou non. Enfin pour être tenu de
déclarer naïvement ce qu’on a dans l’esprit, il faut que ceux à qui l’on parle,
aient droit de connoître nos pensées.
Bisogna quindi operare senza equivoci o restrizioni mentali, che sono obiettivamente detestabili, odiose, senza per questo cadere nel peccato opposto, quello
dell’ingenuità, del cicaleccio dissennato, che per l’ansia di dire tutto a tutti, sconfina spesso e volentieri nella bêtise.
Queste considerazioni preliminari, in cui si fanno evidenti almeno tre livelli di
discussione possibile a proposito di a) menzogna sistematica b) bugia veniale c)
menzogna affabulativa, ci sembrano quindi un ottimo preludio per orientare la
lettura de Le Menteur un importante frammento dell’universo teatrale corneliano,
il quale presenta subito il problema del fallimento comunicativo nell’ottica delle
relazioni sentimentali e sociali che il personaggio principale intreccia con il nuovo
milieu parigino e con la sua stessa identità mascherata3.
La commedia quindi, datata 1644, si può situare subito all’interno di quel denso discorso critico di Jean Rousset sull’ ideologia barocca, che comporta una prospettiva ludica di paesaggi in movimento, aperti su abissali metamorfosi, con uso
ed abuso dei grandi temi del doppio, della magia e del faux semblant 4.
Certo Pierre Corneille riprende ed assimila la grande idea rinascimentale del
theatrum mundi, felicemente argomentata dal Don Chisciotte di Cervantes. E’ nota,
infatti, la diretta filiazione del testo del Menteur da una commedia spagnola:
La Verdad sospechosa di Juan d’Alarcon.
35
A prima vista si potrebbe quindi definire l’opera come pura e semplice riscrittura
o meglio - libero adattamento - esplicitamente dichiarato come tale dallo stesso
drammaturgo.
Pure è interessante seguire, passo dopo passo, le modalità del procedimento
utilizzato da Pierre Corneille per eufemizzare l’argomento originario e renderlo
più prossimo alla sua idea di commedia delle apparenze, giocata tutta sul palcoscenico cangiante della teatralizzazione ‘interna’ dei ruoli, che egli aveva già, del resto, resa operante nella stesura de L’Illusion comique (1635).
L’argomento è futile: un gentiluomo, arrivato a Parigi dalla provincia di Poitiers,
si costruisce, poco per volta, una pelle nuova, una realtà idealizzata, a metà strada
tra l’immagine eroica del Cid, le vanterie di Matamore ed un seducente e svaporato Don Giovanni.
La bella maschera dovrebbe infatti permettergli di sedurre una donzella sconosciuta, incontrata casualmente nei giardini delle Tuileries. Ma un gustoso equivoco, sorto a proposito del nome della fanciulla che il giovane fatalmente ignora
(Clarice o Lucrèce?) crea solidi presupposti per un intrigo romanesque, che verrà
risolto, sul finale, con una formale promessa di matrimonio.
Un primo elemento di originalità, rispetto all’archetipo letterario, è il sorriso
di Corneille, la leggerezza con cui tratteggia la silhouette del tipo scenico, che
rende scusabile ogni genere di follie e fanfaronate.
Dunque il Bugiardo non è castigato, fulminato dall’orrore che la menzogna
suscitava presso la società spagnola nel cripto-testo di Alarcon, anzi le sue invenzioni verbali vengono celebrate e dissolte dal riso collettivo dei personaggi.
Così, il malizioso Dorante, che ha preso un nome pseudo-greco caro alla tradizione della Pastorale classica, trascorre il suo tempo come un luminoso coleottero,
volteggiando da una scena all’altra, (sulle rive della Senna o nella Place Royale)
affiancato dall’ombra cinica del servo Cliton, che non ha peli sulla lingua, anzi
gode a beffarsi delle debolezze del padrone.
Nel clima gaudente ed arioso della commedia non c’è più l’ombra di un giudizio moralistico sugli eventi, proprio perché la menzogna corneliana assume adesso
le sembianze di un simulacro. Un usbergo psicologico nei confronti delle donne,
che intimidiscono, e della società aristocratica della capitale, i cui codici
comportamentali sono di una complessità sospetta, che spaura.
Certo, il tema del parigino inurbato, goffo e senza grazia, sarà utilizzato più
tardi da Molière per il suo Monsieur de Pourceaugnac, (1669) con maggiore affabilità e ferocia. Ciò che preme sottolineare è, invece, il motivo dell’invenzione, della
mise en espace del sogno, che produce effetti di magia burlesca e rimanda non
solo, come si disse, a L’Illusion comique, ma anche ai balletti, ai divertissements
regali, e persino alle macchine (verbali e non) messe in scena dagli Italiens a Parigi, e assai più tardi dagli attori della Foire5.
Un’esemplare evocazione, in cui le stravaganze affabulative di Dorante producono una scena immaginaria, per il solo piacere ‘poetico’ di sbalordire i nuovi
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amici è, infatti, il divertimento musicale sul fiume, che appare con il necessario
corredo di fuochi d’artificio e con la descrizione dettagliata della cena strepitosa,
in onore di una bella Dama.
Dorant, revenant à eux:
Comme à mes chers amis je vous veux tout conter
J’avais pris cinq bateaux pour mieux tout ajuster.
Les quatre contenaient quatre chœurs de musique
capables de charmer le plus mélancolique:
Au premier, violons, en l’autre luths et voix;
Des flûtes au troisième, au dernier, des hautbois,
Qui tour à tour dans l’air poussaient des harmonies
Dont on pouvait nommer les douceurs infinies.
Le cinquième était grand, tapissé tout exprès
De rameaux enlacés pour conserver le frais
Dont chaque extrémité portait un doux mélange
De bouquets de jasmin, de grenade et d’orange.
Je fis de ce bateau la salle du festin:
Là je menai l’objet qui fait seul mon destin.6
L’oscillazione tremula del verso, che muove agli orli di un tableau vivant, fatto
di suoni, fuochi, frutta e fogliame, si concede allora ad una sorta di straniamento
esotico, dove traspaiono, in tensione, le linee del palinsesto graffiato e spira il
gusto iberico dell’arricciatura barocca.
Il fatto è che, purtroppo, il Bugiardo è talmente invischiato nelle sue stesse
creazioni - bolle d’aria soffiate e stuporose fantasticherie- che il rovello inestricabile
diventa come una camicia di Nesso, che lo brucia e lo opprime senza rimedio.
Gli amici stessi sono convinti che queste “trappolerie” verbali, nate dalla
magia comica7 del personaggio, finiranno prima o poi per mostrare la corda, l’artifizio, il belletto e la cartapesta.
Quatre concerts entiers, tant de plats, tant de feux
Tout cela cependant prêt à une heure ou deux
Comme si l’appareil d’une telle cuisine
Fût descendu du ciel dedans quelque machine.
E ritorna, nella riflessione amarognola di Philiste, gentiluomo parigino, l’allusione ad una macchina teatrale, simile a quelle già viste nelle opere italiane – come
l’Orfeo di Monteverdi – ideate pochi anni dopo, dallo stesso Corneille per la sua
Andromède (1648) con la complicità dello scenografo italiano Torelli.
Persino il furbo valletto Cliton, parlando della festa galante, non può esimersi
dal citare personaggi favolosi: Urgande e Mélusine, divenuti celebri sulle pagine
dei romanzi cavallereschi alla moda o come argomenti di Ballets Royals.
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Un’ultima finitura caratteriale, che aduna provincialismo e fantasia, autorizza
infatti il personaggio a proporre una ‘concertazione teatrale’, in cui i suoi «contes
imaginaires» potranno gareggiare, in qualche modo, con lo spettacolo maestoso,
assolutamente «féerique» della Capitale che cresce da sé, come protetta da mani
invisibili:
Paris semble à mes yeux un pays de romans!
J’y croyais ce matin voir une île enchantée:
Je la laissai déserte, et je la trouve habitée,
E ciò avviene per incantamento, con giganti ariosteschi che innalzano mura,
scavano fossati, costruiscono castelli e palazzi di vetro e d’aria, come se il giovane
ora si trovasse perso sopra un’isola incantata; un tòpos classico che ci ricorda persino la bacchetta magica di Prospero e gli scogli ventosi della tempesta scespiriana.
Forse, a ben guardare, la punizione terribile che si prepara per Dorante alla
fine della commedia è solo una prospettiva di fuga, quasi una cacciata dal paradiso
terrestre, che testimonia la caduta a picco dell’illusione seduttiva e che si manifesta, nebulosa, sul finale.
Tutta questa serie di furbate, invenzioni bizzarre e stravaganti, trova infatti una
chiosa singolarmente dura nelle parole del servo Cliton che sigla la commedia con
un sogghigno basso, da ventriloquo:
Vous autres qui doutiez s’il s’en pourrait sortir
Par un si rare exemple apprenez à mentir.
Eppure, se vogliamo sciogliere l’enigma e dare un contributo all’appassionato
dibattito tra être e paraître che agita il testo corneliano, dobbiamo inseguire questi
labili cenni di teatralità comportamentale, sino a trovare un definitivo chiarimento tematico e formale, nella Suite du Menteur (1645).
Qui, infatti, la saldatura strutturale tra i due testi è apertamente dichiarata
come pure l’elemento metateatrale che diventa flagrante e accerchia tutto lo spazio dell’azione, che appare quindi derealizzata in modo definitivo8.
Decidiamo allora di leggere questa Suite come parte integrante di un macrotesto
corneliano sulla menzogna. Il personaggio di Dorante, volubile ed immaturo, appare nuovamente in scena, ed apprendiamo che, terrorizzato all’idea del matrimonio è fuggito in Italia, alla vigilia delle nozze, portando con sé la dote della fidanzata Lucrèce. Il sipario si leva quindi sul nostro eroe, un po’ picaro e un po’
gentiluomo, che si trova detenuto nella prigione di Lyon, dove patisce per colpe
non sue.
Il sotto – testo di riferimento, citato esplicitamente nell’ Epître au lecteur – è
un’opera di Lope de Vega Amar sin saver à quier; ma pare proprio che il protagonista abbia lasciato cadere tutta la sua piacevolezza espressiva, nel momento in cui
ha deciso di mettere la testa a partito e di mentire solo per necessità amorosa
(bugia veniale) o per soccorrere uno straniero in pericolo di vita.
38
Riteniamo solo, da questa pièce dimenticata, una proposta metateatrale forte,
là dove il Servo è interpretato da quel Jodelet, che aveva già ricoperto lo stesso
ruolo nel Menteur. Costui infatti rientra in scena, con la sua voce nasale, il volto
livido e infarinato, per proporsi come allucinazione iconica del tipo mentre commenta i fatti ed esibisce il suo corpo fragile di attore.
Oui, dans Paris en langage commun
Dorante et le Menteur à présent ce n’est qu’un.
Et vous y possédez ce haut degré de gloire,
Qu’en une comédie on a mis votre histoire
Dorante:- En une comédie?
Cliton:- Et si naïvement
Que j’ai cru la voyant voir un enchantement.9
Il gestus comico di Jodelet opera virtualmente come segmento di raccordo e
consente un’aperta riflessione sulla materia formale che compone - scompigliandolo- tutto il discorso corneliano sull’arte di fare teatro.
La stessa citazione del Menteur, in quanto pièce comica, «plaisante et fantasque»
mostra infine la consapevolezza e l’eleganza stilistica di Corneille nel mettere a
nudo tutte le ficelles della sua creazione teatrale, denunciandola in quanto tale:
diletto ludico ed edificazione ‘pedagogica’ esemplare.
La Pièce a reussi, quoique faible de style/ et d’un nouveau proverbe elle enrichit
la ville.
Apparentemente dal teatro di Corneille a Marivaux, la distanza sembra enorme, eppure c’è una scena importante nel Menteur, tra Clarice e la suivante Isabelle,
che ci introduce, quasi senza transizione, nell’universo serico delle utopie settecentesche aperte su verità, uguaglianza e sorprese del cuore.
La giovane, infatti, non si fida della prestanza fisica che spesso inganna:
Le dedans paraît mal en ces miroirs flatteurs;
Les visages souvent sont de doux imposteurs;
Quels défauts d’esprit se couvrent de leur grâces,
Et que de beaux semblants cachent des âmes basses!
E questa semplice confessione che vorrebbe andare oltre l’aspetto: la bella
fisionomia e «connaître dans l’âme» il promesso sposo, rimanda ad un’identica
preoccupazione espressa da Silvia ne Le Jeu de l’amour et du hasard (1730).
Anche qui, infatti, la protagonista della commedia sente l’urgenza di vegliare
affinché la maschera galante non finisca per divorare il volto dell’Amore e fissarsi
nel vuoto come una fragile impostura.
C’è da qualche parte, nell’aria, un profumo d’inganno che cela il fantasma
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indifferente e opaco di uno Sconosciuto. E la fanciulla si traveste, prendendo gli
abiti semplici della soubrette, per spiare, non vista, l’identità dell’altro, ignorando
che anche l’innamorato Dorante, ha messo in atto la stessa procedura di sostituzione, celandosi sotto le spoglie grottesche del valletto Bourguignon.
Naturalmente il bel gioco - o meglio questa insolita figura di chiasmo amoroso
- dura poco; e la commedia si risolve felicemente, con lo smascheramento e la
reciproca soddisfazione degli innamorati10.
E’ chiaro, però, che le punte estreme della poetica teatrale barocca (intrighi
multipli, equivoci e legami pericolosi, gioco azzardato di specchi e destini incrociati) sono divenute adesso il materiale friabile, androgino, sottilmente licenzioso,
su cui Marivaux costruisce l’impalcatura preziosa delle sue pièces.
A un passo dal Carnevale totale degli eventi, dall’esplosione rivoluzionaria dei
suoi Arlecchini selvaggi, diffidenti o incantati; a un passo dal libertinaggio,
dall’evanescenza o peggio dalla crudeltà sadiana.
A partire dal Jeu, via via attraverso le prove maggiori di questo teatro senza
marivaudage, troviamo già qualche segno importante dei tempi nuovi, che mostra
come la maschera prescelta, in questa vertigine affannosa del déguisement collettivo, sia anche e soprattutto di tipo linguistico, oltre che situazionale, e tocchi l’essenza stessa, la parola del personaggio torturato.
Marivaux opera infatti in modo sofisticato nella rivelazione graduale della verità mascherata: da un canto, ci si «scopre» nei confronti dell’altro, dall’altro nei
confronti di se stessi. E ciò comporta una riflessione, spesso dolorosa, che il personaggio vive specchiandosi nella propria interiorità, o meglio identità segreta e
negata.
Osserviamo brevemente due testi che già nel titolo recano lo stigma del
mensonge identitaire. Essi sono: La Fausse Suivante, (1724)e Les Fausses Confidences
(1737).
Il primo è un argomento scenico davvero plaisant: una giovane donna, ricca e
di bell’aspetto, decide di travestirsi da uomo per incontrare il suo futuro marito,
Lelio, fingersi suo «amico» e giungere così alla sincerità del cuore, prima di decidersi alle sospirate nozze. L’incipit è classico, ma il finale sarà amaro.
Il mutamento di sesso, il gioco sottilmente perverso che la Demoiselle, divenuta Chevalier, conduce con sottigliezze, finte amorose, provocazioni e turbamenti,
persino nei confronti di un’ingenua Comtesse, finirà per ritorcersi contro di lei.
Scoprirà infatti che il suo pretendente altri non è che un uomo fatuo e vile: un
puro e semplice cacciatore di dote.
La verità brucia e la seduzione, giocata sino al punto più oscuro in cui l’ambiguità sessuale si fa prepotenza e peccato, diventa solo una trappola, una morsa feroce che la condanna alla solitudine. Questa piccola Demoiselle, ha avuto
il solo torto di voler affrontare la realtà ad occhi aperti. Osserva bruscamente il
valletto:
40
Trivelin:-Voyons, pourquoi êtes-vous dans cet équipage-là?
Le Chevalier:- Ce n’est point pour faire du mal.
Trivelin:- Je le crois bien si c’était pour cela vous ne déguiseriez pas votre sexe;
ce serait perdre vos commodités.11
Con Les Fausses Confidences, opera della piena maturità, anch’essa non esente
da numerose perplessità stilistiche, si potrà parlare persino di tragedia borghese12.
Essa mostra infatti le vicende di una ricca e matura vedova: Araminte, soffocata da un ambiente familiare che la mortifica, e segretamente angosciata dalla prospettiva di un avvenire sentimentale vuoto.
Alla fine dell’avventura, però, la donna decide lucidamente il suo destino, scegliendo di legare a sé, per sempre, un giovane intendente, piuttosto bello, squattrinato, ma ricco di risorse verbali.
La prospettiva, per il personaggio, è di breve respiro, ma comunque soddisfacente: Araminte vuole solo essere aiutata a gestire una vita che s’avvia al tramonto
e soprattutto un importante ed oneroso patrimonio.
L’orizzonte della menzogna teatrale marivaudiana sembra essersi chiuso felicemente, sull’accettazione pratica degli eventi, in un’ottica tutto sommato, bonaria e
soprattutto realistica. In filigrana, certamente, sta sempre l’ombra del petit brunet,
di quel simpatico social climber immortalato dallo stesso Marivaux nelle celebri
pagine del Paysan parvenu.
Qui, però, il ritmo è distillato e rappreso, mentre l’azione giostra in modo
parabolico attorno alle «bugie veniali» inventate a fin di bene dal valletto e favorite dai silenzi e dalle ambiguità del padrone. Tutto sarà perdonato, proprio perché,
per la stessa Araminte, il fine giustifica i mezzi:
Il est permis à un amant de chercher les moyens de plaire et on doit lui pardonner
lorsqu’il a reussi.13
Tuttavia vorrei concludere in modo più inquietante, citando una pièce poco
nota, addirittura ‘postuma’ di Marivaux: Les Acteurs de bonne foi.
Commedia pirandelliana ante-litteram, dove ritorna allegramente un clima di
‘menzogna di secondo grado’, con il perfido gioco del teatro nel teatro, a spese di
alcuni ingenui personaggi i quali ignorano addirittura di star vivendo in uno stato
di finzione concertata.
L’ombra dell’Illusion corneliana, s’insinua ancora una volta, nello spazio scenico, come un gatto furtivo in una notte di plenilunio. ma ci sono, in questo testo
singolare, troppi sintomi di un malessere comico, che non può essere a lungo eluso
o ignorato.
Si tratta probabilmente del problema, a tutt’oggi irrisolto, della teatralità praeter
intenzionale, cioè di quella immanente deriva finzionale, che pesa come un macigno sulla cosiddetta “società dello spettacolo”.
41
L’illusione – comica o tragica, non importa – è sempre pronta a riprendersi uno
spazio di manovra, lottando palmo a palmo, per superare i confini, sempre più
labili, della realtà. Un crescente potere di controllo e fascinazione, le consente di
attivare nuovi strumenti di offesa, addormentando con filtri, maschere, scenari di
guerra, la tiepida coscienza collettiva della verità.
Tutto questo, in nome di un amalgama mostruoso, inestricabile, che ci appare,
oggi, come una nuova peste artaudiana, una minaccia senza volto e né identità.
Sembra proprio che l’uomo contemporaneo, prigioniero di una ragnatela bugiarda, non sia neppure in grado di nascondersi, “da qualche parte parte, fuori dal
mondo”.
E pare persino che gli venga negata l’arte della grande magia, per poter accendere, poche, piccole luci, alla ribalta e poi sparire così, nel grande stellato, lontano
dalle infinite miserie di un mondo senza nobiltà.
1
D. DIDEROT, Paradoxe sur le comédien, Introduction et notes S. Lojkinc, Préface de
G. Benrekassa, Parigi, Colin, 1992, pp. 234.
2
Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des Sciences, des Arts et des Métiers par une
société de gens de lettres, mis en ordre et publié par M. XXX, Tome Dixième: MAM-MY,
A. Neufchastel, Chez Samuel Faulché & Compagnie, Libraires et Imprimeurs, MDCCLXV,
pp. 337-338.
3
F. BIOT, Le Mensonge dans trois œuvres de Pierre Corneille: La Place Royale, Le Menteur
et Attila, Mémoire de Maîtrise écrit sous la direction de M. Morel, Professeur à la Sorbonne
Nouvelle, Session de Juin 1997, pp. 88 (inedito).
4
J. ROUSSET, Circé ou la métamorphose (Le Ballet de Cour) in Littérature de l’âge baroque
en France. Circé et le Paon, Parigi, Corti, 1995, pp. 13-34.
5
R. GASPARRO, La Féerie burlesque nel teatro degli Italiens ed alla Foire, in Il Meraviglioso teatrale tra fiaba e magia, a cura di R. Gasparro e R. Mullini, Pescara, Edizioni Tracce,
1999, pp. 57-102.
6
P. CORNEILLE, Le Menteur, Parigi, Bordas, 1986, pp. 127.
7
R. GUICHEMERRE, La Comédie avant Molière (1640-1660), Parigi, A. Colin, 1972,
pp. 423.
8
G. FORESTIER, Le théâtre dans le théâtre sur la scène française du XVII siècle, Parigi,
Droz, 1996, pp. 385.
9
P. CORNEILLE, La Suite du Menteur, in Œuvres complètes, texte établi, présenté et annoté
par G. Couton, Parigi, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, vol. II, 1984, pp. 93-185.
10
B. DORT, A la recherche de l’amour et de la vérité. Esquisse d’un système marivaudien,
in Théâtres, essais, Parigi, Éditions du Seuil, 1986, pp. 25-59.
11
MARIVAUX, La Fausse Suivante ou Le Fourbe puni, in Théâtre complet, texte présenté et
préfacé par M. Arland, Parigi, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1972, pp. 329-395.
12
Analyses et réflexions sur Marivaux: Les Fausses Confidences. L’être et le paraître,
ouvrage collectif, Édition Marketing, Aubin Imprimeur, 1987, pp. 207.
13
MARIVAUX Les Fausses Confidences, in Théâtre complet, cit., pp. 1171-1235.
42
DEL VERO E DEL FALSO NEL “CRATILO” DI PLATONE
di ALFONSO DE PETRIS
1. Solo qualche mese fa la Bettetini1 ha sì criticamente che sapientemente posto in
risalto la difficoltà non solo di evincere od “avvertire” il “valore oggettivo” della
verità, bensì ugualmente di “percepirla” attraverso l’eloquio di chi “emette parola”2 . Si è dinanzi all’oscurità relativa alla decifrazione o de-codificazione – più che
interpretazione o lettura – dell’entità adeguata e della significatività pregnante di
quella res che – di fatto ed in una sua particolare accezione e propria valenza –
venga a sostanziare, animare, vivificare il verbum che ne designa la realtà e ne
indica/fissa il senso.
L’oggettivismo è argomento precipuo del nostro intervento. Esso, da oltre due
millenni, da più parti è stato additato quale punto di riferimento e motivo d’ispirazione, quando non abbia esercitato fascinosa forza d’attrazione sin nello sviluppo delle idee e nell’evolversi del pensiero umano.
D’altronde, la problematica relativa ad ogni generalizzazione o categorizzazione
delle opinioni sulla menzogna, è collegata alla necessità che nella disputa l’enfasi
venga posta non sulla bugia in sé e per sé3 , bensì sulla persona di chi mente.
Al di là della considerazione dei principi sommi, degli assunti universali cui si
tende e propende con la mente, la menzogna propriamente detta è da imputare
alla volontà di chi, nell’intento inequivoco di ingannare (per Agostino il mendacium
è voluntas fallendi)4, si proponga il perseguimento di un presunto utile personale
o beneficio soggettivo.
Nella seconda metà del II sec. d.C., a termine della classicità – già conclusasi –
del mondo greco prima ed alessandrino poi, come a sintesi culturale ed in chiave
di analisi e valutazione critica, nel tono suo peculiare ed in vivace propensione demitizzante, è un satiro – raffinato osservatore della storia della cultura e dei costumi, Luciano di Samosata – che, in termini netti e recisi, denuncia e stigmatizza
come – nei vari generi letterari, nei paradigmi o modelli di più alta epopea o di più
puro lirismo – i testi greci fossero intrisi di menzogna.
Oltre l’intento di riconoscere, consacrare e come solennizzare una consuetudine letteraria plurisecolare, Luciano innalza un inno alla bugia ed alla falsità nella
raffigurazione artistica e nella creazione poetica, quasi nobilitandole nel crogiolo
stesso della civiltà e delle conquiste perseguite nell’incedere maestoso ed
inarrestabile dell’umanità, sulla via del progresso e della dignità nell’autodeterminarsi.
In un’opera dal titolo provocatoriamente menzognero, Storie vere, nel
170 ca. d.C., Luciano espone un suo programma definito, quasi un manifesto
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critico-letterario. Dichiara infatti in I.2: “sarà […] ad affascinarli […] il fatto
che abbiamo presentato in modo persuasivo e veritiero ogni sorta di menzogna”5 ; e in I.3: “Precursore e maestro di simili fanfaronate fu l’Odisseo di Omero”6 .
Specifica inoltre (I.4) di non biasimare gli autori “per il fatto che mentivano,
vedendo che questa era ormai un’abitudine anche di quelli che si professavano
filosofi, ma” – precisa – “mi meravigliai di questo, che credevano che gli altri
non si sarebbero accorti che essi scrivevano cose non vere”. Confessa infine:
“mi sono volto anch’io alla menzogna, ma a un tipo di menzogna molto più
onesto che quello degli altri. Giacché almeno in questo solo sarò veritiero, dicendo che mento”7 .
Sempre nel paragrafo 4 del libro I, “riconosce” egli “stesso” (aÙtÕj ”mologîn)8
di non asserire né pronunciare alcunché che non sia lungi dal vero (mhde\n ¢lhqe\j
lûgein)9. Non si fa schermo dal premonire i lettori su come sia da considerare
inderogabile il non prestare fede alle sue narrazioni, dal momento che è egli stesso
ad avvertire e far presente che i suoi scritti si riferiscono “a cose che né vide né
provò né apprese da altri”10 (perπ ïn møte eêdon møte ⁄paqon møte par> ¥llwn
œpuqÒmhn)11 e vertono su quanto non esiste “affatto”, e neppure può esistere di
per sé. Reca il testo: ⁄ti de\ møte Ólwj Ôntwn møte t¬n ¢rc¬n genûsqai dunamûnwn12.
Non sorprendono, pertanto, l’insistente esortazione ed il reiterato appello che
l’Autore rivolge acciocché ci si predisponga a “non credere per nulla” a quanto
egli scrive e tramanda nelle Storie, da lui denominate vere. Infatti, diÕ de√ [...]
mhdamîj pisteÚein aÙto√j13.
In lingua greca la celebrazione della bugia trova la sua rappresentazione significativa per antonomasia nel breve trattato di Luciano ne Gli innamorati della menzogna o l’incredulo: Filoyûudeij À >Ap∂stwn [Philopseudeis], databile fra il 165 e il
170 d.C., durante il periodo ateniese dell’Autore.
Per altro, che il grado di attendibilità e credibilità delle imprese narrate dai
Greci non fosse di certo elevato lo avevano già sostenuto i Latini.
2. Nell’ambito della letteratura latina, ed in primis nella comoedia, nel Miles
gloriosus Plauto tramandava alla posterità un esempio prototipico, un’espressione
eloquente ed un’opera poetica emblematica, tutta dedita al tema della menzogna.
Sulla dubbiosa sincerità degli Argivi, prima ancora del classico “Timeo Danaos
et dona ferentes”14 virgiliano ricorre pacato ma insindacabile il giudizio di Cicerone nella sua orazione Pro L. Valerio Flacco. In essa si puntualizza (4.9): “Verum
tamen hoc dico de toto genere Graecorum: tribuo illis litteras, do multarum artium
disciplinam, non adimo sermonis leporem, ingeniorum acumen, dicendi copiam,
denique etiam” [...] “testimoniorum religionem et fidem numquam ista natio coluit,
totiusque huiusce rei quae sit vis, quae auctoritas, quod pondus, ignorant”15.
E, sull’orma dell’Arpinate, nella sua Institutio oratoria, II, 4.19, sugli scriptores
che dovrebbero improntare la loro narrazione alla veridicità dei fatti reali,
Quintiliano lamenta che “Graecis historiis plerumque poeticae similis licentia est.
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Saepe etiam quaeri solet de tempore, de loco, quo gesta res dicitur, nonnumquam
de persona quoque, sicut Livius frequentissime dubitat et alii ab aliis historici
dissentiunt”16 .
L’Orator rinvia a Livio, Ab Urbe condita, VII, 26.3, dove si tramanda: “Minus
insigne certamen humanum numine interposito deorum factum”17 . Prosegue il
testo: “namque conserenti iam manum Romano corvus repente in galea consedit,
in hostem versus”18 ; ed al paragrafo 5: “levans se alis os oculosque hostis rostro et
unguibus appetit, donec territum prodigii talis visu [...] Valerius obtruncat”19 .
Non diverso il giudizio dei due Plinii, di Valerio Massimo e di altri.
Neppure si crede inopportuno ricordare che anche nelle Scritture si rinvengono accenni volti a testimoniare come in vari strati del mondo culturale greco fosse
diffusa ampiamente la menzogna.
Nel genere epico greco le voci poetiche ben di frequente decantano la menzogna nelle molteplici e pluriformi sue accezioni, nelle svariate sue forme di rappresentazione. I termini della narrazione, del discorso, dell’evento e dell’episodio
contraddistinti da un comune carattere mendace, costituiscono indubbiamente
un motivo, se non centrale, comunque di rilevanza particolare, specie ai fini di una
valutazione critica del testo in rapporto ad un tessuto storico-culturale e ad un
orizzonte intellettuale in una dimensione di maggiore ampiezza.
3. Ancora, che tra i greci fosse invalso, quando non addirittura consuetudinario il ricorso – talora anche indiscriminato – alla menzogna, è dato riscontrare agevolmente negli scritti del Filosofo a tutt’oggi tra i sommi per la profondità
di pensiero e per l’acume dell’intelletto che egli profuse nel discettare sulla
Verità.
L’interesse prioritario e specifico per oggi, in relazione al nostro motivo ed
argomento di ricerca, si crede possa circoscriversi all’esame di alcuni esiti teoretico-dimostrativi conseguenti all’indagine estensiva e pluriprospettica che Platone
condusse su quello che già nel 400 a.C. costituiva il topos della menzogna.
A titolo di saggio, nelle Leggi20 si disserta sulla falsità dei Greci in generale:
prîton dû [...] t¬n pÒlin ¤pantej h̀mîn “Ellhnej Øpolamb£nousin æj
filÒlogÒj tû œsti kaπ polÚlogoj, Lakeda∂mona de\ kaπ Krøthn, t¬n me\n
bracÚlogon, t¬n de\ polÚnoian m©llon À polulog∂an ¢skoàsan: skopî
d¬ m¬ dÒxan Øm√n par£scwmai perπ smikroà poll™ lûgein, mûqhj pûri,
smikroà pr£gmatoj, pammøkh lÒgon ¢nakaqairÒmenoj21.
Il discorso platonico sulla bugia/falsità, nella sua multi-comprensività e solo sì
apparente che sporadica non uniformità di atteggiamenti e conclusioni nei diversi
Dialoghi, si estende ad una vasta gamma di problematiche; spazia su un ampio
spettro di tematiche, saldamente ancorate alla base di presupposti filosofici e motivi sì altamente indicativi che idealmente propositivi.
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La riflessione mira ad approfondimenti particolari, a scandagli incisivi di aspetti
inesplorati e di dimensioni ignote del reale che riconducono all’essere, di opinioni
o convinzioni che – per contingenza e mutevolezza dell’esistere – rinviano o sono
da correlare all’immutabilità acronica della Verità. Le puntualizzazioni a proposito della menzogna poggiano sul fondamento ideologico del pensiero di Platone, si
integrano e consolidano nella Weltanschauung che fu del Filosofo.
Nella varietà delle direttive di studio e nella divergenza formale degli approcci
metodologici, il carattere dell’indagine platonica sulla menzogna è da ritenersi
essenzialmente unitario. L’accezione è nel senso dinamico di una convergenza di
fondo delle molte argomentazioni su un nucleo teoretico che – quando non si
ispira – ben si intona a quelli che sono i motivi base ed i tratti peculiari della
concezione dell’Ateniese.
Questa postula infatti una “ricerca aperta, mai risolvibile in un ‘sistema’, in
una definitiva soluzione accettata, o in un ‘parere’ conclusivo”, come ha fatto osservare l’Adorno nella sua ormai classica Introduzione a Platone22. Per Platone
“filosofia” è “curiosità”, “meraviglia”; così in Teeteto, 115d: m£la g™r filosÒfou
toàto tÕ p£qoj, tÕ qaum£zein23. Come nell’intero Corpus Platonicum, anche a proposito della menzogna, i punti di discussione e le vie di espressione, lungi dall’essere contraddittori, risultano piuttosto complementari gli uni agli altri, in una visione globale ed in un quadro generale. Ciò consta nell’ottica di una molteplicità
di angolature interpretative e di non univoche chiavi di lettura, che accompagnino
e guidino il ripercorso del processo platonico di indagine e rendano giustizia al
suo methodos dialettico nella valenza propria di un duplice tipo sia di “moto speculativo” (il primo discensionale dall’Uno, ed il secondo ascensionale dagli “altri”
all’Uno) sia di conoscenza (l’una doxastica, l’altra noetica).
4. La menzogna si profila, negli scritti platonici, come un topos di rilevante
portata. Il tema ricorre spesso e talora ampiamente trattato ed esaustivamente svolto; per quanto mai identiche né sempre consone tra di loro, le valenze appaiono
ricche di significato e di valore emblematico ai fini di un tentativo di restauro, pur
limitato e parziale, del pensiero dell’Ateniese.
Nonostante l’evidenziazione di alcune “incertezze” del Filosofo, nel corso delle sue trattazioni nei diversi Dialoghi, si crede siano tuttavia da escludere, nelle
conclusioni dei medesimi scritti, intenti catalogatori, mire gerarchizzanti su una
scala classificatoria di presunte priorità di motivi filosofici e di esiti critici sulla
menzogna. Invero, si rileva salda la traccia di un intreccio tematico e di una temperie
spirituale non difformi all’interno di un contesto primario e di una visione d’insieme, prospettati e delineati in una connessione logica, in una sequenza
argomentativa, in una conformità metodologica.
Posto che il pensiero platonico è da considerare nella sua peculiarità di un’ansia mai appagata in un’indagine mai conclusa, al lettore è dato instaurare una
tipologia verosimile dei contenuti, degli indizi linguistici e degli spunti formali,
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degli aspetti teorici e degli assunti ideologici che possono desumersi quali coordinate costanti del suo nucleo di pensiero e atte, non di meno, a designare il senso
precipuo dei numerosi luoghi delle Leggi, del Simposio, e – specificamente – del
Cratilo, del Sofista, dell’Ippia Minore e della Politeia. In questi brani l’Ateniese
tratteggia e il più delle volte disputa a lungo sulla menzogna, pervenendo ad una
teorizzazione di essa.
Una puntualizzazione preliminare può giovare; e cioè: sembra che la veridicità
– in linea di massima – sia assicurata e garantita solo negli ubriachi e nei bimbi.
Nel Simposio ci si riferisce alla sapienza greca per cui “come dice il proverbio, nel
vino (e non c’è bisogno di aggiungere nei fanciulli, del resto aggiungiamo pure
anche i fanciulli) nel vino, insomma, è la verità”24: [...] e≥ m¬ prîton mûn, tÕ
legÒmenon, oênoj ¥neu te pa∂dwn kaπ met™ pa∂dwn Ãn ¢leqøj25. Alcibiade riecheggia
il proverbio che recita: “Vino e fanciulli veritieri”.
In tal modo si entra nel vivo dei temi portanti della dissertazione sulla menzogna, per cui si sostiene e si conclude che solo il saggio che sa, ed è sapiente, è abile
nel mentire, in quanto conoscitore e dominatore della parola e delle sue funzioni e
potenzialità.
5. Si propone ora un’esemplificazione di luoghi significativi del Cratilo sulla
formulazione teorica relativa all’analisi della parola, a livello formale di ricerca
linguistica. Si proseguirà, quindi, con il Sofista, sotto il profilo dialettico oltre l’accezione retorica ed in rapporto all’essere.
Nelle prime battute della sua Breve storia della Bugia, la Bettetini premette che
“neppure il dubbio, argutamente esposto nel Cratilo, sull’origine naturale o convenzionale del linguaggio porta il filosofo ateniese a cercare una causa della menzogna che non sia già nelle cose stesse che quando non sono e sono dette essere,
allora provocano il discorso falso”26 .
Il Cratilo verte sul “problema del linguaggio” (tÕ perπ tîn Ñnom£twn)27 che
“non è certo da poco” (oÙ smikrÕn tugc£nei ⁄n m£qhma)28, sulla “conoscenza
della verità” attraverso l’esatta indagine di questioni etimologiche e che è volta a
dimostrare una correlazione stringente delle parole alle cose con enfasi primaria
sulla “giustezza” e “correttezza” dei nomi.
Si contrappongono due tesi. Quella di Cratilo che riconosce “naturalmente,
una corrispondenza esatta del nome con la cosa nominata; che, insomma, la parola
non è affatto il prodotto d’una convenzione per chiamare così e così ciò che si vuol
chiamare, in quanto si emette un certo suono, parte d’una singola favella, la nostra”29 . Reca il testo greco:
ÑnÒmatoj ÑrqÒthta eênai Œk£stJ tîn Ôntwn fÚsei pefuku√an, kaπ oÙ
toàto eênai Ônoma Ö ¥n tinej sunqûmenoi kale√n kalîsi, tÁj aØtîn fwnÁj
mÒrion œpifqeggÒmenoi30.
47
La posizione di Ermogene, ispirata a Democrito ed all’atomismo, poggia, invece, sulla convenzionalità del linguaggio, sulla persuasione, cioè “che i vocaboli
abbiano origine diversa dalla convenzione e dall’accordo” (æj ¥llh tij ÑrqÒthj
ÑnÒmatoj À sunqøkh kaπ ”molog∂a)31, sì che logicamente consegua che “quando si
pone un nome ad una cosa, quel nome è giusto”: ¥n t∂j tJ qÁtai Ônoma, toàto
eênai tÕ ÑrqÒn32. È acquisito che i nomi non sono imposti “per natura” alle cose,
ma invero le loro attribuzioni avvengono “d’abitudine e di costumanza”, come da
“gente abituata e che chiama così”:
oÙ g™r fÚsei Œk£stJ pefukûnai Ônoma oÙde\n oÙden∂, ¢ll™ nÒmJ
kaπ ⁄qei tîn œqis£ntwn te kaπ kaloÚntwn33.
Determinato il concetto e data la definizione di “nome” delle “cose” come “un
vocabolo che qualunque uomo può imporre alle singole cose per avere un modo
di chiamarle” (Ö ¨n fÊj kalÍ tij Ÿkaston, toàq> Œk£stJ Ônoma)34 , e presupposta
altresì la realtà di un “ente qualsiasi” che si può designare (œ™n œgë kalî ”tioàn
tîn Ôntwn)35, Socrate – attraverso il procedimento maieutico a lui consueto – stabilisce dei principi e instaura degli assiomi in articolata consequenzialità. In primis,
sostiene che il “dire la verità o dir menzogna è qualche cosa”: kale√j ti ¢lhqÁ
lûgein kaπ yeudÁ36. Quindi, osserva come sia da convenire che: a) “v’è un ragionamento vero” (e∏h ¨n lÒgoj ¢lhqøj) 37 che, in “tutte le sue parti”38 – che risultano
“vere” – “esprime le cose come sono”: t™ Ônta lûgV æj ⁄stin, ¢lhqøj39; e b) vi è
anche “un altro” ragionamento “falso” (” de\ yeudøj), perché “esprime” le cose
“come non sono”: Öj d> ¨n æj oÙk ⁄stin, yeudøj40. Infine, fondando la discettazione
sull’assunto che la “totalità”41 includa – anzi si componga di – parti, ed al momento stesso asserendo che “la parola, un nome per esempio” debba ritenersi “parte
di un ragionamento vero” (Kaπ toàto [Ônoma] ¥ra tÕ toà ¢lhqoàj lÒgou lûgetai;)42,
– con logica quasi sillogistica ed in chiave manifestamente razionalistica, Socrate
conclude che “la menzogna” (TÕ [...] yeàdoj) costituisce una “parte del ragionamento falso” (toà yeÚdouj mÒrion)43, non senza ribadire, tuttavia, che essa sia pur
sempre da integrare nel ragionamento stesso. Se il vero ed il falso si danno nel
tutto (nel ragionamento), non altrimenti avverrà nelle parti. Pertanto, se ne deduce che “è possibile dire un nome vero e un nome falso”: ÇEstin ¥ra Ônoma yeàdoj
kaπ ¢lhqe\j lûgein”44.
6. Ad Ermogene che conferma la sua “teoria” sull’“origine del linguaggio” per
cui ognuno designa (“può chiamare”) le cose “per conto” proprio45 , Socrate replica trasponendo il discorso all’“essere delle cose nella loro oggettività”46 . Nel
chiedere se “l’esseità di una cosa” “dipenda” da ciascuno degli uomini (cioè ád∂v
aÙtîn h̀ oÙs∂a eênai Œk£stJ)47, egli segnala la necessità sia di ricondurre dalla
singola individua realtà esistente all’assolutezza infinita di una ragione fontale, sia
pure di avvalersi del linguaggio al fine di ricercare la verità della cosa “nel grande
48
mare dell’essere”48. In quanto contenute nell’idea49 e “nella” sua “pura oggettività”50 , le cose hanno “un’immobile esseità”: dÁlon d¬ Óti aÙt™ aÙtîn oÙs∂an
⁄cont£ tina bûbaiÒn œsti t™ pr£gmata51. Inalterabili “in ragione d’oggetto”, “in
rapporto soltanto con se stesse” “secondo una naturale ragione costitutiva” (kaq>
aØt™ prÕj t¬n aØtîn oÙs∂an ⁄conta Îper pûfuken)52, le cose sono da considerare
“atti” (pr£xeij)53 delle idee, con loro peculiarità e “legge” “particolare”, e sui
quali “la nostra opinione” è del tutto ininfluente:
Kat™ t¬n aØtîn ¥ra fÚsin kaπ a≤ pr£xeij pr£ttontai, oÙ
kat£ t¬n h̀metûran dÒxan54.
SWKRATHS
Ad esaltazione del logos umano, tra questi pr£xeij degli esseri eterni è da annoverare “il parlare” (tÕ lûgein m∂a tij tîn pr£xeèn œstin)55. In questo “atto”,
che si esplica nel pronunciare “giudizi” e fare “ragionamenti” (lû gousi to‡j
lÒgouj)56, è da includere “l’attribuire un nome” (tÕ Ñnom£zein / dionom£zontej)57.
La norma, tuttavia, nel “chiamare a nome le cose” non è “il nostro capriccio”,
bensì “la natura e il processo reciproco [...] in quel certo modo e con quel certo
mezzo”58 che furono preposti dall’artefice nel tipo e nel paradigma eterno. Il “principio di verità” riconduce al mondo ideale59.
In questa prospettiva ermeneutica si crede sia da leggere questo passaggio del
Cratilo: “Il nome allora è particolare strumento, suscettivo di fornire indicazioni;
uno strumento suscettivo di far distinto quanto si contiene nelle varie idee, come la
spola fa distinto il tessuto”. Reca il testo greco:
”Onoma ¥ra didaskalikÒn t∂ œstin Ôrganon kaπ diakritikÕn tÁj
oÙs∂aj ésper kerkπj Øf£smatoj60.
SWKRATHS
Efficace il parallelo del “giusto uso” “della spola” e “del nome” da parte –
rispettivamente – del tessitore e del filosofo-linguista. Il tessitore che con abilità si
destreggia nell’uso della spola figurerà quale buon tessitore. Il rétore che con perizia si avvale della parola fungerà da valente insegnante61. Non altrimenti, determinante risuona la specificazione che, in ultima analisi, nell’indicazione di una cosa
mediante l’uso del nome ci si valga “dell’opera d’uno che aveva stabilito una norma di legge, un legislatore”:
SWKRATHS
Nomoqûtou ¥ra ⁄rgJ crøsetai ” didaskalikÕj Ótan ÑnÒmati
crÁtai;62
Ad Ermogene che – a proposito della teoria di una “precisa ragione etimologica del linguaggio” che si conformi “alle leggi di natura” (¿ntina fÊj eênai t¬n
fÚsei ÑrqÒthta ÑnÒmatoj)63 – chiede una delucidazione ed illustrazione che siano
corredate di esempi, impersonando Cratilo, Socrate offre una sua “esposizione
49
sistematica della teoria eraclitea sul linguaggio”64 . Nella disamina delle parole radicali o primitive (o, s’è detto, “simboli fonici e ideali” denotanti l’identico eterno
“concetto”), pone al centro il principio – appunto eracliteo – del “fluire” e del
“trascorrere”65 . A conclusione, ribadisce il fulcro teorico della concezione della
“corrispondenza esatta del nome con la cosa dal nome segnata”: aÛth moi fa∂netai
[...] boÚlesqai eênai h̀ tîn Ñnom£twn ÑrqÒthj66.
7. All’inizio della “Parte seconda” (427d1-440e7) del Dialogo, Cratilo interviene nella trattazione sulla natura del linguaggio. Già supra, in 385b2-e5, Socrate –
avanzata la duplice realtà di verità e menzogna, e supposto che entrambe si esprimessero con parole – aveva avuto buon gioco nel dimostrare che erano da postulare
prima l’esistenza di parole vere e false, e quindi il riscontro che un nome pronunciato a caso potesse risultare vero o falso. Ermogene aveva conservato rigidamente
la sua posizione, sostenendo una mera possibilità di errore e falsità (385a3-b1)67 .
Cratilo non solo rifiuta la teoria della “corrispondenza esatta del nome con la
cosa dal nome stesso designata”68 , ma pone anche in discussione l’eventuale alternarsi di errore e di verità. Socrate rivolge incalzanti sollecitazioni in forma interrogativa, sino alla key question, al quesito cruciale ed ineludibile se egli “intendesse
forse concludere che nemmeno sia possibile dir menzogna” (yeudÁ lûgein tÕ
par£pan oÙk ⁄stin)69 , come allora, e del resto più anticamente ancora, da parte di
alcuni si reputava70 . Cratilo persevera nel professare la propria aderenza al
parmenidismo ed asserisce in termini categorici che la menzogna costituisce il nonessere e quindi – come tale – è nulla, inesistente. In tale senso, a Socrate ribatte
inequivoco, scandendo a chiare note che la parola significante implica l’essere, la
menzogna “dice” il non-essere: “Come vuoi, Sócrate, che esprimendo qualche cosa,
non si dica qualche cosa che è? E viceversa la menzogna non è appunto dir ciò che
non è?”:
Pîj g™r ¥n, Û Sèkratej, lûgwn gû tij toàto Ö lûgei, m¬ tÕ ⁄n
lûgoi; À oÙ toàtÒ œstin tÕ yeudÁ lûgein, tÕ m¬ t™ Ônta lûgein;71
KRATULOS
Socrate riconosce la complicatezza dell’argomento in questione (ibid.: “l’argomento è un po’ complicato”)72 e, per questo, limita l’indagine sulla menzogna al
livello della parola, nell’ambito del discorso e della comunicazione intersoggettiva.
Tralascia il metodo ragionativo-deduttivo, la nomenclatura di carattere assoluto,
la denominazione di tipo universalistico. A Cratilo, non propenso a strutturazioni
metafisiche e ad un ordine ontologico unico, e che negava la possibilità stessa
della menzogna, maieuticamente chiede che confermi o convalidi l’assunto sul
piano verbale, se gli “pare che col ragionamento non si possa concepir menzogna,
ma che la si possa tuttavia manifestare a parole”: pÒteron lûgein me\n oÙ doke√
soi eênai yeudÁ, f£nai dû;73 E in relazione al discorso procede insistendo: “E
neppure farne oggetto di discorso, neppure comunicarla rivolgendosi ad altri?”
50
(OÙde\ e≥pe√n oÙde\ proseipe√n;)74. Nei due casi, perentoria la risposta risolutiva di
Cratilo. Nel primo, “No, non mi par nemmeno che si possa dirla a parole” (OÜ moi
doke√ oÙde\ f£nai)75; e nel secondo, icasticamente sarcastica la replica: “Mi pare, o
Socrate, che pronuncerebbe solo vani suoni” (>Emoπ me\n doke√, Û Sèkratej, ¥llwj
¨n oátoj taàta fqûgxasqai)76, a discostarsi dall’essere, che è l’unico vero!
Da ultimo, a Socrate non resta che ancorarsi ai termini riduttivi della parte
rispetto al tutto. Pur pago di una “limitata conclusione” (kaπ toàto œxarko√)77,
conclude: “Bene! mi basta anche questo. E chi pronunciasse questo discorso, pronuncerà menzogna o verità? O forse, una parte delle sue parole corrisponderà al
vero, un’altra invece a menzogna?”:
>All> ¢gaphtÕn kaπ toàto. pÒteron g™r ¢lhqÁ ¨n fqûgxaito taàta
” fqûgx£menoj À yeudÁ; À tÕ mûn ti aÙtîn ¢lhqûj, tÕ de\ yeàdoj;78
SWKRATHS
Non meno recisa, e definitiva, l’obiezione di Cratilo: “Io direi che il tuo amico
fa rumore; che s’agita invano; sarebbe come se, urtandolo, si percuotesse un oggetto di bronzo”:
Yofe√n ⁄gwg> ¨n fa∂hn tÕn toioàton, m£thn aÙtÕn ŒautÕn kinoànta,
ésper ¨n e∏ tij calk∂on kinøseie kroÚsaj79.
KRATULOS
Vacua è per lui la voce del discorso, ridondanti ed equivoche le parole, sparse
al vento, insignificanti le correlazioni, sofistico l’esito.
Quindi, nel chiaro intento di uscire e svincolarsi dall’insuperabile impatto
discorsivo, nonostante i tentativi di possibile conciliazione teorica, Socrate circoscrive l’argomentazione alla necessità di ammettere una netta distinzione
ontologica tra il nome e la cosa reale. Dichiara al riguardo: “Il nome è una cosa,
altro invece la cosa espressa dal nome”: ¥llo me\n ¨n fa∂hj tÕ Ônoma eênai, ¥llo
de\ œke√no oá tÕ Ônom£ œstin80. Resta ferma la convinzione che “il nome sia una
cotale espressa imitazione della cosa” (tÕ Ônoma ”mologe√j m∂mhm£ ti e ênai toà
pr£gmatoj;)81. Pertanto è da concedere che si possa incorrere nell’errore nella
stessa “appellazione” del nome, come talora può accadere nelle opere di legislatori e di altri artefici82.
8. Appare innovativo il confronto o, più appropriatamente, l’accostamento del
linguaggio alla pittura in quanto ad entrambe è comune la categoria dell’imitazione. Retorico l’interrogativo di Socrate: “E non dici che anche la pittura, in altro
modo, pur sia imitazione di talune cose?”:
OÙkoàn kaπ t™ zwgrafømata trÒpon tin™ ¥llon lûgeij mimˇmata
eênai pragm£twn tinîn;83
SWKRATHS
51
Nel reiterato approfondimento tematico, Socrate induce l’interlocutore Cratilo
a riconoscere che sia il linguaggio che la pittura sono da catalogarsi quali arti dell’imitazione. Le “pitture” e i “nomi”, nel Cratilo, “l’una e l’altra arte”, sono “imitazione” delle “singole cose” allorché ad esse si riferiscono e vengono attribuite84 .
È dichiarata l’indispensabilità di discriminare adeguatamente nelle
“attribuzioni” operate mediante le due forme e le due arti di imitazione. Nelle
specie di mimesi è da “credere giusta quella che attribuisce a ciascuno l’eguale e il
conveniente”: flH ¨n Œk£stJ oêmai tÕ trosÁkon te kaπ tÕ Ómoion ¢podidù85 . Ciò
che è di pertinenza di ogni ente e “ne riproduce la somiglianza”, Socrate lo chiama
“attribuzione” per le imitazioni sia delle figure che dei nomi:
kalî ⁄gwge dianom¬n œp> ¢mfotûroij me\n to√j mimømasin, to√j te zóoij
kaπ to√j ÑnÒmasin86.
Nell’imitazione attraverso le figure, l’attribuzione si definisce “giusta” (Ñrqˇn)87;
nel linguaggio, “quando si tratta di nomi” (œpπ de\ to√j ÑnÒmasi)88, non si dice solo
“giusta”, ma anche “vera”: Ñrqh\n kaπ ¢lhqÁ89. Socrate denuncia, inoltre, come
“errata / non corretta” (oÙk Ñrqˇn) e “menzognera / falsa” (kaπ yeudÁ)90 quell’attribuzione che, correlata ai nomi (Ótan œp> ÑnÒmasin)91 , “non corrisponde al fatto” e “conferisce” il “dissimile”, cioè th\n d> Œte/ran, th\n toà ¢nomo∂ou dÒsin te kaπ
œpifor£n92.
Inflessibile nella sua tesi ed inamovibile dalla posizione iniziale, Cratilo concede sì che un “caso di non giusta attribuzione” possa verificarsi nella pittura (œn me\n
to√j zwgrafømasin Ï toàto, tÕ mh\ Ñrqîj dianûmein)93, ma l’esclude categoricamente nel linguaggio. In epigrafica incisività ribadisce che “pel linguaggio” l’errore, la menzogna, la non congrua corrispondenza all’ente “è cosa che non può avvenire”, dal momento che in tale caso è “ineluttabile sempre il retto rapporto”. A
proposito dei nomi, infatti, è di necessità che si “attribuisca” in adeguatezza e
“maniera corretta”: ¢nagka√on Ï ¢eπ Ñrqîj œpπ de\ to√j ÑnÒmasin oÜ94.
In nitida esposizione, per graduali passaggi, con calzanti esemplificazioni,
Socrate riconferma la riscontrabilità di verità e di menzogna a seconda che le parole vengano distribuite in modo esatto od errato ed attribuite “ai singoli obietti”
in maniera conveniente (Ñrqîj diane/mein t™ ÑnÒmata [...] Œk£stJ)95. Stabilisce e
propugna una duplice “tale regola”. L’una denomina “dire il vero”, l’altra “dire il
falso”:
toiaÚth tij dianomh\ [...] tÕ me\n Ÿteron ¢lhqeÚein boulÒmeqa kale√n, tÕ
d>Ÿteron yeÚdesqai96.
9. Quindi evidenzia un più definito ambito di affinità e rassomiglianza che
intercorre tra parole “primitive” e pittura. Nella traduzione Turolla reca il testo:
52
“Possiamo rassomigliare le parole radicali a pitture”. Con più accuratezza, rende
il Giardini: “se […] confrontiamo i primi nomi alle lettere, può essere, come nelle
pitture, attribuire tutti i colori e le forme che sono confacenti con esse” (e≥
gr£mmasin aâ t™ prîta ÑnÒmata ¢peik£zomen, ⁄stin ésper œn to√j zwgrafømasin
kaπ p£nta t™ prosøkonta crèmat£ te kaπ scømata ¢podoànai)97. L’analogia, di
per sé anche fascinosa sul piano delle arti, si profila altresì provvista di spessore
sul piano del rigore logico e della solidità teoretica.
Con ricchezza di dettagli raffigurativamente significativi, in articolata sequenza comparativa ed in cogente coerenza ragionativa, Socrate delinea i caratteri distintivi così della “produzione” di “figure belle e immagini belle”
( ” me\n ¢podido ‡ j p£nta kal ™ t ™ gr£mmat£ te kaπ t ™ j e≥kÒnaj ¢pod∂dwsin)98
che dell’enunciazione ed attribuzione dei nomi che si configurano in “immagine” “bella” 99 . Nei quadri, alla bellezza concorrono l’attribuzione di “convenienti colori” e “forme delle figure”, il calibrato utilizzo di “ogni giusto particolare” ed un sì oculato che sapiente processo di interventi in proprio nell’aggiungere come nel tralasciare.
In base a “lo stesso ragionamento”100, non diversamente accadrà a “chi imita
per sillabe e per lettere l’esseità delle cose”: T∂ de\ ” di™ tîn sullabîn te kaπ
gramm£twn th\n oÙs∂an101. Egli crea un’immagine, che è “il nome”, e che risulta
bella qualora le “si attribuisca ogni conveniente particolare”: ¨n me\n p£nta ¢podù
t™ prosøkonta, kalh\ h̀ e≥kën ⁄stai - toàto d> œstπn Ônoma102. Tuttavia – e non
vada sottaciuto –, come si danno immagini pittoriche belle ed anche “tutta roba di
scarto” (e≥kÒnaj [...] ponhr£j)103, così ugualmente “vi saranno nomi fatti bene e
nomi fatti male”: éste t™ me\n kalîj e≥rgasmûna ⁄stai tîn Ñnom£twn, t™ de\
kakîj104.
Alla forza discorsiva ed alla capacità dissertativa di Socrate fa riscontro lo scetticismo manifesto di Cratilo che replica un semplice “forse”, pur fermo nella sua
tesi eleatica secondo cui la menzogna – ben lungi dallo scalfire la realtà oggettiva
di ciò che è – deve escludersi nella formulazione linguistica stessa. Socrate , dal
canto suo, puntualizza che, come per le altre arti, anche nella parola è inevitabile
che a “un artefice buono di nomi” faccia riscontro “un artefice buono a nulla”
(”Iswj ¥ra ⁄stai ” me\n ¢gaqÕj dhmiourgÕj Ñnom£twn ” de\ kakÒj)105. Il tutto s’interponga in un atto di celebrazione ed in un intento di elevazione dell’autore del
linguaggio che viene designato alla dignità di un’opera per natura non difforme da
quella del legislatore originario (“E quest’artefice non aveva il nome di legislatore?”; cioè, OÙkoàn toÚtJ ” “nomoqûthj” Ãn Ônoma)106.
10. In una riaffermazione dei temi di base, si esaminano i rapporti di essenziale
correlazione tra originale e copia107. Contro la teoria di Ermogene, secondo cui “le
parole sono mere convenzioni, perspicue soltanto per chi le ha stabilite, in quanto
già prima si conoscevano le cose” (tÕ sunqˇmata eênai t™ ÑnÒmata kaπ dhloàn
to√j sunqemûnoij proeidÒsi de\ t™ pr£gmata)108, a Cratilo Socrate antepone la tesi
53
per cui i nomi primitivi corrispondano agli oggetti, ed in “modo” tanto “migliore”
(⁄ceij tin™ kall∂w trÒpon)109 quanto più le parole sono rese “al massimo grado
simiglianti all’oggetto che debbono rappresentare”: m£lista toiaàta oƒa œke√na
§ de√ dhloàn aÙt£;110. In un atteggiamento ora di equidistanza, Cratilo privilegia
una forma di rappresentazione che avvenga “per mezzo d’una imitazione, piuttosto che con un mezzo dovuto al caso”:
“OlJ kaπ pantπ diafûrei, Û Sèkratej, tÕ ”moièmati dhloàn Óti ¥n tij
dhlo√ ¢ll™ m¬ tù œpitucÒnti111.
Sul concetto di imitazione, Socrate fonda il postulato di una presupposta realtà o cosa da raffigurare e denominare con colori o con parole ad essa somiglianti.
Pertanto, sostiene che “se i nomi somigliano agli oggetti” (e∏per ⁄stai tÕ Ônoma
Ómoion tù pr£gmati)112, allora anche le lettere, costituenti le parole primitive, somiglieranno “naturalmente” a questi oggetti, non altrimenti da come i “colori”,
fatti propri dal pittore, “per natura” sono “simiglianti” agli “oggetti” che si “intende imitare” nella pittura. Domanda se mai alcuno fosse stato in grado di dipingere un oggetto, secondo somiglianza, qualora
m¬ fÚsei ØpÁrce farmake√a Ómoia Ônta, œx ïn sunt∂qetai t™ zwgrafoÚmena,
œke∂noij § mime√tai h̀ grafikˇ: À ¢dÚnaton;113
È sulla efficacia di questo principio di “una similitudine [...] delle parole con
gli oggetti” (kat™ tÕ dunatÕn Ómoia eênai t™ ÑnÒmata to√j pr£gmasin)114 che
Socrate incalza, pur non negando una “certa importanza” della convenzione, nel
senso che ugualmente “convenzione e abitudine concorrano insieme a manifestare
ciò che esprimiamo rivolgendone il pensiero nella mente”:
¢nagka√Òn pou kaπ sunqˇkhn ti kaπ ⁄qoj sumb£llesqai prÕj dˇlwsin ïn
dianooÚmenoi le/gomen115.
Sul “potere” e sull’“effetto utile” delle parole, Cratilo medesimo crede di poter acquisire una conoscenza delle cose grazie alla perizia e alla competenza linguistica. Proclama sintetizzando che, dal punto di vista dell’“azione didattica”,
“chi conosce il valore delle parole, conosce pure le cose”: Did£skein [...], Öj ¨n t™
ÑnÒmata œp∂sthtai, œp∂stasqai kaπ t™ pr£gmata116. Socrate precisa i termini di
una corretta formulazione del concetto. Premessa l’unicità dell’arte relativa alle
cose aventi “reciproca condizione di simiglianza” e data la “simiglianza” della cosa
“col nome”, egli non si perita di asserire che, una volta conosciuta “l’esatta natura
del nome”, si conosce anche la cosa, giacché il nome è “fedele immagine della
cosa”117. Reca il testo in Platone:
54
œpeid£n tij e≥dÍ tÕ Ônoma oƒÒn œstin - ⁄sti de\ oƒÒnper tÕ pr©gma - e∏setai
d¬ kaπ tÕ pr©gma, œpe∂per Ómoion tugc£nei ⁄n tù ÑnÒmati, tûcnh de\ m∂a
¥r> œstπn h̀ aÙth\ p£ntwn tîn ¢llˇloij ”mo∂wn118.
11. Posto che “chi ha trovato il valore delle parole, ha pur trovato ciò di cui i
nomi sono segni” (tÕn t™ ÑnÒmata eØrÒnta kaπ œke√na hØrhkûnai ïn œsti t™
ÑnÒmata)119, viene accertato e determinato – fa osservare Socrate – un primo metodo conoscitivo di ordine linguistico-glottologico. Né è da trascurare che, nel
caso che ci si “basi solamente sul filo conduttore delle parole” (¢kolouqo√ to√j
ÑnÒmasi)120, incombe ineluttabile “il pericolo d’essere ingannati” (oÙ smikrÕj
k∂ndunÒj œstin œxapathqÁnai)121.
Ancora una volta, ed espressamente, a Cratilo che si manifesta pago di un “unico
e medesimo metodo d’indagine” – e che egli non esita a proporre come “il solo e il
migliore” (toàton de\ kaπ mÒnon kaπ be/ltiston)122 – sia per la “conoscenza esatta”
che per la “semplice conoscenza”, Socrate rivendica l’opportunità e necessità di
un “ulteriore” “secondo” e “più severo metodo” nel “cercare” le “cose”123 . La
fallacia della conoscenza fondata sul linguaggio si circoscrive all’aspetto fenomenico
della realtà, ma non perviene alla realtà oggettiva e non ne penetra l’essenza.
Ai fini del perseguimento sicuro di una tale scienza relativa alla conoscenza
della natura vera degli enti nella correlazione di essi alle idee, Socrate specifica
con enfasi l’indispensabilità di una ben scandita differenziazione tra il mero “cercare e scoprire” e il solido “imparare”: À zhte√n me\n kaπ eØr∂skein Ÿteron de√n
trÒpon, manq£nein de\ toàton;124.
Invero, l’indagine è da indirizzare “al principio d’ogni fatto”, alla verità dell’essere in sé:
de√ d¬ perπ tÁj ¢rcÁj pantÕj pr£gmatoj [...] tÕn pol‡n lÒgon eênai kaπ
t¬n poll¬n skûyin125.
L’acquisizione della conoscenza primaria dell’essere costituirà il criterio e fungerà da metro per “determinare” “giustamente” la validità delle “conseguenze”
che promanano da quel “principio” che il “legislatore” stabilì “per disporlo in
armonia con la sua visione iniziale” (aØtù sumfwne√n ºn£gkazen)126 – ed il legislatore, invero, operò “conoscendo gli oggetti cui imponeva il nome”127.
Nell’imporre i “nomi radicali” che “non c’erano ancora” (e∏per t£ ge prîta
møpw ⁄keito)128 e “prima che potessero sapere qualche cosa dato che soltanto dalle
parole è possibile passare alla conoscenza delle cose”129 , gli artefici – quasi a concludere assevera Socrate – “sapevano e sapendo imponevano i nomi [i. e. radicali o
primitivi] ed erano legislatori” (fîmen aÙto‡j e≥dÒtaj qûsqai À nomoqe/taj eênai)130.
Se – in questa architettura – Cratilo fa appello od ipotizza “una potenza [...] di
proporzioni maggiori che non l’umana” (me∂zw tin™ dÚnamin eênai À ¢nqrwpe∂an)131,
55
dal canto suo Socrate categorizza l’intervento diretto di “un ente di potere soprannaturale quanto un Dio”132 , escludendo, come a priori, eventuali contraddizioni di sorta nell’attribuzione dei nomi e nelle denominazioni dei corrispettivi
oggetti. Non è pertanto da reputare, o solo pensare che chi assegnò i nomi avesse
potuto operare contraddicendo se stesso, “fosse egli un demone o un dio”. Si
legge nel Cratilo:
SWKRATHS
Eêta o∏ei œnant∂a ¨n œt∂qeto aÙtÕj aØtù ” qe∂j, ín da∂mwn tij À
qeÒj.133
12. È da considerare irrefragabile la differenziazione tra due forme di conoscenza: una doxastica o d’opinione comune con ricorso alla “scienza etimologica”,
ed un’altra noetica o della “verità degli enti”134 . La conoscenza attraverso il linguaggio, benché ausiliare e propedeutica, si rivela inadeguata ed inconclusiva, in
seguito al rilievo di una “grande intestina lotta” nell’ambito delle parole (>Onom£twn
oân stasias£ntwn)135. Alcune di queste “affermano di portare in se stesse le
similitudini del vero” (kaπ tîn me\n faskÒntwn Œaut™ eênai t™ Ómoia tÍ ¢lhqe∂v)136,
altre no. È l’impatto inestricabile cui conduce il linguaggio medesimo. Soluzione
plausibile a conoscere “quale [...] dei due tipi di parole risponda al vero” (”pÒtera
toÚtwn œstπ t¢lhqÁ)137 è la “previa esplicazione” dell’essenza reale ed esatta (“la
verità”) degli esseri di cui le parole sono i nomi referenziali e significativi138 . Scandito a chiare note che il “lume” è da ricercare al di fuori del linguaggio, Socrate
propugna una conoscenza scientifica più “sicura” e più “diretta”139 .
In simile ottica ammonisce ad astrarre dall’indagine ristretta ai soli nomi e ad
avviare una ricerca che sia rivolta “verso qualche altra cosa” e, al tempo medesimo, permetta di cogliere, senza velame né ombra di dubbio, “la verità delle cose”.
Nel Dialogo, recisa ricorre la puntualizzazione, come ineludibile la sollecitazione,
secondo cui
¢ll™ dÁlon Óti ¥ll> ¥tta zhthtûa pl¬n Ñnom£twn, § h̀m√n œmfanie√ ¥neu
Ñnom£twn [...] de∂xanta dÁlon Óti t¬n ¢løqeian tîn Ôntwn140.
Dichiara deciso che “è possibile [...] apprender gli enti a prescindere dai
nomi”141, cioè che è dato conoscere e comprendere (“imparare”) la “realtà delle
cose”142 (⁄stin ¥ra [...] dunatÕn maqe√n ¥neu Ñnom£twn t™ Ônta143).
Negli squarci finali del Cratilo – di contro all’idea ed alla consuetudine della
menzogna – sovrasta maestoso e campeggia univoco il concetto di verità in più
guise asserito – in sé, per sé, ed a corollario di discorsi sì induttivi che deduttivi. In
sintesi, pur riconosciuta come indiscussa la proficuità della “conoscenza sulla natura delle cose” grazie alle parole (di> Ñnom£twn t™ pr£gmata manq£nein)144, l’enfasi ricade sul quesito fondamentale di quale sia la “via” “migliore e più sicura”
56
“di cognizione e d’indagine”145. In termini chiari ci si chiede quale sia la forma di
matesi più bella e più manifesta: pot û ra ¨n e∏h kall∂wn kaπ safest û ra h̀
m£qhsij146.
13. Ad enunciato dello status quaestionis della disputa gnoseologica, Socrate
pone in risalto una duplice prospettiva sulla via dell’apprendimento degli esseri e
del vero. Sul piano non tanto della metodologia, quanto più della noesi, egli sottomette alla considerazione la problematica del grado di congruità e di elevatezza di
due tipi di conoscenza. Per l’uno, s’impara mediatamente dall’immagine: sia l’immagine stessa – se è riproduzione adeguata di sé –, sia la verità, se l’immagine ne è
l’imitazione fedele e raffigurazione puntuale:
œk tÁj œikÒnoj manq£nein aÙtˇn te aÙth\n e≥ kalîj e∏kastai, kaπ t¬n
¢løqeian Âj Ãn e≥kèn147.
Per l’altro, si perviene alla conoscenza attingendo direttamente dalla verità e,
da essa, “imparando” la “verità” e la sua “immagine”, se ben predisposta:
À œk tÁj ¢lhqe∂aj aÙtˇn te aÙth\n kaπ th\n e≥kÒna aÙtÁj e≥ prepÒntwj
e∏rgastai148.
Tracciate brevemente le componenti costitutive – l’immagine, la copia, la copia “isolata e per conto suo” con approdo al grado “maggiore o minore” di “perfezione” e di “verità”149 – Socrate prorompe pur sobriamente in un’esclamazione
che già rappresenta un proclama sul primato e sulla priorità della verità in sé.
Imperiosa ne consegue l’urgenza di “partire dalla verità” per “contemplarla in se
stessa”. Quindi se ne “contemplerà l’immagine” e se ne accerterà la fedeltà di
rappresentazione (“se convenientemente [...] congegnata”)150.
Il rinvio alla “cosa” in sé – di cui il nome è “fedele immagine” – come pure alla
“verità degli oggetti”, ricorre già prima nel Cratilo151 . Tuttavia, è ora che, nel tono
assertivo, risuonano inequivoci e categorici l’assioma dell’“oggettività degli enti”,
la necessità di “imparare e scoprire le cose reali” (de√ manq£nein À eØr∂skein t™
Ônta)152 , come il richiamo al mondo delle idee. Infatti, “non dalle parole e da una
indagine glottologica, bensì e assai più, si deve apprendere e cercare l’oggettività
degli enti, partendo dagli enti stessi, non dalle parole”. Così recita il testo:
oÙk œx Ñnom£twn, ¢ll™ pol‡ m©llon aÙt™ œx aØtîn kaπ maqhtûon kaπ
zhthtûon À œk tîn Ñnom£twn153.
Tuttora ricca di fascinosa forza d’attrazione, nel suo vigore speculativo,
riecheggia vivida la sollecitazione alla riflessione profonda sulla realtà cosmica
e sul destino universale! A fronte della teoria eraclitea del fluire e “trascorrere”
57
delle “universe cose” (æj ≥Òntwn ¡p£ntwn ¢eπ kaπ ˛eÒntwn)154, il Socrate del Cratilo
configura – e vede “in sogno naturalmente” (Ö ⁄gwge [...] Ñneirèttw)155 – il precipitare “dentro ad un vortice”, l’esservi “travolti”, “trascinati” e “cacciativi dentro” noi stessi:
oátoi aÙto∂ te ésper e∏j tina d∂nhn œmpesÒntej kukîntai kaπ h̀m©j
œfelkÒmenoi prosemb£llousin156.
Che si tratti del vortice dell’essere non si esplicita, ma si evince nell’interrogativo eloquente ed emblematico se “dobbiamo o no dire che v’è una bellezza nella
pura oggettività dell’idea” e se vi è intrinseca “una bontà”157 . Ciò, nondimeno, è
da predicare anche in riferimento a “ciascuna delle cose reali”158:
pÒteron fîme/n ti eênai aÙtÕ kalÕn kaπ ¢gaqÕn kaπ ¢n Ÿkaston tîn Ôntwn
oÛtw159.
Qui noi si crede che all’esaltazione del mondo dell’essere siano sottesi l’inno
platonico all’ordine cosmico e all’armonia del tutto, la celebrazione del reale, l’ammirazione per la ben “congegnata”160 strutturazione di “ogni altra singola cosa”161
che – “immagine fedele”162 – appare veridica e non mendace.
1
M. BETTETINI, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Milano, Raffaello Cortina editore, 2001.
2
Cfr. ibid., pp. 30-31.
3
Cfr. ibid., p. 35.
4
Cfr. AUGUSTINUS, De mendacio, 3.3 e 4.4, ora in A. AGOSTINO, Sulla bugia, introd.,
trad., note e apparati a cura di M. Bettetini, Milano, Rusconi Libri, 1994, pp. 30, 32 e 34
(“ut / ne fallat”, “ut / ne falleret”, “voluntate fallendi”); e p. 6 in Introd., cit.
5
LUCIANO, Storie vere, introd. trad. e note di Q. Cataudella, t. gr. a fronte, Milano,
R.C.S., Libri e Grandi Opere, 1994, I.2, p. 52: oÙ g™r mÒnon tÕ xe/non tÁj Øpoqe/sewj oÙd e\
tÕ car∂en tÁj proairûsewj œpagwgÕn ⁄stai aÙto√j oÙd> ÓtiyeÚsmata poik∂la piqanîj te
kaπ œnalˇqwj œxenhnÒcamen.
6
Ibid., I.3, ed. cit., p. 54: ¢rchgÕj de\ aÙto√j kaπ did£skaloj tÁj toiaÚthj bwmoloc∂aj
” toà <Omørou >OdusseÚj. Trad. it. in LUCIANO, Dialoghi e storie vere, a cura di N. Marziano
e G. Verdi, Milano, Mursia, 1999, p. 399. Cautadella, ed. cit., p. 55, rende: “Loro primo
duce, e maestro di tale ciarlataneria, è l’Ulisse di Omero”, ai ll. IX-X dell’Odissea.
7
Ibid, I.4, ed. cit., pp. 54 e 56: “toÚtoij oân œntucën ¤pasin, toà yeÚsasqai me\n oÙ
sfÒdra to‡j ¥ndraj œmemy£mhn, ”rîn ¡dh”. “sÚnhqej ⁄n toàto kaπ to√j filosofe√n
Øpiscnoume/noij: œke√no de\ aÙtîn œqaÚmasa, e≥ œnÒmizon lˇsein oÙk ¢lhqÁ suggr£fontej”.
8
Ibid.
9
Ibid.
10
Ibid.
58
11
Ibid.
Ibid.
13
Ibid.
14
Cfr. P. VERGILIUS MARO, Aeneis, II, 49: “Quidquid id est, timeo Danaos et dona
ferentes”, dichiara Laocoonte al fine di dissuadere i Troiani dall’accogliere il cavallo in
città. Cfr. anche L.A. SENECA, Agamemnon, 628, per il “Danaumque fatale munus”; e D.I.
IUVENALIS, Saturae, X.173-175: “Creditur olim / velificatus Athos et quidquid Graecia
mendax / audet in historia”. Per questo topos di una Grecia falsa e menzognera, che “non
conosce” nulla di “degno di fede”, cfr. EURIPIDES, Ifigenia Taurica, 1205: pistÕn `Ell™j
o’i den oÙde/n.
15
M.T. CICERO, Pro L. Valerio Flacco, 4.9. Trad. it. in: M.T. CICERONE, In difesa di Valerio
Flacco, in ID., Le Orazioni, a cura di G. Bellardi, Torino, Utet, 1996 (19811), vol. II, p. 1039:
“ecco quel che io affermo a proposito dei greci nel loro complesso: concedo loro la cultura
letteraria, riconosco la conoscenza di molte arti, non gli tolgo la grazia della lingua, l’acutezza d’ingegno, l’abbondanza di parola […]. Per quanto concerne, però, la scrupolosa
lealtà nelle deposizioni testimoniali, è una virtù che codesta nazione non ha mai coltivata,
anzi ne ignora totalmente il significato, il valore l’importanza”.
16
M.F. QUINTILIANUS, Institutio oratoria, II 4.19. Trad. it. in M.F. QUINTILIANO, L’istituzione oratoria, a cura di R. Faranda e P. Pecchiura, Torino, Utet, 1996 (19681), vol. I, p. 235:
“gli storici greci si prendono comunemente queste libertà che sono tipiche della poesia.
Spesso sono argomenti anche il tempo e il luogo che fu teatro dell’azione, talvolta pure il
personaggio: del resto, Livio spesso esprime dubbi, mentre tra uno storico e l’altro si verificano delle discordanze”.
17
T. LIVIUS, Ab Urbe condita, VII 26.3. Trad. it. di M. Scandola, in T. LIVIO, Storia di
Roma, Milano, R.C.S. Libri e Grandi Opere, 1994, p. 319: “il combattimento, meno insigne
sotto l’aspetto umano, fu reso bello dall’intervento divino”.
18
Cfr. T. LIVIUS, Ab Urbe condita, VII 26.3, cit.; e trad. it., cit., ibid.: “infatti, quando
già il Romano stava venendo alle mani, d’improvviso un corvo si posò sul suo elmo, rivolto
verso il nemico”.
19
Cfr. T. LIVIUS, Ab Urbe condita, VII 26.5, cit.; e trad. it., cit., p. 321: “librandosi a volo
assalì col becco e con le unghie il volto e gli occhi del nemico, finché, atterrito com’era
costui dalla vista di tale prodigio [...], Valerio lo uccise”.
20
PLATO, Leges, I, 641e-642a. Si cita dal testo dell’edizione oxfordiana (PLATONIS Opera, cur. T. Burnet, Oxonii, Clarendon, 1905-12 [5 voll.], [unitamente alle indicazioni dei
paragrafi della classica ripartizione dell’ed. dello Stephanus (H. Étienne), Paris 1576] [d’ora
in poi: PLATO]); ora riportato anche in PLATONE, Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, con
un saggio di F. Adorno, voll. I-V, Roma, Newton & Compton, 1997, vol. V, trad. it. di E.
Pegone, p. 82.
21
Si riporta il passo nella pur sempre valida e preziosa “versione e interpretazione” di
E. Turolla, in PLATONE, I Dialoghi, L’Apologia e le Epistole, Milano, Rizzoli Editore, 19642
[3 voll.] [d’ora in poi: trad. Turolla], III, p. 284: “Intanto, in primo luogo, tutti i greci
affermano che la mia Atene ama ragionante diffusa parola e di parola molta si compiace;
Sparta e Creta al contrario perseguono, l’una, parola breve; l’altra invece assai più che
parola copiosa, un pensare profondo e molteplice. E ora mi preoccupa una cosa: non vorrei
che in voi sorgesse l’impressione d’una mia loquacità esagerata su cose da nulla; così, per
esempio, sull’ebbrezza”.
12
59
22
F. ADORNO, Introduzione a Platone, Bari, Laterza, 1978. Per le fasi della “problematica
platonica”, cfr. in specie Storia della critica, pp. 241-277.
23
PLATO, Theaetetus, 155 d-e; ora anche in PLATONE, Tutte le opere, cit., vol. I, p. 402,
trad. it. di G. Giardini, p. 403: “Si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione:
il meravigliarti”. Si prosegue puntualizzando come “questo” sia proprio “l’inizio” dell’indagine filosofica: oÙ g™r ¥llh ¢rc¬ filosof∂aj À aÛth (ibid., p. 402).
24
Trad. Turolla, I, p. 860.
25
PLATO, Symposium, 217e, in PLATONE, Tutte le opere, cit., vol. II, p. 412 (cfr. anche
trad. Giardini, cit., p. 413: “se in primo luogo il proverbio ‘il vino con i fanciulli o senza i
fanciulli non fosse veritiero’”).
26
BETTETINI, Breve storia della bugia, cit., p. 6.
27
PLATO , Cratylus, 384b, in PLATONE, Tutte le opere, cit., vol. I, p. 264, (trad. it. di
G. Giardini [d’ora in poi: trad. Giardini], p. 265: “questo sul nome”; trad. Turolla, III,
p. 542).
28
Ibid. (trad. Giardini, p. 265: “non è [...] un apprendimento”).
29
Ibid., 383a (trad. Turolla, p. 541).
30
PLATO, Cratylus, 383a, p. 264 (trad. Turolla, p. 541; cfr. anche trad. Giardini, p. 265:
“ciascun essere possiede la correttezza del nome che per natura gli conviene e che il nome
non è quello col quale alcuni, come accordatisi a chiamarlo, lo chiamano, mettendo fuori
una piccola parte della propria voce”).
31
Ibid., 384d, p. 266 (trad. Turolla, p. 542; cfr. trad. Giardini, p. 267).
32
Ibid.
33
Ibid.
34
Ibid., 385a, p. 266 (trad. Giardini, p. 267: “il nome con il quale uno chiama ciascuna
cosa, questo è il vero nome per essa”).
35
Ibid.
36
Ibid., 385b, p. 266 (trad. Turolla, p. 543; cfr. trad. Giardini, p. 267).
37
Ibid.
38
Ibid., 385c, p. 266 (trad. Turolla, p. 543).
39
Ibid., 385b, p. 266.
40
Ibid.
41
Ibid., 385c, p. 266; in forma di domanda retorica ci si chiede se – nel caso del “discorso [trad. Turolla, p. 543: ragionamento] vero” – si dia che esso sia “tutto vero”, laddove “le
sue parti” non risultino “vere”: `O lÒgoj d> œst∂n ” ¢lhqh\ j pÒteron me\n Óloj ¢lhqˇj, t™
mÒria d> aÙtoà oÙk ¢lhqÁ; Al quesito successivo, se ad essere vere fossero le “parti grandi”
(ibid.: t™ me\n meg£la mÒria ¢lhqÁ), ma non le “piccole” (ibid.: t™ de\ smikr™), recisa ed
inequivoca l’asserzione del vero di “tutte” (p£nta) le parti (ibid.).
42
Ibid.
43
Ibid., p. 268.
44
Ibid. (cfr. anche trad. Giardini, p. 269: “È possibile dunque dire nome falso e nome
vero?”).
45
Cfr. ibid., 385d, p. 268: œmoπ me\n Ÿteron eênai kale√n Œk£stJ Ônoma, Ö œgë œqûmhn,
soπ d e\ Ÿteron, Ö aâ sÚ (trad. Giardini, p. 269: “che a me sia possibile di attribuire a
ciascun oggetto quel nome che io stesso ho posto, e a te quello che hai posto tu”; trad.
Turolla, p. 544).
46
Cfr. ibid., 385e, p. 268 (t™ Ônta).
60
47
Ibid. (cfr. anche trad. Giardini, p. 269: “la sostanza delle cose sia propria particolarmente per ognuno”). Esplicito il riferimento a Protagora nel prosieguo del testo [385e386a]: ésper PrwtagÒraj ⁄legen lûgwn “p£ntwn crhm£twn mûtron” eênai ¥nqrwpon.
48
Ibid., 386e, p. 270 (trad. Turolla, p. 545).
49
Cfr. ibid., 385e, p. 268.
50
Cfr. ibid., 386d, p. 270.
51
Ibid., 386d-e.
52
Ibid., 386e.
53
Cfr. ibid.
54
Ibid., 387a, p. 270 (cfr. anche trad. Giardini, p. 271: “Secondo la loro stessa natura
poi si compiono le azioni e non secondo il nostro avviso”).
55
Ibid., 387b, p. 270 (trad. Turolla, p. 546).
56
Ibid., 387c, p. 270.
57
Ibid.
58
Cfr. ibid., 387d, p. 272: OÙkoàn kaπ Ñnomastûon [œstπn] Î pe/fuke t™ pr£gmata
Ñnom£zein te kaπ Ñnom£zesqai kaπ ú, ¢ll> oÙc Î ¨n h̀me√j boulhqîmen (trad. Turolla,
pp. 546-47; trad. Giardini, p. 273).
59
Cfr. TUROLLA, Introduzione al Cratilo, in PLATONE, I Dialoghi, cit., vol. II, p. 532.
60
PLATO, Cratylus, 388b-c, p. 272 (trad. Turolla, p. 548; più incisivo il Giardini, p. 273:
“SOCRATE Il nome dunque è un mezzo suscettibile di insegnare e di farci cogliere l’essenza
come la spola a proposito del tessuto?”).
61
Cfr. ibid., 388c, p. 274: SWKRATHS <UfantikÕj me\n ¥ra kerk∂di kalîj crˇsetai, kalîj
d> œstπn Øfantikîj: didaskalikÕj de\ ÑnÒmati, kalîj d> œstπ didaskalikîj (trad. Turolla,
p. 548; trad. Giardini, p. 275).
62
Ibid., 388e, p. 274 (trad. Turolla, p. 548; trad. Giardini, p. 275: “Il maestro [...] quando si serve del nome dovrà fare uso dell’opera del legislatore”).
63
Ibid., 391a, p. 278 (trad. Turolla, p. 551; trad. Giardini, p. 279: “quella che sostieni
essere per natura la giustezza del nome”).
64
Cfr. TUROLLA, Introduzione al Cratilo, cit., p. 534.
65
Cfr. ibid.
66
PLATO, Cratylus, 427cd, p. 346 (trad. Turolla, p. 595; trad. Giardini, p. 347: “Questa
[...] a me pare che voglia essere la correttezza dei nomi”).
67
Cfr. TUROLLA, Introduzione al Cratilo, cit., p. 532.
68
PLATO, Cratylus, 427d, p. 346, e 429c, p. 350 (trad. Turolla, pp. 595 e 598).
69
Ibid., 429d1, p. 350 (trad. Turolla, p. 598; cfr. trad. Giardini, p. 351: “affermare il
falso [...] non è assolutamente possibile”).
70
Cfr. ibid., 429d, p. 350: t∂nej o≤ lûgontej [...] kaπ nàn kaπ p£lai.
71
Ibid. (trad. Turolla, p. 590; più stringente e fedele trad. Giardini, p. 351: “CRATILO E
infatti, Socrate, uno, dicendo ciò che dice, come può non dire ciò che è? E non è dunque
questo dire il falso, cioè dire quel che non è?”).
72
Cfr. ibid.
73
Cfr. ibid., 429e, p. 350 (trad. Turolla, p. 598; trad. Giardini, p. 351: “forse non ti
sembra possibile dire il falso, ma sostenerlo sì?”).
74
Ibid. (trad. Giardini, p. 351: “E neppure dire né rivolgere la parola in modo falso?”).
75
Ibid. (trad. Giardini, p. 351: “A me non pare neppure il sostenerlo”).
76
Ibid. (trad. Giardini, p. 351: “farebbe [...] degli strepiti e non altro”).
61
77
Ibid., 430a, p. 350 (trad. Giardini, p. 351: “anche questo potrebbe bastare”).
Ibid. (trad. Turolla, p. 598; cfr. trad. Giardini, p. 351: “SOCRATE Anche questa è bella:
ma chi facesse di questi strepiti griderebbe il vero o il falso, oppure parte di vero e parte di
falso?”).
79
Ibid. (cfr. anche trad. Giardini, p. 351, non molto dissimile).
80
Ibid. (trad. Giardini, p. 351: “non diresti tu che altro è il nome, altro quello di cui è
nome”).
81
Ibid., 430ab, p. 350 (trad. Turolla, p. 598; trad. Giardini, p. 351: “il nome è una
imitazione della cosa”).
82
Cfr. TUROLLA, Introduzione al Cratilo, cit., p. 535.
83
PLATO, Cratylus, 430b, p. 352 (trad. Turolla, p. 599; trad. Giardini, p. 353: “le pitture
[...] sono imitazioni di certi oggetti”).
84
Cfr. ibid., p. 352: taàta ¢mfÒtera t™ mimømata, t£ te zwgrafømata k¢ke√na t™
ÑnÒmata, to√j pr£gmasin ïn mimømat£ œstin (trad. Turolla, p. 599; trad. Giardini, p. 353:
“ambedue queste imitazioni, le pitture e quei nomi” si riferiscono/corrispondono “a quegli
oggetti di cui sono imitazione”).
85
Ibid., 430c (trad. Giardini, p. 353).
86
Ibid. (trad. Turolla, p. 599; trad. Giardini, p. 353: “Quella [...] che conviene a ciascuna cosa e ne riproduce la somiglianza”).
87
Ibid., 430d (trad. Turolla, p. 599; trad. Giardini, p. 353).
88
Ibid.
89
Ibid.
90
Ibid.
91
Ibid.
92
Ibid.
93
Ibid., 430de, p. 352 (trad. Turolla, p. 599; trad. Giardini, p. 353).
94
Ibid., 430e, p. 352 ( trad. Giardini, p. 353).
95
Ibid., 431b, p. 352 (trad. Turolla, p. 600; trad. Giardini, p. 353).
96
Ibid. (trad. Giardini, p. 353).
97
Cfr. ibid., 431c, p. 354 (trad. Turolla, p. 600; trad. Giardini, p. 355).
98
Ibid. (cfr. trad. Giardini, p. 355: “chi mette in opera bene tutte queste risorse, rende
belli i disegni e le immagini”).
99
Cfr. ibid., 431d, p. 354 (trad. Turolla, p. 600; trad. Giardini, p. 355).
100
Cfr. ibid.: kat™ tÕn aÙtÕn lÒgon (“secondo lo stesso criterio”, per Giardini, p. 355).
101
Ibid. (trad. Turolla, p. 600; trad. Giardini, p. 355: “cosa dire di colui che mediante
sillabe e lettere tenta di imitare la sostanza delle cose?”).
102
Ibid. (trad. Giardini, p. 355: “se si riporta tutto ciò che si addice, l’immagine, cioè il
nome, sarà bella”).
103
Ibid., 431c, p. 354.
104
Ibid., 431d, p. 354.
105
Ibid., 431e, p. 354 (trad. Turolla, p. 601; trad. Giardini, p. 355).
106
Ibid.
107
Cfr. anche TUROLLA, Introduzione al Cratilo, cit., p. 535, e per trad., pp. 601-4.
108
PLATO, Cratylus, 433e, p. 358 (trad. Turolla, p. 603; trad. Giardini, p. 359: “i nomi
sono convenzioni e hanno un senso per quelli che sono d’accordo e conoscono da prima
gli oggetti”).
78
62
109
Ibid., 433d, p. 358 (trad. Turolla, p. 603).
Ibid., 433e, p. 358.
111
Ibid., 434a, p. 358 (trad. Turolla, p. 604; trad. Giardini, p. 359: “fa differenza in
modo assoluto tra il dimostrare ciò che uno intende dimostrare con la somiglianza e non
con il modo che capita”).
112
Ibid.
113
Ibid., 434b, p. 358 (trad. Giardini, p. 359: “se per natura non vi fossero stati colori
mediante i quali vengono compiute le pitture, simili a quelli che l’arte pittorica imita?”; e
trad. Turolla, p. 604).
114
Ibid., 435c, p. 362 (trad. Turolla, p. 606; trad. Giardini, pp. 361 e 363: “che i nomi
[…] siano simili agli oggetti”).
115
Ibid., 435b, p. 360 (trad. Turolla, p. 606; trad. Giardini, p. 361: “è necessario in
qualche modo che convenzione e abitudine giovino in qualche modo alla dimostrazione di
quello che diciamo pensando”).
116
Ibid., 435d, p. 362 (trad. Turolla, p. 606; trad. Giardini, p. 363: “Insegnare: […]
chi …”).
117
Ibid., 435de, p. 362 (trad. Turolla, p. 606).
118
Ibid. (trad. Giardini, p. 363: “quando uno conosce il nome qual è – ed è quale l’oggetto – egli saprà anche l’oggetto, poiché si trova a essere simile al nome, e una sola arte è
questa di tutte le cose simili tra loro”).
119
Ibid., 436a, p. 362 (trad. Turolla, p. 607; trad. Giardini, p. 363).
120
Ibid., 436b, p. 362 (trad. Turolla, p. 607; trad. Giardini, p. 363).
121
Ibid. (trad. Giardini, p. 363: “esiste un rischio non piccolo”).
122
Ibid., 436a, p. 362 (trad. Turolla, p. 607; trad. Giardini, p. 363).
123
Cfr. ibid.
124
Ibid.
125
Ibid., 436d, p. 364 (trad. Turolla, p. 607; trad. Giardini, p. 365).
126
Ibid.
127
Ibid., 438a, p. 366: tÕn tiqûmenon t™ ÑnÒmata ¢nagka√on ⁄fhsqa eênai e≥dÒta
t∂qesqai oƒj œt∂qeto (trad. Turolla, p. 609; trad. Giardini, p. 367: “sostenesti che era pur
necessario che chi poneva i nomi conoscesse bene le cose a cui doveva dare i nomi”).
128
Ibid., 438b, p. 366 (trad. Giardini, p. 367: “non erano stati ancora attribuiti”).
129
Cfr. ibid.: prπn kaπ ”tioàn Ônoma ke√sqa∂ te kaπ œke∂nouj e≥dûnai, e∏per m¬ ⁄sti t™
pr£gmata maqe√n ¢ll> À œk tîn Ñnom£twn (trad. Turolla, p. 609; trad. Giardini, p. 367:
“prima che fosse stato assegnato qualunque nome ed essi ne fossero a conoscenza, se non è
dato imparare gli oggetti se non attraverso i nomi?”).
130
Ibid. (trad. Giardini, p. 367: “che essi sapendo attribuissero i nomi o fossero
legislatori”).
131
Ibid., 438c (trad. Giardini, p. 367: “[...] più grande rispetto a [...]”).
132
Ibid. (trad. Turolla, p. 609).
133
Ibid. (trad. Giardini, p. 367).
134
Cfr. ibid., 438d, p. 366 (trad. Turolla, p. 610; trad. Giardini, p. 364: “dimostri, senza
i nomi stessi […] la verità delle cose”).
135
Ibid. (trad. Turolla, p. 610; trad. Giardini, p. 367: “è contesa tra i nomi”).
136
Ibid. (trad. Giardini, p. 367: “essere proprio loro simili alla verità”).
137
Ibid. (trad. Turolla, p. 610).
110
63
138
Cfr. ibid. (trad. Turolla, p. 610).
Cfr. TUROLLA, Introduzione al Cratilo, cit., p. 532.
140
PLATO, Cratylus, 438d, p. 366 (trad. Giardini, p. 367).
141
Ibid., 438e2 (trad. Turolla, p. 610).
142
Ibid. (cfr. trad. Giardini, p. 367).
143
Ibid.
144
Ibid. 439a, p. 368 (trad. Turolla, p. 610).
145
Ibid. (trad. Turolla, p. 610).
146
Ibid.
147
Ibid.
148
Ibid., 439b, p. 368 (trad. Giardini, p. 369: “o […] dalla verità sia la verità stessa e
l’immagine sua se è stata compiuta a dovere”).
149
Cfr. ibid., 439a, p. 368 (trad. Turolla, p. 610).
150
Cfr. ibid., 439ab, p. 368 (trad. Turolla, p. 610).
151
Cfr. ibid., 435d, p. 362 (trad. Turolla, p. 606; trad. Giardini, p. 363); cfr. supra, nn.
117-18.
152
Ibid., 439b, p. 368 (trad. Giardini, p. 369).
153
Ibid. (trad. Turolla, p. 611; trad. Giardini, p. 369: “non dai nomi ma molto di più da
se stesse le cose vanno imparate e ricercate”).
154
Ibid., 439c, p. 368 (trad. Turolla, p. 611; trad. Giardini, p. 369: “[con questa convinzione] che tutte le cose andavano e scorrevano”).
155
Ibid. (trad. Turolla, p. 611).
156
Ibid. (trad. Turolla, p. 611; più aderente la trad. Giardini, p. 369: “essi stessi, precipitando come un turbine, ne sono sconvolti e trascinandosi dietro anche noi, ci buttano
dentro”).
157
Cfr. ibid. (trad. Turolla, p. 611).
158
Cfr. ibid. (trad. Giardini, p. 369).
159
Ibid. Per il “bello in sé”, che “è sempre tal qual è”, cfr. ibid., 439d: tÕ kalÕn oÙ
toioàton ¢e∂ œstin oƒÒn œstin; (trad. Giardini, p. 369).
160
Cfr. ibid., 439b, p. 368 (trad. Turolla, p. 610).
161
Cfr. ibid., 439c, p. 368 (trad. Turolla, p. 611).
162
Cfr. ibid., 435e, p. 362 (trad. Turolla, p. 606); ed anche ibid., 439b, p. 368 (trad.
Giardini, p. 369: “l’immagine […] compiuta a dovere”).
139
64
MENTIRE NELLE LETTERATURE
MEDIEVALI ROMANZE
di VINCENZO MINERVINI
Le letterature medievali romanze, e in particolare quella in lingua d’oïl, potrebbero definirsi luogo geometrico della menzogna se si interpretasse alla lettera il passo dei Documenti d’amore (ca. 1309-1314) in cui Francesco da Barberino dichiara:
«Nec tibi tollo, ubi omnino non sunt vetera, que scribuntur de Tabula et de Hector
et de aliis; dummodo vilitates cornuallienses derelinquas, Tristanum propterea non
obmictes. De paladinis autem loqui hodie videtur exosum, nec multum cara lectura
gestuum Guillelmi de Auringia et similium, quorum fabule tam aperta fingunt
mendacia»1. Il sostantivo finale sarà da intendersi senza connotazione negativa:
vuol dire semplicemente che quelle «fabule» sono finzioni, creazioni della fantasia
poetica, immagini di storie non reali, non documentate e non documentabili, ma
non soltanto e brutalmente ‘falsità’. Se assumiamo in questi termini il giudizio dei
Documenti sulle principali espressioni della letteratura occitanica, ci accorgiamo
che Francesco da Barberino non è un recensore severissimo: mentre sembra condannare in blocco le «vilitates cornuallienses» (cioè, in sostanza, la “materia di
Bretagna”, il ciclo arturiano e lo stesso Chrétien de Troyes), nel settore del romanzo cortese salva espressamente «Tristanum», nato da un secondo filone della tradizione celtica rielaborata dai poeti francesi del XII secolo, e mentre dichiara detestabile l’epica («De paladinis»), non esclude, anche se non più à la page, la lettura «gestuum Guillelmi de Auringia»; e così suggerisce anche qualche percorso
sulla via della menzogna in letteratura.
L’appassionata vicenda di Tristano e Isotta alla corte di Marco, re di Cornovaglia,
non segue il canone del silenzio imposto agli amanti della tradizione trobadorica:
se la richiesta e l’accettazione del servizio d’amore imponevano un attento controllo su ogni minimo e insignificante gesto per non incorrere nell’occhiuto sospetto e nella delazione dei lauzengiers (i nemici, i rivali, i benpensanti)2, la moglie
e il nipote di Marco, riacquistata in qualche modo la fiducia del re, non si curano
della segretezza:
Sovent vienent a parlement,
Et a celé et voiant gent3.
E proprio la regina, ancora contro la norma, conduce il gioco, valendosi di una
straordinaria capacità di sfruttare le risorse del juramentum dolosum, della calliditas
verborum4: non distorce l’evidenza, ma l’afferma in modo che l’intenda chi vuole o
deve intenderne il codice. Tali sono i momenti in cui dichiara in pubblico:
65
Li rois pense que par folie,
Sire Tristran, vos aie amé;
Mais Dé plevis ma loiauté,
Qui sor mon cors mete flaele,
S’onques fors cil qui m’ot pucele
Out m’amistié encor nul jor!,
e appena un po’ più avanti:
Mex voudroie que je fuse arse,
Aval le vent la poudre esparse,
Jor que je vive que amor
Aie o home qu’o mon seignor5.
L’affermazione è corretta nel suo aspetto esteriore, ma il significato reale è
quello sottinteso: «cil qui m’ot pucele» non è Marco, che la notte delle nozze fu
messo a letto in stato di ebbrezza e giacque con la compiacente Brengain, né è
Marco il «seignor» che gode dell’amore di «Yseut la bele o le chief blont»
(v. 4250); e tutti quelli che devono sapere capiscono il senso dell’ultima affermazione della regina6, nel momento cruciale del processo alla presenza di Marco e
dello stesso re Artú:
Or escoutez que je ci jure,
De quoi le roi ci aseüre:
[...]
Q’entre mes cuises n’entra home,
Fors le ladre qui fist soi some,
Qui me porta outre les guez,
Et li rois Marc mes esposez.
[...]
Li ladres fu entre mes janbes.
L’effetto di queste parole è immediato: tutti i presenti, pienamente convinti, ripetono in coro:
Ele a juré et mis en vo
Q’entre ses cuises nus n’entra
Que li meseaus qui la porta
Ier, endroit tierce, outre les guez,
Et li rois Marc, ses esposez7.
Isotta, dunque, afferma ripetutamente la propria fedeltà, nega di aver avuto
rapporti con Tristano e, nel difendersi contro «li felon, li losengier» (v. 427),
si affida ancora, con una fiducia che si percepisce consapevole e quasi irridente,
66
ai meccanismi dell’anfibologia, in cui trova la formula e le parole adatte per celare
l’arrière-pensée nascosta dietro il significato letterale, e il giuramento è accolto
come valida testimonianza a discarico.
Combinando i dati di Béroul con il posteriore Tristan di Goffredo di Strasburgo,
si ottiene l’immagine di un’epoca e di una figura: il giudizio del «Mal Pas» sancisce “il delinearsi di una fisionomia etica nuova, a cominciare dal XII secolo, sullo
sfondo di un intreccio di idee morali differenti per genesi. Isotta dunque mente,
non solo, ma trascina con sé almeno una volta nella menzogna, incredibilmente, il
«consenso di Dio» […]. Brangania esclama: «il buon Dio, mia signora, vi ha aiutata, lui che non ha mai mentito… perché non vuole il dolore delle creature generose e leali come voi» […]. Goffredo aggiunge che «Cristo cortese» dà palese prova
della verità delle parole della regina, intervenendo con un miracolo: facendo sì
che il ferro rovente che Isotta deve stringere fra le mani (la «prova») non intacchi
la sua pelle bianca”8.
Se Isotta si batte contro accuse non prive di fondamento, altrettanta fermezza
pone un’altra innamorata nel testimoniare l’esatto contrario: di aver avuto rapporti, numerosi rapporti9, con un paladino di Francia.
Il Voyage (o Pèlerinage) de Charlemagne è molto meno noto delle «vanitates
cornuallienses» per evitare qui una brevissima presentazione del suo argomento.
Carlo organizza una spedizione con il programma ufficiale di compiere un pio
pellegrinaggio ai luoghi santi e di cercare di riportarne qualche reliquia a edificazione dei cristiani d’Occidente; al ritorno passerà da Costantinopoli per rinsaldare l’amicizia con l’imperatore d’Oriente e per constatare di persona (questa è la
futile ma vera spinta all’improvviso viaggio) chi dei due regga meglio e più alta sul
capo la corona imperiale. Alla corte di Costantinopoli i Franchi non si comportano in maniera irreprensibile: rischiano l’irreparabile quando i dodici pari sfrenano
la fantasia in una serie di scommesse da vecchia caserma o da bassa goliardia ai
danni del loro ospite; vanterie che, regolarmente riferite, fanno infuriare il re
«Hugue li Forz», che li prende in parola e a sua volta scommette sulle loro teste se
non riusciranno a compiere le stravaganti imprese.
La prima ad essere messa alla prova è quella di Olivieri:
«Gabbez, sire Olivier», dist Rollanz li curteis.
«Volenters, dist li quens, mais Carles li otrait.
Prenget li reis sa fille, qui tant ad bloi le peil,
en sa cambre nus metet en un lit en requeit;
si jo ne l’ai anut, tesmoign de lui, cent feiz,
demain perde la teste: par covent le otrai»10.
A tale smisurata dichiarazione di potenza lo stesso «eschuz», l’uomo di Ugo
assegnato al servizio dei Franchi, non riesce a trattenersi:
67
«Par Deu!, ço dist li eschuz, vus recrerez anceis!
Grant huntage avez dit: mais que.l sacet li reis,
en trestute sa vie mes ne vus amereit»11.
E infatti re Ugo minaccia:
Mais faille une feiz par sa recreantise,
trancherai lui la teste a ma spee furbie:
il et li duze per sunt livred a martirie12.
Ma a letto, nel segreto della camera, Olivieri rivolge parole da vero amante
cortese alla fanciulla che, intenerita e fatta certa che l’incontro non le procurerà
disonore (cioè pubblica onta), si dispone a giurare il falso: di essere stata posseduta cento volte, come vantato da Olivieri, sebbene in realtà «li quens ne li fist, la
nuit, mes trente feiz»13.
Salvata la vita e ricevuta pubblica attestazione della sua preminenza, Carlo si
appresta a ritornare in Francia. Il commiato di Olivieri dalla principessa non è
esaltante, sa della ‘normale’ conclusione di un amore di guerra:
si sunt muntet Franceis, qui a joie s’en vunt.
La fille.l rei Hugun i curt tut a bandun
la u veit Oliver, si.l prent par sun gerun:
«A vus ai jo turnet m’amistet et m’amur,
que m’en portez en France: si m’en irrai od vus!».
«Bele - dist Olivers - m’amur vus abandun.
Jo m’en irrai en France od mun seignur Carlun».14
Il racconto medievale, però, ha sempre una qualche forma di risarcimento, di
compensazione alla dismisura: durante quelle «trente feiz» Olivieri ha generato in
Jacqueline (così aveva nome la figlia di re Ugo) un figlio, chiamato Galien, che
entra per diritto di nascita nella grande famiglia dei Narbonesi, amici turbolenti e
sudditi non sempre accondiscendenti dei Carolingi: in quanto figlio di Olivieri, è
nipote di Garin de Monglane e, quindi, secondo cugino di Guglielmo d’Orange, il
«Guillelmus de Auringia» ricordato da Francesco da Barberino.
Questo Galien “part encore jouvenceau pour l’Occident en quête de son père
qu’il n’a jamais vu”15, e il destino lo porta a Roncisvalle appena in tempo per raccogliere le ultime parole del padre e assistere alla morte di Rolando: esempio di
pietà e di ritorno a quella misura che il gab del padre e la complicità amorosa della
madre avevano oltrepassato.
Di fronte a tanta gioia d’amore si cantano e si leggono, per molti secoli ancora,
misere storie di prolifici rapporti extraconiugali che le rispettive protagoniste sono
costrette a confessare, per puro caso, a distanza di anni dall’evento. La scoperta
68
dell’adulterio è la fase conclusiva di un tema tradizionale ampiamente e lungamente coltivato, cui non creano ostacolo le varianti formali con le quali è conosciuto. In breve: una dama – non a caso, e questo è molto significativo, sempre una
signora d’altissimo rango – è improvvisamente posta nella condizione di dover
ammettere l’antico ‘errore’ (il tradimento realizzato e tenuto ben nascosto anche
in presenza di un figlio spacciato per legittimo) a causa di un intervento del tutto
imprevedibile come l’arrivo di ‘qualcuno’ che, da un segno apparentemente insignificante, perviene alla scoperta del vecchio tradimento16.
In questo schema si collocano agevolmente la novella D’uno savio greco, c’uno
re teneva in pregione, come giudicò d’uno destriere17 e l’episodio del «filòsof de
Calàbria» nel Tirant18.
Sia il greco che il calabrese, con parole quasi esattamente identiche19, spiegano
al re (Filippo di Macedonia e un non identificabile «rey de Cicília») le pecche del
cavallo e della pietra preziosa, e poi - divergendo nell’approccio alla rivelazione,
perché nel Novellino il re stesso pone il quesito sulla sua nascita, mentre nel Tirant
è l’inviperito filosofo che manda a dire al re che è un bastardo e, quindi, usurpatore
del trono – illustrano il ragionamento che li ha condotti alla sconvolgente scoperta20. I due re hanno la medesima reazione: convocano la madre e la obbligano
(«con minacce feroci», «ab prechs e ab menaces») a parlare: «La madre confessò
la veritade», «ella consentí a l’apetit e volentat del forner».
La redazione catalana più recente21, ascrivibile, per dati interni al codice in cui
è stata copiata, a un periodo di poco anteriore al 1513, presenta la variante prevista da Fourrier: “Une variante du même conte remplace le premier et le second
des dons du sage, c’est-à-dire la connaissance des pierres précieuses et des chevaux,
par la divination des tares secrètes que recèlent les mets ou les boissons servis à la
table royale”22. Ma c’è anche una innovazione: il protagonista non è uno, ma sono
«tres germans aspeinyolls» che, separatamente, esprimono il proprio giudizio sul
banchetto offerto dal «rey de Ffranse»; il più giovane apprezza il convito ma aggiunge: «crech que vostre Senyoria sia fil de algun pastiser; he asò perquè tostemps
demenau de sa pa»; il re chiama la madre e, «per grat» o «per fforsa», l’obbliga a
confessare: a corte lavorava, appunto, un «pastiser» che:
anava tot aremengat e mostrava las suas carns, les quals heren molt blanchas he
molt dellicadas. Paregueren-me tan belles que.l requarí un vespre jagués ab mi.
E per so, senyor, crech vos seríau ffil de aquel.
In tutti i casi è sintomatico, e sostanzialmente in linea con il comportamento di
Isotta e Jacqueline, il fatto che le dame o hanno ceduto indecorosamente alle voglie di un uomo di ceto inferiore o hanno esse stesse agognato ed esplicitamente
richiesto il rapporto che poi hanno abilmente mistificato23. Segno di emancipazione femminile, di confusione di ruoli, di segreta rivincita su uno status coniugale
non soddisfacente, o anche sintomo della reazione borghese a certi comportamenti
69
(si pensi solo all’erotica trobadorica o al motivo che muove la pastourelle, prima di
giungere allo jus primae noctis) non sempre irreprensibili della nobiltà?
E torniamo, infine, a Guglielmo d’Orange, che ricorre ripetutamente all’inganno come strumento per conseguire i massimi benefici per la fede, per «dulce
France», per sé e la sua larga famiglia: conquistare o riconquistare feudi e terre
nelle regioni a cavallo dei Pirenei occupate dai saraceni.
La menzogna, cui Guglielmo ricorre a cuor leggero, trova sempre simpaticamente complici ascoltatori e lettori della geste perché è priva della malvagità, della
cattiveria che rende odiosa la menzogna. Si ha la netta sensazione che, quando
prepara e realizza i suoi stratagemmi, gli espedienti ‘militari’ grazie ai quali davanti a lui cadono città e si arrendono migliaia di ‘infedeli’, quando, insomma, decide
di ‘mentire’, il primo a sorriderne o a riderne senz’altro è proprio lui (e il riso è
“uno dei tratti identificanti” di Guglielmo: «s’en ad un ris geté» diventa formula
epica che, come un documento d’identità, lo individua tra tutti: «Connoistront
vos a la boce et au rire»24). L’eroe forte e astuto non è meno valoroso e strenuo dei
Carolingi in combattimento, ma lo affronta con una buona dose di giovialità e di
ironia, spesso di autoironia, come quando trasforma «la boce qu’il ot ensor le
nes»25 in motivo di vanto orgoglioso:
Li cuens meïsmes s’est iluec baptisiez:
«Des ore mais, qui mei aime et tient chier,
Trestuit m’apelent, Franceis et Berruier,
Conte Guillelme al Cort Nes le guerrier»26,
o come quando, in imminente pericolo di essere riconosciuto dal saraceno re Otrant
proprio per via del «cort nez», spergiura di essere stato punito con la mutilazione
del naso in gioventù, perché sorpreso in flagrante reato di furto27.
Elemento base della menzogna di Guglielmo è la necessità di negare la propria
identità, di dissimulare quei ‘segni particolari’ (il riso e la «boce») che lo rendevano riconoscibile senza il minimo dubbio, di non svelarsi, di nascondersi dietro
uno schermo: un oggetto, un abito, una modalità espressiva: “On peut saisir encore
d’autres nuances dans la gaieté de ce personnage humain et très vivant: le goût de
la moquerie, tantôt sarcastique, tantôt voilée d’humour, tantôt affectueuse, le plaisir
de la ruse, de la mystification, des bons tours joués aux païens, car ce vaillant, dans
sa lutte contre les mécréants, ne dédaigne pas l’art de la tromperie (il se déguise en
marchand pour entrer dans Nîmes, en Sarrasin pour entrer dans Orange, il revêt
l’armure du païen Aerofle dans Aliscans et dupe un moment ses poursuivants
d’autant mieux qu’il sait parler leur langue”28.
Il XIII secolo segna una svolta nella chanson de geste: la società che si avvia a
diventare borghese è stanca di narrazioni epiche, dell’esaltazione dell’eroismo
guerriero, delle spedizioni militari in nome di un ideale che sempre più apertamente si rivela poco ‘cristiano’. Lo spirito di questa società è mercantile e tollerante,
70
incline più a concreti rapporti d’affari che a improbabili crociate, e non è certo
per caso se il ciclo di Guglielmo in qualche modo prende il sopravvento su quello
di Carlomagno e dei paladini.
L’anomala epopea di Guglielmo d’Orange contribuisce così, sul versante stesso dell’epica, alla demistificazione di riti e miti della cavalleria feudale, già posti in
crisi, sul versante cortese, dalle bugie di Isotta.
1
FRANCESCO DA BARBERINO, I Documenti d’Amore, a c. di F. Egidi, Roma, Società Filologica
Romana, vol. I, 1905, «apparatus per eundem Franciscum compositus», pp. 100-101.
2
Cfr. A. MONSON, Les lauzengiers, in “Medioevo romanzo”, XIX, 1994, pp. 219-235, e
in particolare pp. 228-230 sul ruolo dei lauzengiers nel Roman de Tristan: “celui de relancer
les soupçons de Marc chaque fois que ceux-ci en viennent à se dissiper”.
3
BÉROUL, Le roman de Tristan, a c. di E. Muret, Parigi, Champion, 1928, vv. 577-578.
Per le varie situazioni del Tristan di Béroul resta fondamentale il lavoro di P. Jonin, Les
personnages féminins dans les romans français de Tristan au XIIe siècle, Aix-en-Provence,
Éditions Ophris, 1958, qui a p. 188.
4
Cfr. P. JONIN, op. cit., pp. 103-105, e M. A. LIBORIO, La logique de la déception dans les
romans de Tristan et Yseut, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale – sezione romanza”, XXIII, 1981, pp. 151-163, in particolare pp. 156-157.
5
BÉROUL, vv. 20-25 e 35-38.
6
M. A. LIBORIO, art. cit., pp. 158-159.
7
BÉROUL, vv. 4199-4213 e 4226-4230. La «fabula» tristaniana di amore e di menzogna
fu immediatamente recepita dai provenzali. Bernart de Ventadorn (attivo fra il 1147 e il
1170) e Raimbaut d’Aurenga (attivo fra il 1147 e il 1173) scrivono rispettivamente: «plus
trac pena d’amor / de Tristan, l’amador, / que.n sofri manhta dolor / per Izeut la blonda»
(Tant ai mo cor ple de joya, vv. 45-48), e: «Vejatz, dompna, cum Dieus acor / dompna que
d’amar s’agrada. / Q’Iseutz estet en gran paor, / puois fon breumens conseillada; / qu’il fetz
a son marit crezen / c’anc hom que nasques de maire / non toques en lieis» (No chant per
auzel ni per flor, vv. 41-47); si cita da M. de Riquer, Los Trovadores. Historia literaria y
textos, t. I, Barcellona, Editorial Planea, 1975, pp. 374 e 432.
8
M. T. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Le bugie di Isotta: immagini della mente medievale, Bari-Roma, Laterza, 1987, pp. 28-29.
9
In una rilettura aggiornata, l’episodio rientra senza dubbio nello “schema narrativo”
(descritto da d’A.S. AVALLE, Introduzione a VESELOVSKIJ-SADE, La fanciulla perseguitata,
Milano, Bompiani, 1977, p. 18) che prevede “la ‘ripetizione’ della prova sessuale, che in
Boccaccio raggiunge cifre iperboliche, quasi fiabesche: ‘Ed essa che con otto uomini forse
diecemilia volte giaciuta era’”.
10
“Gabbate, sire Olivieri” disse Rolando il cortese. “Volentieri” disse il conte, “se Carlo lo consente. Prenda il re la sua figlia, che ha capelli così biondi, e ci metta tranquilli in un
letto in camera sua. Se, per sua stessa testimonianza, non la posseggo stanotte cento volte,
sto al patto di rimetterci domani la testa”. Edizione e traduzione di G. FAVATI, Il «Voyage de
Charlemagne en Orient», Bologna, Palmaverde, 1965, vv. 484-489, pp. 231-232. Cfr. anche
Il viaggio di Carlomagno in Oriente, a c. di M. Bonafin, Parma, Pratiche, 1987.
71
11
“Per Dio!, disse la scolta. “Vi stancherete prima! Il vostro proponimento è quanto
mai oltraggioso: se il re lo viene a sapere, vi detesterà per tutta la vita” (vv. 490-492, ed.
Favati cit., p. 232).
12
“Manchi però la mèta anche di una sola volta per sfinimento, e gli taglierò la testa con
la mia spada forbita: egli e i dodici pari saranno condannati a morte!” (vv. 697-699, ed.
Favati cit., p. 237).
13
“Il conte durante la notte non la possedè che trenta volte” (v. 726, ibidem). Sull’episodio di Olivieri in particolare cfr. S. CERON, Un gap épique: Le Pèlerinage de Charlemagne,
in “Medioevo romanzo”, XI, 1986, pp. 175-191.
14
Per questi vv. 851-857 adotto, perché più convincenti e comprensibili, testo e traduzione dell’ed. Bonafin cit., pp. 86-87: “e i Francesi montano in sella, partendo con gioia. La
figlia del re Ugo accorre precipitosamente quando vede Olivieri, e lo prende per la tunica:
«In voi ho riposto la mia amicizia e il mio amore, portatemi in Francia, verrò via con voi!».
«Cara – disse Olivieri –, il mio amore ve lo lascio. Io me ne andrò in Francia con Carlo, mio
signore»”.
15
J. FRAPPIER, Les Chansons de geste du Cycle de Guillaume d’Orange, vol. I, Parigi,
Société d’édition d’enseignement supérieur, 1955, p. 35. Nella canzone a lui dedicata (Galien
le Restoré, dell’inizio del XIII secolo) Galien perverrà alla ‘restaurazione’ guadagnando
l’Impero d’Oriente.
16
Cfr. A. FOURRIER, Le courant réaliste dans le roman courtois en France au Moyen-Age,
Parigi, Nizet, 1960, p. 216: “Le conte populaire des trois dons, d’origine orientale, met
traditionnellement en scène un «sage», vieillard ou jeune homme, [...] qui possède une
étonnante connaisance des pierres précieuses, des chevaux et des humains”, e che, attraverso i ‘doni’, rivela al suo signore che “lui-même, le roi, est un enfant illégitime, né d’un
adultère de sa mère avec un homme de vile condition (valet, boulanger ou cuisinier)”.
17
Il Novellino, a c. di G. Favati, Genova, Bozzi, 1970, pp. 125-129.
18
J. MARTORELL – M. J. DE GALBA, Tirant lo Blanch, a c. di M. de Riquer, Barcellona,
Biblioteca Perenne, 1947, cap. CX, pp. 278-283; cfr. anche M. DE RIQUER, Història de la
literatura catalana, Barcellona, Ariel, 1964, p. 676.
19
Il cavallo ha le orecchie basse perché «fu notricato a latte d’asina» o «ha mamat llet
de somera», e la pietra non vale nulla perché al suo interno ha «un vermine» o un «cos viu».
20
«Messere, quando io vi dissi del cavallo cosa così maravigliosa, voi mi stabiliste dono
d’un mezzo pane per dì; e poi, quando della pietra vi dissi, voi mi stabiliste un pane intero.
Pensate che allora m’avidi cui figliuolo voi foste: ché se voi foste suto figliuolo di re, vi
sarebbe paruto poco di donarmi una nobile città, onde a vostra natura parve assai di meritarmi di pane, sì come vostro padre facea».
«Senyor – dix lo filòsof – raó natural basta a conèixer-ho un ase, e açò per les següents
raons. La primera és, com diguí a la senyoria vostra de les orelles del cavall [...], fés-me
gràcia de quatre onces de pa. Aprés, senyor, lo fet del balaix [...]. E per qualsevulla d’estes
coses me devíeu fer traure de presó e fer-me alguna gràcia; e no he obtesa de vós sinó gràcia
de pa. Per natural raó haguí a venir a notícia que la senyoria vostra era fill de forner e no pas
d’aquell, de gloriosa memòria, rei Robert».
21
P. VILA, Un conte català de començament del segle XV: els tres germans i el rei de
França, in Literatura i llengua catalanes a l’edat moderna, a c. di A. Rossich e P. Balsalobre,
[= “Estudi general”, 14], Girona, Universitat, 1994, pp. 49-57.
22
A. FOURRIER, op. cit., p. 216.
72
23
Il tradimento pregresso si può interpretare come un ramo minore del più ampio motivo della donna falsamente accusata d’adulterio, sul quale si innesta poi – partendo dal
nucleo storico di un analogo evento verificatosi tra l’830 e l’831 alla corte di Ludovico il Pio
– il tema della falsa accusa a un’imperatrice d’Alemagna. In quest’ultima forma la leggenda
ottiene vasta risonanza in Catalogna, dove si alimenta dell’ostilità contro la corte francese e
specialmente contro i più vicini rivali angioini fino a individuare in un «bon comte de
Barcelona» il campione che si leva in difesa dell’onore della dama: cfr. J. RUBIÓ I BALAGUER,
Les versions catalanes de la llegenda del bon comte de Barcelona i de l’emperadriu d’Alemanya,
in Història i historiografia, Barcellona, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 1987,
pp. 268-316 (prima in “Estudis Universitaris Catalans”, XVII, 1932, pp. 250-287), e
A. FERRANDO, Fortuna catalana d’una llegenda germànica: el tema de l’emperadriu d’Alemanya
falsament acusada d’adulteri, in Actes del Xè Col.loqui Internacional de Llengua i Literatura
Catalanes (Frankfurt am Main, 18-25 de setembre de 1994), Barcellona, Publicacions de
l’Abadia de Montserrat, vol. III, 1996, pp. 197-216.
24
Cfr. D. MADDOX – S. STURM-MADDOX, Il discorso intertestuale nel ciclo di Guillaume,
in L’epica, a c. di A. Limentani e M. Infurna, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 305-321.
25
Moniage Guillaume II, v. 1053.
26
Le Couronnement de Louis, vv. 1161-1164.
27
Le Charroi de Nîmes, vv. 1202-1243.
28
J. FRAPPIER, op. cit., p. 97. Cfr. anche M. Infurna, Guillaume d’Orange ou le chevalier
au déguisement: il motivo del travestimento nel ciclo di Guillaume, in “Medioevo romanzo”, X, 1985, pp. 349-369.
73
L’OCCHIO INGANNATO
Ambiguità e lusinga nell’illusione di realtà. Motivazioni
e poetica dell’inganno: Escher, Kosuth, Warhol
di EUGENIO GIANNÌ
Quali i motivi che inducono a parlare di menzogna nell’arte? Può l’arte, espressione dello spirito, trarre in inganno? Se viene meno l’affidamento nell’attività che
tende a trascrivere in segni visivi le infinite vicissitudini dello spirito, le delusioni
come le frustrazioni, le battaglie psicologiche, che spesso rendono la vita un dominio incontrastato di ribellione e di morte, cosa resta della creatività? E’ possibile
fare dell’arte e contribuire alla crescita morale e spirituale dell’uomo quando sembra rappresentare un inganno, una manipolazione? E’ veramente un’illusione,
un’apparenza, una lusinga?
Una delle motivazioni che fa dell’arte un inganno è la capacità dell’artista di
trasformare l’illusione in specchio della realtà. Non a caso parliamo di menzogna
come “apparenza”: intenzione esplicita di ingannare deformando la realtà. Un
modo, si direbbe, per soggiogare gli osservatori. Ma anche una malattia, spesso
patologica, oltre che immaginaria, in cui il malato “dell’Arte” trova difficile distinguere il vero dal falso. Arte, perciò, come Illusione, tanto grave perché come la
menzogna soddisfa più del vero.
Nella storia non è una novità: l’arte greca è un esempio impareggiabile nel
momento in cui propone dei “canoni della perfezione”, come se questa non fosse
l’insieme armonioso d’elementi eterogenei. Della menzogna se n’è servito Giotto,
quando inserisce nell’impianto dell’opera personaggi col merito di aver derubato
gli altri e utilizzata parte dei profitti per soddisfare l’orgoglio di santità. E’ il caso
del Giudizio universale (1306) nella Cappella degli Scrovegni a Padova, nella cui
opera Enrico Scrovegni è rappresentato in atto di offrire alla Vergine la chiesa a lei
consacrata frutto, appunto, dell’esercizio dell’usura.
Ma è anche il caso di Piero della Francesca quando propone nella Pala d’altare
(1472-1474) della Pinacoteca di Brera il Bambino con al collo un rametto di corallo
e un uovo appeso al soffitto contravvenendo al senso religioso della purezza con il
connubio di sacro e profano.
Dell’illusione se ne sono serviti in molti; un’attività sovente fruttuosa, che ha
indotto ha studiare alla perfezione i meccanismi tecnici e scientifici per fare dell’apparenza lo specchio della verità. Vale per Mantegna quando dipinge nella Camera degli sposi del Palazzo Ducale di Mantova (1471-1474) dei putti maliziosi
intenti a guardare dall’alto e suggerire una suggestiva visione spaziale; ma anche
per Andrea Pozzo quando dipinge la finta cupola nella cappella della chiesa di
74
S. Flora e Lucilla ad Arezzo. Ecco l’illusione, la lusinga della menzogna. Un’arte
sintomatica dell’inganno. Un sistema che fa del falso la matrice del vero.
È su questo sentiero che s’inserisce l’opera grafica di Escher e dalla quale veniamo lusingati sino a perderci nei meandri degli interstizi. Qui, come nei casi
esposti, l’inganno figurale ha da fare non tanto con l’artista, che è chiamato a
capovolgere o ribaltare l’informazione determinando una traslitterazione semantica
dei segni (di cui è consapevole), ma col cervello, vale a dire con quel particolare
organo di senso che non trova validi motivi di conforto se non nella natura. Quando parliamo di menzogna in senso figurato, ci riferiamo ad una decodifica che
distoglie il percetto dalla sua presentazione formale e lo propone come controparte della realtà.
I principi da cui muove Escher traggono origine, appunto, da tale sistema di
rappresentazione, lo stesso che caratterizza la prospettiva: ciò che l’osservatore
percepisce come struttura tridimensionale è conseguenza di una distorta
acquisizione dei segni che sostengono la riduzione della realtà in immagine bidimensionale.
Quando nel 1958 Escher realizza la litografia del Belvedere, ha davanti a sé una
grande consapevolezza sulle ambiguità e le illusioni dovuta a conoscenza ed esperienze di lavoro. Un fenomeno già conosciuto, come accennato, dagli artisti greci e
dagli stessi architetti Ictino e Callisto che, di fronte alla distorta “visione” del frontale del Partenone, sono costretti ad una correzione portando in avanti le colonne
laterali. Un fenomeno studiato nell’età moderna, in particolare dagli psicologi quando si resero conto che le ambivalenze davano adito alla percezione di strutture
tridimensionali. Progettando, infatti, un’immagine le cui caratteristiche sono quelle del cubo, ma lontana dalla sua realtà, Necher fornisce le condizioni che hanno
reso familiare la menzogna. Dove si annida l’inganno? Nel fatto che il cervello,
avendo detratto dalla natura il codice di lettura, ogni volta che si trova a decodificare
un segno che richiama la medesima presentazione visiva applica la stessa regola e ne
trae un’opposta conclusione. Così una linea obliqua, che nella realtà è percepita
come segno di “profondità”, diventa tale anche per l’immagine rappresentata.
Altezza, larghezza e profondità, i tre elementi che definiscono la tridimensionalità
dell’oggetto, ponendosi nell’identica distribuzione spaziale, inducono i neuroni a
adottare lo stesso sistema di lettura. La conseguenza è l’inganno.
Il fatto è che non è facile distinguere, a livello di codice visivo, una rappresentazione bidimensionale da una tridimensionale: fotograficamente manifestano le
stesse caratteristiche. Sfruttando, dunque, le “difficoltà” neuronali di lettura tra
immagine bidimensionale ed oggetto tridimensionale, l’artista volge a suo favore
un sistema che fa dell’inganno la verità.
Escher, pensando al Belvedere, ha chiaramente in mente il cubo di Necher.
Anzi, parte proprio da questa struttura, dal foglio di carta sul quale sono riportate
le “linee del cubo”, non l’oggetto “cubo”. Una costruzione, dice l’autore, che
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è “un’assurdità cubica”, una menzogna, appunto, e che lascia pensieroso non solo
il ragazzo intento a decifrare l’enigma del disegno ma anche l’osservatore. Il ragazzo osserva l’incomprensibile figura, è vero, ma non si accorge che alle spalle ha
una costruzione che propone lo stesso enigma. Le due persone che salgono la
scala non si rendono conto, infatti, non appena giunte a destinazione, di trovarsi
fuori dell’abitazione e che necessitano di rientrarvi. Una situazione, perciò, analoga a quella dell’arte quando offre il mondo della rappresentazione come uno spaccato della realtà.
Dall’inganno escheriano alla menzogna come finzione poetica dell’Arte Concettuale il passo è breve. La genesi si deve al concetto d’opera d’arte, vale a dire
all’idea d’artisticità, da sempre contrapposta alla póiesis. Se per póiesis s’intende
l’elemento inconscio che permette la realizzazione dell’opera senza richiedere un’assoluta necessità, ma quale espressione di libera istintualità, per artisticità s’intende
l’insieme organizzativo delle forme secondo metodi e canoni stabiliti: dunque necessari. In altri termini - per seguire la logica di Migliorini -, se la póiesis è l’irrazionalità, l’artisticità è la razionalità, cioè l’oggetto rivestito di “valore”. Questo significa che l’arte, la quale va perseguita, non rientra nelle competenze dell’istinto, per
tale ragione non è possibile alcuna relazione tra póiesis e artisticità. Se il valore
dell’arte sta nella sua finalità e autonomia, vale a dire nei suoi contenuti, e se non
può garantire una definizione sul piano formale, essa è solo apparenza. Quanto,
infatti, oggi si tende a rilevare è proprio l’aspetto insignificante della forma attraverso la quale essa si presenta. Di qui la necessità dell’intervento di qualcuno che
la rivesta di valore, che asserisca la sua validità come opera d’arte, indipendentemente dalla realtà dell’oggetto. Ne consegue lo scadimento del mezzo per il quale
veicolarla: infatti, se la forma è priva di senso quale necessità vi è di stabilire dei
rapporti tra Emittente e Ricevente passando per il Mezzo (la forma)? Se le cose
stanno così, l’oggetto è inutile; ma anche l’artista, vale a dire l’Emittente. È questa
la linea programmatica della poetica dadaista e minimalista, che ha abusato del
prodotto industriale sprovvisto di uno specifico artistico. L’asserzione che un oggetto non può di per sé essere un’opera d’arte ma necessità di un riconoscimento
per il quale è “inserito” tra gli “oggetti d’arte”, comporta il riconoscimento di un
“valore aggiunto”, che può avvenire in modi diversi: con una dichiarazione, una
proposizione, un atteggiamento, ecc.
Qui il divario tra minimalisti e concettualisti si fa profondo: se per i primi il
valore è riposto sull’oggetto, per i secondi è l’idea che conta, la quale può risolversi in un gesto, in una parola o in un pensiero. Così, se un oggetto può diventare
un’opera d’arte, ogni concetto, ogni idea, è arte. Di qui la poetica della Land-Art:
se i solchi o cumuli di terra non possono essere trasportati ma semplicemente
documentabili con fotografie, il progetto, vale a dire il concetto dell’operazione, è
la vera opera.
Distrutto l’oggetto non resta che il concetto. È il primo passo che compie Kosuth
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quando in One and three chairs (Una e tre sedie) affianca ad una sedia una fotografia della stessa ed una gigantografia della parola chair. Oggetto “sedia”, immagine
fotografica e testo verbale costituiscono un percorso che dall’oggetto porta al concetto. Ma è anche la strada che porta all’annullamento l’utilità dell’oggetto. La
devianza, e quindi l’inganno, sta nel sostituire all’oggetto il concetto. Rileva giustamente Buren:
[...] si può affermare, senza troppi rischi, che nel momento in cui un concetto è
annunciato, e soprattutto “esposto” in quanto arte, con la volontà di abolire
l’oggetto, di fatto lo si sostituisce; il “concetto” esposto diventa oggetto-ideale,
ciò ci riporta una volta di più all’arte tel qu’il est, cioè all’illusione di qualche
cosa e non a quella cosa.1
Siamo, come si può comprendere, sul terreno dell’inganno. Tanto più quando
andiamo a leggere le Sentenze di Sol Lewit, nelle quali troviamo che
[...] concetto e idee sono diversi. Il primo indica una generale direzione, mentre
le seconde sono i componenti. Le idee riempiono il concetto… Solo le idee possono diventare opere d’arte… Non è necessario che tutte le idee siano rese fisicamente… L’artista può usare ogni forma, da un’espressione di parole (scritte o
parlate) alla realtà fisica, allo stesso modo.2
Contro l’oggetto e contro la fisicità: ecco gli estremi del problema. Al centro la
póiesis, che, non potendo essere “significata” ma “sperimentata”, costituisce un’ancora di salvezza, poiché, sprovvista di una struttura propria, soddisfa il principio
della negazione. Di qui la dichiarazione di Weiner: L’opera d’arte esiste dal momento in cui viene annunciata pubblicamente. Si potrebbe non averla prodotta, ma
semplicemente pensata: essa, col fatto che è nella mente dell’artista, è arte.
A rafforzare tale posizione interviene Kosuth. Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni, consapevoli che l’attività dell’artista abbraccia ambiti diversi e si prestano ad innumerevoli interpretazioni. La prima posizione che lo avvicina a Weiner
è data da una serie di massime:
1.
2.
3.
4.
Assumere volontariamente un quadro mentale.
Spostarsi volontariamente da un aspetto della situazione all’altro.
Tenere a mente simultaneamente vari aspetti.
Capire l’essenziale di un dato completo nelle sue parti e isolarle volontariamente.
5. Generalizzare: astrarre proprietà comuni; programmare in modo ideativo;
assumere un atteggiamento nei riguardi del “mero possibile”. E pensare o
agire simbolicamente.
6. Distaccare la propria identità dal mondo esterno.
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L’ambiguità, alla quale Kosuth ricorre, si annida nella diversa resa interpretativa:
da una parte una serie di proposizioni indicative sulla poetica concettualista, dall’altra delle proposizioni atti a far sorgere momenti operativi poietici la cui scansione
sta solo nella numerazione d’ordine: 1, 2, 3, ecc. Non avendo, tuttavia, un contesto artistico entro cui inserirsi, appaiono come degli enigmi nella loro neutralità
propositiva. Prive di senso, o di scarso significato, si presentano come una forma
di pubblicità della quale il fruitore è chiamato a ricercarne il senso.
Enigmi sono anche gli indovinelli presentati dallo stesso Kosuth nella mostra
di Leverkusen realizzata nel 1969:
A. In una determinata banca i posti di cassiere, direttore e contabile sono coperti da Brown, Jones e Smith, anche se non necessariamente in quest’ordine.
Il contabile, che è figlio unico, è quello che guadagna di meno. Smith, che
ha sposato la sorella di Brown, guadagna più del direttore.
B. Quale posizione occupa ciascuno?
La risposta Kosuth la fornisce, sempre all’interno dello stesso catalogo, in pagine successive: “Brown è il direttore, Jones il contabile, Smith il cassiere”.
La banalità del testo sta nel disorientamento che provoca nel lettore e nel valore che l’indovinello ha di per sé. Una banalità che riappare ogni volta Kosuth si
propone in pubblico, come nell’ossessionante testo:
223. Exteriority.
224. Interiority.
225. Centrality.
226. Layer.
227. Covering.
228. Skin, ecc.
oppure
327. Calore.
328. Riscaldamento.
329. Cottura.
330. Combustibile.
331. Incombustibilità, ecc.
È ovvio che tali testi non sono “oggetti d’arte”: intanto perché non hanno una
propria “oggettività”, poi perché non sono il risultato di un’operazione artistica,
ma semplici inserzioni pubblicitarie pagate dallo stesso artista. Dov’è l’inganno?
Nella volontà di fare dell’arte una filosofia o, come rileva Migliorini, nel porre
“l’arte dopo la filosofia”. Kosuth, in altri termini, intende capovolgere il sistema
hegeliano al fine di fare dell’idea il fondamento dell’arte. Il titolo dato ad una sua
nota è, infatti, sintomatico: Art after philosophy.
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Se l’arte è concettuale, perché esiste solo concettualmente, ogni idea è un’opera d’arte. E poiché il concetto è un dono che la natura porta a maturazione in ogni
“essere vivente”, ogni essere è portatore d’arte. Dunque l’arte è “tutto” come “tutto”
è arte. Se le cose stanno così, l’arte si è data al rogo da sola ed Hegel torna a
riappropriarsi della sua vittoria.
Che questa sia una menzogna, può non essere chiara all’artista, non all’osservatore, che ha una sua specifica sensibilità non riducibile ad una “messa in scena”.
Se “solo le idee possono diventare opere d’arte” (Buren), il processo che porta
all’accettazione della menzogna come “intenzione esplicita dell’inganno” è inevitabile. Soprattutto se manifesta “fini utilitaristici”. A questo punto “la deformazione volontaria del vero” diventa un’inevitabile esigenza interiore.
Warhol persegue questa strada quando pone il concetto di “serialità” come
condizione fondante dell’arte, vale a dire quando fa della serialità non una diffusione della cultura artistica ma del sistema. Vediamo in che modo.
Va detto, innanzitutto, che Warhol è la personificazione dell’America stessa,
della cultura così come dell’economia, e dell’America ha fatto un’immagine che
ha propagandata come esempio tangibile di un prototipo a cui uniformarsi. Di là
della diffidenza d’alcuni, l’offrire un insieme d’esperienze ingannevoli, fondate
sulla quotidianità dei soggetti, ed una “etichetta” che costituisce la matrice di una
possibile storia “tutta americana”, fa della Pop Art un’affermazione immediata. Se
il New Dada trova nel dadaismo di Duchamp, di Man Ray e Schwitters un collegamento con la storia europea, della Pop Art non si hanno antecedenti inconfutabili.
Non solo, se in passato si era bloccati all’idea “arcaizzante” dell’opera d’arte
come prodotto unico, e perciò ad una forma di comunicazione “elitaria”, Warhol,
puntando sulla comunicazione di massa, trasforma l’evento artistico - unico ed
irripetibile - in un’esperienza quotidiana. Di qui l’origine della Pop Art, che trova
nella Pubblicità la consorella, ma anche la consapevolezza che se un’opera pubblicitaria, realizzata con l’apporto diretto del committente, si pone come “prodotto
personale”, anche l’arte può giustamente sottostare alla stessa legge e conseguire il
medesimo risultato. Se il percorso è tempestato da interventi esterni all’artista,
allora il prodotto più che determinare un impatto sul pubblico lo deve sull’artista;
e se la pubblicità è il veicolo che meglio di ogni altro offre l’occasione di consumare un prodotto, l’arte non può che accogliere tale meccanismo per fornire un’informazione che è l’equivalente di quella pubblicitaria. Ma non solo, se è il committente a “dettare” le leggi, ad imporre la propria volontà, è giusto che l’arte si
adegui ed offra non tanto quello che l’artista pensa di avere in mente quanto quello che il fruitore desidera.
Quanto ne consegue è il rifiuto dell’invenzione o creazione dell’opera d’arte.
Ciò che l’artista mette in circolazione, che siano immagini di Marlon Brando tratte
da Il Selvaggio o di Liz Taylor o di Marilyn Monroe o delle confezioni della
Campbell’s, ecc., sono opere non detratte dal mondo delle idee ma dalla quotidianità
79
dei messaggi pubblicitari. Dunque un repertorio che appartiene più al fruitore
che non all’artista. Lo scopo, ovviamente, è di rendere possibile l’illusione della
trasmutazione dell’immagine pubblicitaria in opera d’arte. Se questa, poi, viene a
soddisfare le esigenze recondite d’ogni cittadino, meglio ancora: vuol dire che si è
gratificato il desiderio di possesso comune a tutti gli uomini. Non un’arte per
pochi, ma per tutti. Un’illusione, perciò, perfetta!
Illusione, è vero, poiché si è soddisfatta un’esigenza nascosta, ma che ha originato sogni proibiti. Se moltiplicando l’opera si offre a tutti l’oggetto del desiderio,
si è raggiunto il massimo della creatività. E poiché si è offerta una copia, che è
l’originale dell’originale, l’illusione diventa realtà e l’opera seriale “opera unica”.
Ridotta l’arte a “sistema” non si è fatto che allontanarla dal dominio dell’idea e
dello spirito; ma non solo, detratto dalla strada l’oggetto, si è condotta l’arte nel
dominio del concetto. L’arte di Warhol, infatti, non risiede nel manufatto seriale
ma nella consapevolezza, cioè nel concetto che l’artista ha dell’opera.
Altro aspetto, che fa dell’inganno la strada del successo, è l’eliminazione della
visione “binoculare” dell’opera. Elaborando opere serigrafiche in cui la presenza
e l’assenza, figura e colore, sfasatura e cancellazione vengono meno, l’artista impedisce che le cellule abilitate alla percezione giungano alla decodifica. Ciò determina momenti di oscurità visiva che vengono accolti come conseguenza di un inganno neuronale, ma che sono il frutto della menzogna. E’ il caso dei Flowers, allestimento presso la galleria Ileana Sonnebend di Parigi organizzato nel 1965, che
Warhol ha ripetuto in altre occasioni con soggetti diversi, come Cow Wallpaper,
presso la galleria Leo Castelli di New York nel 1966, e Orange Car Crash a Colonia, al Waòòraf-Richartz-Museum nel 1963.
Sintomatica, a questo punto, una frase che in qualche modo chiude la sua vita,
ma che offre la chiave di lettura del tipo d’inganno propagandato nel nome dell’arte e che è connessa alle scelte: “Mi resi conto che qualsiasi cosa stavo facendo
doveva essere morte”.
Di cosa testimoniano gli eventi citati? Fiori, incidenti stradali, volto di Marylin
Monroe, ecc. sono fotogrammi di una morte annunciata. Morte dell’artista, è vero,
ma prima ancora morte dell’arte, seppure tenuta nascosta dall’illusione della realtà. I fiori proposti non sono doni formali della natura ma illusioni di uno spaccato
concettuale adombrato dalla morte. La stessa serialità, con la quale l’artista tende
a rivitalizzare l’arte è morte, tenuta nascosta dalla menzogna perché potesse, da
morta, maturare i suoi frutti e lusingare gli uomini. E di questi frutti Warhol ha
vissuto senza privarsi di nulla se non della propria coscienza.
1
2
A. MIGLIORINI, Conceptual art, Firenze, Il Fiorino, 1979, p. 94.
Ibid., p. 95.
80
LES MAUX/MOTS DU MENSONGE
DANS LE SANG NOIR DE LOUIS GUILLOUX
par NICOLE LE DIMNA
La galaxie lexicale dans laquelle s’inscrit le verbe “mentir” ne manque pas d’impressionner: abuser, faire usage de faux, suborner, falsifier, escroquer, frauder,
contrefaire, travestir, frelater, simuler, leurrer, farder, ou plus familièrement estamper, pigeonner, rouler, posséder, filouter, gruger, bidonner, truquer, bidouiller,
truander, embobiner, circonvenir, enjôler, emberlificoter, en faire accroire, mener
en bateau, faire marcher, bourrer le mou, dorer la pilule, raconter des bobards,
blouser, piper, couillonner, arnaquer… Cette liste, à peine ébauchée, à laquelle il
faudrait adjoindre celles, tout aussi riches, des adjectifs et des substantifs et encore celle des titres littéraires qui les inscrivent, confirme que le mensonge est
assurément l’une des choses du monde les mieux partagées. Qui en eût douté?!
Louis Guilloux est l’un de ces écrivains que l’omniprésence du mensonge dans
la société humaine, sorte de tare originelle (nous évitons le terme “péché” – le
Menteur n’est-il pas le Diable par antonomase – pour ne pas attribuer à l’œuvre
des connotations qui n’y sont pas manifestes) tourmente jusqu’à l’obsession. Sa
première œuvre, La Maison du Peuple (1927), montre comment tous les espoirs de
progrès social du petit peuple ouvrier de Saint-Brieuc sont trahis par un homme
politique qui renie ses promesses aussitôt élu. Dans Hyménée (1932), la faillite du
couple repose essentiellement sur le mensonge par omission de la jeune fille qui
laisse croire qu’elle est enceinte. Dans Angélina (1934), la vie de la famille se dégrade à partir du moment où le fils tombe dans un traquenard visant à briser son
engagement politique. La calomnie de la mère, à la fois victime et bourreau, soutenue par la complicité de sa fille Angélina, second mensonge qui structure le texte,
parachève cette dégradation. Ce texte qui dénonce aussi la trahison de l’enseignement scolaire comme le fera encore efficacement Le Pain de rêves en 1942 et l’imposture de la guerre, annonce par bien des aspects le chef-d’œuvre de Guilloux,
Le Sang noir, dans lequel toutes ces formes de mensonges sont présentes et exposées de façon encore plus approfondie1.
L’hypocrisie, les mensonges et compromissions de la société bourgeoise d’une
petite ville provinciale en laquelle il est aisé de reconnaître Saint-Brieuc, à l’époque
de la première guerre mondiale, sont en effet le thème de l’œuvre publiée en
1935 et qui eût fort bien pu s’intituler “Les Faux-monnayeurs” si ce titre avait
encore été disponible2. C’est en effet ce mot qui s’impose à l’esprit de façon
constante à la lecture du texte. Tous les personnages sont, chacun à leur
façon, des “faux-monnayeurs” comme l’atteste la présence dans le texte de
81
nombreux termes figurant dans la liste précédemment citée, et tout particulièrement la récurrence presque obsessionnelle de: “escroc”, “escroquer”, “escroquerie”, “vol”.
La fourberie, la rouerie, la perfidie, la malhonnêteté intellectuelle se matérialisent en Nabucet, professeur au lycée, l’homme qui vit et prospère dans le mensonge, moyen justifiant des fins les plus médiocres. Nabucet s’édifie en modèle
d’homme respecté, bourgeois instruit et raffiné, tenant à distance qui pourrait
nuire à sa cause comme son hôte, le capitaine Plaire, “car le maladroit n’en restait
pas moins capable d’allusions qui révèleraient [qu’il] avait menti quand il avait
prétendu que son père était ‘un gros entrepreneur’ comme il avait menti quand il
avait parlé des ‘réceptions’ de sa mère”, (pp. 65-66). Reniant ses origines modestes, s’abaissant à espionner, flatter, il instrumentalise sa culture pour jeter de la
poudre aux yeux à un public qui ne demande qu’à s’en laisser conter, comme le
confirme l’épisode de la cérémonie en l’honneur de la femme du préfet qui suffit à
lui seul à tracer le portrait du personnage tout en ébauchant en toile de fond celui
de ses comparses:
Nabucet se promenait à petits pas à travers la salle et souriait. Une fois de plus,
il se félicitait qu’il n’eût pas été possible d’utiliser la salle des fêtes ordinaire. La
bibliothèque était bien préférable, et cette combinaison offrait divers avantages
qui lui plaisaient fort. D’abord, cette bibliothèque, bien que vaste, ne l’était tout
de même pas assez pour qu’il fût “matériellement” possible d’inviter les blessés
eux-mêmes à venir voir décorer leur bienfaitrice […] Un autre avantage: la cérémonie dans un tel cadre, prendrait tout naturellement le caractère d’une réception particulière et, comme c’était Nabucet qui tiendrait le rôle de maître de
maison, il pourrait à peu de frais se donner l’illusion qu’il recevait personnellement tout ce beau monde […] Il se tournerait et ferait une allusion savante à la
célèbre page de Paul de Saint-Victor qu’il donnait depuis tant d’années à apprendre par cœur à ses élèves. “Béni soit le paysan grec…”. Comme les autres –
Cripure excepté – ne sauraient pas qui est ce Paul Saint-Victor, on prendrait
Nabucet pour un érudit, autre avantage à ne pas négliger.3
Nabucet, le mensonge triomphant, est en effet l’antagoniste du héros Cripure
qui, lui, représente le mensonge subi, inextricable filet dont l’homme, pris dans ses
mailles, ne peut se libérer. Si Guilloux s’inspire pour ce personnage d’un modèle en
chair et en os, le philosophe Palante, son écriture se laisse guider par la légende
bretonne. Cripure, dont le surnom oblitère le véritable nom, Merlin, le magicien
enterré vivant, trahi par la fée Viviane (“Il avait espéré [...] rompre le charme, briser
l’enchantement ou le maléfice qui le retenait prisonnier”, p. 578), est l’homme entravé, prisonnier: “depuis longtemps il n’était plus qu’un homme des fonds, garrotté” (p. 140) dont la société se moque tandis qu’elle admire et applaudit Nabucet
– sans même se méfier du “sourire jaune et méchant qui découvrait ses fausses
dents” –, ce simulacre d’homme instruit, cultivé, respectable, faux dieu, fausse idole.
82
Avec Cripure, le mensonge assume la forme plus subtile du mensonge à soimême: “Il ne savait plus lui-même quelle part de comédie, quelle part de réalité
étaient en lui” (p. 497). Le professeur de philosophie est aussi un faux-monnayeur,
“un escroc” murmure à trois reprises son ex-élève Etienne (p. 57), qui vient d’assister au dénigrement des travaux de Turnier (inspirés du philosophe briochin
Lequier), objet de sa thèse universitaire. C’est en fait avec lui-même qu’il règle ses
comptes, piétinant des idéaux qu’il ne sait que trahir. Il est déchiré entre son être
et son vouloir être, son moi et ses “pas moi” (p. 470), comme si ses compromissions étaient le fait d’un autre, d’un étranger: “Tout cela était d’un autre, d’un
étranger” (p. 25).
Ses actions sont constamment en désaccord avec sa pensée. Il accompagne à la
gare un fils bâtard, qu’il n’a pas la force d’aider à déserter s’il était cohérent avec
lui-même. Comme n’importe quel bourgeois il va à la banque régler ses affaires,
compte avec volupté ses louis d’or. Ses paroles mêmes trahissent sa pensée. Ne vat-il pas jusqu’à prononcer un discours exagérément patriotique, diamétralement
opposé à ses convictions, comme si “hurler avec les loups”, était une contrainte:
Il s’était montré une fois plus chauvin qu’eux tous réunis. Personne ne l’avait
contraint à dire ce qu’il avait dit, l’année dernière dans ce discours de distribution des prix. Il aurait fort bien pu se borner aux banalités nécessaires, rester
dans les généralités pédagogiques, blaguologiques comme il disait, au lieu de se
lancer dans une apologie aussi grossière des héros. Ils ne lui en demandaient pas
tant (pp. 157-158).
Expérience qu’il réitère en affirmant, dans le sillage des discours de Babinot et
allant jusqu’à imiter son goût discutable pour les bons mots: “L’Allemand est lourd
et balourd” (p. 317). Force lui est de reconnaître qu’il appartient au troupeau,
qu’il n’est “rien que l’un d’eux” (p. 23):
Je retrouve dans mon cœur, sans la moindre surprise, sans l’ombre d’un dégoût,
des sentiments que j’ai tant cru haïr chez les autres: une certaine peur qui peut
bien aller jusqu’à la lâcheté, et en face de ceux que j’ai toujours considérés comme
mes ennemis, une certaine flatterie, et la plus basse de toutes: celle qui emprunte le masque de l’ironie et de l’indépendance (pp. 236-237).
Sa seule audace: “J’ai su percer le mensonge mais là s’est arrêtée mon audace”.
(p. 230), sa seule action, sera le geste spontané d’asséner une gifle à l’odieux Nabucet
qui vient de se trahir ouvertement par une phrase qui lui échappe: “nous les materons”, une gifle qui sanctionne globalement tout ce que celui-ci représente, accompagnée de ces paroles: “Vous en avez menti” (p. 375). Mais ce geste symbolique, libératoire, ne peut sauver Cripure de ses contradictions. Celui-ci assiste,
tenaillé par la douleur, jusqu’à l’issue fatale, à cet écartèlement de lui-même,
inéluctable, semble-t-il:
83
Peu probable qu’il ait jamais l’audace d’un acte de délivrance. Ici, rien ne
poussait au joyeux courage libérateur: tout poussait à un courage désespéré,
où la mort coïncidait avec la levée d’écrou. Monde fini. Usé jusqu’à la
corde (p. 141).
Cripure représente l’échec et le sentiment de culpabilité d’une génération d’intellectuels, héritière des vices d’une société bourgeoise qu’elle condamne, dont la
littérature de l’entre-deux-guerres offre de multiples exemples4.
Autour de ces deux protagonistes gravite une foule de personnages acteurs ou
spectateurs de la comédie du mensonge.
Babinot, autre professeur du même lycée, est le mensonge sous sa forme caricaturale: les “abracadabrantes sornettes” (p. 297), la frime (p. 296), ...
Porte-parole d’une idéologie patriotique outrancière – il ne salue plus ses collègues en demandant “Comment allez-vous?”, mais “Comment va la France?”
(p. 284) – il se fait rabrouer par des militaires auxquels il veut lire de force ses
poésies patriotiques, que ceux-ci qualifient sans ambages de “bobard” (p. 287).
Capable de se “monter le coup” tout seul, et de se poser en censeur du mensonge
“Disons ce que nous pensons, toujours. Jamais de mensonges!” (p. 314) il invente
une sinistre histoire d’espionnage à laquelle il est le seul à croire et qui suscite
l’hilarité de Cripure, témoin de la scène en question.
Ce personnage moliéresque – auquel personne n’ose annoncer la mort de son
fils – est cependant plus pathétique que comique. La plupart des personnages
sont d’ailleurs à la fois victimes et bourreaux:
Rien de ce que disait, de ce qu’était Babinot ne prêtait plus à rire, dès qu’on le
regardait ainsi non plus dans un visage qui n’était qu’un masque en carton, mais
dans sa vraie chair tendre qui commençait à se défaire, à se décoller et à pendre
sous les maxillaires, à se gonfler comme se gonfle la chair des cadavres […] Il y
avait un Babinot qui tonnait contre les Boches, le Babinot héroïque et imbécile
de tous les jours et un autre, le vrai, qui pleurait des larmes silencieuses sur la
mort prochaine de son fils et sur son propre destin (p. 318).
Un autre personnage important de la vaste fresque de Guilloux – il ne nous est
guère possible que d’en sélectionner quelques-uns parmi les plus représentatifs –
est le notaire Maître Point, ex-élève du fameux lycée, l’un des notables de la bourgeoisie briochine représentée. L’argent est pour lui la seule valeur, qu’il importe
d’amasser sans trop de scrupules, comme le prouve l’appropriation par abus de
confiance, supercherie, de la maison de deux vieilles filles qui en mourront de
chagrin. Cet être “véreux”, “marron” ou “pourri” 5, ne fait preuve d’aucun autre
intérêt, pas même envers sa famille, ce qui le contraint de temps à autre “à avoir
l’air d’avoir l’air” (p. 223). Il est d’ailleurs en bonne compagnie car dans les autres
familles les rapports se réduisent aussi à “un misérable jeu de cache-cache où
chacun trouvait le moyen de tricher” (p. 29).
84
Simone, sa fille, qui a été à bonne école non seulement chez elle mais aussi chez
son amant Kaminsky, un intellectuel polonais désabusé, illustre un autre paradigme du mensonge: l’hypocrisie qu’elle pratique comme l’un des “beaux-arts”
(p. 217). C’est en utilisant les armes de la société bourgeoise qu’elle méprise qu’elle
tente de s’en libérer. Ayant volé de l’argent à son père pour pouvoir partir à Paris
avec Kaminsky, elle défie son père en le lui disant, en anglais, langue qu’il est
incapable de comprendre. Telle la marquise de Merteuil – c’est dans la couverture des Liaisons dangereuses qu’elle a caché les billets – elle entend bien se servir
de Kaminsky pour réaliser sa fuite:
De ce projet, elle s’était bien gardée de souffler le moindre mot à quiconque. Un
instinct vigoureux l’avait avertie de se taire jusqu’au moment d’agir, et ce moment était venu. Tant qu’il s’agissait de toilettes, de manières, de choses apprises, elle avait laissé à Kaminsky la flatteuse pensée qu’elle lui en était redevable,
mais sur les choses comprises elle avait toujours pris grand soin de se taire, et
cet esprit fin, ce profond psychologue que croyait être Kaminsky, ne s’était douté
de rien (p. 216).
Sorti d’un roman de Dostoïevski, Kaminsky est un joueur, ou parfois un démon,
toujours à mi-chemin entre vérité et mensonge: “Je ne m’engage jamais tout à fait
dans rien […] Je ne suis pas un fou d’absolu” (p. 427). Kaminsky joue constamment: en témoigne cette parodie de l’amour pour laquelle lui et Simone travestissent
leurs identités, s’appelant Natassia et Batuchka. Madame de Villaplane, veuve bien
vite fatiguée de “jouer la comédie de la grande douleur” (p. 175), amoureuse du
Polonais, et d’ailleurs prête à de pitoyables mensonges pour attirer son attention, ne
s’y trompe pas en l’insultant à plusieurs reprises de “comédien”. Simone elle-même
lui fait remarquer, lorsqu’il raconte avoir terrorisé une vieille femme en plaçant une
couleuvre dans un bénitier, qu’une couleuvre, c’est aussi un mensonge: “avaler des
couleuvres”. Il se pourrait fort bien que toute l’histoire ne soit qu’invention, fabulation: “Il y avait donc un peu de théâtre dans cette affaire?” (p. 427). Contrairement
aux autres représentants de la société briochine, Kaminsky ne songe nullement à
nier ce rôle que l’homme joue vis-à-vis de lui et de ses semblables, il le revendique
plutôt, exaspérant une situation apparemment consubstantielle à l’homme:
Va pour le mensonge [...] Vous avez tous le droit de penser que j’ai menti.
Et moi aussi, dit-il en se rasseyant. [...]
- Aux mystificateurs, dit Marcelle.
- Voilà ! Voilà le mot que j’attendais. Bravo ! Tout cela c’est de la blague. De la
littérature (p. 419).
Cynisme mis à part, Kaminsky diffère peu de Cripure, tantôt spectateur de luimême et de ses doubles, tantôt assistant à la comédie qui se joue devant lui: “Cripure
se crut au théâtre [...] Quelle comédie! Et quels comédiens! A aucun moment
85
il ne leur viendrait à l’esprit de dépouiller leur déguisement, de renoncer à débiter
leurs fables si péniblement apprises” (pp. 304-306). L’image théâtrale qui émaille
le texte s’enrichit en puisant encore à la source du mythe. Le profil bovin de l’église
introduit la figure du Minotaure qui transforme la ville en labyrinthe et ses habitants en êtres d’ombre à mi-chemin entre la vie et la mort:
On pouvait sonner à leurs portes: ils ne se montraient jamais sans masques.
Généralement, ils étaient très correctement vêtus, ils avaient même des apparences de vivants, mais un œil un peu exercé pouvait aisément déceler la supercherie: c’étaient bel et bien des morts à qui l’on avait affaire, et malgré toutes les
précautions dont ils s’entouraient, allant jusqu’à se faire décorer et “fabriquer”
des enfants pour mieux cacher leur jeu, jusqu’à devenir quelque chose dans la
cité, les uns professeurs ou médecins, les autres employés de banque ou commis
d’enregistrement, ou même soldats, et ils étaient partis pour la guerre, ce qui
était pousser un peu loin la plaisanterie, ils étaient quand même bel et bien des
morts, des fantômes (pp. 382-383).
Le chef-d’œuvre de ces “âmes mortes” ou de ces “cloportes” (les références à
Gogol et à Flaubert sont explicites), c’est la guerre, le Mensonge suprême, le Mal
absolu6: “connaîtrait-on jamais les dessous de la guerre? Saurait-on jamais les dessous de cette immense saloperie?” (p. 207).
Le Minotaure, comme plus tard chez Camus, est la guerre qui fauche ses victimes, jeunes gens anesthésiés par l’enseignement reçu à l’Ecole. L’intellectuel de
Guilloux est responsable de la trahison de l’Ecole qui s’assigne comme but de
perpétuer les privilèges et qui n’offre comme enseignement que contre-vérités,
bourrage de crâne, propagande. Là, est endoctriné le troupeau des “pauvres
gosses volés, dupés scandaleusement” (p. 141) destinés à servir les intérêts de
quelques-uns:
Presque tous les visages de ces jeunes gens, même les plus virils, exprimaient
une confiance, une crédulité d’enfant, une ignorance pathétique du mensonge.
Il ne leur venait pas à l’esprit qu’on pût les trahir. Ils étaient tout prêts à
mettre la main dans la main de qui les emmenait, pourvu que le conte fût
beau et noble (p. 160).
Et si quelques-uns ont acquis le “savoir”, – Cripure a malgré tout contribué à
éveiller leur intelligence et leur esprit critique – leur “pouvoir” est pratiquement
nul. Le fils Marchandeau sera fusillé pour insubordination. Monfort ne peut
qu’exprimer sa rébellion et son désespoir dans sa poésie:
Vous m’avez trompé
Menti
Vestons
86
Binocles
Souliers vernis
Chapeaux melons
Qui le preniez de si haut!
Montrez voir un peu votre âme immortelle?
A présent
Rien que le vent
Qui tombe
Sur cent mille cadavres (p. 168).
Etienne, avant de partir au front, interroge désespérément son maître Cripure,
en une ultime et vaine tentative de trouver un sens à sa vie et à son sacrifice:
Il aurait voulu être loin déjà, abandonner là cette conversation si pénible, si
menteuse. Comme tout était compliqué, embrouillé, falsifié! Ils s’étaient menti
à eux-mêmes et lui avaient menti en tout. Et Cripure continuait. S’y retrouverait-il jamais? Découvrirait-il jamais sous tant de mensonges une vérité? Auraitil le temps? “Devine ou je te dévore!” Le sphinx ouvrait déjà la gueule: ce soir la
caserne, dans trois mois... (p. 48).
Le seul espoir de “changer la vie” est représenté par Lucien, alter ego de Cripure,
mais jeune et mieux armé, qui sort du cercle dantesque de la petite ville et s’embarque pour l’Angleterre d’où il pourra atteindre la Russie qui fait alors miroiter
l’avènement d’un monde nouveau.
Là est le problème que pose cette importante œuvre de “la condition humaine”,
qui permet de rapprocher Guilloux des plus grands romanciers de ce siècle7: le
mal est-il inéluctable? (La thèse de Cripure sur Turnier, “cet esprit religieux et
lunaire qui vécut dix ans [...] sans s’occuper d’autre chose que de méditer sur les
mystères de la prédestination et du mal” (p. 41) est une mise en abyme qui introduit l’argument dès le début de l’œuvre). Que peut faire l’homme de sa vie? Sa
souffrance n’implique-t-elle pas un certain consentement de sa part comme le laisse
supposer cette phrase de Lawrence que Guilloux reprend à son compte: “Ils ont
un courage admirable pour supporter la douleur, aucun courage pour la rejeter”8.
Est-il capable de bonheur ou bien nécessairement victime de ses pulsions d’agressivité et de mort comme semble l’affirmer Céline avec lequel l’œuvre de Guilloux
instaure un dialogue: “La vérité de cette vie, [...] ce n’est pas qu’on meurt: c’est
qu’on meurt volé” (p. 242)9?
Le langage est impuissant, à moins que ce ne soit “un langage sans mots et par
conséquent sans mensonge” (p. 331):
Non, ce ne sont pas les mots qui peuvent donner la clé d’un Nabucet. La grille
qui permettra de transcrire en clair ce langage chiffré, cherchez-en les éléments
87
ailleurs que dans le dictionnaire! Il existe un langage pour ainsi dire de la peau
et du sang par où le secret du secret se transmet de l’un à l’autre avec une sûreté
infaillible, révélant, je veux bien, dans un monsieur quelconque, le battement
angoissé d’un cœur. Et, par ce chemin, tous les hommes pourraient me devenir
fraternels, je pourrais me reconnaître en chacun d’eux et les aimer. Il y a des
jours où j’ai été tout près de le faire, où ce sentiment poignant d’un malheur
commun dans une fraternité commune a désarmé ma haine (p. 331).
Cripure est en effet un instant tenté de fraterniser avec Nabucet, au fond son
semblable, mais les paroles constituent un obstacle: “aussitôt qu’ils reparlèrent,
leur haine reparut” (p. 378). Les rares moments de vérité, au milieu des clichés,
des lieux communs, des euphémismes et autres politesses (“on ne voulait pas dire
qu’il était tuberculeux. On disait: il est fatigué” p. 325), sont silencieux : l’amour
de Toinette ou le respect du Député Faurel devant la douleur de Madame
Marchandeau: “Il ne dit plus rien: Elle avait compris […] le mot ne vint pas […]
cherchant un geste, un mot. Lequel?” (pp. 543-544). Les mots, tiraillés entre l’univocité du dictionnaire et la “polyphonie” liée au contexte de leur énonciation, se
révèlent, comme le monde, usés jusqu’à la corde, vidés de leur sens, les plus
nobles ayant été certainement les plus galvaudés:
Chaque mot sent la profession, le genre, le courant, le parti, l’œuvre particulière, l’homme particulier, la génération, l’âge, le jour et l’heure. Chaque mot
sent le contexte et les contextes dans lesquels il a vécu sa vie sociale intense;
tous les mots sont habités par des intentions. Dans le mot, les harmoniques
contextuelles (du genre, du courant, de l’individu) sont inévitables.10
L’écriture est une entreprise vaine puisqu’elle ne peut que révéler “un secret
de Polichinelle” comme la Chrestomathie de la douleur de Cripure. La thèse de ce
dernier – avant même qu’il ne s’acharne en toute mauvaise foi contre la personne
de Turnier, philosophe auquel il s’assimile – n’est-elle pas le symbole de
l’imposture?:
Dans l’élaboration de cette thèse il y avait eu un défi et un espoir mêlés. Le défi
avait consisté à se poser en révolté et dans une certaine mesure en martyr ; l’espoir : que Toinette lirait ses pages et qu’à travers elles, le lien brisé se renouerait.
Il avait envoyé ce volume à des amis communs, espérant qu’un jour il tomberait
sous la main de Toinette, qu’elle l’emporterait. Des pages entières n’étaient écrites que pour elle, elle seule en pouvait deviner le sens, l’amertume, la douleur,
elle seule pouvait y répondre (p. 35).
Il est remarquable que seule Maïa, l’ex-prostituée, compagne de Cripure, capable de le “cocufier” sans le “tromper” puisque sans mystères ni dissimulation,
ennemie de la politesse et des bonnes manières, préférant son dialecte gallo natal
au français académique, accomplisse l’exploit de parler un langage sans mensonge
88
et d’être en accord avec elle-même. La dignité de Maïa, personnage apparemment
de second plan, remet en fait en discussion, de façon presque inaperçue “la nature
de l’enjeu, qui n’est rien moins que la question tout entière de l’homme”11.
Dans Le Sang noir, Guilloux sanctionne l’absurde d’un monde dans lequel Dieu
est simple nostalgie: “Le monde est absurde, jeune homme, et toute la grandeur
de l’homme consiste à connaître cette absurdité (p. 51)”, comme est absurde “l’ambition de vouloir se justifier par un livre” (p. 25). Cripure, tout en faisant étalage
d’une énorme culture livresque, et ce n’est pas là la moindre de ses contradictions,
se dit “horripilé par la littérature” (cfr. p. 26). Guilloux participe ainsi indirectement à un débat qui réunira plus tard des écrivains comme Jean-Paul Sartre et
Yves Berger autour de la question: “Que peut la littérature?”. Si le pessimisme de
l’un: “En face d’un enfant qui meurt, la Nausée ne fait pas le poids” s’ajoute à
celui de l’autre: “Alors que peut la littérature? Me voici à présent fort tenté de
dire, cette fois pour de bon, qu’elle ne peut rien. Elle ne peut rien dans tous les
domaines qui touchent au réel”, Ricardou démontrera que c’est bien comme telle
que la littérature dispose, face au quotidien, de sa plus sérieuse efficience”12.
Le parcours littéraire de Guilloux est marqué par ces doutes. L’auteur peut
aisément justifier par les circonstances historiques, le désespoir et le pessimisme
qui lui ont été reprochés à propos du Sang noir: “il est facile d’étendre à la vie tout
entière une condamnation qui ne porte que sur un aspect momentané de la vie”13.
Mais lui-même finira par s’accuser d’avoir laissé trop de place à l’ombre:
Je dois donc m’accuser de mensonge, ou d’impuissance. Comment accepter cela?
Comment aujourd’hui que je sais mieux, que je suis plus lucide, plus courageux,
mieux armé, comment ne voudrais-je pas aller outre, c’est-à-dire me trouver
enfin, naître, approcher du plus près qu’il se pourra une vérité que je sais, une
vérité joyeuse? Il faut changer de vie. Il faut entrer résolument dans une voie
sans mensonge. Cela n’est pas facile, je le sais. Il faudra encore lutter et combattre, mais non plus combattre en accusant et en se plaignant comme je l’ai fait
jusqu’ici, mais combattre pour rejoindre.14
C’est alors – nous sommes en 1950 – que Guilloux se consacre à un roman
auquel il accorde une place très importante, intitulé La Délivrance, dont nous pouvons lire le cheminement dans ses Carnets15 , jusqu’à constater son abandon. Cette
ébauche nourrit le texte Labyrinthe publié sans battage en quatre épisodes dans
“La Table Ronde”, pratiquement ignoré de la critique jusqu’à sa récente réédition16 . Intéressant sous bien des aspects, ce roman témoigne de l’état de grâce
vécu alors par Guilloux : son héros finit par “sortir de prison”, grâce à la solidarité
d’un homme et son avenir est ouvert à tous les possibles17 . La volonté de Louis
Guilloux, prêt à remettre en question au jour le jour sa vérité d’homme et d’écrivain,
pour qui l’honneur est “Une fidélité à soi-même. Une intransigeance absolue”
(p. 45), et qui en a donné l’exemple à maintes reprises par son comportement18 ,
89
est constamment tournée – avec plus ou moins de succès – vers la recherche de la
lumière, vers l’amour de la vie:
La vie nous est donnée, une fois pour toutes, c’est entendu, mais ce qui n’est pas
donné une fois pour toutes c’est l’homme. Le mensonge consiste à vouloir lui
faire croire que sa douleur est fatale, que c’est là sa condition impossible à changer. Mais nous savons, nous, que c’est un mensonge. [...] L’homme n’a pas à se
mépriser, il a à se conquérir. Nous sommes, nous, optimistes, au point de croire
que les tares humaines les plus accablantes, la cruauté, la bêtise même sont des
choses avec quoi nous pourrons en finir un jour. Et que notre optimisme soit ou
non volontaire, cela ne regarde après tout que nous.19
1
On peut évidemment relever de nombreux autres mensonges dans l’œuvre de l’écrivain. Cf., entre autres, le paragraphe “Expérience seconde : l’obscur du mensonge”, in
Y. PELLETIER, Guilloux, l’actuel..., “Europe”, 839 (mars 1999), pp. 151-153. L’une des nouvelles publiées par Gallimard en l’honneur du centenaire de la naissance de l’auteur (1999)
Vingt ans ma belle âge, “Feux follets”, illustre une forme de mensonge peu présente chez
Guilloux: le mensonge “officieux” d’une femme à son mari condamné. Celui-ci joue le jeu
et lui laisse croire que son stratagème a fonctionné. Plus loin, un conte qui rappelle plusieurs épisodes des romans cités s’intitule précisément “Le Mensonge”.
2
Simple constatation qui ne vise nullement à déprécier le choix de Guilloux, au contraire particulièrement efficace: non seulement l’expression “la génération des hommes au
sang noir”, de Giono, s’applique aux survivants de la guerre de 14, comme le rappelle
H. GODARD, Louis Guilloux romancier de la condition humaine, Paris, Gallimard, 1999,
pp. 45-46, mais encore elle caractérise remarquablement bien les personnages de l’œuvre,
à mi-chemin entre la mort et la vie.
3
L. GUILLOUX, Le Sang noir, Paris, Gallimard, 1935, pp. 109-111. Dorénavant les références à cette œuvre seront indiquées entre parenthèses dans le texte.
4
Cf. V. BROMBERT, The Intellectual eroe, Faber & Faber, 1961. Traduzione italiana:
L’Eroe intellettuale, Napoli, ESI, 1966.
5
S’il faut en croire les exemples cités dans les dictionnaires, le mensonge serait consubstantiel à un certain nombre de professions, ce que semble confirmer Weinrich lorsqu’il
cite la longue liste établie par Hermann Kesten : cf. H. WEINRICH, “Linguistica della
menzogna”, in Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, Bologna, Il Mulino, 1976, pp.
155-159.
6
Cf. V. BROMBERT, op. cit., p. 124. Le Mal absolu, Louis Guilloux et la guerre est le titre
d’un ouvrage collectif publié en 1995 par la Ville de Saint-Brieuc (Actes du Colloque de
1994). Cf. aussi M. RIEUNEAU, Guerre et Révolution dans le roman français de 1919 à 1939,
Paris, Klincksieck, 1974, pp. 378-392.
7
Cf. L. GODARD, op. cit., pp. 39-46.
8
L. GUILLOUX, Notes sur le roman, “Plein chant”, 11-12 (1982), p. 193.
9
Phrase qui répond à celle de Céline: “La vérité de ce monde c’est la mort”, Voyage au
bout de la nuit, Paris, Gallimard, 1932, in Romans, Bibliothèque de la Pléiade, t. 1, p. 200.
90
Cf. T. TODOROV, Mikhaïl Bakhtine, Le principe dialogique, Paris, Editions du Seuil,
1981, p. 89. Cf. aussi H. WEINRICH, op. cit., pp. 155-159.
11
L. GODARD, op. cit., p. 196.
12
J. RICARDOU, Problèmes du nouveau roman, Paris, Editions du Seuil, 1967, pp. 16-18.
13
L. GUILLOUX, Notes sur le roman, cit., p. 192.
14
L. GUILLOUX, Carnets 1944-1974, Paris, Gallimard, 1982, pp. 130-158
15
Ibidem, pp. 130-158.
16
“La Table Ronde”, 58-59-60 (octobre-novembre-décembre 1952) et 61 (janvier 1953)
et Paris, Gallimard, 1999.
17
Cf. N. LE DIMNA, Le “labyrinthe” de Louis Guilloux, “Confrontations” Bulletin de la
Société des Amis de Louis Guilloux, 9 (janvier 1999), pp. 33-60.
18
En refusant de désavouer Gide, par exemple, pour son Retour de l’URSS comme le lui
demandait Aragon son directeur au journal “Le Soir” ou encore en prêtant secours aux réfugiés espagnols, polonais... Ou encore en refusant tout engagement officiel: “à l’instant où
vous êtes engagé dans un parti, une église, une maçonnerie, c’est foutu: il faudra dire cette
vérité-là. Et si ce n’est pas vrai ? Et si vous découvriez l’inverse ? Alors il faudra mentir?”,
Un séjour possible sur la terre. Conversation avec Louis Guilloux, “Europe”, cit., p. 182.
19
L. GUILLOUX, Notes sur le roman, cit., pp. 193-194.
10
91
PIERRE ET JEAN1 OU L’ÈRE DU SOUPÇON
CHEZ GUY DE MAUPASSANT
par MARISA BOVE
“L’humble vérité” est l’épigraphe du roman Une Vie, et nous verrons que dans
Pierre et Jean, Guy de Maupassant, fidèle à ses intentions esthétiques et littéraires,
se propose bien de cueillir cette “humble vérité”.
Aborder le thème du mensonge à propos de ce “court roman” peut, à un premier degré, sembler chose simple. La simplicité de l’intrigue ainsi que la clarté
stylistique sont en effet presque déroutantes. Mais si nous lisons l’essai théorique,
intitulé Le Roman, que Maupassant publie en 1888, dans le même volume que
Pierre et Jean2, et qui, pour cette raison, a souvent été erronément considéré comme
une préface3, simplicité et transparence disparaissent. Cette étude4 – ainsi définie
par l’auteur –, se situe au cœur du débat animé par le Naturalisme et les discussions engagées par la publication du Manifeste des Cinq contre La Terre de Zola.
Guy de Maupassant se propose d’éclaircir, auprès de la critique, sa position5 face
aux nombreuses doctrines littéraires de son temps et, prenant ses distances avec
“l’école réaliste et naturaliste”, qui prétend “montrer la vérité, rien que la vérité et
toute la vérité” (p. 705), l’écrivain s’interroge sur la manière d’interpréter et d’exprimer le réel. Il aboutit à la conclusion quelque peu paradoxale qu’il est impossible d’écrire le réel. Il est impossible de “donner une image exacte de la vie”,
(p. 706). Maupassant écrit: “Faire vrai consiste à donner l’illusion complète du
vrai”, et il en conclut que “les Réalistes de talent devraient s’appeler plutôt des
Illusionnistes”, (p. 709), dépassant la philosophie réaliste de Flaubert, son père
spirituel. Devant l’impossibilité de “tout raconter”, l’écrivain doit effectuer un
choix, privilégiant ainsi une “vision personnelle du monde”. Véritable paradoxe
du réalisme donc, puisque la vérité romanesque n’existe pas. Nous empruntons à
Mariane Bury l’oxymore suivant, “la littérature n’est plus un beau mensonge, mais
un mensonge vrai”6 . Il s’agit donc, dans le cadre de ce réalisme illusionniste, de
faire le plus vrai possible afin que le mensonge romanesque devienne un mensonge vrai. Cela dit, même si Pierre et Jean n’a qu’un rapport circonstanciel avec
l’essai Le Roman, il est clair cependant que les deux textes exercent l’un sur l’autre
une action subordonnée et complémentaire, puisque nous retrouvons dans le roman de nombreuses indications techniques énoncées dans l’essai. La principale
correspond au souci de l’auteur de faire vrai, en substituant la vraisemblance à la
vérité. Dans sa volonté d’adhérer à une poétique du réel, Maupassant tire donc le
thème de son œuvre d’un fait divers réel7 . Le sujet qu’il aborde dans ce roman8 ,
écrit dans sa pleine maturité d’écrivain et à l’apogée de sa gloire, est celui de
92
l’enfant illégitime. Le thème du bâtard a toujours hanté Maupassant, auquel on
attribue d’ailleurs trois enfants naturels. Lui-même a souvent douté de sa paternité9 et il n’a jamais rien rétorqué à qui murmurait qu’il était le fils de Flaubert,
son père “littéraire”, dont la grande amitié allait bien au-delà des rapports
strictement littéraires qui les avaient unis. Quoi qu’il en soit, René Dumesnil, dans
son étude biographique sur Maupassant, s’est chargé de lever le doute sur cette
paternité trop rapidement octroyée10. À quelques mois de la mort, en janvier
1893, il s’exclame en plein délire: “Jésus-Christ a couché avec ma mère. Je suis
le fils de Dieu”!
Le titre Pierre et Jean trahit la simplicité prônée par l’auteur dans son essai. La
composition très classique – exposition, action et dénouement11 –, digne des
meilleures tragédies en trois actes, traduit sa volonté de faire vrai, dans la clarté et
la simplicité. Le drame intérieur de Pierre est contenu dans les neuf chapitres qui
composent ce “petit roman”. Le lecteur-témoin assiste en direct à la crise vécue
par Pierre, le fils aîné, qui soupçonne sa mère d’adultère. Ce roman d’analyse
psychologique décrit le passage lent et progressif du soupçon à la certitude de
l’infidélité conjugale de la mère (chap. de I à VI) et la modification des rapports
familiaux qu’une telle découverte implique (VII à IX). À travers un savant mélange des points de vue selon les nécessités de la narration, et un usage subtil du
style indirect libre rapportant les nombreux monologues intérieurs de Pierre,
Maupassant relate la lutte morale qui tourmente, jusqu’au désespoir, la conscience
du protagoniste. Avec l’acuité du regard médical, Pierre qui est d’ailleurs médecin, se met à épier, à observer, avec une rigueur méthodique et une ténacité maniaque, sa mère, puis son frère, jusqu’à ce qu’il acquière la certitude d’avoir été trahi
par cette mère adorée. Le parcours introspectif de Pierre, fait de réflexions, de
déductions, de tentatives de reconstruction d’un passé lointain, s’inscrit dans toute
la durée du roman qui couvre un laps de temps court, deux mois à peine avant de
se résoudre négativement au terme du roman. Cette “ère du soupçon”, qui anticipe l’univers de Nathalie Sarraute, est déclenchée par un héritage complètement
inattendu que Jean, le frère cadet, reçoit du défunt Léon Maréchal, ancien ami de
la famille Roland lorsque celle-ci habitait encore Paris. M. et Madame Roland,
retirés à présent au Havre, tenaient un petit commerce dans la capitale. Le thème
central de l’œuvre tourne en effet autour de cet héritage et autour de la question
principale que soulève ce legs: “Pourquoi ce Maréchal a-t-il laissé toute sa fortune
à Jean?” (p. 762). C’est précisément à partir de cette interrogation banale, mais au
combien légitime et douloureuse, que va naître en Pierre le doute atroce sur l’infidélité de sa mère. L’enjeu d’une telle découverte est élevé puisque tout va se jouer
autour de “cette question criminelle”. Pour ce fils œdipien, comme l’a défini la
critique, incapable d’aimer une femme autre que sa mère (“il n’aimait que sa mère
au monde” (p. 763)), l’énigme à résoudre est de taille. Par ailleurs il faut dire
que l’annonce de l’héritage, dès la fin du premier chapitre, joue le rôle d’un
puissant catalyseur car cette annonce amorce la lente et progressive descente aux
93
enfers dans le monde des soupçons, déclenchant chez Pierre une souffrance morale croissante: “le petit point douloureux” comparé à une “graine de chagrin”
(chapitre deux) deviendra gros comme une tumeur (chapitre sept). Cette souffrance est remarquablement vue et transcrite par notre auteur qui est avant tout
un visuel et un fin connaisseur du naturalisme.
D’autre part, toujours au nom de la vraisemblance psychologique, les sentiments de Pierre ne sont jamais bien arrêtés, les périodes de crise alternant avec
des périodes de rémission durant lesquelles le fils en vient à douter de lui-même:
“Il se pouvait que son imagination seule, cette imagination qu’il ne gouvernait
point, qui échappait sans cesse à sa volonté, s’en allait libre, hardie, aventureuse et
sournoise [...]; il se pouvait que cette imagination seule eût créé, inventé cet affreux doute” (p. 757). Mensonge de la raison donc qui risque de faire basculer
l’homme dans la folie, et qui provoque en Pierre un sentiment de culpabilité: “Je
suis fou, pensa-t-il, je soupçonne ma mère” (p. 767). Mais aussi mensonge de la
conscience qui se dédouble, dévoilant ce que Maupassant appelle “l’autre qui est
en nous” (p. 736): “Il se suspectait lui-même, à présent” (p. 757), accusant “sa
déraison vagabonde”. D’autre part, remarquons que jusqu’au chapitre VII, l’auteur
privilégie le point de vue de Pierre qui cependant ne recevra jamais aucune preuve
concrète de la faute de la mère: ses doutes reposent simplement sur des gestes, des
impressions nées d’un esprit soupçonneux, déformé par la jalousie que suscite
l’héritage de Jean et la réussite sociale, matérielle et affective qui s’ensuivra. En
effet, le petit portrait du défunt, – nous savons que les objets occupent une place
importante dans la symbolique12 de Maupassant – disparu depuis longtemps, réapparaît sur la demande insistante de Pierre qui souhaite vivement y lire une ressemblance entre son frère et Léon Maréchal: “il comparait la figure vivante à la figure
peinte” (p. 780). Mais ce portrait ne constitue pas vraiment une menace, il ne
représente pas en soi une preuve irréfutable de l’adultère maternel car les deux
visages ont “des signes communs [...] mais rien d’assez précis pour permettre de
déclarer: “Voilà le père, et voilà le fils”, (p. 780). Maupassant préfère laisser planer le doute sur la lucidité de Pierre qui, exaspéré par sa jalousie, peut tout simplement être le jouet de ses illusions. Les subterfuges de sa conscience ont peutêtre entièrement fabriqué ce complexe échafaudage mensonger. N’oublions pas
que l’auteur compose la deuxième version du Horla en 1887, c’est-à-dire la même
année que Pierre et Jean13 . Or c’est une attitude, un simple geste de la mère qui
sera décisif pour Pierre, révélant ainsi le bien-fondé de ses soupçons. L’enquête de
Pierre est donc entièrement subjective. Le suspens dure jusqu’au chapitre VII, à
la fin duquel le lecteur est enfin édifié sur la vérité: la jalousie de Pierre et ses
terribles soupçons sont fondés. Sa souffrance de fils et de frère trahi a lieu d’être
puisque Jean n’est qu’un frère utérin, le fruit d’un ancien amour adultère. Aussi
son “désespoir silencieux” explose-t-il littéralement dans le chapitre VII – lieu
des affrontement directs et des confessions – qui sert de charnière à cette “étude
psychologique”14 . La tension intérieure vécue par Pierre depuis un mois trouve
94
son point culminant dans la révélation, brutale et violente, de la vérité à Jean15.
Décrit comme un fou, “l’œil dilaté”, Pierre a besoin de vider son cœur: “et il dit
tout, ses soupçons, ses raisonnements, ses luttes, sa certitude” (p. 801). L’intensité
dramatique de ses aveux est renforcée par la suggestive métaphore médicale de la
plaie qui grossit “comme une tumeur” et qui crève, “éclaboussant tout le monde”
(p. 801). Le rideau16 tombe sur Pierre, que nous retrouvons dans le dernier chapitre, “condamné à [une] vie de forçat vagabond, uniquement parce que sa mère
s’était livrée aux caresses d’un homme” (p. 823). Dans un remarquable renversement des rôles et des points de vue, ce n’est pas lui qui reçoit les confidences de la
mère passant aux aveux, mais Jean, le fils bâtard, le fils du mensonge, le seul capable de pardonner, héritage aidant!
Quelque douloureuse qu’elle soit, Pierre a besoin de savoir la vérité. Or, découvrir la vérité signifie, à un premier degré, faire jour sur le mensonge conjugal
de la mère et la bâtardise du frère cadet et par là, mettre un terme à la terrible
incertitude qui le déchire: “Il lui fallait la lumière, la certitude, il fallait dans son
cœur la sécurité complète” (p. 763). Mais encore, connaître la vérité signifie, sous
des strates plus profondes, mettre à nu, dans un monde où “tout est illusion”, les
sentiments et les véritables liens existant entre les personnages. À la jalousie que
provoque l’héritage reçu par Jean, se mêle en Pierre “une inquiétude nouvelle
[...], le germe secret d’un nouveau mal” (p. 761): le doute terrible, puis “l’intolérable certitude” de la bâtardise de son frère; ce qui veut dire douter de la vertu et de
la droiture de la mère, la femme aimée. En effet, Pierre se comporte non seulement en fils mais il ré-agit aussi et surtout en homme, remplaçant le mari17 auquel
Maupassant a prêté les traits d’un homme médiocre et vulgaire: “Pierre regardait
sa mère, qui avait menti. Il la regardait avec une colère exaspérée de fils trompé,
volé dans son affection sacrée, et avec une jalousie d’homme longtemps aveugle
qui découvre une trahison honteuse” (p. 779). Pierre se sent donc doublement
trahi. La lente découverte du mensonge adultère et sa révélation vont remodeler le
“roman familial” contenu dans cette œuvre, et nous faire assister à l’éclatement
des relations affectives les plus profondes. Le premier mouvement de ce fils trop
curieux, de ce fils enquêteur – la critique parle d’intrigue policière18 – est “d’enterrer en lui cette honte découverte par lui” (p. 770), créant ainsi une possible
complicité avec la mère. Le silence pourrait être une solution. Par ailleurs, taire
“l’horrible chose” serait justifié et même un acte dû, inscrit dans l’ordre naturel
des choses, puisque Pierre n’est que le fils: “Et il ne pouvait rien dire, rien faire,
rien montrer, rien révéler. Il était son fils, il n’avait rien à venger, lui, on ne l’avait
pas trompé” (p. 779). Or, taire la vérité est impossible, cela signifierait mentir à
soi-même, respecter une mère devenue accessible et accepter qu’“il ne lui restait
qu’un père, ce gros homme, qu’il n’aimait pas malgré lui” (p. 778). Dans son “amour
religieux pour sa mère”, – amour incestueux selon la thèse soutenue par Bernard
Pingaud –, ce fils amoureux, qui a la terrible malchance de ne pas être le fils de
l’amour, est incapable d’accepter l’idée de vivre près de celle qui a “enfanté son
95
frère de la caresse d’un étranger” (p. 770). Cette mère est souillée, tandis qu’elle se
devait “irréprochable, comme se doivent toutes les mères à leurs enfants” (p. 779),
écrit Maupassant dans ce traité moral sur la maternité. Dans son refus viscéral de
l’adultère maternel, Pierre vit désormais “dans la maison paternelle en étranger”
(p. 821), aussi acceptera-t-il de s’exiler en terre étrangère devenant, dans un renversement paradoxal et dramatique des rôles, le bâtard maudit par la société.
Son départ, qui est une mort symbolique – son petit lit marin19 est “étroit et
long comme un cercueil” (p. 827) et “sa mère était en noir, comme si elle eût porté
un deuil” (p. 829) –, est un véritable suicide moral, mais il est inévitable pour que
soit rétabli l’ordre. Ordre au combien inviolable puisqu’il est le garant de l’intégrité morale. Louis Forestier précise: “le bâtard est la preuve vivante de cette opposition entre la fatalité du hasard génétique et la loi par laquelle la société maintient son ordre”20 . La vérité doit être tue sous peine de bouleverser l’ordre préexistant que régit l’institution sociale dans laquelle est bourgeoisement enfermée la
famille Roland. Ordre chéri par Jean qui, d’ailleurs, est magistrat, et qui “aim[e]
l’ordre, la sagesse, le repos par tempérament” (p. 802). La découverte du mensonge maternel, puis sa révélation, ne peut donc se résoudre qu’à travers l’abandon
du foyer familial, Pierre étant coupable d’avoir parlé. Seule une sentence muette
peut effacer auprès de la société le mensonge adultère qui est, par essence, déstabilisant et destructeur. Cela dit, le mensonge de la mère, qui dure depuis vingt ans,
revêt deux aspects essentiels: d’une part, il préserve l’équilibre précaire des relations humaines, souvent interprétées par Maupassant comme une immense mascarade. Le mensonge permet en effet de sauvegarder l’équilibre familial21 , social et
relationnel acquis au fil des ans. Pierre fait cette réflexion à propos de Jean et de
son “faux” père: “Ils croyaient s’aimer parce qu’un mensonge avait grandi entre
eux. C’était un mensonge qui faisait cet amour paternel et cet amour filial”
(p. 771). Dans le même sens, le mensonge “autorise” Madame Roland à conserver
intact son rôle traditionnel d’épouse et de mère irréprochable. D’autre part, le
mensonge adultère proclame l’illusion, la vanité des choses et des êtres, légitimant
la victoire de l’amour illégitime: c’est sur ce mensonge, et son acceptation, que
repose l’avenir tout entier de Jean, le fils de l’amour par excellence. Le mensonge
maternel fonctionne donc comme un diptyque, à effet de miroir: le vrai mensonge
n’est pas de taire l’adultère mais de l’accepter, au nom de l’amour que l’institution
maritale a refusé à Madame Roland. Celle-ci est seulement coupable d’avoir connu
cet amour en dehors du mariage22 , lieu des illusions par excellence selon notre
auteur qui est un célibataire endurci! Voici un extrait de sa longue confession,
véritable plaidoirie d’innocence: “[...] elle s’exaspérait contre Roland, rejetant sur
sa laideur, sur sa bêtise, sur sa gaucherie, sur la pesanteur de son esprit et l’aspect
commun de sa personne toute la responsabilité de sa faute et de son malheur” (p.
817). En fait, Madame Roland, la mal mariée, prend sa revanche sur la vie: “C’était
à cela, à la vulgarité de cet homme, qu’elle devait de l’avoir trompé, d’avoir désespéré un de ses fils et fait à l’autre la plus douloureuse confession dont pût saigner le
96
cœur d’une mère” (p. 817). Devant l’amour, le vrai, “tous les préjugés et toutes les
saintes susceptibilités de la morale naturelle” tombent (p. 810). Paradoxalement,
l’adultère a joué le rôle d’un puissant révélateur chimique, mettant à nu inexorablement les vrais sentiments. Et c’est avec la dignité et l’orgueil d’une héroïne racinienne que Louise Roland revendique, auprès de Jean, son droit d’aimer: “si j’ai été
la maîtresse de ton père, j’ai été encore plus sa femme, sa vraie femme, que je n’en
ai pas honte au fond du cœur, que je ne regrette rien, que je l’aime encore tout mort
qu’il est, que je l’aimerai toujours, que je n’ai aimé que lui, qu’il a été toute ma vie,
toute ma joie, tout mon espoir, toute ma consolation, tout, tout, tout pour moi,
pendant si longtemps” (p. 807). Un autre mensonge de l’amour transpire dans cette
œuvre: Jean est victime d’“une coquette comédie d’amour”. Il se retrouve marié
“en vingt paroles”, attrapé durant une partie de pêche23 par une femme “raisonnable” qui lui fait “un exposé net de la situation”! La vie est bien une grande farce...
Force est donc d’accepter le mensonge de l’amour, puisque la vie elle-même
est mensonge: “Comme c’est misérable et trompeur la vie!...” remarque Madame
Roland, en confessant l’échec même de sa passion adultère, car l’amour de son
amant s’est étiolé au cours des années. Aussi le refus du mensonge maternel, de la
part du vrai fils, ne peut-il se résoudre que par son exclusion de ce cruel24 tableau
familial où les vrais sentiments sont, de toute évidence, régis par les mensonges du
cœur et de l’esprit. Le sacrifice de l’un permet à l’autre de triompher, puisqu’à
l’exil de Pierre fait écho le succès social et sentimental de Jean25 . Soucieux de
préserver l’honneur de leur mère, Pierre pense que l’héritage doit être refusé, mais
dans un suggestif renversement éthique, le raisonnement “presque professionnel”
de Jean, dont “l’esprit d’avocat” est habitué “à démêler et à étudier les situations
compliquées” (p. 810), réprime toute tentative de dissuasion. Jean, l’heureux élu
du sort, baptisé “Jean le Riche” par son frère, a d’instinct “un amour inné du
repos, de la vie douce et tranquille” (p. 810) et vit une lutte morale26 de courte
durée et de faible portée, en strident contraste avec la déchirante souffrance morale de Pierre. Devant son “besoin impérieux des solutions immédiates qui constitue toute la force des faibles” (p. 810), Jean règle “l’affaire délicate”, trouvant tout
“naturel” d’accepter l’argent de l’homme dont il est le fils naturel27. Mensonge de
la société où l’argent, divisant les individus en catégories sociales28, règne en maître absolu. Les intérêts matériels de Jean sont sauvegardés au détriment de la “pureté de l’amour filial” (p. 186). L’argent29, autant que l’adultère, sert à révéler
“l’humble vérité” sur la nature humaine. André Vial met en évidence la “délicate
symbiose qui s’établit entre la conscience du personnage et son pouvoir économique: selon sa richesse, selon l’origine de ses ressources, le personnage se forme
telle ou telle vision de soi-même et du monde”30. L’annonce du riche héritage fait
par Jean a donc le pouvoir dévastateur de révéler la vraie physionomie morale des
personnages, et de mesurer le degré de validité et de sincérité de leurs relations.
Aussi Louis Forestier écrit-il: “L’argent, dont le rôle dans cette société est de
travailler et d’être actif, en vient à déshumaniser l’être vivant”31. Deux attitudes
97
nettement antagonistes prennent forme face au mensonge adultère. Pierre et Jean,
les deux frères ennemis32 , sont “reliés dans le titre par la conjonction la plus neutre qui soit: “et””33 . Les différences sont cependant profondes et touchent en premier lieu au physique: Jean est “aussi blond que son frère [est] noir” (p. 719). Les
divergences sont aussi d’ordre caractériel, l’un est “aussi calme que son frère [est]
emporté, aussi doux que son frère [est] rancunier” (p. 719). Notre propos n’est
pas d’entamer ce genre de discussion qui nous conduirait au thème de l’autre34 ,
thème cher à Maupassant qui souffrait, rappelons-le, d’autoscopie35 .
Une dernière observation s’impose avant de conclure: il est intéressant de souligner que Maupassant fait intervenir deux personnages secondaires, extérieurs à
l’action et étrangers au noyau familial, servant de propulseur à la crise de Pierre.
Ils expriment verbalement ses soupçons déjà présents à l’état latent. À l’annonce
de l’héritage, le pharmacien polonais Marowsko36 , le seul ami de Pierre, fait, le
premier, la réflexion suivante: “Ça ne fera pas un bon effet. [...] Dans ce cas-là on
laisse aux deux frères également, je vous dis que ça ne fera pas un bon effet” (pp.
741-742). L’autre comparse, une fille de brasserie, laisse sous-entendre, elle aussi,
à Pierre que Jean n’est pas son vrai frère: “Vrai, ça n’est pas étonnant qu’il te
ressemble si peu!” (p. 749).
La trahison de la mère est donc insoutenable aux yeux de Pierre. La seule
échappatoire possible s’inscrit dans la fuite, symbole d’une mort annoncée dès la
fin du chapitre VI: Pierre gît, seul, sur la plage “comme un cadavre”. C’est d’ailleurs
la solitude du décor marin, cher à Maupassant, qui va consacrer sa fin: “Sur ce
bateau que rien ne pouvait arrêter, sur ce bateau qu’elle n’apercevrait plus tout à
l’heure, était son fils, son pauvre fils” (p. 832). Pierre, le fils légitime, finit pitoyablement en “bête sans abri”, “en être errant qui n’a plus de toit”, “en chien perdu”.
La mère aussi, dans une parfaite symbiose méta-physique originelle, se sent “sans
abri, sans refuge, ayant l’épouvante de sa maison” (p. 820). Maupassant lui prête
l’expression “suppliante des pauvres chiens battus qui demandent grâce” (p. 826).
Mais cette grâce est impossible à obtenir d’un fils qui n’a pas su couper le cordon
ombilical37 . Comble de l’ironie et de la cruauté, la fuite est suggérée et préparée
par Jean! Avec son aide, Pierre s’engage comme médecin à bord du transatlantique La Lorraine. Jean le Vainqueur s’accommode fort bien de sa bâtardise et parvient avec une grande aisance à pardonner la faute de la mère. Roman cruel s’il en
est, le fils légitime, le “vrai” est vaincu par le fils bâtard dont le triomphe est total:
argent, position sociale, mariage et amour de la mère. Le livre se clôt sur le départ
de Pierre “vers une terre inconnue, à l’autre bout du monde” (p. 832). “Nous
sommes tous dans un désert” disait Flaubert, ce mot trouve dans cet univers illusoire sa parfaite expression. L’abandon définitif du foyer familial est le prix à payer
pour qui est coupable d’avoir parlé, coupable d’avoir osé regarder de trop près à
la sphère sacrée des sentiments humains, coupable d’avoir levé les tabous du sexe.
“La dernière déchirure [est] faite” pour qui s’est autorisé à transgresser l’interdit,
à dé-voiler – dans tous les sens du terme – le mensonge. Quant à Jean, il n’entend
98
pas fouiller de trop près la vérité car il sait bien qu’il aurait tout à perdre, héritage
et mariage: en gardant le silence, – le jeu de mots est facile – il garde la fortune et
le succès. Devant “la médiocrité paternelle” évoquée encore une fois en clôture de
roman, il est plus facile pour Jean de digérer “l’aveu terrible de sa mère” et par là
même d’accepter sa bâtardise: “Il lui en coûtait moins d’être le fils d’un autre” (p.
817). Tout va donc pour le mieux dans le meilleur des mondes possibles, pourraiton conclure. Restons dans l’univers littéraire de Guy de Maupassant et empruntons-lui la maxime finale d’Une Vie: “La vie, voyez-vous, ça n’est jamais ni si bon38
ni si mauvais qu’on croit”.
1
Les indications de pages renvoient à l’édition établie par L. Forestier, G. DE MAUPASRomans, Paris, Gallimard, («La Pléiade»), 1987.
2
Il est publié d’abord en feuilleton dans La Nouvelle Revue, entre le 1er décembre 1887
et le 1er janvier 1888, puis en volume chez Ollendorff la même année. Quant à l’essai Le
Roman, il paraît presque intégralement dans Le Figaro du 7 janvier 1888.
3
Dans une lettre adressée à É. Strauss, G. de Maupassant précise qu’il a publié son
étude dans le même volume que Pierre et Jean, pour faire plus long: «Pierre et Jean formant
un volume très court, j’ai publié mon étude sur le Roman sous la même couverture», Correspondance, lettre n 485, in G. DE MAUPASSANT, Contes et nouvelles, Paris, Gallimard, («La
Pléiade»), Tome 1, 1974. Par ailleurs, M. Bury souligne que Maupassant, contrairement à la
mode du temps, ne rédige ni préface ni postface à ses romans, in La Poétique de Maupassant, Paris, Sedes, 1994, p. 33.
4
Entre 1880 et 1890, les essais théoriques sur le roman et les diverses écoles littéraires
foisonnent. Rappelons seulement que Zola publie en 1880 son étude sur Le Roman expérimental. La même année paraît l’ouvrage collectif Les Soirées de Médan contenant la nouvelle Boule de Suif qui assure le succès de l’auteur. Signalons un autre essai de G. DE MAUPASSANT sur le roman: L’Évolution du roman au XIXe siècle, publié en octobre 1889 dans La
Revue de l’Exposition universelle.
5
Tenté par la nouveauté des écoles littéraires de son époque, G. de Maupassant se
réserve toutefois de tomber dans le piège de l’expérimentation. Aussi parvient-il à faire la
part des choses entre les préceptes de l’école réaliste soutenue par G. Flaubert, et les dogmes prônés par E. Zola. Dans ce sens, A. Vial écrit: «Il fut, dans tous les ordres, une magnifique machine à faire du classique, à ratifier l’incessante nouveauté des curiosités et des
tentatives contemporaines, à les résoudre en produits solides et viables», in Guy de Maupassant et l’art du roman, Paris, Nizet, 1954, p. 614 (réédité dans la collection Nizet-Référence, 1994).
6
Op. cit,, p. 21.
7
D’après H. Lecomte de Noüy, amie intime de Maupassant, le thème de l’enfant illégitime trouve son origine dans un “fait réel” connu de Maupassant. La version de l’auteur est
quelque peu différente: il écrit, dans une lettre du 2 février 1888 adressée à E. Estaunié,
qu’il s’inspire d’un “fait divers de journal”. Ce jeune écrivain craignait d’être accusé de
plagiat pour son roman Un Simple (1891), dans lequel il traitait le même sujet.
SANT,
99
8
C’est le quatrième des six romans achevés, et l’œuvre révèle de nombreux traits communs avec la nouvelle dont Maupassant est un grand “spécialiste”, sinon le plus grand. Il
en écrit près de trois cents en dix ans, de 1880 à 1890, dans sa période de fécondité, durant
laquelle il donne autant de chroniques, six romans, des récits de voyage, un volume de vers
et quelques pièces de théâtre.
9
R. Dumesnil relève trente-deux contes et nouvelles sur le thème de l’enfant naturel,
véritable obsession de l’auteur. Ce qui fait dire à P. Morand: «Il y a chez l’écrivain une
constante inquiétude devant la carence du père et une continuelle recherche de l’hérédité
qui font de lui comme un orphelin aimant et troublé, en même temps qu’une sorte de
parricide virtuel, ce qui est bien le signe de quelque aspiration refoulée», in Vie de Guy de
Maupassant, Paris, Flammarion, 1942, pp. 18-19.
10
R. DUMESNIL, Guy de Maupassant, Paris, Tallandier, 1933, pp. 79-82.
11
Dans sa préface à l’édition Signorelli (Rome, 1957), M. Spaziani analyse la composition de Pierre et Jean, proposant un découpage classique en trois actes: «Le premier
acte, “l’exposition”, comprend les chapitres I à VI; le deuxième, l’“action”, le chapitre VII
et la moitié du chapitre VIII; le troisième le “dénouement”, la fin du chapitre VIII et
le chapitre IX».
12
L. Forestier fait la remarque suivante: «Une chose est sûre: les objets tiennent une
grande place dans la création littéraire de Maupassant. [...] Ils sont les médiateurs entre le
personnage et certaines images de lui-même et des autres. [...] Ainsi se définit un des rôles
de l’objet dans son œuvre: il possède un pouvoir particulier d’ordre ou de désordre. Il
exerce, invinciblement, un pouvoir sur l’être humain», in Introduction à l’édition G. DE
MAUPASSANT, Contes et nouvelles, op. cit., p. XLIV.
13
Des études ont révélé que les nouvelles sont rédigées conjointement aux romans.
Dans ce sens, M. C. ROPARS-WUILLEUMIER, dans la préface de son édition critique de Pierre
et Jean (Paris, A. Michel, 1984) fait la remarque suivante: «Le nom de Pierre, celui de Jean,
couvrent ainsi, sans le combler, l’abîme ouvert par la perte d’identité dans Le Horla. Tout se
passe comme si le roman, contemporain de la nouvelle, dissimulait sous un habillage naturaliste une hantise dont le conte propose la version sur-naturaliste. À quoi sert le roman,
réaliste tout au moins, si ce n’est, précisément, à raconter, décrire, identifier? L’imitation de
la réalité garantit l’existence du réel, la différence des êtres et des sexes», p. 9.
14
Ainsi définie dans Le Roman.
15
Pierre se sent provoqué par Jean qui lui annonce son mariage et qui, pour la première
fois, affronte avec son frère aîné l’argument de la jalousie (pp. 799-800). Aussi la colère de
Pierre explose-t-elle contre sa volonté, avec une violence annoncée au chapitre précédent:
“l’infâme secret” est comparé à un «venin qu’il portait à présent dans les veines et qui lui
donnait des envies de mordre à la façon d’un chien enragé», p. 786.
16
Une proposition d’adaptation théâtrale fut faite à Maupassant qui la refusa. Il existe
plusieurs adaptations cinématographiques: voir l’édition de L. Forestier, Romans, op. cit.,
pp. 1504-1505.
17
A. Vial voit dans le rôle épisodique du mari «l’une des plus puissantes innovations
techniques de Maupassant: ravaler au rôle de retour épisodique celui qui pouvait être le
moteur le plus actif de l’intrigue», Op. cit., p. 527.
18
Voir l’excellente préface de B. PINGAUD figurant dans son édition critique de Pierre et
Jean, Paris, Éd. Gallimard, coll. «Folio», 1982.
19
P. Cogny souligne le rôle important de la mer, au contact de laquelle les crises de
100
Pierre s’apaisent, (Op. cit., p. 101). Il est intéressant de remarquer que la mer, à la fin du
livre, n’est plus une alliée mais elle est perçue comme une prison ou un cercueil: «Plus de
sol sous les pas, mais la mer qui roule, qui gronde et engloutit», p. 823.
20
In Introduction à l’édition G. DE MAUPASSANT, Contes et nouvelles, op. cit., p. LII.
21
C’est l’édifice familial tout entier qui s’écroule après la découverte du mensonge: «Sa
famille! Depuis deux jours, une main inconnue et malfaisante, la main d’un mort, avait
arraché et cassé, un à un, tous les liens qui tenaient l’un à l’autre ces quatre êtres. C’était
fini, c’était brisé», p. 778.
22
P. Cogny, dans son introduction à l’édition critique de Pierre et Jean, (op. cit.) fait
remarquer que le ménage à trois est chose plutôt commune au XIXe siècle, dans le milieu
bourgeois (voir p. LXVIII).
23
Dans le chapitre VI, Jean fait sa demande en mariage à la riche veuve, Madame
Rosémilly, après avoir évalué d’abord sa fortune puis sa personne: «La fortune était donc à
peu près équivalente, et la jeune veuve assurément lui plaisait beaucoup», p. 788.
24
L’auteur confesse dans une lettre écrite à sa mère, fin 1887, que Pierre et Jean est un
roman “cruel”, lui faisant part de ses doutes sur son succès de vente.
25
C’est Jean qui achète le luxueux appartement, Boulevard François Ier, convoité aussi
par Pierre. De plus, Jean épousera Madame Rosémilly courtisée dans un premier temps par
Pierre. D’ailleurs ne lit-on pas dans le chapitre III: «Aujourd’hui tout est pour Jean», p. 751.
26
«Et dans son âme où l’égoïsme prenait des masques honnêtes, tous les intérêts déguisés luttaient et se combattaient. Les scrupules premiers cédaient la place aux raisonnements ingénieux, puis reparaissaient, puis s’effaçaient de nouveau», p. 811.
27
Tout comme il est naturel que Jean reçoive le portrait de Maréchal. Et comble de
l’ironie, c’est Pierre qui le suggère à sa mère, mentant pour qu’elle retrouve «la petite peinture redoutable»: «J’ai songé qu’il serait tout naturel de le donner [le portrait] à Jean, et
que cela ferait plaisir à mon frère», p. 774.
28
Dans le dernier chapitre, Maupassant évoque la pauvreté extrême des émigrants:
Pierre, visitant «le ventre énorme du navire» où il embarquera pour l’Amérique, découvre
«un grand troupeau d’émigrants»; il est frappé par la puanteur de «cette foule sordide en
haillons», dont la misère semble refléter son échec moral et économique.
29
Ce thème récurrent chez Maupassant occupe une place prépondérante dans toute la
deuxième moitié du XIXème siècle, et mériterait à lui seul une étude. Nous renvoyons à la
critique qui s’est arrêtée sur le pouvoir dévastateur de l’argent dans l’univers de Maupassant.
M. C. ROPARS-WUILLEUMIER propose une subtile analyse des différentes fonctions de l’argent
dans Pierre et Jean, Lire l’écriture, in Esprit, n 12, décembre 1974, p. 812 passim.
30
Op. cit., p. 287.
31
In Introduction à l’édition G. DE MAUPASSANT, Contes et nouvelles, op. cit., p. LVIII.
32
Nous renvoyons à l’article de M. C. ROPARS-WUILLEUMIER, Lire l’écriture, in Esprit,
op. cit., pp. 804-805.
33
B. Pingaud, Op. cit., p. 32. Dans sa préface à l’édition critique de Pierre et Jean,
l’auteur propose une fine analyse du “roman familial” débouchant sur une étude du thème
de l’autre.
34
Ce thème fait écho au thème du double évoqué par Maupassant dans ses contes.
35
Ce terme de psychologie désigne une maladie mentale par laquelle le patient, atteint
d’hallucination croit se voir soi-même. A. Vial, s’interrogeant sur la maladie de Maupassant, apporte au sujet de la folie de l’auteur une précision fondamentale: «L’œuvre de
101
Maupassant a été composée tout entière dans la période de l’intégrité mentale [...]; il est
donc absurde de rechercher ce que le “génie” de Maupassant a bien pu devoir à la “folie”
[...]», Op. cit., p. 226. Il conclut que ses «hallucinations ne relèvent en aucune manière
d’une atteinte cérébrale».
36
Pierre Cogny qualifie le pharmacien de “curieux deus ex machina”, Op. cit., p. LXV.
37
Il est intéressant de souligner que l’exil de Pierre a lieu par mer, à cause de la mère.
L’homonymie appelle le jeu de mots et le lien vital entre l’eau génitrice et la mère est évident. Nous renvoyons à ce propos au chapitre V du beau livre de G. BACHELARD, L’eau et les
rêves. Essai sur l’imagination, (“L’eau maternelle et l’eau féminine”), Paris, J. Corti, 1942,
et à la critique qui a illustré toutes les connotations du thème marin.
38
Pierre aussi est bon car il a accepté l’exil comme preuve suprême d’amour: «Comme
il est bon!» s’exclame simplement la mère devant ce fils qui s’éloigne à jamais, puis elle
ajoute: «Je pleure parce que j’ai mal», p. 832. Face à la déchirure d’une mère, il n’est besoin
d’aucun autre commentaire.
102
IL SOL DELL’AVVENIRE
E LA TEORIA DEGLI ATTI ILLUCUTIVI
di ALINA KREISBERG
Nel proporci il tema del convegno di quest’anno il prof. Bertozzi ha tenuto a sottolineare: “menzogna e non bugia”. La precisazione mi ha colpito: mi sono chiesta
subito qual era la differenza semantica tra i due termini, correntemente usati come
due sinonimi completi e totali (ovvero perfettamente intercambiabili in tutti i contesti e assolutamente equivalenti sul piano cognitivo ed affettivo1) e, di conseguenza, se si poteva essere mendaci, senza necessariamente dire bugie. Dal raffronto
delle due parole, la bugia è uscita più simpatica: più innocua e genuina, una povera sempliciotta insomma, esposta al continuo rischio di smentite.
Vorrei cominciare con un esempio attinto ad un classico della teoria degli atti
illocutivi. Nella sua polemica con Grice, John R. Searle2 immagina la situazione di
un soldato americano, al tempo della II guerra mondiale, fatto prigioniero dalle
truppe italiane.. “Quello che vorrei fare è dir loro, in tedesco o in italiano, che
sono un soldato tedesco – scrive Searle.[…] Allora metto su una sorta di messinscena recitando quei pochi brandelli di tedesco che so. […] E così io, prigioniero
americano, saluto gli italiani […] con questa frase: “Kennst du das Land wo die
Zitronen bluhen?”3 (…) Ma ne segue forse che quando dico “Kennst du das
Land…” voglio dire “Sono un soldato tedesco”?
Una prima osservazione mia: si tratta certamente di una mistificazione, ma non
vi si può rintracciare un’ombra di bugia. La citazione di Goethe non può essere
una bugia, se non per altri mille validissimi motivi anche per il semplice fatto che,
trattandosi di una domanda, essa si sottrae automaticamente al principio di
verificabilità. Searle continua poi la sua polemica affermando che secondo Grice
“sembrerebbe che si possa pronunciare qualsiasi frase con qualsiasi significato
[…]. Nelle Ricerche filosofiche (§ 510) Wittgensein scrive. […]: “Dite ‘fa freddo
qui’ volendo dire ‘fa caldo qui’”. Il motivo per cui non riusciamo a farlo senza
ulteriori messe in scena è che quel che possiamo voler dire è […] funzione di quel
che stiamo dicendo”.
La parola chiave è “l’ulteriore messa in scena”. Ora, la messa in scena più
globale ed onnicomprensiva è rappresentata dai linguaggi dei regimi totalitari.
Più importante del monopolio economico (vedasi l’esempio della Cina) e persino politico è il monopolio dell’informazione, l’esclusiva per l’accesso ai mezzi
d’espressione pubblica. Il linguaggio della propaganda totalitaria che designerò
in seguito con il termine orwelliano newspeek, secondo Michal Glowiński4, che
ha dedicato a questo fenomeno in Polonia una lunga serie di studi, “costituisce
una peculiare sintesi di elementi pragmatici e rituali”. Da una parte è mirato ad
103
espletare precipuamente la funzione conativa, dall’altra però questa funzione
pragmatica è limitata dalla ritualità “ovvero da una sorta di fedeltà a se stessi e
alle proprie tradizioni, dalla premessa che, indipendentemente dalle circostanze, i limiti di un determinato linguaggio non vanno mai superati. In altri termini: la ritualità consiste nell’attuazione del principio di base secondo cui in determinate circostanze si può parlare soltanto in un determinato modo. La caratteristica del newspeek consiste nell’intreccio di questi due elementi contraddittori e il suo ideale sarebbe una situazione di coincidenza tra la massima ritualità
e l’espletamento totale della funzione conativa”5. “Un ruolo importante nel
newspeek spetta all’elemento magico – prosegue Glowiński – “Le parole non
servono a descrivere la realtà ma a crearla. Quanto è stato enunciato dall’autorità, diventa reale”6. L’autore polacco riporta l’esempio dello slogan, su cui mi
vorrei soffermare: “mlodzież zawsze z partią” “i giovani sempre con il partito”.
Lo slogan, del resto estremamente banale, presenta una caratteristica tipica: la
mancanza del verbo finito. Questa peculiarità, non messa sufficientemente in
risalto da Glowiński, che è principalmente uno studioso di letteratura e non un
linguista, non è invece sfuggita a Boris. A. Uspenskij che sosteneva la tesi secondo cui molti slogan della propaganda sovietica fossero redatti non in russo, bensì nello slavo ecclesiastico, lingua di comunicazione scritta degli slavi ortodossi,
e che, anzi, in russo non potevano essere affatto espressi. “Un ottimo esempio
di questo genere – scrive Uspenskij – è il celebre slogan “che viva il potere
sovietico” (a з pacmвyem coвmckaя влacmь! Da zdrastvuet sovetskaja vlast’!)
Si tratta senza dubbio di una frase che appartiene alla lingua letteraria russa, e,
senza dubbio, si tratta di una frase relativamente recente. Eppure, da un punto
di vista formale, questa frase si può considerare come puramente slava ecclesiastica, sia dal punto di vista del lessico che da quello della grammatica. […] Questa frase, che abbiamo riconosciuto essere slava ecclesiastica, non è traducibile
in russo: non esistono forme di origine russa in grado di esprimere questo stesso
contenuto”7. Senza riportare l’intera analisi lessicale e sintattica di Uspenskij,
ma conoscendo le caratteristiche tipologiche dello slavo ecclesiastico non stento a dargli ragione. Innanzi tutto si tratta di una lingua che non possiede il futuro categoriale: per esprimere valori “futurali” ricorre spesso a perifrasi modali o
usa indifferentemente le forme del presente. Solo in base al contesto si può
decidere se il predicato esprime un’azione futura o un pio desiderio, la realtà
attuale o qualche cosa che ha da venire. Inoltre, cosa che più m’interessa in
questa sede, è una lingua che solo raramente ricorre a proposizioni subordinate,
disponendo invece di una ricca gamma di participi. Ora, il participio come del
resto le altre forme nominalizzate, è espressione dell’informazione asserita, del
datum condiviso dal locutore e dal destinatario8, e che pertanto non può essere
negata. In altri termini, solo le forme verbali finite, dotate di marche del tempo
e del modo che ancorano l’enunciato alla realtà, possono essere oggetto di negazione. La mancanza di predicato, come nell’esempio citato, o l’assenza di sole
104
marche temporali e modali, sottrae automaticamente l’enunciato alla possibilità
di verificazione.
La predicazione non attualizzata9 rappresenta sempre un presupposto e in
quanto tale non è suscettibile di smentite. È un datum incontestabile.
Tra gli esempi prodotti da Oswald Ducrot nel suo celeberrimo volume dedicato al funzionamento dei presupposti negli atti linguistici10, il mio preferito rimane
sempre quello di Jean qui ne prend plus de caviar au petit déjeuner (p. 83 e ss.). Da
questa frase si possono desumere tante cose: Jean è una persona capace di privazioni, è stato ricco a suo tempo e non lo è più, o magari il medico gli ha sconsigliato l’eccesso di proteine al primo mattino, tutte deduzioni che si possono tranquillamente negare in modo cortese, senza inficiare in alcun modo il rapporto dialogico,
come pure si può replicare cortesemente “No, continua a mangiare il caviale alle
otto ancora adesso”. L’unica cosa che non può essere contestata è l’abitudine passata di Jean di fare la prima colazione con il caviale. La negazione dei presupposti,
che dovrebbero essere condivisi da entrambi i partecipanti alla situazione dialogica,
rompe il rapporto di comunicazione, assumendo il tono di aggressione verbale.
Senza conoscere (anche per ovvi motivi cronologici) l’opera del linguista-logico
francese, i numerosi padri dei vari linguaggi totalitari hanno sempre fatto tesoro di
questa peculiarità del presupposto linguistico.
Citerò qualche esempio di quello che conosco meglio di tutti per esperienza
diretta: il linguaggio della propaganda dei regimi comunisti, che del resto è stato
oggetto di numerosi studi, tra cui il più completo rimane quello di Patrick Seriot
Analyse du discours politique soviétique11. Sono opere a cui si potrebbero attingere una miriade di esempi, ma ho pensato di limitarmi semplicemente ad una poesiola
e a una canzone che, imparate nell’infanzia, mi sono rimaste per sempre nella
memoria. La prima contiene il verso:
Эa mcmвo cчacmлuвoe нaшe, cnacuбo po нaя cmpaнa
Za detstvo sčastlivoe naše, spasibo rodnaja strana
per infanzia felice nostra grazie natale paese
Per la nostra infanzia felice, ti ringraziamo, oh, Patria
Senza sforzarmi di immaginare come la frase dovesse suonare alle orecchie dei
figli dei detenuti dei gulag, mi limiterò ad alcune considerazioni meramente linguistiche. Detstvo sčastlivoe, messo nella posizione tematica come informazione
data, specialmente con l’aggettivo posposto al sostantivo, posizione marcata in
russo, costituisce una predicazione non attualizzata, l’asserzione che non può essere oggetto di smentite.
Ma anche senza l’aggettivo “felice”, la frase avrebbe avuto lo stesso innegabile
significato.
Cito l’analisi semantica fornita da Anna Wierzbicka12 della parola inglese thank,
corrispondente quasi esatto del russo spasibo (lo sottolineo non tanto per il remoto significato religioso della formula di ringraziamento russa, ormai scarsamente
105
percepito, ma perché le espressioni di gratitudine non funzionano sempre allo
stesso modo in culture diverse 13):
a) so: hai fatto per me qualche cosa di buono
b) dico: per questo motivo sento nei tuoi confronti qualche cosa di buono
c) lo dico perché voglio che tu provi qualche cosa di buono.
Pertanto, anche senza l’esplicitazione sčastlivoe, la poesiola parte da presupposizioni menzognere che, essendo appunto presupposizioni, si sottraggono alla
smentita.
Passo al secondo esempio, quello della canzone che recita:
Я pyзou cmpaнaы нe энaњ, з e maк вoльнo ышum чeлoвeк
Ja drugoj takoj strany ne znaju, gde tak vol’no dyšit čelovek.
io altro simile Paese non conosco dove così liberamente respira uomo
Non conosco un altro Paese dove l’uomo respiri così liberamente
Non escludo che la frase possa essere vera: con ogni probabilità l’autore della
canzone non ha mai avuto il passaporto, tuttavia l’aggettivo “simile”, essendo un
predicato bivalente (x è simile a y), presuppone necessariamente l’esistenza di un
secondo termine di paragone. Vi è tuttavia un altro motivo per cui il verso mi è
rimasto talmente impresso. È risaputo come le lingue imparentate siano piene di
false amicizie: la parola wolno esiste in polacco, significa però non ‘liberamente’
bensì ‘lentamente’, mentre il verbo dyszeć, in russo ‘respirare’, in polacco corrisponde ad ‘ansare, ansimare’, e pertanto l’interpretazione che davamo da ragazzi
alla strofa s’avvicinava molto di più alla realtà.
Nella realtà magica, creata con le parole, talvolta la mistificazione avviene, al
contrario, senza parole, semplicemente tacendo sui fatti. Alla fine del 1977 fece
molto clamore un documento in due volumi pubblicato in polacco da una casa
editrice dissidente con sede a Londra con il titolo Il libro nero della censura della
Repubblica Popolare Polacca14. Tomasz Strzyżewski, ex-funzionario dell’Ufficio
Centrale di Controllo sulla Stampa, Pubblicazioni e Spettacoli faceva pervenire al
KOR, Comitato per la Difesa degli Operai, l’organizzazione più autorevole del dissenso polacco, il dossier degli interventi censori dei tre anni precedenti la sua evasione. Ne riporto alcuni brani, cercando di riprodurre almeno in parte le caratteristiche stilistiche del “burocratese” dell’epoca: “Va eliminata ogni informazione sul
pericolo diretto per la vita e la salute umana dovuto ad attività industriali e ai prodotti chimici per l’agricoltura”. “Nella scuola n 80 a Danzica è stata rilevata emissione di sostanze nocive dal materiale usato per gli infissi. Le lezioni sono state
interrotte. Ogni informazione in proposito è assolutamente vietata”. “I mass-media
non devono trasmettere informazioni sull’acquisto di know-how e tecnologie dai
paesi capitalisti” (pp. 7-8). “Non va usata l’espressione ‘linea di demarcazione tra
l’India e il Pakistan’, ma soltanto ‘linea di controllo tra l’India e il Pakistan’” (p. 26).
Particolarmente piccante il capitolo IX dedicato alla politica nel campo culturale in
cui sembra di percorrere dei gironi danteschi. Tra gli scrittori, i peccatori più gravi
106
vengono condannati all’inesistenza totale, quelli che si sono macchiati di colpe
meno pesanti possono comparire soltanto in nota nelle pubblicazioni strettamente
scientifiche, ma non in quelle divulgative, ad altri ancora viene concesso di
figurare nelle bibliografie dei periodici scientifici ma non in quelle dei libri, e via di
questo passo.
Nel già citato volume, Searle fa distinzione tra fatti bruti e fatti istituzionali.
“Sono sì dei fatti, ma la loro esistenza, a differenza da quella dei fatti bruti,
presuppone l’esistenza di certi istituti umani”(p. 82). La vincita di un campionato di calcio o la stipulazione del compromesso per l’acquisto di un alloggio
sono fatti istituzionali, in quanto presuppongono l’esistenza delle regole di campionato e delle normative di compravendita immobiliare. Ma in una realtà mistificata, fatta di parole, tutti i fatti diventano istituzionali. Facciamo un esempio: il consumo del caffè apparentemente è un fatto bruto, ma diventa istituzionale nella situazione di penuria permanente di caffè sul mercato, in quanto i
dati sul consumo annuo su scala nazionale potrebbero consentire di desumerne
il volume del caffè riesportato (p. 38).
Confesso di essermi trovata in difficoltà per la scelta del mio tema per un convegno dedicato alla menzogna: avevo già relegato i fatti che ho cercato di illustrare
in un archivio di storia, per cui stavo meditando su un qualche argomento altamente teorico. Ho cambiato parere dopo aver sentito all’inizio di aprile le belle
conferenze del prof. Sinan Gudzević dedicate alla politica di “pulizia linguistica”
messa in atto dal governo croato. Riporterò due esempi citati dal collega di Zagabria.
Il primo è stata la notizia di un film serbo proiettato in Croazia con sottotitoli.
Chi non abbia familiarità con le lingue slave meridionali, potrebbe pensare all’Albero degli zoccoli di Olmi, o all’Amore molesto di Martone, dove i dialoghi recitati
nel napoletano più stretto portavano sottotitoli in lingua. Ma l’analogia non regge:
si dovrebbe pensare piuttosto a un film di Irony sottotitolato a beneficio del pubblico americano, o ai monologhi semi-romaneschi di Gigi Proietti corredati da
didascalie in toscano o nella variante settentrionale dell’italiano.
L’altro esempio viene fornito dalla recensione fatta da Mirko Peti al Dizionario
delle differenze tra la lingua serba e croata di Vladimir Brodnjak15 in cui l’autore fa
il seguente ragionamento: non importa che materialmente le parole acqua (voda) e
madre (majka) in serbo e in croato suonino allo stesso modo. Va guardato quello
che si nasconde dietro il loro significato nelle due lingue.
Mi è tornato immediatamente in mente Pierre Menard, autore del “Chisciotte”
di Jorge Luis Borges16, la storia di un uomo che negli anni trenta del nostro secolo
decise di scrivere Don Chisciotte:
La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero –
parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes (p. 653).
Il critico-Borges passa a commentare il risultato dell’operazione:
107
Il testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco […] Il raffronto tra la pagina di Cervantes e
quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse […]:
“…la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni,
testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”. Scritta nel secolo XVII, […] da Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio
retorico della storia. Menard, per contro, scrive: “…la verità, la cui madre è la
storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e
notizia del presente, avviso dell’avvenire.” (pp. 656 - 657).
Avendo usato nel titolo del mio intervento uno slogan del ventennio, mi sono
chiesta se il fenomeno della mistificazione con l’ausilio delle proprietà illocutive e
perlocutive degli atti linguistici esista anche nella nostra normale realtà democratica (e sono ben cosciente che con questa frase ho messo in funzione il gioco dei
presupposti). Ho notato a suo tempo che sulle pagine della stampa gli uomini
politici raramente dicono delle cose, e molto più di frequente le sostengono o, al
contrario le affermano e addirittura le ribadiscono (evidente segno della fermezza
delle idee). Dalla scelta del verbum dicendi era agevole evincere l’orientamento
politico del giornalista. A primavera ho dato una occhiata alle pagine di politica
della “Repubblica” ed ho potuto constare che i verba dicendi sono semplicemente
scomparsi, sostituiti da due punti. Non saprei giudicare se si tratta di una semplice moda giornalistica o della correttezza nel periodo preelettorale. Naturalmente,
nei manifesti elettorali di quest’anno erano assenti le forme dell’indicativo, ma
d’altra parte non ci troviamo nella situazione di “messe in scena” che consentano
di “pronunciare qualsiasi frase con qualsiasi significato”.
Forse i giochi più sottili si possono osservare nel campo pubblicitario.
Descrivendo, su Repubblica delle Donne del 10 aprile scorso, le caratteristiche
dei giovani consumatori, l’autorevole pubblicitario Fabrizio Russo, dopo averne
lodato lo spirito critico, affermava: “Certo è che, se un prodotto non appare in
pubblicità, non conta, è come se non esistesse”(p. 209). Gli addetti ai lavori sono
ben coscienti del fatto che un enunciato che dichiari apertamente le qualità positive di un prodotto sarà immediatamente contestato, più difficilmente invece verrà messa in dubbio quella parte dell’informazione presentata come presupposto17.
Di qui il frequente ricorso a descrizioni definite in riferimento ad elementi la cui
esistenza, in realtà, non è previamente nota al destinatario. “La freschezza di Jocca
ha solo il 7% di grassi” lo slogan, informando che lo Jocca è poco grasso, passa “di
contrabbando” l’informazione che si tratta di un prodotto fresco e quindi piacevole. Mi ricordo la pubblicità di una marca di panettone che ne lodava le virtù
organolettiche in funzione della mancanza dei canditi: “Buono perché senza canditi”, conferendo agli innocui canditi, in base alla più elementare delle implicazioni logiche, se p allora q, delle misteriose proprietà malefiche. Naturalmente lo
scopo era semplicemente di attirare l’attenzione del virtuale acquirente con una
originale formula al negativo.
108
Certamente, sono tutti procedimenti che ci espongono al rischio di sbagliare
nell’acquisto di un formaggino o di un panettone, ma i veri rischi appaiono solo
nelle condizioni del monopolio dell’informazione.
1
J. LYONS, Introduction to Theoretical Linguistics, Cambridge University Press, 1968.
J. R. SEARLE, Speech Acts: An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge University
Press. 1969, ed. it.1992. Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio. Torino, Bollati
Boringhieri. Trad. G. R. CARDONA, pp. 74-75.
3
Dalla lirica Mignon, GOETHE, Wilhelm Meister Lehrjare, III,I: “Conosci il paese dove
fioriscono i limoni?”
4
M. GLOWIŃSKI, Nowomowa po polsku, WARSZAWA, Wydawnictwo PEN, 1991,
pp. 8-9.
5
Ho reso con il termine jakobsoniano quello che l’autore definisce come “pragmaticità”.
6
Nei termini di J. L. AUSTIN (How to Do Things with Words, Oxford, The Clarendon
Press, 1962, trad. A. PIERETTI, Quando dire è fare, Torino, Marietti, 1974) si potrebbe parlare della funzione performativa, estesa a tutto l’insieme della realtà. È quello che FAYE
chiama effetto di racconto. Cf. J. P. FAYE, Théorie du récit. Introduction aux “languages
totalitaires”, Paris, Hermann, 1972.
7
B. A. USPENSKIJ, Kratkij očerk istorii russkogo literaturnogo jazyka, Moskva, 1994. Trad.
it. Storia della lingua letteraria russa. Dall’antica Rus’ a Puskin, Bologna, il Mulino,
p. 220.
8
Cf. J. NICHOLS, Nominalisation and assertion in scientific Russian prose. In: J. HAIMAN,
S. A. THOMPSON (eds), Clause combining in Grammar and Discourse, Amsterdam/
Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 1988, pp. 399-427.
9
Secondo la terminologia di I. SAWICKA, Problematyka predykacji imiennej na przykladzie
języka serbsko-chorwackiego, Wroclaw, Zaklad Narodowy im.Ossolińskich, 1979.
10
O. DUCROT, Dire et ne pas dire. Principes de sémantique linguistique, Paris, Herman,
1980 (II ed.).
11
P. SERIOT, Analyse du discours politique soviétique. Paris, Institut d’Etudes Slaves, 1985.
12
A. WIERZBICKA, English speech act verbs: a semantic dictionary. Sidney: Academic Press,
1987, p. 397.
13
Cf. F. COULMAS (ed.), Conversational routine: explorations in standardized communication situations and prepatterned speech. The Hague: Mouton, 1981, p. 81: …ringraziamenti e scuse sono parole occidentali (…) e la loro presenza nelle altre culture non può
essere supposta a priori.”
14
Czarna księga cenzury PRL, London,”ANEKS”, 1977.
15
M. PETI, Nerazlikovnost razlika. Načelna razmatranja uz “Razlikovni rjecnik srpskog i
hrvatskog jezika” Vladimira Brodnjaka, in: “Rasprave zavoda za hrvatski jezik”, n. 20,
Zagabria, 1994, pp. 245-272.
16
J. L. BORGES, Tutte le opere, vol. I, Milano, Mondadori, (I Meridiani) 1989,VII ed.,
p. 649-658.
17
Cf. E. LOMBARDI VALLAURI, Tratti linguistici della persuasione in pubblicità. in:
”Lingua Nostra”, 1995 vol. LVI, fasc. 2-3, pp. 44 e ss.
2
109
L’ESPRESSIONE DELLA MENZOGNA:
STRATEGIE STILISTICHE E COMUNICATIVE
di PAOLA LONGO
La valenza grave e negativa insita nel concetto di menzogna ci obbliga a definire e
determinare una discriminazione semantica tra il lessema leader di questa relazione (la menzogna, appunto) e quello di bugia.
Per menzogna si intende una affermazione perpetrata attraverso il linguaggio
o i comportamenti, ben architettata, contraria alla verità e, come tale, capace di
indurre gli altri in errore. La ‘gravità’ dell’atto menzognero consiste appunto nel
suo presupporre una deliberata e consapevole volontà di mentire.
Per bugia si intende un fatto od una cosa non veri o veri solo in parte, detti in
modo spesso istintivo e spontaneo (quasi mai con deliberazione) al fine di nascondere una colpa commessa, oppure una notizia sgradevole e dolorosa. La bugia si
profila nella maggior parte delle situazioni come forma di difesa e di protezione.
Alla base della bugia non c’è una deliberata volontà di mentire.
Esiste poi una forma di mascheramento della verità da ritenere più raffinata e
meno vistosa dell’atto comunicativo menzognero: anche il non detto è pur sempre
una menzogna, ma espressa e formulata in maniera più graziosa ed elegante.
E’ fuor di dubbio che il termine “menzogna” semanticamente ci individui una
particolare modalità di inganno finalizzata alla comunicazione a qualcuno di qualcosa ritenuto falso. Al di là dell’analisi etico-morale così brevemente e sommariamente compiuta, nessuno può negare però che verità e menzogna, realtà e bugia
costituiscano con il loro rapporto di dualità ed alterità una compresenza sempre
attuale nell’esistenza di ognuno di noi. Ma il linguaggio verbale è per sua stessa
natura ingannevole, ambiguo, contraddittorio, veicolo di abusi, travestimenti, finzioni, sopraffazioni e straniamento ed è usato come mascheramento della realtà. I
discorsi mentono, non dicono chiaramente, sono inconcludenti, ambigui e confusi. Ma potremmo vivere senza ingannare, mentire, simulare, fingere? A ben ragione gli psicologi ed avvocati Luisella De Cataldo Neuberger e Guglielmo Gulotta
nel loro Trattato della menzogna e dell’inganno, prendendo atto che nel mondo e
nella realtà la menzogna e l’inganno vivono in simbiosi con la verità e la sincerità,
guardandosi indietro, si chiedono: “Come avremmo potuto sottrarci alle fiere,
proteggere poche razioni di cibo dai predatori, difenderci da chi era più forte di
noi se non ingannando, simulando, falsificando?”1 Così anche molte delle più
grandi opere classiche hanno creato degli intrecci, delle trame narrative proprio
su questa alterità, su questo bifrontalismo espressi da due sentimenti, da due atti
così diversi, ma tanto inscindibili. Chi non ricorda la doppiezza di un eroe come
110
Ulisse, il connubio tra sogno e menzogna del trovatore Chrètien de Troyes, la
tanto esaltata ed utilizzata ars mentiendi medioevale e chi, da bambino, dopo aver
letto le avventure di Pinocchio, non è stato colto da un attacco di paura per essere
portatore di una manifestazione ‘fisica’, di una segnalazione visibile ed esteriore
della menzogna? E come non considerare in tanta letteratura il tema dell’eterno
bisogno umano di essere un altro, in un altro tempo, in un altro luogo? L’arte della
menzogna è un’arte antica quanto è antica la presenza dell’uomo in una collettività (e dice molto il tentativo di Adamo di nascondere a Dio la verità di aver osato,
di aver disobbedito, di aver accettato il peccato). Preso atto, a questo punto,
dell’imprescindibilità e dell’inevitabilità dell’utilizzo della menzogna nell’esistenza di ciascuno, sarebbe interessante stabilire se sia più facile mentire o scoprire la
menzogna, individuare il migliore e più abile mentitore e, soprattutto, stabilire le
strategie, gli indicatori, gli stili, i contenuti, gli indizi rivelatori, le tracce verbali e
non-verbali dell’atto menzognero. Le risposte sono da rintracciare in un approfondito studio di alcuni ricercatori dell’Università Cattolica di Milano che, attraverso indagini socio-psico-linguistiche effettuate in fase sperimentale per mezzo
dell’utilizzo di attrezzature tecnico-acustiche molto elaborate, sono stati in grado
di determinare, oltre le variazioni dei tratti prosodici nell’articolazione e trasmissione di un messaggio menzognero (tonalità, intonazione, ritmo, lunghezza di sillabe e foni), le tecniche di riconoscimento ed individuazione della menzogna.
Ciò che a questo punto risulta interessante analizzare sono i signa, i segnali che
ci permettono di individuare che qualcuno sta mentendo. Pertanto, saranno analizzati i contenuti dei messaggi e le tracce nel comportamento non verbale che
possono ritenersi indizi affidabili di menzogna. Ho ritenuto necessario prendere
spunto, per questa mia relazione, dagli studi condotti appunto presso l’Università
Cattolica di Milano da alcuni ricercatori (prof. Luigi Anolli, dott. sse Ciceri e Balconi) che hanno testato sperimentalmente le principali strategie e indizi comunicativi verbali e non della menzogna attraverso un’analisi acustica digitalizzata al
computer, con la finalità di considerare alcune variabili indipendenti come la durata delle frasi, delle pause piene (inspirazioni, espirazioni, rumori prodotti dalla
lingua, singhiozzi, risatine) e vuote, il ritmo, inteso sia come velocità della produzione che della articolazione della frase (veloce/lenta, interrotta da frequenti oppure rare pause) come anche è stata calcolata la velocità dell’eloquio. Il test con
verifica riguardava un campione di 35 studenti della Facoltà di Giurisprudenza
della Cattolica di Milano a cui era stato sottoposto un disegno in bianco e nero
raffigurante un uomo con cravatta di età non ben definita ed il cui colore di capelli
poteva sembrare scuro o castano. I soggetti dovevano dimostrare la loro abilità
retorica ed oratoria nell’insinuare dei dubbi nell’esperimentatore, al fine di influenzarlo. Gli studenti, quindi, per sei volte dovevano relazionare e descrivere
l’immagine ambigua all’esperimentatore. I risultati dimostravano che per ben quattro volte la descrizione dell’immagine risultava conforme (vera) alla sua percezione
111
e per due volte difforme (falsa). A questo punto sono state valutate le strategie più
efficaci per raggiungere lo scopo di influenzare l’esperimentatore che al primo
enunciato difforme non mostrava alcuna reazione (condizione di falso 1 - di accettazione della menzogna), mentre al secondo assumeva un atteggiamento sospettoso ed indagatore (condizione di falso 2), teso ad approfondire e verificare
l’attendibilità dell’affermazione. Il test continuava con l’analisi degli indicatori vocali
verbali, che risultavano i seguenti:
- il numero dei contenuti (nel caso testato sono 2: capelli ed età);
- il numero totale delle parole;
- l’indice di eloquenza (dato dal rapporto tra il numero delle parole utilizzate
ed i contenuti);
- l’indice di disfluenza (dato dalla sommatoria delle parole interrotte e delle
parole ripetute).
Inoltre nei risultati del test si è tenuto conto anche di variazioni presenti nelle
frasi standard ad opera di modificatori della frase (avverbi, aggettivi, rafforzativi,
attenuativi), di equivalenti semantici (“scuri” al posto di “neri”, ecc.). L’indagine
ha mostrato una serie di aspetti verbali e non abbastanza interessanti: ad esempio,
il numero delle pause, brevi ma ricorrenti, aumentava significativamente nella condizione di falso 1 rispetto alle altre situazioni. Per quanto riguardava i contenuti
(età e capelli) da menzionare, nella condizione di falso 2 si esprimeva una tendenza a ricordarne di meno; inoltre sempre nella situazione dubitante era presente un
maggior numero di parole interrotte e ripetute. Nella situazione di espressione
della menzogna nei confronti di un interlocutore acquiescente, i soggetti mostravano di utilizzare un numero maggiore di parole ed enunciati più lunghi. In generale, quando i soggetti enunciavano il vero, risultavano più fedeli alla frase standard,
quando, invece, esprimevano un enunciato falso, tendevano ad utilizzare degli
equivalenti semantici rafforzativi piuttosto che attenuativi. In definitiva, nella situazione di falso 1 (con interlocutore passivo), la menzogna aveva maggiore possibilità di successo più che nella condizione di falso 2.
Dall’analisi sperimentale risulta che si dimostrano abili e bravi mentitori quei
soggetti che non manifestano variazioni di tono tra le situazioni di vero, falso 1 e
falso 2. Essi dimostrano di essere bravi attori e registi di se stessi con un notevole
controllo vocale e non trasmettono indizi smascheratori e disvelatori, mantenendo un atteggiamento naturale, sicuro e spontaneo. In genere, in presenza di un
interlocutore indagatore, il mentitore presenta una voce notevolmente più acuta,
più tesa, con maggiori variazioni di tonalità rispetto alla situazione di espressione
della verità. Costui risulta, pertanto, un cattivo mentitore teso dal momento che è
sottoponibile a facile smascheramento proprio in quanto la voce ed il tono sono
indizio di incertezza, di disagio, di desolazione. I mentitori di tale genere risultano
così soggetti “ingenui” poiché non riescono a controllare la propria emotività,
tradendosi da soli e manifestando la loro insicurezza. Dall’indagine condotta risulta, inoltre, un’altra categoria di mentitori, i cattivi mentitori ipercontrollati, che,
112
pur manifestando una diminuzione sensibile della variazione del tono, esasperano
e forzano a tal punto il proprio controllo vocale da rendere la voce quasi “metallica”, “inumana”, rigida e monotonica per l’eccessiva paura di tradirsi e tanto da
ottenere, inconsapevolmente e come effetto indesiderato, il trapelamento di indizi
della menzogna. Anche questa estrema situazione porta il mentitore a manifestare
la sua cattiva fede ed è destinato ad essere facilmente smascherato. Ottimi ingannatori risultano i mentitori machiavellici, caratterizzati da una completa dominanza
degli obiettivi da raggiungere e dei mezzi per il loro conseguimento. Costoro possiedono un ottimo controllo ed un grande distacco che permettono di prendere le
distanze sia dall’interlocutore che dallo stesso atto del mentire.
La difficoltà del mentitore consiste appunto nell’apparire pubblicamente credibile ed in grado di conquistare la fiducia dell’ascoltatore, pur esprimendo affermazioni menzognere. Egli deve “fingere di credere in quello che dice, come se
fosse vero”2. In generale, i migliori mentitori risultano coloro che arrivano ad utilizzare una tecnica a tutto tondo e di full immersion nelle argomentazioni usate a
sostegno della menzogna, fino ad ottenere una tale compenetrazione e simbiosi
tra verità e menzogna che il mentitore si convince della verità stessa della menzogna, considerando l’ipotesi dell’auto-inganno (self-deception), secondo cui si determina un’autopersuasione dell’equivalenza tra vero e falso. Si tratta quasi, in
questa situazione, di arrivare a mentire a se stessi per saper mentire anche agli
altri. Paradossalmente, si giunge a diventare vittime della propria menzogna, ma
felici e soddisfatti poiché la stima di sé rimane alta ed immacolata.
Esiste una distinzione anche tra menzogna preparata e menzogna impreparata.
Nel primo caso vi è un maggiore impegno cognitivo ed una minore partecipazione
emotiva del soggetto. Risulta più semplice pianificare e mettere a punto le strategie espressive e comunicative della menzogna con ottimi risultati sul piano vocale
ed emozionale. Elaborando una menzogna nei tempi e secondo le modalità necessarie, i confini tra il vero ed il falso si mostrano più sfumati grazie all’utilizzo di
espressioni ambigue, enunciati vaghi, forme oscure, evasive e reticenti e per mezzo di sguardi evitati, allontanamento fisico e controllo della gestualità. Di contro,
nella menzogna impreparata il mentitore, non avendo avuto il tempo necessario
per pianificare in modo strategico la propria azione verbale, appare disorientato e
confuso, timoroso della reazione del destinatario con un impegno cognitivo minore ed una maggiore attività emotiva. Tale tipo di menzogna si presenta con enunciati male strutturati, ripetizione di termini, parole interrotte, errori linguistici e
grammaticali; di fronte ad insistenti domande “critiche” da parte dell’interlocutore,
l’emittente risponde con un aumento delle pause e dei tempi di latenza.
Come viene appunto definita da questi accademici “la menzogna viene considerata un atto comunicativo eminentemente vocale e strategico, esempio emblematico di comportamento adattivo nella gestione delle relazioni interpersonali”3.
Mentire si configura, pertanto, come un vero e proprio atto comunicativo
interpersonale, un inter-atto motivato e consapevole oltre che ben pianificato,
113
caratterizzato da una duplice intenzione: una manifesta e l’altra nascosta
all’interlocutore. L’intenzione manifesta (o apparente o fittizia) si esprime attraverso “un messaggio di copertura, per mezzo del quale l’emittente trasmette al ricevente un messaggio falso che, però, deve apparire vero”4; l’intenzione nascosta
(o latente) consiste nella consapevolezza e coscienza di ingannare l’interlocutore,
trasmettendo al destinatario dei messaggi che l’emittente sa non esser veri oppure
omettendo di comunicare delle informazioni rilevanti per il destinatario. Quest’ultima corrisponde ad una metaintenzione, una intenzione, cioé, di ordine superiore, nota solo all’emittente che deve essere accuratamente celata all’interlocutore.
Più in generale, possiamo affermare che “le componenti fondamentali sono date
da: a) la falsità del contenuto dell’enunciato; b) la consapevolezza di tale falsità; c)
l’intenzione di ingannare l’interlocutore”5.
L’atto menzognero presuppone, quindi, l’utilizzo strategico della capacità di
fingere e simulare sostenuto da una attuazione comportamentale di cui il mentitore
risulta attore e rigista. Inoltre la menzogna opera una manipolazione dell’informazione; così si può individuare una distinzione tra il messaggio falso diretto ed il
messaggio falso indiretto che si manifesta ed esprime attraverso omissioni ed
implicitezza. Determinanti al ‘buon fine’ della menzogna risultano essere la capacità di controllo delle componenti emotive, la motivazione della menzogna ed il
rapporto tra codici verbali e non-verbali (movimenti del viso e del corpo, tonalità
della voce, reazioni del sistema nervoso, ecc.). La debolezza del mentitore ingenuo sta proprio nella trasmissione di indizi della menzogna che ne permettono lo
smascheramento dovuti al potenziamento della paura di “perdere la faccia”, la
propria autostima, la vergogna, l’imbarazzo, nonché il senso di colpa nei confronti
degli altri. A tal proposito indizi della menzogna possono trapelare dalle emozioni
che si manifestano sia nel tentativo di dissimulare il disagio che si prova nell’esprimere un enunciato falso sia in quello di simulare un’emozione che non si prova,
ma di cui si vuol comunicare l’effetto. Pertanto ci sono due tipi di indizi: quelli
rivelatori, che rivelano la verità e quelli di trapelamento, che permettono unicamente di capire che l’interlocutore sta mentendo, ma non trasmettono la verità. A
tal proposito Zuckerman ed i suoi collaboratori6 hanno ipotizzato il modello dei
quattro fattori, ossia i fattori che influenzano la produzione di indizi da parte del
mentitore. Questi sono: il controllo del proprio comportamento, secondo cui il
mentitore opera un tale eccessivo controllo e pianificazione del proprio comportamento da determinare una rigidità, una estrema artificiosità ed una innaturalezza
del comportamento stesso da indurre l’interlocutore a sospettare; un altro fattore
consiste nel processo di stato di attivazione, determinato dal costante conflitto tra
la tendenza a dire la verità e a mentire. Il terzo fattore corrisponde all’emozione,
causata dalla paura e dalla vergogna di essere smascherati; l’ultimo fattore è caratterizzato dal grande impegno o sforzo cognitivo dal momento che la falsificazione
dell’informazione e l’espressione dell’atto menzognero richiedono un maggiore
sforzo e impegno nel rendere credibile ed accettabile ciò che si vuol far credere,
114
nonché una pianificazione mentale ben articolata, attenta e raffinata. Il mentitore
vive un conflitto ed una discrepanza tra ciò che sa (ossia il vero), ma non può dire
e ciò che dice (la menzogna) in cui non crede, ma che deve rendere credibile
all’interlocutore. Pertanto lo sforzo mentale e cognitivo è grande ed impegnativo,
dal momento che il soggetto mentitore è in continua tensione nelle procedure di
occultamento, scelte linguistiche, autocontrollo, persuasione, omissioni delle espressioni verbali e non utilizzate. Tali indizi non verbali riguardano, quindi, soprattutto il fattore emotivo, ma indici di tradimento e di disagio sono anche determinati
dall’aumento della dilatazione della pupilla, del battito ciliare, dal crescente ricorso ad una gestualità adattatrice (movimento delle mani, delle gambe, della testa,
direzione dello sguardo), dalla variazione della tonalità, dall’aumento di pause e
di esitazioni all’interno dell’atto comunicativo. Infatti la presenza costante e ripetuta di pause e di interruzioni predispongono l’interlocutore ad un atteggiamento
di sospetto; analogamente anche la comparsa di numerosi errori e ripetizioni che
tradiscono uno stato di ansia contribuiscono ad evidenziare che il mentitore non
esercita una funzione totale di controllo sull’eloquio.
In generale si possono individuare quattro fasi che determinano l’esperienza
del mentire: “la creazione delle condizioni che motivano una comunicazione
menzognera, la preparazione delle strategie per mentire, l’espressione della menzogna, la valutazione del proprio atto comunicativo”7 . Le modalità di realizzazione della menzogna si possono individuare in alcune tecniche comunicative abbastanza comuni nell’atto di trasmissione del falso. L’inganno può essere attivato
attraverso un’accentuazione dei contenuti veri (esagerazione) o, al contrario, da
una loro omissione o possono essere trasmesse informazioni ambigue, vaghe ed
equivoche che allontanano il ricevente dalla verità (affermazioni fuorvianti) e che
hanno il merito di poter essere ritrattate qualora la situazione lo richieda (ritrattazione retroattiva) o ancora che possono essere comunicate solo in parte (mezze
verità), provocando una deresponsabilizzazione del mentitore che dice e non dice
per disorientare l’ascoltatore, rendendo meno netto il confine tra verità e menzogna. Nell’ambito degli “stili” adottati nel processo di falsificazione di un contenuto è possibile individuare ulteriori tecniche quali l’utilizzo di espressioni sintattiche
e semantiche comunicanti incertezza (“Non saprei”, “Non sono certo”, ecc.) oppure l’uso di comunicati minimi al fine di ridurre la funzione informativa del messaggio o il ricorso ad un processo di impersonalizzazione e distanziamento da quanto affermato (“Mi pare di aver sentito dire”, “Si dice che”) per sottolineare il non
coinvolgimento dell’emittente.
Ulteriori indagini sperimentali condotte per la focalizzazione dei principali segni
vocalici del mentitore e degli indizi comunicativi della menzogna hanno portato
all’individuazione di veri e propri stili comunicativi della menzogna. In particolare, sono state analizzate8 due dimensioni linguistiche: gli elementi microstrutturali
e macrostrutturali del discorso. Nel primo caso sono stati considerati indici relativi
115
a parole (numero di argomenti, ripetizioni e interruzioni, indici di eloquenza),
predicati (costruzione nominale/predicativa e struttura personale/impersonale,
tipologia e modo predicativo), pronomi e forme avverbiali. Parimenti sono stati
analizzati anche alcuni indici macrostrutturali (variazioni strutturali di frasi
standard, complessità degli enunciati, organizzazione discorsiva). I risultati di queste
indagini sperimentali hanno messo in evidenza che i soggetti mentitori utilizzano
parole per sfumare la realtà (il cosiddetto ‘effetto seppia’) e scelgono strategie
diverse a seconda delle situazioni: frasi ambigue, prolisse, ma anche assertività,
sinteticità e strategie ellittiche di evitamento (‘effetto camaleonte’).
Tra gli indicatori microstrutturali dobbiamo distinguere due situazioni: di
espressione del falso in situazioni prive di sospetto e in presenza di interlocutori
reticenti. Nella prima condizione vengono rilevati: a) un aumento del numero di
parole utilizzate, del numero di argomenti e dell’indice di eloquenza; b) un utilizzo di frasi predicative e di elisioni dei pronomi personali soggetto; c) un uso maggiore di espressioni dubitative, attenuative ed avversative; d) un generale aumento
delle pause. Nella seconda condizione si hanno: a) una diminuzione del numero di
parole utilizzate, del numero degli argomenti, dell’indice di eloquenza con un conseguente aumento dell’indice di disfluenza; b) una predominanza nell’uso di frasi
nominali con elisione dei pronomi personali soggetto; c) un utilizzo di espressioni
dubitative ed attenuative; d) un aumento dei tempi di latenza delle risposte. La
stessa situazione deve essere tenuta presente per quanto riguarda gli indicatori
macrostrutturali. Nella situazione di falso senza sospetto si evidenziano: a) la presenza di equivalenti semantici attenuativi; b) l’utilizzo di enunciati composti e complessi; c) la posizione centrale degli enunciati falsi per rendere meno “visibile” e
preminente l’informazione falsa. Nella situazione di falso con sospetto compaiono: a) equivalenti semantici rafforzativi; b) l’uso di enunciati semplici; c) la posizione iniziale e finale degli enunciati falsi.
116
In generale di fronte ad interlocutori acquiescenti, il mentitore spesso mostra una tendenza a “raccontare ad arte” la menzogna, arricchendone l’espressione con particolari ed approfondimenti per dimostrare la propria naturalezza,
spontaneità, come quando si dice il vero. Nei confronti di interlocutori
smascheratori, il mentitore cerca di trasmettere il messaggio in modo breve,
conciso, minimamente sottoponibile ad indagine e soprattutto privo di affermazioni facilmente smascherabili. E’ chiaro che l’utilizzo della menzogna è finalizzato a convincere ed influenzare chi ci ascolta per ottenere vantaggi, benefici,
beni, e pertanto deve risultare un atto comunicativo strategico, ben pianificato,
codificato e motivato. Per questo la menzogna implica un atto relazionale a due:
da un lato, l’emittente nella parte del mentitore più o meno abile, dall’altro,
l’interlocutore nel ruolo di vittima o di smascheratore. Così la trasmissione della menzogna risulta non solo un interatto comunicativo, vale a dire uno scambio
intersoggettivo, ma soprattutto un processo dinamico in continua evoluzione (il
comportamento verbale del mentitore cambia continuamente nel corso dell’eloquio
menzognero). Conseguentemente, il successo del mentitore è determinato
dall’interazione tra “l’abilità comunicativa del mentitore e la posizione acquiescente
e passiva del destinatario; per contro, il fallimento è determinato dall’interazione
opposta (incapacità del mentitore e abilità di smascheramento da parte del
destinatario)”9. A tal fine il mentitore deve esercitare su se stesso “un controllo
volontario sulla sequenza delle proprie azioni a livello sia verbale che non-verbale”10. Inoltre il parlante deve essere talmente attento e sensibile ai cambiamenti di atteggiamento del destinatario, da poter riuscire a modificare ed adattare il proprio stile comunicativo nel corso dell’atto linguistico. Così, in presenza di un interlocutore passivo, “il mentitore tende ad essere prolisso e ripetitivo,
con enunciati più lunghi ed articolati [...], adottando uno stile oratorio dimostrativo e probitorio. Per contro, di fronte a una vittima sospettosa e dubitante,
il parlante adotta una modalità di enunciazione sintetica, indiretta, elusiva e
assertiva, evitando talvolta di fornire le informazioni richieste, configurando lo
stile dell’occultamento e dell’evitamento”11.
Per concludere occorre a questo punto chiedersi se, considerati lo sforzo intellettivo, l’impegno emozionale, le strategie linguistiche, le pianificazioni e le azioni
attivati affinché una menzogna risulti valida ed efficace, non sarebbe meno complesso e più gratificante dire sempre la verità. Come sostiene Gulotta “coloro che
dispensano consigli e regole di vita consigliano di dire la verità “perché è più facile
e non c’è bisogno di ricordare quello che si è detto. Se è certo più facile essere
sinceri che mentire, è anche più facile [...] scoprire la verità che la menzogna”12.
Infine, riflettendo ancora un attimo sull’etimologia del termine latino simulare, da cui similis, ‘simile’ che in epoca precedente era semilis con radice indoeuropea
*sem che sta per ‘uno’ o ‘unico’, è facile far corrispondere al verbo ‘simulare’ il
significato di “fare una copia dell’unico”. Ed allora perché non considerare che le
operazioni di simulazione, di falsificazione e di camuffamento non sono poi così
117
contrarie alla realtà dal momento che presuppongono una volontà di realizzare
una copia ‘altra’, ‘diversa’ della verità ma non per questo negativa ed opposta? Mi
pare, quindi, necessario a questo punto, spezzare una lancia a favore della menzogna per riabilitarla avvalendomi delle affermazioni della De Cataldo e del Gulotta
“La strada della verità è una strada senza ritorno. La menzogna, invece, si può
correggere, giustificare, perdonare”13.
1
DE CATALDO NEUBERGER L., GULOTTA G., Trattato della menzogna e dell’inganno, Milano, Giuffré Editore, 1996.
2
ANOLLI L., CICERI R., La voce della menzogna: strategie e indizi vocali dell’ingenuo e
dell’abile mentitore, in Giornale Italiano di Psicologia, XXIV, 3, 1999, p. 575.
3
ID., La menzogna nei bambini dal gioco di finzione alla finzione giocata, XIII Congresso
Nazionale della Sezione di Psicologia dello Sviluppo, Parma, 1999, pp. 15-16.
4
Ibid.
5
ID., La voce della menzogna: strategie e indizi vocali dell’ingenuo e dell’abile mentitore,
op. cit., p. 553.
6
ZUCKERMAN M., DE PAULO B. M., ROSENTHAL R., Verbal and nonverbal communications
of deception, in Advances in expeimental social psychology, vol. 14, ed. L. Berkovitz, New
York, 1985, pp. 1-59; ZUCKERMAN M., DRIVER R.E., Telling lies: Verbal and nonverbal
correlates of deception, in Multichannel integrations of nonverbal behaviour, eds. A.W.
Siegman, S. Feldstein, Hillsdale,1985, pp. 129-148.
7
ANOLLI L., CICERI R., La voce della menzogna: strategie e indizi vocali dell’ingenuo e
dell’abile mentitore, op. cit., p. 558.
8
ANOLLI L., BALCONI M., CICERI R., Linguistic styles in deceptive communication: Lying
between dubitative ambiguity and elliptic avoidment in high and low emotional arousal, in
Journal of Language and Social Psychology.
9
ANOLLI L., CICERI R., La voce della menzogna: strategie e indizi vocali dell’ingenuo e
dell’abile mentitore, op. cit., p. 578.
10
Ibid., p. 577.
11
ANOLLI L., BALCONI M., CICERI R., Ulisse o Richelieu? Stili verbali della comunicazione
menzognera, in Lingua e stile, XXXIV, 3, settembre 1999, Bologna, Il Mulino, p. 397.
13
Ibid., p. 9.
118
FRA BUGIE BUONE E MENZOGNE CATTIVE
di FILIPPO MOTTA
E’ poco probabile che Publio Nigidio avrebbe scritto che c’è differenza fra
mendacium dicere e mentiri se nell’uso latino del suo tempo (il primo secolo a.C.)
queste parole fossero state così diverse fra loro sul piano semantico da non richiedere un intervento lessicologico; tanto meno Aulo Gellio le avrebbe riportate e
discusse nelle Notti attiche se, a distanza di due secoli, quell’opinione dell’erudito
neopitagorico fosse stata confermata e la sua citazione, quindi, resa superflua dall’evoluzione della lingua e dallo stabilirsi nell’uso di una distinzione sufficientemente netta fra i due valori semantici. Secondo Nigidio e Aulo Gellio, cioè, era
avvertibile, a quanto sembra, una differenza fra le due espressioni che ai parlanti
meno dotti o meno sensibili alle sfumature poteva sfuggire e che doveva comunque sparire del tutto con il passare del tempo se è vero che oggi in italiano mendace e menzognero, tipici della variante “alta” della lingua, valgono ugualmente “bugiardo”. Ma vediamo più da vicino come stavano le cose secondo Nigidio, così
come riferisce Gellio nell’undicesimo capitolo dell’undicesimo libro delle Notti
attiche che cito seguendo la vecchia edizione del Hertz1:
Verba sunt ipsa haec P. Nigidii, hominis in studiis bonarum artium praecellentis,
quem M. Cicero ingenii doctrinarumque nomine summe reveritus est: Inter
mendacium dicere et mentiri distat. Qui mentitur, ipse non fallitur, alterum
fallere conatur; qui mendacium dicit, ipse fallitur. Item hoc addidit: Qui mentitur,
inquit, fallit, quantum in se est; at qui mendacium dicit, ipse non fallit, quantum
in se est. Item hoc quoque super eadem re dicit: Vir bonus, inquit, praestare
debet, ne mentiatur, prudens, ne mendacium dicat; alterum incidit in hominem,
alterum non.
Sia Nigidio che Gellio insomma vogliono essere prudentes cercando di eliminare la possibile (e probabilmente già in atto nell’uso) confusione fra due aspetti
di una stessa res. E la questione è appunto questa: la lingua, come avrebbe scritto
Cicerone, è a volte suspecta, cioè sospettabile. Non a caso il capitolo successivo
delle Notti attiche riprende l’argomento riferendo – a dire il vero senza prendere
una posizione decisa – le opposte opinioni di Crisippo e di Diodoro in proposito:
Chrysippus ait, omne verbum ambiguum natura esse, quoniam ex eodem duo
vel plura accipi possunt. Diodorus autem […] “nullum”, inquit, “verbum est
ambiguum, nec quisquam ambiguum dicit aut sentit, nec aliud dici videri debet
quam quod se dicere sentit is, qui dicit.
119
Insomma, seguendo e drammatizzando il dubbio implicito di Gellio, ci si potrebbe chiedere come possano non essere bugiardi gli uomini se bugiarda è, almeno secondo alcuni, la loro forma di espressione più tipica che è la lingua.
D’altra parte, pur continuando a ritenere fondata la distinzione fra mendacium
dicere e mentiri, bisogna riconoscere che esiste una variante diafasica e diamesica
(la lingua letteraria) nella quale mentiri è certamente privo delle connotazioni più
gravi che vi sentivano Nigidio e Gellio: si pensi, ad esempio, a quello di Marziale
dove si prende in giro un tale che cerca di “fingersi” giovane tingendosi i capelli2;
oppure a quelli di Orazio3, e Lucano4 dove mentiri ricorre col significato di “immaginare” con riferimento all’invenzione poetica. Emblematico, a questo proposito, è un passo delle epistole di Plinio dove si riconosce apertamente ai poeti il
diritto a inventare5. Un giudizio apertamente negativo affiora invece, come era
prevedibile, con uno scrittore cristiano come Lattanzio che stigmatizza il mentiri
dei poeti classici in un più ampio contesto nel quale si istituisce un contrasto fra i
racconti veridici dalle Scritture (nella fattispecie l’episodio di Cristo che cammina
sulle acque) e le invenzioni fallaci degli autori pagani:
Cumque iam medium fretum tenerent, tum pedibus mare ingressus consecutus
est eos tamquam in solido gradiens, non ut poetae Orionem mentiuntur in pelago
incedentem6.
E, last but not least, l’etimologia vale davvero “discorso fatto di parole che
affermano la verità della corrispondenza tra queste e le cose che esse rappresentano”? Cioè, è veramente definibile la verità? Non certamente è definibile in positivo, se il lessico greco ricorre a una litote come “la non nascosta” in quanto è
almeno probabile che l’aggettivo sul quale si fonda ¢lˇqeia “verità”, cioè ¢lhqˇj,
sia etimologizzabile con “ciò che non può essere nascosto”.
Certo, però, che l’etimologia in genere “aiuta” ma, purtroppo è muta o quasi
sia per quanto riguarda yeu~ doj che per ciò che attiene a mendum, menda (il fondamento di mendacium) mentre ciò che vi è di certo è unicamente il fatto che in
nessun modo può essere fatto risalire o connesso a mentiri, che ha invece trasparenza etimologica, come accennerò fra poco. L’unica proposta rimasta in piedi per
yeu~ doj, il quale ha certamente un corrispondente nell’armeno sut, è quella di una
voce non estranea a suggestioni di origine onomatopeica, riaffioranti anche
nel nostro bisbigliare, cioè da una base *bhes- “soffiare, gonfiare” (in quanto
l’uno può essere effetto del secondo ed il secondo la condizione richiesta, ad esempio delle gote, per attuare il primo) che si troverebbe anche nell’antico indiano
bhastra-- “otre, soffietto”. Ma non vorrei che anche in questo caso, come spesso
avviene, la spiegazione onomatopeica sia una sorta di via di fuga da un problema
che non presenta soluzioni migliori. Insomma, anche il latino e il greco presentano, per il lessico della “bugia”, come altre lingue indoeuropee, parole senza
vera etimologia (con esclusione, appunto, di mentiri), con al massimo qualche
120
collegamento alloglottico isolato, mentre tutto il lessico indoeuropeo per tale campo semantico è assai lungi dall’essere compatto7, quando non è poco significativo:
così il sanscrito asatja, dal significato di “ciò che non è” solo apparentemente è più
“profondo” di unwahr, mentre, al contrario, è altrettanto banale.
Nessuna ricostruzione metacronica di forme e significati univoci, remoti e
archetipici è dunque possibile, mentre sono produttivi alcuni avvicinamenti di ricostruzione diacronica lingua per lingua o, al massimo, collegamenti fra alcune
lingue ma non altre.
Torniamo, dunque, a menda, che è alla base di mendax e mendacium, e ricordiamo ancora una volta che è tuttora privo di un’etimologia convincente mentre si
ammette normalmente, anche sulla base della corrispondenza formale con l’antico
irlandese mennar “macchia”, che questo sia il significato di partenza anche in latino, implicando di fatto, anche quando si evita di ricordarlo, che in questa lingua si
tratti di una “macchia morale” (perciò anche “errore, difetto, colpa”) e di una
voce dalla quale, infine, si sarebbe concretizzato, tramite suffissazione, il nome
della “bugia”, mendacium. Ma se la lingua è sospettabile e ambigua, figuriamoci
quanto sono affidabili i collegamenti e le evoluzioni semantiche che sulla lingua e
con la lingua operano; ciò che voglio dire è che le cose stanno e non stanno così e
che si può ricostruire un’evoluzione diversa dicendo, in pratica, le stesse cose: ciò
è quanto cercherò di illustrare fra poco.
Occupiamoci, per ora, del suffisso di mendax e di mendacium. È tutt’altro che
trascurabile il fatto che mendax rechi lo stesso suffisso di verax, con il quale forma
una coppia polare. E lo stesso suffisso ricorre in aggettivi che indicano qualità
giudicate non sempre né totalmente positive dalla morale comune, come audax
(che qualifica chi è tanto avido da osare in senso spesso più negativo che positivo,
sì da valere spesso “sfrontato” e “impudente”), fallax (“ingannatore” come mendax,
ma più pericoloso di questo), sagax (una guida brava, ma non necessariamente
buona), tenax (dove è sottile il confine fra “assiduo” e “testardo”), vorax , sulla cui
qualificazione negativa è inutile insistere. Ma la serie potrebbe ampliarsi: così loquax
nella letteratura latina appare riferito, fra le altre cose che qualifica, alla vecchiaia
(secondo Cicerone la senectus è natura loquacior, cioè per sua natura piuttosto
(o troppo?) chiacchierona), alla rana e allo stagno dove questa gracida da Virgilio.
E un discorso più esteso merita procax, derivato, come noto, dalla stessa radice di
precor e dei più rari proco (solo in Livio Andronico) e procor (anch’esso pochissimo attestato). Procax appare connotato ancor più negativamente di procus, che
pure, benché privo di quel suffisso, non qualifica certo benevolmente un pretendente (si pensi soltanto a quelli di Penelope, chiamati ancora in tal modo nelle
traduzioni italiane) e, altrettanto sicuramente, non è usato come un complimento
da Cicerone quando nel Brutus (330) così esorta per bocca del protagonista del
dialogo gli oratori che, come lui, vogliono difendere e conservare il prestigio dell’eloquenza:
121
Hos ignotos atque impudentes procos repudieremus tueamurque ut adultam
virginem caste, et ab amatorum impetu quantum possumus prohibeamus.
Ben più gravi appaiono comunque le connotazioni di procax, sostanzialmente
continuate in italiano.
E’ piuttosto evidente che in questi aggettivi il suffisso –a-k- può avere avuto in
origine la funzione connotativa di indicare gli aspetti non proprio positivi di una
sorta di nomen agentis per così dire esperenziale e cognitivo dal significato di “che
prova, percepisce, attua (consapevolmente o no) x”, in quei casi rispettivamente
avidità o “desideri intensi”, difetti o colpe, il vero (rispetto al quale è a un gradino
di certezza inferiore, quasi al livello del verisimile), la guida (nella caccia, come di
solito si pensa), l’ostinazione nel prendere o tenere qualcosa, il mangiare, il chiacchierare, il circuire. Ma, mentre in alcuni di questi è certamente presente la volontà, in altri è altrettanto sicuramente assente e purtroppo, la mancanza di etimologia per menda non permette di assegnare mendax all’una o all’altra categoria e di
affermare che mendacium sia azione consapevole o inconsapevole, come pare ritenere Nigidio (e con lui Gellio). Certo è che, in ogni caso, il mendax è meno pericoloso del fallax che agisce con l’intenzione di ingannare e di nascondere il vero, sia
di ciò che dice sia di ciò che fa, delle sue parole, quindi, come delle sue azioni.
Quanto a mentior ne è trasparente la derivazione dalla stessa radice di mens
che appare qui intesa non nel senso cognitivo di “organo della comprensione e del
pensiero” ma in quello di “intenzione”. In latino non mancano certamente
attestazioni di questo significato; oltre a quelli già ricordati, nei quali la falsità, pur
con effetti per lo più innocui (ma quante cose sono nocive senza passare per tali?),
è chiaramente intenzionale: si pensi soltanto all’espressione in mente Dei che vale
prevalentemente “nei progetti, nei piani di Dio”. Invece, nell’uso delle lingue romanze, mente è lo strumento essenziale della conoscenza, sia nel senso di una
memoria recettiva, sia in quello dell’elaborazione attiva dei dati. Certo, il significato di “memoria” (come nel dantesco “O mente che scrivesti ciò ch’io vidi / qui
si parrà la tua nobilitate”) appare su un piano nel quale, conformemente ai sensi
che la parola aveva nella filosofia medioevale, mancano quei tratti che invece avevano orientato l’astratto mentio (donde il nostro menzione) verso una concezione
operativa della conoscenza. Ma è interessante che proprio mentio, già carico di
una valenza intenzionale data la sua provenienza da mens, in età latina tarda (ma
quando?) può essere stato alla base di un ulteriore astratto *mentionia, base ipotetica (in quanto ricostruita e non attestata) dell’italiano menzogna, del rumeno
minciuna e del francese mensogne, mensonge (priva di colpa a dare retta al proverbio Tous le songes sont mensonges).
A questo punto, anche in considerazione dell’assenza di un astratto derivato
da mentior (infatti mentitio non solo è un hapax ma è anche testualmente insicuro), non sono mancati i tentativi di giustificare in qualche modo il passaggio da
una innocua menzione – cioè l’azione della memoria che fa un accenno – alle
122
connotazioni caratterialmente negative della menzogna. Anche se può apparire
poco convincente il percorso tracciato da Jud8 che attribuisce la mediazione e
l’estensione peggiorativa all’intervento del latino tardo (ancora: di quando?)
daemonia, certo è che il suffisso –ogna ricorre spesso in parole che orientano verso
concetti, realtà e giudizi tutt’altro che positivi, come risulta dall’elenco, parziale,
fornito da Rohlfs9. Infatti, pur trascurando l’omoteleuto con vergogna (com’è noto
da verecundia, ma anch’essa attraverso una fase * ver(e)con(n)ia dalla quale non
poté certo derivare il castigliano verguenza) e, con Rohlfs, omettendo perfino parole dalla triste suggestione come carogna (da un etimo latino *caronia) e scalogna
(ben inserita in questa serie non perché le sia stato aggiunto il suffisso –ogna ma
per le connotazioni negative della caepa aesculonia, una pianta che si riteneva portasse sfortuna), la lista che egli presentava ne comprende comunque alcune dalla
sfumatura semantica alquanto spiacevole. Tali sono, infatti, putrògna “putridume,
bruttura”, marsògna “marciume”, nivurògna “nuvolaglia”, anbriacògna “ubriacatura”, sbursògna “bolsaggine”, balurdögna “capogiro”, diavolögn “porcheria”,
mangiogna “mangeria”, tutte voci dell’italiano settentrionale, della Lombardia e
del Ticino – una cui vallata, il Gambarogno (“la cameraccia”?) presenta la stessa
terminazione, ad esprimere, forse, lo stesso desolato giudizio su un luogo non
particolarmente bene esposto, come ricorda anche l’adagio locale Gambarogno
dela sfortüna: l’invern senza sö e l’està senza lüna- ma anche meridionale, per lo più
calabro (forse anche perché quello più noto a Rohlfs) che, secondo una tipica
distribuzione areale si sono diffuse probabilmente dalla Provenza o dalla Francia.
Certo è che anche il francese ivrogne, se queste considerazioni sono accettabili, è
parola che caratterizza negativamente un ubriaco, non meno del già citato
anbriacògna. Ugualmente orientato in tal senso è l’italiano rampogna, che implica
un giudizio negativo su chi viene rimproverato; anch’essa è una parola di origine
transalpina, come il dantesco ramogna, un hapax che la tradizione italiana ha spesso assunto ed erroneamente adoperato, senza comprenderlo, nel significato di
“augurio”, laddove, come mostra chiaramente il passo in cui ricorre, che segue il
Padre Nostro cantato dai superbi in Purgatorio XI 19 ss., è un chiaro partner di it.
ramazza, la scopa, detta ramon nel francese antico; in quel passo, infatti la ramogna
è la preghiera destinata a purgare “la caligine del mondo”:
Così a sé e noi buona ramogna / quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo /
simile a quel che talvolta si sogna / disparmente angosciate tutte a tondo /
e lasse su per la prima cornice / purgando la caligine del mondo (25-30)
Questi gli sviluppi romanzi ottenuti tramite suffissazione devalutativa di un
sostantivo che già conteneva l’intenzionalità.
E il latino come esprimeva, se lo esprimeva, il senso negativo di “menzogna”
dal momento che, stando a Nigidio e a Gellio, non completamente negativo
era il valore di mendacium, benché composto con un suffisso che se non era
123
peggiorativo era almeno devalutativo, con parametri che oscillano tra una
connotazione approssimante, ancora chiara nel nostro violaceo ed una invece
spregiativa come quella avvertibile in vinaccia (a meno che questa parola non unisca i due sensi)? Insomma la “menzogna” è sempre stata considerata una cosa
cattiva? Certamente sì con l’italiano bugia, che deriva da una parola germanica
bausi “cattiveria”giunta in Italia tramite la mediazione del provenzale bausia e
continuata in tedesco nell’aggettivo böse. Ma anche qui vi è stato un rafforzamento in senso negativo (come con –ogna suffissato a mentio) tramite il suffisso –ardo
dell’aggettivo.
Più distaccati da un giudizio morale sono il gotico liugan, l’inglese lie e il tedesco lügen che sembrano indicare il “mentire” come deviazione cognitiva, come fa
intravedere l’etimo che rimanda a “deviare”10. Già, ma, al solito, è una deviazione
inconsapevole o consapevole dalla realtà?
E con ciò torniamo a menda, di cui abbiamo provvisoriamente accettato, come
significato di partenza, quello di “macchia morale, errore, difetto”. È proprio vero
che questa sia l’unica strada possibile? C’è un’obiezione culturale di fondo e che
trae spunto da una constatazione universalmente accettata e di recente ripercorsa
da Maria Bettetini11: nel mondo antico non c’è un univoco giudizio morale negativo sulla bugia, che comincia ad essere sistematicamente e totalmente condannata
solo con i Padri e i Dottori della Chiesa, i quali non avrebbero mai, ad esempio,
operato un tentativo di distinzione come quello di Nigidio che mostra quanto
meno l’esistenza di un “dibattito”. Ma, fin qui, quella spiegazione semantica potrebbe ancora reggere. Non regge più, però, se si pensa al concetto, da essa implicato, di “macchia morale”, questo sì del tutto estraneo al mondo antico.
Ma in più c’è un altro fatto e lo dico subito, non prima però di aver ricordato
che menda ha un collegamento con l’irlandese mennar12 che vale “macchia”, ma
soprattutto “pustola”, quindi nulla di morale (ed è assai improbabile un traslato
dall’astratto-morale al concreto-fisico).
In greco esiste, come abbiamo visto, yeu~ doj, che oltre che “bugia” e “invenzione poetica”13 vale “macchia, pustola”. Ma quali macchie e quali pustole? Ce lo
dicono rispettivamente Alessandro di Afrodisia e Teocrito: il primo (Pr. Anecd.
2.58) chiama yeÚdea le macchioline bianche sulle unghie che compaiono, egli dice,
quando si dicono le bugie14 (e ricordo bene che la stessa cosa raccontavano a me
quando ero piccolo). Teocrito, nel dodicesimo idillio (23-24) dichiara:
œgë de/ se/ tÕn kalÕn a≥ne/wn / yeÚdea ˛inÕj Ûperqen ¢raiÃj oÙk ¢nafÚsw
‘Ed io lodando / la tua bellezza non vedrò spuntare / bugie sopra il mio naso
delicato’
Lo scoliaste, forse preoccupato dell’ambiguità che poteva nascere, glossa yeÚdea
con yÚdrax che è il termine più comune per “pustola” e riferisce che i Siciliani
credono che a chi dice le bugie nascano i foruncoli sul naso.
124
In un caso analogo (Idilli, IX 309) ancora Teocrito parla di bolle che spuntano
sulla lingua.
Ecco, allora cosa sono questi yeÚdea e, in origine, anche le mendae: macchie sì,
ma non morali, secondo un’anacronistica identificazione, bensì il segno materiale
di un peccatuccio, che se pure è intenzionale non è comunque grave. Con il lessico
greco, latino e irlandese e con i testi si ricostruisce, dunque, un tratto culturale
antichissimo ed una credenza popolare che arriva fino a Pinocchio.
1
A. GELLII, Noctium atticarum libri xx ex recensione Martini Hertz, Lipsiae in aedibus
B. G. Teubneri, 1886.
2
5.39.46: Mentiris iuvenem tinctis capillis.
3
Ars 151: Atque ita mentitur (Homerus), sic veris falsa remiscet.
4
3.198: Tunc linquitur Haemus/Thracius et populum Pholoe mentita biformem.
5
Epist. 6.21.6: Circa me tantum benignitate nimia modum excessit, nisi quod tamen
poetis mentiri licet.
6
Divin. Inst. 4.15.21.
7
Cfr. C. D. BUCK, A Dictionary of selected Synonyms in the principal Indo-European
Languages, Chicago-Illinois, The University of Chicago Press, 1949, 16.67.
8
J. JUD, Vox Romanica XI, 1950, p.114.
9
G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi,
§ 1069.
10
P. SCARDIGLI - T. GERVASI, Avviamento all’etimologia inglese e tedesca. Dizionario comparativo dell’elemento germanico comune ad entrambe le lingue, Firenze, Le Monnier, 1978,
pp. 203-204.
11
M. BETTETINI, Storia universale della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Milano, Raffaello
Cortina Editore, 2001.
12
A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris,
Klincksieck, 1959, p. 396; J. VENDRYES, Lexique étymologique de l’irlandais ancien: MNOP,
Paris – Dublin, C.N.R.S. – Dublin Institute for Advanced Studies, 1960, M - 39.
13
Ricordiamo la rivendicazione da parte delle Muse della capacità di dire tanto gli ⁄tuma
“le cose vere” che gli yeÚdea, al verso 27 della Teogonia (che riprende quasi letteralmente
il 19, 203 dell’Odissea): G. ARRIGHETTI, Esiodo e le Muse: il dono della verità e la conquista
della parola, Athenaeum LXXX, pp. 45-63.
14
A. S. F. GOW, Notes on noses, The Journal of Hellenic Studies, LXXI, 1951, p. 83.
15
T EOCRITO, Idilli. Introduzione, traduzione e note di Valeria Gigante Lanzara,
Milano, Garzanti, 1992.
125
L’AMANT DE SONIA
PRÉFÈRE LE NEZ DE PINOCCHIO
À CELUI DE CLÉOPÂTRE
Vagabondage iconoclaste autour du mensonge
par FRANÇOIS POYET
Dans cet exposé je veux avant tout attirer l’attention sur les paradoxes, voire les
curiosités qui concernent le mensonge, en piochant, entre autres, par-ci, par-là,
des extraits, parfois développés, de textes qui m’ont paru intéressants.
Bien entendu, on ne saurait appréhender le mensonge sans tout de suite évoquer son caractère paradoxal, et tout d’abord le premier de ces paradoxes connus,
celui d’Epiménide le Crétois, formulé par Eubulide de Mégare au VIe siècle av.
J.C. Tous les Crétois sont des menteurs, dit Epiménide. Dit-il la Vérité? Si oui,
alors les Crétois sont menteurs. Comme Epiménide est lui-même Crétois, il a alors
menti. A-t-il vraiment menti? Si oui, les Crétois ne sont pas menteurs et lui-même
a dit la vérité. Comment peut-il à la fois mentir et dire la vérité? Ce paradoxe peut
s’exprimer sous une autre forme: “cette phrase est fausse”. Est-ce vrai? Si oui,
alors elle est fausse. Est-elle fausse? Alors elle est vraie. Si le paradoxe du menteur
est célèbre, il n’en est pas pour autant unique: il est le fruit de toute proposition
contradictoire qui tend à violer la loi qu’elle prétend imposer, telle que: “il est
interdit d’interdire”, “toutes les règles ont leurs exceptions”. On trouve des exemples similaires, délibérés en littérature comme Ulysse appelé Personne par Polyphème ou comme le capitaine Némo de Jules Vernes ou encore comme le héros du
film intitulé Mon nom est Personne. Afin de réduire ces paradoxes, Bertrand Russel a constitué sa théorie des types qui vise à hiérarchiser les niveaux du discours
et ainsi interdire l’autoréférence: le menteur confond dans une même proposition
l’usage qu’il fait du langage et la mention qu’il en fait.
Nous sommes d’ores et déjà au nœud du langage, de son caractère logique et
de la réalité qu’il est censé recouvrir. Nietzsche ne pose-t-il pas la question, dans
Vérité Et Mensonge Au Sens Extra-Moral: “le langage est-il l’expression adéquate
de toutes les réalités?” après avoir écrit ces lignes:
“Le menteur utilise les désignations valables, les mots, pour faire apparaître
l’irréel comme réel; […] S’il fait cela par intérêt et en plus de façon nuisible, la
société lui retirera sa confiance et du même coup l’exclura. Ici les hommes ne
craignent pas tant le fait d’être trompés que le fait qu’on leur nuise par cette tromperie: à ce niveau-là aussi, ils ne haïssent pas au fond l’illusion, mais les conséquences pénibles et néfastes de certains genres d’illusions. Une restriction analogue
126
vaut pour l’homme qui veut seulement la vérité: il désire les conséquences agréables de la vérité, celles qui conservent la vie, mais il reste indifférent face à la
connaissance pure et sans effets et ressent même de l’hostilité à l’égard des vérités
éventuellement nuisibles et destructrices”.
Il va nous dire que du mot “transposition sonore d’une excitation nerveuse”
nous ne pouvons “conclure à l’existence d’une cause en dehors de nous”. “Comment aurions-nous le droit, si la vérité a seule décidé dans la genèse du langage et
le point de vue de la certitude dans les désignations, comment aurions-nous donc
le droit de dire: la pierre est dure – comme si “dure” nous était connu par ailleurs
et pas seulement comme une explication complètement subjective! Nous répartissons les choses selon les genres, nous désignons l’arbre comme étant du masculin,
la plante comme féminine: quelles transpositions arbitraires!”.
Nietzsche ajoute “La chose en soi” (ce qui serait précisément la vérité toute
pure et sans effets) reste entièrement insaisissable même pour le créateur de langue et ne lui paraît nullement désirable”.
Nietzsche donne une explication généalogique des mots comme résultat de
métaphores successives, d’images en sons articulés, et précise: “En tout cas ce
n’est pas logiquement que se produit la naissance du langage, et, tout le matériel
dans et avec lequel, plus tard, travaille et bâtit l’homme de la vérité, le chercheur,
le philosophe, provient, sinon de Coucouville-les-Nuées, du moins pas, à coup
sûr, de l’essence des choses. Chaque mot devient immédiatement un concept par
le fait que, justement, il ne doit pas servir comme souvenir pour l’expérience originelle, unique et complètement singulière à laquelle il doit sa naissance, mais
qu’il doit s’adapter également à d’innombrables cas plus ou moins semblables,
autrement dit, en toute rigueur, jamais identiques, donc à une multitude de cas
différents. Tout concept naît de l’identification du non-identique”.
“L’omission de l’élément individuel et réel nous fournit le concept, comme elle
nous donne aussi la forme, tandis que la nature au contraire ne connaît ni formes
ni concepts, et donc pas non plus de genres, mais seulement un X qui reste pour
nous inaccessible et indéfinissable”.
“Qu’est-ce donc la vérité ? Une armée mobile de métaphores, de métonymies,
d’anthropomorphismes, bref une somme de corrélations humaines qui ont été
poétiquement et rhétoriquement amplifiées, transposées, enjolivées, et qui, après
un long usage, semblent à un peuple stable, canoniques et obligatoires: les vérités
sont des illusions dont on a oublié qu’elles sont, des métaphores qui ont été usées
et vidées de leur force sensible, des pièces de monnaie dont l’effigie s’est effacée et
qui ne comptent plus comme monnaie mais comme métal”.
“Nous ne savons toujours pas d’où vient l’instinct de vérité; car jusqu’ici nous
n’avons entendu parler que du devoir imposé par la société pour exister – être
véridique, c’est-à-dire employer les métaphores usuelles –, et donc moralement
parlant du devoir de mentir en suivant une solide convention, de mentir avec le
127
troupeau dans un style obligatoire pour tous. Certes l’homme oublie que tel est
son lot; il ment donc inconsciemment de la manière désignée ci-dessus et selon un
habitus séculaire; et précisément à travers cette inconscience, précisément à travers
cet oubli, il arrive au sentiment de la vérité.
A force de devoir désigner une chose comme “rouge”, une autre comme
“froide”, une troisième comme “muette” s’éveille une propension morale à la vérité: de l’opposition au menteur à qui personne ne fait confiance, que tous excluent, l’homme tire pour lui-même la démonstration du caractère respectable,
rassurant et utile de la vérité. Il place maintenant son action en tant qu’être “raisonnable” sous la domination des abstractions”. Bien que dans une autre perspective, Ludwig Wittgenstein, collaborateur du philosophe et logicien britannique,
Bertrand Russel, lui aussi, dans son Tractatus logico-philosophicus publié en 1921
s’attaque au langage où il montre que les vérités logiques ne sont pas les lois générales de la pensée et qu’elles ne sont pas non plus les vérités les plus générales de
l’univers. Reprenant les propos de Wittgenstein, P. M. S. Hacker, dit dans l’ouvrage
qu’il lui a consacré, “les problèmes philosophiques viennent principalement de
malentendus liés à notre langage, car notre langage présente d’une manière semblable des concepts très différents. Le verbe “exister” ne semble pas différent
d’autres verbes comme “manger” ou “boire”, mais alors qu’il y a un sens à demander combien de personnes à la cantine mangent de la viande ou boivent du vin,
demander combien de personnes existent à la cantine n’en a aucun”. En philosophie nous sommes en permanence trompés par des équivoques grammaticales qui
masquent des différences logiques profondes. Les questions philosophiques ne
sont pas tant en quête de réponses que de sens. Il cite Wittgenstein: “La philosophie est une lutte contre la manière dont le langage ensorcelle notre intelligence”.
Que Nietzsche suggère-t-il pour sa part? Nous le trouvons dans les phrases
suivantes: “Tout ce qu’il (l’homme) fait désormais porte le sceau du travestissement, tandis que son action antérieure, par comparaison, portait celui de la distorsion. Il copie la vie humaine, la prend cependant pour une bonne chose et paraît
se trouver fort bien avec elle. Cette charpente et ce chantier monstrueux des concepts à quoi l’homme nécessiteux s’agrippe sa vie durant pour se sauver ne sont
plus pour l’intellect libéré qu’un échafaudage et un jouet au service de ses œuvres
les plus audacieuses: et quand il le casse, le jette en morceaux et puis le reconstruit
ironiquement en accouplant les parties les plus étrangères et en disjoignant les
plus proches, il révèle ainsi qu’il se passe très bien des expédients auxquels on a
recours dans la nécessité et qu’il n’est plus guidé par des concepts, mais par des
intuitions. A partir de ces intuitions, aucun chemin régulier ne mène au pays fantomatique des schémas, des abstractions: le mot n’est pas fait pour elles, l’homme
devient muet lorsqu’il les voit ou bien se lance dans une série de métaphores proscrites et d’agencements conceptuels inouïs pour répondre par une attitude créatrice, fût-ce dans la destruction et la dérision des vieilles barrières conceptuelles,
à la puissante intuition présente”.
128
L’étymologie propre au mensonge ne prête pas à confusion, bien que d’abord
écrit “ mençonge ”, ce mot fut féminin en français jusqu’au XVIIe s., comme il l’est
resté en italien ou en espagnol: il provient du latin mentiri, mentir, qui a lui-même
autant la signification d’inventer des fictions poétiques que celles de tromper ou
de contrefaire; notons, en outre que mentitus, mensonger, est proche de mens,
mentis, l’esprit, la raison.
Dans le texte de Nietzsche que j’ai cité, “mensonge” veut aussi dire “illusion”,
glissement que l’on retrouve dans inganno ottico , l’illusion d’optique en français.
Un “pieux mensonge”, trouve son équivalent “inganno pietoso” en italien, et
s’est trouvé transformé par un homme politique français sous la formule, “un
mensonge de bonne foi” où bonne foi veut proprement dire être convaincu de la
véracité d’une chose; que dire du fameux Eppur, si muove, mot prêté à Galileo
Galilei forcé de faire amende honorable pour avoir proclamé, après Copernic, que
la Terre tourne sur elle-même, contrairement à la lettre des Ecritures?
Le mensonge est protéiforme, les expressions dans lesquelles on le trouve sont
multiples et, suivant le contexte, parfois paradoxales.
Ainsi, je pense qu’à ce stade il est nécessaire de distinguer le mensonge au sens
strict où il implique l’intentionnalité et la volonté de nuire, comme la manipulation mentale, politique, idéologique, médiatique, la désinformation, la censure, la
persuasion clandestine orchestrée à partir d’images subliminales ou autres techniques toutes aussi efficaces, effectivement le mensonge au sens moral, – distinguer
ce mensonge, dis-je, de la prouesse esthétique, des désordres du langage délibérés; bien qu’entre les deux se trouve tout un no man’s land occupé par l’inconscient individuel, l’inconscient collectif, la rumeur, la légende, le mythe, une genèse
du langage induite tant par son développement structural que par une kyrielle de
catachrèses, de confusions, de déformations volontaires ou involontaires, bref, une
succession de tropes ayant jalonné l’histoire des langues, auxquels se prêtent bien
des jeux de mots.
A cet égard j’aimerais vous en présenter quelques illustrations cocasses, à l’occasion desquelles je me permettrai quelques commentaires.
Par exemple, on ne peut ne pas s’empêcher de rapprocher le mot menteur de
celui de mentor quoique ce dernier signifiant guide attentif, conseiller expérimenté,
provienne d’un nom propre grec. Dans le fond, les “Grands Timoniers”, les
“Führer”, les “Duce” seraient-ils des menteurs? Cela laisse pensif. Cette ressemblance phonétique, cette paronomase ne pourrait-elle pas, elle-même, être mise
en abyme à deux niveaux, par la fameuse formule italienne, tout aussi
paronomastique: traduttore, traditore, traducteur, traître, qui peut tout aussi bien
s’appliquer aux guides politiques cités ci-dessus, qu’au rapprochement hasardeux
de menteur et mentor? Si je me lâchais un peu, pour utiliser une expression populaire, oserais-je à cette autre fameuse maxime italienne: se non è vero è ben detto,
ajouter par assonance, doublée d’un procédé littéraire cher à James Joyce, l’anastomose, se non è vero è benedetto, Mussolini?
129
Quelques expressions glanées de-ci, de-là sont révélatrices d’un sens bien réel,
comme, en allemand, Lügen Wie gedruckt, mentir comme si c’était imprimé, ou
Lügen haben Kurze Beine, le mensonge a les jambes courtes, peut-être au point de
s’allonger comme en anglais où lie signifie tout autant le mensonge que s’allonger.
En argot français, n’appelle-t-on pas un avocat, un menteur, lui qui est censé
faire toute la vérité ?
Cela me rappelle cette anecdote où un de mes amis, docteur en psychologie,
aimait, dans sa jeunesse, téléphoner à des sociétés qui organisaient des salons sur
la franchise au sens commercial, bien entendu, pour savoir dans quelle mesure,
lui, qui était particulièrement menteur, y trouverait son compte.
Mensonge, censure déguisée ou catachrèse? Prenons cette apparente curiosité: une rue de Paris se nomme rue du Petit Musc, l’autre rue du Pélican, saviezvous qu’au XIVe siècle elles s’appelaient respectivement, l’une rue de la Pute-ymuse, l’autre rue du Poil au con. Les sybarites auraient-ils été, depuis, exclus par
un puritanisme insidieux?
Déjà, au 18e siècle, Friedrich-Karl Forberg, collaborateur du philosophe Fichte,
avait, dans son De Figuris Veneris, intitulé Manuel d’Erotologie Classique en français, fustigé nombre d’annotateurs, d’interprètes qui, à ses yeux, s’étaient écartés
ou trompés, soit par fausse retenue, soit par ignorance de la langue érotique et de
ses nuances quant aux textes des Anciens. Il en a redécouvert le sens littéral, les
mots pour le moins crus, bien qu’eux-mêmes, dans leur traduction appropriés
soient devenus caducs. Qui se souvient que mentule, vérètre viril signifient chibre
ou phallus? Qui est encore capable de nous expliquer ce qu’est la fututation ou
l’irrumation?
Henriette Walter, spécialiste française de linguistique, nous fait remarquer, dans
son ouvrage L’Aventure Des Mots Français Venus D’Ailleurs, qu’à son origine
latine, cuniculus, puis conil et conin en ancien français, le nom du petit rongeur
ainsi désigné, a pris la forme de lapin dérivé du mot lepus qui désignait le lièvre en
latin, en raison de jeux de mots lestes que ces formes pouvaient susciter. Elle ajoute
qu’en faisant une entorse au sens en voulant préserver la bienséance, on n’avait
pas mesuré toutes les conséquences de ce nouveau choix: elle extirpa de son chapeau, que la femelle du lapin laissait le problème entier.
Ferait-elle, elle-même, preuve de pudibonderie en ne suggérant que la possibilité de jeux de mots, sans les énoncer, ou trouve-t-elle ces jeux de mots laids (mollets), à traiter par dessus la jambe (avec désinvolture)?
Pour ma part, je suis enclin à suivre cette célèbre phrase prononcée par
Talleyrand, au congrès de Vienne de 1814, “Si cela va sans dire, cela ira encore
mieux en le disant”. Aussi me fais-je un devoir de préciser, pour plus de clarté,
que, cuniculus demeure en français sous la forme de cuniculiculture, (élevage de
lapin) et qu’effectivement, conil et conin peuvent se confondre avec conin qui
signifie par ailleurs, sexe féminin, dont on retrouve l’origine latine dans le français
cunnilinge, quand on n’adopte pas carrément la version originelle, cunnilingus,
130
(excitation buccale des organes génitaux féminins). Complétons l’information en
énonçant que la femelle du lapin est la lapine et que le sexe masculin est en argot
son homophone: la pine, l’instrument privilégié du chaud lapin.
Evidemment, on peut toujours s’accorder à penser qu’il y a un double jeu permanent entre le dit et le non-dit, mais malheureusement, sans vigilance, ce sousentendu reste trop souvent sans écho.
A propos de conin, terme abondamment présent dans l’œuvre du Marquis de
Sade, et qui est devenu par la suite, con, en argot moderne et qu’il ne faut pas
confondre avec con qui veut dire crétin, je vais vous relater une anecdote: un ami
Lettriste a voulu parier avec moi: il pensait que le jeu de mot rapporté par Casanova dans les premiers tomes de ses Mémoires concernant son passage à Paris,
portait sur le mot con, préposition italienne qui signifie avec. Or, j’avais lu le début des Mémoires et avais quelques notions d’italien; assez, pour me rappeler
qu’alors, une femme prétendant manier la langue de Dante, avait interverti un
infinitif et un pronom personnel, ce à quoi Casanova avait rétorqué: “Madame, en
Italie on met toujours le vi par derrière”, chacun sachant pertinemment ce que
signifie vit, (du latin vectis, levier,) dans la langue du “Divin” Marquis de Sade.
A l’issue de ce pari pipé d’avance, mon ami a dû me céder une de ses œuvres
plastiques. Avant de parier, assurez-vous de savoir pourquoi l’autre à tort !
Ajouterais-je, encore, cette insanité au sujet du fondateur de Rome, Romulus,
et de son frère jumeau Remus qui ont été recueillis par une louve: la louve, lupa en
latin est aussi le nom d’une prostituée, comme on en retrouve le radical dans le
mot devenu argotique lupanar: maison close, bordel en français. De-là, à les traiter de “hijos de puta”, en espagnol ou de “fils de pute”, en français, il y a un pas
que je ne franchirai pas. Tout le monde sait ce qu’il en coûte de franchir le Rubicon: finalement, peut-être, seulement rougir de confusion.
Pourquoi l’amant de Sonia préfère-t-il le nez du personnage de Collodi à celui
cité par Blaise Pascal dans Les Pensées: “Le nez de Cléopâtre: s’il eût été plus
court, toute la face de la terre aurait changé”?
Quand j’étais jeune, j’avais prétendu à un autre ami Lettriste, qui se rendait en
Italie, que Pinocchio désignait les homosexuels; une erreur que je croyais renforcée par une similitude phonétique en français: Pinocchio, “pine au cul”. De
retour, mon ami m’informe de ma bévue, il s’agissait en fait de finocchio, fenouil,
en français. Pendant longtemps j’ai cru qu’il s’agissait d’une contraction de occhio
fine, fin’occhio, l’œil fin, l’œil de biche, l’œil maquillé jusqu’à ce que, lors d’un
symposium en Autriche, un artiste italien, Gianni Caruso, ne me remette dans le
droit chemin.
Nez en moins, si je peux me permettre, en l’occurrence, pour néanmoins, le
nez de Pinocchio symbolise le mensonge et le nez qui s’allonge, une véritable érection. Y a-t-il du plaisir à mentir, se mentir, comme le laisse supposer le roman du
Japonais Junichirô Tanizaki, intitulé La Confession Impudique? Ce nez, une vraie
trompe d’éléphant, qui trompe-t-il ?
131
L’amant de Sonia ne s’identifie-t-il pas à la menzogna, la bugia et comme dans
le paradoxe du menteur, ne contredit-il pas ce qu’il est en train d’affirmer? Ne
préfère-t-il pas plutôt le nez de Cléopâtre à celui de Pinocchio? Un nez s’allonge,
l’autre pas; ce dernier nous garantit-il la vérité? Si oui, avec, plus ou moins de
plaisir? Situation aporétique, à l’instar de “l’âne de Buridan”?
Il est temps, maintenant, de laver Rita en français pour la vérité en italien:
“opération mains propres”, “mano pulita”?
Ayant délibérément laissé de côté toute incursion qui concernait la création en
général, les créateurs, les falsificateurs et les escrocs culturels, je me suis amusé à
mêler, dans cet exposé, d’authentiques curiosités à des constructions artificielles;
j’y ai effectué une réelle “mise en tropes”. Mon nom Poyet ne provient-il pas du
grec poïetes qui signifie le poète et tout d’abord celui qui commet des artifices? Ne
serais-je pas un grand artificier, un simulateur, voire un sursimulateur? A vous de
vérifier, omnis homo mendax!(tout homme est menteur). Peut-être, vous donnerais-je quelque piste, à l’occasion du cocktail de clôture: in vino veritas, en vous
confiant que Poyet comme la vérité sort du puits. Là encore une similitude phonétique. En effet, le nom Poyet provient du mot puy, montagne volcanique, mot
formé à partir du latin podium.
Dans le fond, cette quête par les jeux de mots, ne ressemble-t-elle pas à ce que
Flaubert aurait voulu signifier quand on lui attribue cette phrase, “Madame Bovary,
c’est moi”, une part d’ombre?
J’aimerais conclure cet exposé en vous recommandant, comme cela se fait couramment, maintenant, à la fin des émissions télévisées, et, bien que je n’en n’ai
point parlé, la lecture de la thèse de Carlo Michelstaedter intitulée, La Persuasion
Et La Rhétorique, ou citer la dernière phrase du Tractatus logico-philosophicus de
Wittgenstein qui en est proche dans sa conclusion: “Ce dont on ne peut parler, il
faut garder le silence”, à moins que je ne vous fasse écouter ce morceau de rapmétal intitulé Web Of Lies, qui n’est pas le World Wide Web, mais simplement ce
qui correspond à l’expression française: un “tissu de mensonges”.
Post-scriptum.
La rigueur intellectuelle me conduit à modifier le titre de cette relation…
perverse ?
En effet, m’étant rendu sur le cru vernaculaire, j’ai constaté que “la menzogna”
ne se prononçait pas “l’amant de Sonia” comme je le pensais, mais plutôt comme
“l’amène Sonia”, ce qui ne change, en vérité, pas grand chose aux aventures, supposées ou sous-entendues de mon personnage de circonstance, accolées à celles
du burattino di Geppetto, – La marionnette du mari honnête m’a ri au net –, ou à
celles de l’aimée de César et d’Antoine.
En outre, à propos du dit et du non-dit, envisagé comme faux mensonge
avéré, à l’instar du “vrai faux passeport”, devenu coutumier, en France, ou comme
132
perversion sémantique délibérée, il faut signaler que dans l’art de décaler les sons,
titre et définition de la contrepèterie, – ce faux lapsus linguae, dénommé “antistrophe” par François Rabelais –, par Joël Martin, il est recommandé de ne pas
prononcer la solution entre complices, bien que pour une bonne appréhension
des permutations, on doive, à la lecture, écrire les deux versants, ou, – comme
l’avait suggéré un lecteur de l’ “Album de la Comtesse Maxime de la Falaise”,
rubrique du journal satirique, Le Canard Enchaîné –, mettre en caractères gras
ces transpositions. D’un côté on masque, de l’autre on révèle: on cache son visage
pour mieux montrer sa croupe, comme le paon lorsqu’il fait la roue.
Quant aux homophonies pures, (et non les à-peu-près), – de même nature que
les vers holorimes, (aux rimes totales), auxquels se sont adonnées quelques célébrités littéraires, par amusement ou défi, la plupart du temps réduits et limités à
un distique alexandrin –, beaucoup plus insidieuses, bien que la transparence même,
elles ne peuvent être comprises que lues: rien ne permet, à l’écoute, de supposer
qu’il y a deux sens à ce l’on entend, ce en quoi, elles ont moins de succès que les
contrepets, auxquels on s’attend, parce que l’environnement, souvent cabaretier
ou salace, le suggère.
Imaginer donc le paradoxe: un poète lettriste, comme moi, spécialiste de poésie phonétique, se livrer à la confection d’innombrables homophonies dans le cadre technique de l’art infinitésimal, (où, tout élément n’est accepté que pour autant
qu’il permette d’en imaginer un autre), et, où la poésie trouve son application!
“L’art n’a cœur: mettez-vous cette formule d’art infinitésimal où je pense, mais
sans doute pas où vous croyez”, vous dit “l’arnaqueur”.
Au bout de mon nez, tant d’art?
133
L’ANAMORFOSI NELL’ARTE MODERNA
E CONTEMPORANEA
di BRIGIDA DI LEO
L’anamorfosi, una sorta di menzogna abbastanza, ma non del tutto, evidente,
ricompare spesso nell’arte contemporanea; nata nel ‘600, è stata per un lungo
periodo trascurata dalle arti figurative.
Nell’Enciclopedia Universale dell’Arte essa viene citata sotto la voce “Prospettiva” e spiegata come una distorsione, e quindi una falsificazione voluta,
della prospettiva stessa:
Quando le distorsioni marginali si siano a bello studio ricercate ed esagerate
(compiacendosi in genere dell’effetto magico o surreale connesso con la circostanza che la rappresentazione, irriconoscibile nella veduta frontale, divenga a
un tratto visibile, quando si ponga l’occhio sul predisposto traguardo), si parla
di anamorfosi e di quadri anamorfotici; i quali ebbero larga voga nel Seicento e
si possono considerare come rappresentazioni prospettiche normali, che interessino tuttavia solo una porzione del piano prospettico largamente eccentrica
rispetto al punto di vista. In pratica la costruzione del quadro anamorfico non si
faceva tuttavia levando la prospettiva direttamente dagli oggetti in forma propria, ma trasferendo meccanicamente sul quadro obliquo un cartone recante
una prospettiva comune e normalmente centrata (di cui per esempio si fossero
perforati i contorni come in un normale spolvero; onde bastava accendere una
candela nel centro di mira, per eseguire una corretta proiezione su di un altro
piano qualsiasi)1.
Secondo Balthrusaitis, l’anamorfosi è quel procedimento mediante il quale si
invertono elementi e principi della prospettiva: “Essa dilata e proietta le forme
fuori di se stesse invece di ridurle progressivamente ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un
punto determinato. Si tratta di una distruzione che prelude ad un ripristino, di
un’evasione che implica, però, un ritorno. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di
illusione ottica ed una filosofia della realtà artificiosa. L’anamorfosi è un rebus, un
mostro, un prodigio”2. Ma dell’anamorfosi esistono anche altre definizioni.
Per Jean-Claude Hémery, l’anamorfosi è, innanzitutto, deformazione:
“Qualcosa di inquietante, innanzitutto. Un viluppo di curve aggrovigliate, stirate. Si intravedono, assoggettati a bizzarre torsioni e ad allungamenti spietati,
corpi flaccidi, confusi, arcuati”3, mentre per Christiane Sacco, l’anamorfosi è
un’evasione condizionata da un ritorno: questo termine, prima applicato soltanto
134
alle arti figurative, oggi viene esteso anche alla letteratura ed alla musica. Interessante è anche la definizione offertaci da Roland Barthes, che vede nell’anamorfosi
uno dei modi per sottrarsi all’analogia, maledizione degli scrittori e dei poeti:
[...] l’umanità sembra condannata all’Analogia, cioè, in fin dei conti, alla natura.
Da qui lo sforzo degli scrittori e dei poeti per sfuggire da essa. Come? Mediante
due eccessi contrari, o se si preferisce, due ironie che mettono l’Analogia in
ridicolo: o fingendo un rispetto spettacolarmente ossequioso (e qui è la copia a
salvarsi) o deformando regolarmente, in base a regole precise, l’oggetto imitato
(e questa è l’Anamorfosi)4 .
L’anamorfosi prende le mosse dalla prospettiva, cioè da una presunta scienza
la quale, però, è una convenzione che nasce dall’esigenza, da parte dell’arte, di
porsi, appunto, come una scienza, il cui obiettivo è la conoscenza esatta e veritiera
della natura. L’artista diventa allora un ricercatore, che traduce la sua visione dello
spazio, la sua concezione del mondo e non la percezione dello stesso.
Un elemento fondamentale, nel realizzare l’anamorfosi, è lo specchio. D’altra
parte, quando, intorno al 1425, Brunelleschi, Paolo Uccello e Ghiberti cercarono
di definire il concetto di prospettiva, fecero uso proprio di uno specchio.
Brunelleschi realizzò due piccoli pannelli in cui erano rappresentati il Battistero
di Firenze, visto dalla porta occidentale della cattedrale, ed il Palazzo della Signoria. Sul primo pannello le costruzioni vennero composte su un fondo argentobrunito, mentre il supporto rimaneva visibile. Brunelleschi praticò un foro nel
punto centrale della visione, attraverso il quale si poteva vedere la composizione
riflessa su uno specchio montato verticalmente di fronte al pannello dipinto. Questo tipo di composizione permetteva di studiare, oltre agli effetti della luce, i rapporti matematici e geometrici che legavano gli oggetti tra di loro. Brunelleschi
allora stabilì una serie di principi che regolano tuttora la prospettiva:
1. Può essere utilizzato, da parte di chi guarda, un solo punto di vista.
2. Le linee parallele, che sono perpendicolari al piano occupato dallo spettatore, convergono verso il punto di fuga principale situato in mezzo alla linea dell’orizzonte.
3. Il piano del quadro intercetta il cono visivo.
La costruzione geometrica della prospettiva è semplice: il piano di proiezione,
chiamato quadro, taglia la piramide dei raggi visivi che vanno dall’occhio, centro
di proiezione, ai punti salienti dell’oggetto. Ciò, però, presuppone una visione
monoculare e l’immobilità dello sguardo. Uno schema di quadrati sul suolo permette di disporre gli elementi di una composizione rispettando le proporzioni
reciproche come le loro rispettive grandezze. La prospettiva, però, se può regolare l’immagine, può anche deformarla: le anomalie che si possono ottenere dipendono dall’angolo visivo o dal piano di proiezione: quella che dipende dal piano di
proiezione è, appunto, l’anamorfosi.
135
Afferma Daniel Lagoutte:
L’anamorfosi è l’immagine ottenuta quando il piano di proiezione (piano del
quadro) non è perpendicolare all’asse del cono ottico (distanza principale). L’immagine è tanto più deformata quanto più il piano è obliquo. Se si guarda in
maniera tangenziale rispetto al supporto l’immagine viene rimandata. Perciò si
può dire che l’anamorfosi è un caso particolare di prospettiva .5
Se si ritiene veritiera la prospettiva tradizionale, automaticamente quella che si
allontana da essa è sicuramente menzognera. Inoltre, mentre la prospettiva tradizionale, offrendo una lettura immediata delle cose, sembra assolutamente vera,
per l’anamorfosi occorre un secondo livello di lettura e bisogna tenere conto dell’illusione ottica che viene a crearsi.
Nella prima anamorfosi, realizzata intorno al 1624-1628 da Simon Vouet, l’immagine è dislocata intorno ad uno specchio cilindrico e l’osservatore “vede simultaneamente la traccia dell’oggetto deformato ed il suo riflesso”6.
Lo specchio, dunque, svolge un ruolo fondamentale in alcuni tipi di anamorfosi
catottrica sia essa cilindrica, conica o piramidale. In epoca moderna l’anamorfosi
diviene medium artistico e oggetto di studio da parte dei Surrealisti (specialmente
Dalì), a proposito dei quali Balthrusaitis dice, dopo aver visitato nel 1946 una
delle loro mostre a New York: “Questa mostra mi ha colpito ed intrigato. Ho
preso il capo del filo. Quando si tiene un buon capo, il filo si svolge e va lontano”7.
Dalì, come tutti i surrealisti moderni, si serve dell’anamorfosi costruita con lo
specchio, che è un mezzo di introspezione, ma anche di interpretazione: a seconda
di come viene usato rimanda la realtà in modi diversi e spesso assolutamente
menzogneri; e se Courbet affermava di essersi avvicinato al realismo per allontanarsi dalla menzogna, Delacroix sosteneva nel suo Journal:
“L’esattezza non è la verità. La pretesa coscienza della maggioranza dei pittori
è la perfezione portata all’arte di annoiare”8.
E ai nostri giorni Michelangelo Pistoletto riafferma l’ambivalenza dello specchio, che frammenta la totalità di ciò che si è ritenuto di simbolizzare. Lo specchio
moltiplica e demoltiplica il mondo, ed allo stesso tempo si moltiplica, si divide, si
demoltiplica. Lo specchio possiede una potenza magica di metamorfosi e
trasfigurazione del reale: l’immagine che ci rimanda, anche di noi stessi, e nella quale siamo portati ad identificarci, è un’immagine falsa, menzognera, inafferrabile, e
per di più ribaltata. Esso è una macchina, e quindi partecipa di una scienza meccanica, la catottrica che, come fa notare Balthrusaitis, è una scienza immaginaria:
“La catottrica non è soltanto scienza della riproduzione esatta della realtà.
E’ anche scienza di un surrealismo visionario”.
Ancora Michelangelo Pistoletto sostiene che
lo specchio ci spinge nella direzione da dove arriva l’immagine, cioè nel passato.
Ci riporta indietro, nello spazio e nel tempo. Ciò che vediamo riflesso davanti
136
a noi è dietro di noi. Questo gioco spaziale è una trasformazione della nostra
situazione nel tempo. Poiché raffiguriamo il tempo nello spazio, si colloca abitualmente il futuro davanti a noi ed il passato dietro. Davanti ad uno specchio,
la cui superficie è parzialmente occupata da un’immagine fotografica, il futuro
non è soltanto davanti, ma si svolge indietro, seguendo il movimento della riflessione. La figura fotografica è trasportata nel futuro delle riflessioni che verranno. Ma noi, davanti allo specchio, siamo proiettati, in ogni istante, all’indietro, nel passato in cui si è fissata l’immagine fotografica. E come vediamo ora,
questa immagine su uno sfondo riflesso di immagini in movimento, nello stesso
tempo presenti e dietro di noi, risaliamo verso di essa percorrendo rispettivamente tutte le tappe del suo movimento dal momento in cui è stato fissato.
L’apertura al presente del quadro specchiante integra dunque il passato ed il
futuro volgendoli l’uno verso l’altro9.
Nell’anamorfosi catottrica lo specchio diviene un mezzo che si iscrive nella
cultura della curiosità,
una cultura che associa incommensurabili repertori di sapere e di esperienze
eterogenee. In un’epoca di grandi mutamenti culturali, come la nostra, è normale che questo modello risorga10.
All’anamorfosi si possono ricondurre anche le opere di Robert Benayoun,
cineasta, scrittore e critico che, entrato in contatto con Breton e Peret, aderì al
movimento surrealista verso il 1948: rappresentante della terza generazione del
Surrealismo, diventa uno strenuo difensore del movimento e sperimenta in maniera raffinata ed affascinante il collage di fotografie, creando le Imagomorphoses,
“così chiamate perché realizzano una proiezione effimera, ma significativa, della
identità psichica; sono ottenute incollando due frammenti complementari di immagini secondo la linea di simmetria scelta, a partire da due clichés, uno normale,
l’altro inverso, della suddetta immagine”11.
Inizialmente queste sperimentazioni vengono da lui tentate sui ritratti dei suoi
amici Breton, Ernst, Dalì, e poi utilizzate anche per i paesaggi. Il risultato è quello
di un’anamorfosi verticale, riferibile anche ad un processo che Benayoun ben conosceva, iniziato una ventina di anni prima, nel 1936, da Leo Mallet con gli Objets
reflets érotiques.
Mallet aveva trovato un modo di sdoppiare l’immagine facendo camminare su
alcune foto di volti e di mani uno specchio tenuto verticalmente e preconizzava
l’uso dello specchio per trasformare in modo irrazionale un’immagine che dimostrasse che lo specchio unifica separando12.
Nell’anamorfosi prende forma la distorsione dell’immagine ed è proprio questa distorsione che abbraccia anche André Kertész, artista di origini ungheresi
che, attraverso la macchina fotografica, realizza una serie di Distorsioni, ottenute
137
mediante specchi deformanti. Che si tratti di opere vicine all’anamorfosi, piuttosto che ad una banale deformazione espressionista del corpo femminile, è testimoniato dal fatto che il risultato ottenuto è quello di una grande trasgressione lirica
dell’amore-passione e la donna rappresentata assume gli aspetti più inattesi:
la deformazione, e soprattutto la deformazione anatomica, implica una sfumatura
negativa. Si pensa ad un peggioramento dell’immagine, caricaturale, assolutamente assente nell’anamorfosi, con la quale invece, si intende presentare un’”altra”
realtà.
Altrettanto interessante è l’anamorfosi realizzata nel 1983 da Herve MathieuBachelot per la fermata del métro di Saint-Germain-des Près a Parigi in cui l’elemento specchiante è costituito da un cilindro di acciaio alto un metro e ottanta,
posto su una lastra di rame sulla quale è inciso il campanile della chiesa; l’autore
stesso dice di aver voluto raffigurare il vecchio campanile, noto in tutto il mondo
“con la magia di una scrittura segreta e volutamente moderna”13.
Anche Raymond Hains tenta esperimenti dello stesso genere, moltiplicando
alcune figure mediante giochi di specchi, oppure disponendo gli oggetti su un
foglio e dirigendo la luce in maniera tale che si ottengano forme che non hanno
più nulla in comune con l’oggetto proiettato.
L’anamorfosi come rottura della prospettiva è stata ripresa in tempi recenti da
Daniel Buren nella costruzione dei Corridorscopes per i quali ripropone la diversità dei punti di vista. L’artista è innanzitutto convinto del principio che “l’opera
diviene un luogo all’interno del quale lo spettatore può muoversi”. I punti di vista
sono costituiti da finestre che permettono di vedere l’opera stessa con risultati
assolutamente differenti.
Altro esempio di anamorfosi è La Stanza di Jan Beutner, che deve essere vista
attraverso un orifizio visuale. Questo orifizio permette di osservare la stanza costruita dall’artista in una visione frontale, rendendo leggibile lo spazio sia in virtù
degli elementi che lo determinano, come le pareti, il pavimento, sia di oggetti che
sono sparsi nella camera stessa come una cassa, una scala, una sedia con un indumento sullo schienale: non c’è spazio per l’indecisione. Ma se si cambia punto di
vista, ci si trova di fronte ad una destrutturazione totale, ad uno stravolgimento
dell’insieme.
Pertanto questo sfigurare la forma è la realtà alla quale aderiamo. L’impostazione
del punto di vista, retroattivamente, apparirebbe come il sotterfugio manipolatore. La percezione attraverso l’orifizio visivo è soltanto una delle possibilità fra
un’infinità di punti di vista. Ma questo punto di vista che impone un ordine,
mette in evidenza il potere del codice spaziale adottato. Ora, come ogni codice,
il codice spaziale (che è quello della rappresentazione) è un codice sociale: esso
viene imposto da un potere. E quest’ordine, come ogni ordine, è arbitrario,
poiché il punto di vista centrato dello spazio determinato è sotto la dipendenza
delle illusioni ottiche dello sguardo che riporta tutto a sé14.
138
Sempre a proposito della prospettiva rivisitata, è interessante la ricerca di Jan
Dibbets, un artista olandese, che lavora sulle “prospettive corrette”, che devono
essere osservate da un punto di vista determinato, cosicché un trapezio viene percepito come quadrato, le ellissi diventano cerchi; si tratta di una sorta di anamorfosi
che vengono realizzate per lo più all’esterno, con materiali effimeri, e conservate
da foto-documento. Dibbets afferma che la prospettiva lineare costituisce un modo
particolare, e menzognero, di vedere le cose; egli vuole correggere la prospettiva
stessa:
“Se le rette parallele sembrano convergere, egli fa in modo che le rette parallele restino parallele”15.
In una sua opera, Il mio atelier, Dibbets disegna su una parete un trapezio che
noi percepiamo come quadrato.
Percepito come un quadrato iscritto materialmente sul muro della stanza, si
dissocia dalla superficie piana perché i lati (che noi concepiamo paralleli al muro)
non obbediscono più allo stesso principio prospettico. La figura elude il codice
spaziale, la sua presenza leggera basta a turbare lo spazio rappresentato16.
L’anamorfosi di Dibbets vuole essere un momento ludico di dissociazione tra
osservazione e realtà.
Dall’anamorfosi è stato affascinato anche Jean Cocteau, che, osservandone una
cilindrica, la descrive con queste parole:
“Su di una tavola simile a quella del gioco dell’oca, sembra che qualcuno abbia sbadatamente rovesciato una ciotola di salsa bianca. Il risultato è un guazzabuglio di macchie e di linee... E’ l’anamorfosi a suggerirmi l’ipotesi di una rivelazione semplice come questo tubo, grazie alla quale l’uomo potrebbe forse capire
che egli accetta come ineluttabili alcuni eventi simili al caso decorativo che cela
l’armonia”.
Il tubo riflettente diviene per Cocteau un ponte gettato tra la poesia e la scienza, tra il razionale e l’irreale (e ad esso, nel 1961, dedicherà un disegno); un elemento che riprende lo specchio da lui impiegato nel cinema, come medium tra il
meraviglioso ed il reale; il mezzo che in Orphée del 1949, trasforma il reale in
meraviglioso. Ed immagini anamorfiche sembrano molte di quelle che egli rappresenta nella sua opera pittorica o grafica, in cui la scena cambia col mutare del
punto di vista e la prospettiva viene ribaltata o annullata, e la superficie piana
riempita di forme che diventano quasi immagini mentali ossessive, che evocano i
tortuosi olivi di Provenza.
“Pur ignorando certamente le antiche anamorfosi cinesi, afferma Balthrusaitis,
il poeta le introduce spontaneamente come immagini simboliche nella propria visione dell’Estremo Oriente, delle sue realtà e delle sue favole”17.
Tutte le anamorfosi contemporanee possono essere ricondotte ad un’unica
matrice: quella dei Surrealisti, ed in particolare di Salvador Dalì, che ne ha riconosciuto “i poteri magici” scoperti “osservando semplicemente gli specchi deformanti, senza eseguire calcoli matematici”18.
139
E se Max Ernst, nel Bevitore di cocktail, del 1945, ottiene un effetto anamorfico
scomponendo la realtà e ricomponendola secondo linee e direttrici che non
rispettano la prospettiva classica, Dalì in alcune sue litografie riesce a combinare
due immagini in una, per cui
osserviamo una farfalla che, riflessa nello specchio, si tramuta nel volto di un
pagliaccio, in testa di clown, e una testa barbuta e capelluta che si trasforma in
una donna nuda, con gli occhi che diventano seni, in uomo e donna19.
La menzogna, come l’ambiguità, diviene soggetto dell’arte: lo spettatore,
abituato ad osservare la riproduzione della realtà, viene spiazzato, ma anche
invitato a riflettere sul confine sottile che separa menzogna e verità.
1
Enciclopedia Universale dell’Arte, Roma, UNEDI, 1976, pag. 127.
J. BALTHRUSAITIS, Anamorfosi, Milano, Adelphi, 1978, pag. 15.
3
Ibidem, pag. 207.
4
D. LAGOUTTE, Histoire succinte de l’anamorphose ou l’analogie en derision, Paris, CNDP,
1993, pag. 7.
5
Ibid., pag. 13.
6
Ibid., pag. 17.
7
Ibid., pag. 20.
8
E. DELACROIX, Journal, 1822-1863, Paris, 25 gennaio 1857.
9
J.-F. CHEVRIER, Michelangelo Pistoletto, in Galeries Magazine, n 54, Paris, AprileMaggio 1993, pagg. 71-72.
10
C. CROS, R. BENAYOUN, in A.A.V.V., À travers le miroir de Bonnard à Buren, Paris, Éd.
de la Réunion des Musées Nationaux, 2000, pag. 214.
11
Boniment du miroir de poche in Le Surrealisme même, n 1, Paris, 1956.
12
C. CROS, op. cit., pag. 214.
13
J. BALTHRUSAITIS, op. cit., pag. 234.
14
G. PÉLISSIER, L’anamorphose et l’art contemporain, Paris, CNDP, 1993, pag. 46.
15
Ibid., pag. 48.
16
Ibid.
17
J. BALTHRUSAITIS, op. cit., pag. 252.
18
Ibid., pag. 223.
19
Ibid.
2
140
MEDIOCRITÀ E GENIO:
GAMBE CORTE, GAMBE LUNGHE
Rimbaud, Apollinaire e gli “interpreti”
di GABRIELE-ALDO BERTOZZI
Bisognerebbe sempre tener conto, quando ci troviamo di fronte a una traduzione,
che il testo originale è stato sottoposto a una interpretazione. E ciò vale particolarmente quando si tratta di testi antichi su cui la macchina del tempo ha influito con
diverse sensibilità e culture successive. Osservazione banale questa se non fosse
suggerita dalla mancata osservazione in molti casi. Così pure la comparatistica – in
cui l’arte del tradurre si può ascrivere –, facilmente intelligibile in linea di principio, è sovente debole nei risultati a causa di un punto di vista troppo limitato,
troppo predominante. Oggi soprattutto il Corano, legato a una flagrante
problematica, ieri più spesso, in occidente, Omero, la Bibbia, Erodoto, Pitagora e
tanti altri. Così l’uomo si fa pure interprete e traduttore di Dio e «Non avrai altri
Dei all’infuori di me», con l’affermazione del monoteismo, diventa «Io sono il
Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Arriviamo alla menzogna.
Credo che le versioni più note siano «Non pronunciare falsa testimonianza contro
il tuo prossimo», poi «Non produrre falsa testimonianza», da cui appare
inequivocabile, in ogni caso, che essa è una colpa, un peccato. Eppure, si potrebbe opinare che la «falsa testimonianza» non contempla tutte quelle forme sotto le
quali si può presentare la menzogna, per non parlare poi dei vari “sinonimi” più o
meno accettabili che tentano di esprimerla. O anche il sofisma è una menzogna?
Un tempo, si dice, anche gli Dei erano bugiardi; si ricorda l’espressione «Vissi
al tempo degli Dei falsi e bugiardi», dove «falsità« e «bugia» non costituiscono
pleonasmo. Anche il Corano differenzia i vari tipi di menzogna, come indicano
per esempio le sure 83, 104, 69, mentre in generale, per opposizione Muhammad
ammonisce: «Aggrappatevi alla verità, liberatevi della menzogna»; «Dite ciò che
è vero, anche se può risultare amaro e spiacevole alla gente». Perfino la nozione
di “mito” in alcuni vecchi vocabolari veniva annoverata con il significato di falsità
(e “falsità” conduce per estensione a “menzogna”), poi, dato che pure i vocabolari
si aggiornano, seguendo l’evoluzione della sensibilità, dell’uso del tempo, è stata
edulcorata e contempla decisamente anche significati più positivi.
Questa breve premessa per giungere a quella nozione di “mistificazione” nell’area di preavanguardia e d’avanguardia, con i due esempi che ritengo più significativi: Rimbaud e Apollinaire. L’uno e l’altro, molto diversi (Apollinaire perfino
non comprese Rimbaud), hanno avuto nel loro tempo e in quelli successivi
un ruolo molto simile per l’incidenza e l’influenza esercitate. Riguardo alla
141
menzogna, il primo, Rimbaud, è, come si dice, reo confesso. Scrive in «Adieu»:
«je demanderai pardon pour m’être nourri de mensonge»1. Ancor più forte, anzi
definitivo, il ritratto che fa di se stesso in apertura a «Mauvais sang»:
J’ai de mes ancêtres gaulois l’œil bleu blanc, la cervelle étroite, et la maladresse
dans la lutte. Je trouve mon habillement aussi barbare que le leur. Mais je ne
beurre pas ma chevelure.
Les Gaulois étaient les écorceurs de bêtes, les brûleurs d’herbes les plus ineptes
de leur temps.
D’eux, j’ai: l’idolâtrie et l’amour du sacrilège; - oh! tous les vices, colère, luxure,
- magnifique la luxure; - surtout mensonge et paresse.2
Dichiara appunto di aver ereditato dai suoi antenati galli l’idolatria e l’amore del sacrilegio, collera, lussuria, menzogna e pigrizia. Di tutti questi vizi qual’è
quello più radicato in lui? Nell’ermeneutica corrente, il fatto che Rimbaud, dopo
aver nominato la lussuria aggiunga per inciso «magnifica la lussuria», diventa
fuorviante per l’aperto, compiaciuto elogio a quello che è invece elencato come
uno dei sette vizi capitali, ma un’attenta lettura rivela, non vi è dubbio, che
ancor più della lussuria è preso dalla menzogna: «surtout mensonge et paresse»
scrive, e sottolineo «surtout».
Vi sono autori celeberrimi che sono ancor completamente da reinventare, così
un’altra divinità della menzogna, su cui non mi soffermerò, è il suo consanguineo
Lautréamont, su cui la critica ha scorto il pelo e ignorato il palo, ignorato cioè
i suoi natali uruguaiani che hanno influito su di lui più delle poetiche francesi.
E pure questa è una forma di menzogna, menzogna involontaria, da distinguere
dalla bugia, che viene ritenuta un’affermazione volontariamente falsa. Per
Apollinaire il discorso è diverso: ha avuto ottimi interpreti pure se resta ancora
qualcosa da dire. Ma torniamo alla frase di Rimbaud. A esempio gli studiosi che si
sono occupati della sua formazione, insistono sull’influenza della Bibbia (ci sarebbe da parlare anche del Corano), di Victor Hugo, di Verlaine naturalmente, moltissimo sui testi orientali e di cabala e di tanti altri, ignorando invece il riferimento
al Cesare delle Guerre galliche, che appare evidente nel brano appena citato.
I Galli, dice, erano bruciatori di erbe. E Cesare si sofferma a lungo e ripetutamente
su questa tattica impiegata da Vercingetorige. Non solo questo, la menzogna stessa che Rimbaud eredita e confessa, faceva parte di quella strategia usata nelle guerre
contro Roma. Si può dire sia una delle osservazioni sul carattere dei Galli su cui
maggiormente si sofferma Cesare. Anche quando si parla delle popolazioni alleate
di Roma. Si ricorda che gli Edui dovevano fornire 10.000 fanti a Cesare e Litavico
aveva avuto il comando di questo importante contingente che doveva raggiungere
l’armata romana. Questi, per trattenere i fanti che comandava, usò la menzogna
spargendo fra loro false notizie, al fine di turbarli e indignarli. Raccontò loro che
“i cavalieri edui, che avevano già raggiunto l’armata romana, con l’accusa
pretestuosa di tradimento, erano stati giustiziati, e così tutti i nobili presenti
142
nell’armata di Cesare e, in particolare, i nobili Eporedorige e Viridomare”. Per far
ingoiare meglio ai suoi uomini questa balla enorme, Litavico produsse anche falsi
testimoni che affermavano di aver assistito all’esecuzione. L’indignazione fu grande e furono massacrati alcuni cittadini romani che, per raggiungere l’esercito, si
erano messi sotto la loro protezione, e un bel convoglio di grano e di provvigioni
fu dato al saccheggio. Se questa attitudine alla menzogna, in ogni caso poco nobile, fosse ammantata, camuffata da una patina di patriottismo, qualcuno potrebbe
pure crederci, ma il seguito di questa vicenda dà proprio ragione a Rimbaud. Il
giovane Eporedorige e il suo amico Viridomare corsero in tutta fretta a raccontare
l’accaduto a Cesare, non per fedeltà a Roma, dal momento – scrive Cesare – che
qualche giorno dopo si misero alla testa di un movimento insurrezionale antiromano
il cui scopo era la rapina, ma, interpretando il ruolo poco onorevole dei delatori,
seguivano un basso sentimento, la gelosia verso Litavico che aveva avuto il comando. Altrove Rimbaud si chiede: “Quel mensonge dois-je tenir?”. Ironia? Lui lo sa,
i critici no! I Deserti dell’Amore furono composti da Rimbaud su due fogli, con
penne e inchiostri diversi, col titolo ripetuto su tre facce e senza paginatura. Paterne Berrichon, cognato postumo del poeta, li pubblicò (1912) invertendo l’ordine
del secondo foglio (prese il recto per il verso), e l’errore si ripeté per quasi mezzo
secolo; qualche distratto, poi, non mancò di rinnovarlo.
Rimbaud fece precedere Les Déserts de l’amour da un’“Avertissement” in
cui scrisse:
Des rêves suivants, – ses amours! – qui lui vinrent dans ses lits ou dans les
rues […].
Questa è seguita da due “episodi”. Nel primo racconta di trovarsi abbandonato in una casa di campagna. Era in una camera scurissima. Una domestica gli
venne accanto… La riversò su una cesta di cuscini e di vele di nave, in un angolo
buio. E termina affermando di essersi inabissato nella tristezza amorosa della
notte.
Nel secondo è invece una prostituta che ha visto in città. Era in una camera
senza luce. Vennero a dirgli che era in casa: e la vide nel suo letto, tutta per lui. Ne
fu scosso, e molto, per il timore della famiglia: così fu preso da un’angoscia senza
nome. La prese e la lasciò cadere fuori dal letto, quasi nuda; e nella sua indicibile
debolezza, le cadde sopra e si trascinò con lei fra i tappeti senza luce. Poi la donna
scomparve e lui versò più lacrime di quante Dio abbia mai potuto chiederne.
Controllato3 il linguaggio erotico del tempo da cui apprendiamo che “rêve”
stava per “membro virile”, come conferma l’ultimo sonetto degli Stupra (“Mon
rêve s’aboucha souvent à sa ventouse”), rileggiamo quanto Rimbaud aveva scritto
nell’“Avertissement”: “Des rêves suivants, – ses amours! – qui lui vinrent dans ses
lits ou dans les rues”. Probabilmente anche qui, “rêve” significa “membro virile”,
e “amour” l’eiaculazione.
143
Ci chiediamo se un critico “ufficiale” come Antoine Adam, curatore delle opere
di Rimbaud per la «Pléiade», fosse proprio sicuro che Les Déserts de l’amour fossero soltanto la descrizione di due sogni. Non aveva dato, tra l’altro, importanza al
punto esclamativo posto dopo «amours» (gli esclamativi si rivelano di grande importanza per l’interpretazione degli scritti di Rimbaud).
Con due opere in una ci troviamo forse di fronte a un gioco geniale che, a
quanto pare, ha le gambe lunghe al contrario di quelle corte dei critici.
Crittografia o mistificazione (dove mistificazione si inserisce lessicalmente, sostanzialmente, nel concetto di menzogna)? Rimbaud si barcamena bene tra le due
con forse maggior propensione – appurata la sua menzognolatria – per la seconda.
«Mais! Qui a fait ma langue perfide […]?», scrive inserendo un bel punto esclamativo!
C’è di più, c’è di meglio! Afferma di aver scritto cose prima inaudite, ma di
riservarne la traduzione: «Je réservais la traduction». O ha voluto far credere di
riservare iniziaticamente questa traduzione!? Così pure quando dice nelle
Illuminations: «J’ai seul la clef de cette parade sauvage», siamo davvero certi che
lui, solo lui, possedesse la chiave di quella parata così ben allestita? Ciò non toglie
nulla a Rimbaud, anzi! Ma toglie molto ai critici che vogliono commentarlo come
si commenta «La quiete dopo la tempesta». Nella mia prefazione a Una Stagione
all’inferno curata per i «Tascabili Economici Newton» scrivevo:
Rimbaud giunge […] alla più assediata ribalta in grande confusione, senza che
sia stata cioè ancor individuata quella scelta di scrittura che lui seppe
sapientemente applicare. Nella sua opera poetica egli non arriva quasi mai a
spiegare, a illustrare qualcosa in modo inequivocabile, lasciando sempre aperto
lo spazio per altre interpretazioni. […] Non è […] un’interruzione, un abbandono, ma un prolungamento lasciato al lettore. A quest’ultimo, come per il
poeta stesso, la chiave dell’interpretazione, a vari livelli, fino al più ambito, quello
della conoscenza, se uno vuol crederci, se pensa di poterla trovare in sé, altrimenti è solo il semplice risultato di una crittografia che il poeta applicò con un
riso soffocato; gioco perverso da una parte, ma constatazione dall’altra che almeno così si rompevano i limiti, si indicava l’ignoto e, estrema crudeltà, l’ignoranza di coloro che hanno voluto incasellare il suo pensiero […] Ne risulta che
la sua opera ci presenta una moltitudine di visioni non formulate nelle quali i
poeti, gli artisti del secolo hanno sempre trovato un passaggio, incessantemente
e con il turbamento e l’emozione che derivava dalle loro intuizioni e aspettative.
Rimbaud aveva capito che più il tessuto poetico si offriva a varie interpretazioni, più esso acquistava di valore, e più queste interpretazioni potevano essere
superate, maggiore sarebbe stata la dinamica della conoscenza/creatività. E’ per
questi accordi con l’ignoto che Rimbaud è apparso continuamente all’inizio,
esempio o emblema di quella nozione di superamento che caratterizza la poesia
del nostro secolo. Insomma la poetica di Rimbaud consiste nell’affrancare i limiti stessi della sua stessa poesia. Per il lettore, l’opera di Rimbaud è tale da
consentire la propria rivelazione dall’incontro di un numero illimitato di punti
144
di vista con aspetti dell’opera: essa non muta pur restando infinitamente disponibile alla verità dell’approccio interpretativo. Scoperta ogni volta e sempre
inesauribilmente da scoprire. E’ questo un sistema crittografico di cui possiede
la chiave solo chi non vuole possederla, perché non esiste”.4
In quanto ad Apollinaire su cui dovrò procedere abbastanza spedito per rispettare i tempi a disposizione, dirò invece che il suo impiego della mistificazione
è piuttosto palese avendola egli impiegata sistematicamente al punto che questa è
divenuta parte integrante della sua poetica. Non solo, ma erede, come pochi, del
sentimento del tempo, si può ritenere davvero il padre di questa formulazione
nuova che sarebbe stata nel vicino Ottocento solo motivo di disappunto e condanna. Al contrario di Rimbaud, quindi, riscoperto solo molto tempo dopo, la virata
di bordo è decisiva e influenzerà direttamente tutti i movimenti d’avanguardia
nascenti e posteriori. Riguardo alla vecchia, eppur amichevole disputa fra Décaudin
e Jannini, noti rappresentanti delle due grandi tendenze esegetiche, quella che lo
vuole all’avanguardia (Jannini) e quella che ritiene discutibile questa collocazione
(Décaudin), ho avuto modo di commentare in un mio scritto5 che sia preferibile,
più vicina agli esiti forniti la seconda, se ci poniamo sul piano dell’ortodossia, ma
non si possono dimenticare i suoi ideogrammi (non tutte le poesie contenute nei
Calligrammes), e ora ribadisco appunto che è avanguardia anche suggerire soluzioni che altri renderanno estreme. D’altronde, eliminati i settori operativi, dovremmo limitarci solo ai testi scritti? Il poeta Apollinaire visse l’avanguardia; intendo proprio dire che anche la sua vita fu avanguardia, come in altro modi, tempi
e luoghi fu quella di Rimbaud. Racconta Gabrielle Buffet-Picabia che una volta,
ospite Apollinaire in una sua casa secondaria, di fronte a un quadretto realizzato
con fiori secchi e conchiglie, sostenne che quella era la vera grande arte, non solo,
ma soffermandosi su un’iscrizione misteriosa per i presenti, disse che si trattava di
antico dialetto irlandese e la tradusse, mentre c’è da credere che avrebbe trovato
difficoltà pure con l’irlandese corrente. Aneddoto poco noto che si legge nelle
memorie della prima moglie di Picabia6 . Fatti più conosciuti, ma forse non sufficientemente evidenziati sono la scoperta del Doganiere Rousseau e di Alfred Jarry.
Il primo, un doganiere di Plaisance7 , che la domenica raffigurava con grande meticolosità soggetti di una naïveté del tutto sconosciuta, fu fatto conoscere da
Apollinaire come uno dei più grandi artisti del secolo. Fu gioco mistificatorio o
convinzione? La storia ha voluto la grandezza del Doganiere e nessun Apollinaire
potrebbe cambiarla. Tra l’altro, Apollinaire rimase molto contrariato quando vide
il quadro La Muse inspirant le poète in cui veniva raffigurato come un grosso
bamboccione vicino a una bambolona. Per Alfred Jarry accadde qualcosa di analogo. Era proprio convinto Apollinaire di quella pièce, Ubu Roi, che fin dall’inizio
altera pure la parola di Cambronne: Merdre? Jarry diverrà ed è ancora ritenuto il
padre del teatro moderno. Gli esiti della mistificazione superano spesso gli intenti
di chi li ha prodotti.
145
1
RIMBAUD, Una Stagione all’inferno, Cura e versione di G.-A. Bertozzi. Testo francese a
fronte, Roma, Tascabili economici Newton, 215, 1995, p. 76.
2
Ibid., p. 30.
3
Ricordo qui parte di un mio scritto pubblicato nel 1976 (A. RIMBAUD, I Deserti dell’Amore, Introduzione e traduzione di G.-A. Bertozzi, Milano, Cisalpino).
4
RIMBAUD, Una Stagione all’inferno, cit., pp. 18-19.
5
G.-A. BERTOZZI, Apollinaire e la romanza del disamato. Con altre poesie di “Alcools” e
una nota sull’Inismo, Chieti, Métis, 1991.
6
G. BUFFER-PICABIA, Rencontres, Paris, Belfond, 1977, pp. 61-62.
7
Altro spargitore di frottole: fece credere di aver partecipato alla spedizione messicana.
146
LIFE IS IT, WHATEVER IT IS
UNA “BLOOMSBURY” FIORENTINA:
IL CIRCOLO BERENSON
di KIKI FRANCESCHI
Metterò a fuoco i rapporti affettivi e passionali tra Bernard Berenson, Mary
Peashall Smith , Nicky Mariano e Geoffrey Scott perché la loro vita mostra come
la storia sia generata dalla vita stessa, essendo la vita piena di storie e di menzogne, immensa e più prepotente della storia perché la oltrepassa e ne scolpisce i
protagonisti.
Se vivere è anelare, come pensava Ortega y Gasset, l’anelare è sempre rivolto a
qualcosa di determinato, è respiro dell’anima, necessità di colmare il vuoto anche con la menzogna, pur di oltrepassare il limite fisso, spinti dalla manifestazione diffusa della speranza. Non hanno una concezione manichea dell’esistenza i nostri personaggi, si lasciano travolgere dagli amori e sempre sanno reinventarsi
al di là di quello che sono. La menzogna è necessariamente parte della loro vita,
del loro modo di concepire l’arte, finzione estrema, utopia ultima, assoluta.
Nel corso di una vita di passioni e intenso studio che ebbe per scenario la
collina di Settignano che è alle spalle del mio atelier di pittura, hanno intensamente amato e mentito, investendosi di un ruolo per poter credere in se stessi,
fingendo e tentando di assumerlo per intero e ostentando di essere a loro agio
in coerenza con una verità- totalizzante utopia- la teoria dell’”Itness” 1 sostenuta da Bernard Berenson, ai principi della quale vollero credere e attenersi,
chi per gentilezza e rispetto come Nicky, chi per nascondersi e auto-commiserarsi come Geoffrey Scott, chi per assolversi come Berenson, chi per costruire
una nuova se stessa come Mary. Essi furono mentitori consapevoli, incuranti
della contraddizione, anzi convivendo spesso dentro le sue maglie”. La bugia
trova rifugio nel corpo, fortezza inespugnabile dove potersi acquattare”, scrive
Lavagetto. La frase si adatta ai nostri personaggi. Le loro singole personalità, i
loro desideri segreti sono serrati in loro, i loro sentimenti sono misteri che non
si lasciano penetrare. Bernard e Mary, Nicky e Geoffrey fanno parte dello stesso mondo: amano l’arte, sono affascinati dalle teorie estetiche ed esistenziali di
fine secolo ed animati da un dirompente impulso vitale che li porta a concepire
la vita in modo estremo. Nel loro percorso esistenziale sono trafitti da slanci
eroici, gravitano in orbite ellittiche, entrano in collisione, eppure rimangono
sempre monadi impenetrabili. Si proiettano nella società accettandone talvolta
i compromessi e rimangono immutabilmente se stessi, nascondendosi dietro il
paravento dell’arte.
147
La menzogna ha i tratti di una legge necessaria.
Sono grandi conversatori, (ai Tatti c’è un celebre salotto letterario, frequentato
“dall’intelligentia” internazionale e locale, D’Annunzio e la Duse che abitavano
vicino, vi erano ospiti di frequente), eppure non si rivelano mai apertamente, amano la conversazione, parlano in società, la loro personalità sociale è spesso il prodotto del pensiero e della presenza altrui, i loro comportamenti sono il riflesso, la
proiezione di quello che si vuole gli altri vedano di loro.
La teoria dell’ “Itness” è il detonatore, il motore della loro esistenza.
Per Bernard Berenson “it” è ogni esperienza ultima, valutata in sé, alla soglia
del conscio. “It” è fede nell’umanità, nella forza vitale dell’umanità, non tanto
perché egli crede nella bontà innata e immutabile dell’uomo, ma perché è coinvolto, travolto dalla prodigiosa forza creativa dell’umanità, perché tutto ciò che fa
parte della storia dell’uomo ne testimonia il genio creatore, l’innato istinto verso
la bellezza. “It” è estetica, estasi ed affondamento, immersione nel sé, ricerca di
una verità-utopia, furore e abbandono nel fluire della storia. Cosmogonia e Nirvana.
Occorre rivolgersi al passato che ognuno porta dentro di sé, nel fondo oscuro
della propria coscienza, là dove svanisce alle soglie dell’inconscio, nel luogo dove
nascono le visioni perché è nel passato, nello sterminato abisso di memorie, di
immagini, che si ritrovano le motivazioni dell’arte e della vita.
La storia è dunque eterna presenza.
Se si rivive la propria vita, le passate emozioni, i profumi, i gesti, in questo
pellegrinaggio alle sorgenti dell’essere ci si trova immersi nell’”Itness”, ci si perde,
si affonda nella nullità, nel non sé.
“A complete life may be one ending in so full an identification with the not
self that there is no self to die”.2
Itness è la promessa di felicità, è l’accorgersi del sangue che pulsa nelle vene, è
il senso della vita nella vita stessa, è la capacità di godere del fatto di esistere, di
sentirsi nel presente e nel cosmo. Itness è momento estetico, quel fugace istante in
cui lo spettatore è una cosa sola con l’opera d’arte che egli guarda. “L’opera e il
fruitore sono la stessa cosa, aboliti lo spazio ed il tempo. Il momento estetico è un
momento di visione mistica”3.
“I have never enjoyed to the utmost a work of art of any kind, whether
verbal,musical or visual, never enjoyed landscape, without sinking my identity into
that work of art, without becoming it”4.
A Bernard piaceva conversare, perché diceva si vive negli altri più che nella
propria pelle. Le persone agivano su di lui come la luna sul mare. Spesso le opinioni degli altri,diceva, ci fanno sentire più vicini all’idea che essi hanno di noi di
quella che noi abbiamo di noi stessi. Gli piaceva che nella conversazione le parole
esprimessero concetti, acquistassero corpo e vita, che ci fosse uno scambio di idee
e suggestioni che producessero un arricchimento reciproco che andasse oltre la
chiusa individualità del singolo. Scrivere o parlare serve a chiarirsi i pensieri, è un
dialogo tra me e gli altri ma è anche un dialogo tra l’io e l’in sé, diceva.
148
Immersione nella vita e condivisione.
Se il senso della vita è nella vita stessa, il senso dell’arte è dentro il fare arte,
perciò non si può godere di un’opera d’arte senza affondarvi, perdere l’identità
all’interno dell’opera, fino a far parte di quell’opera. Il critico Berenson s’impossessa di una grande verità che appartiene solo al pittore e la fa sua.
E’ un’energia di grande forza radiante ed è attratto da tutto ciò che fluisce e
che dà nel mare infinito. La sua è una ruminazione sul mondo: il ricordo scatena il
riemergere di costellazioni passate, le sensazioni, le passioni appaiono e riappaiono
come i cavalli in una giostra.
L’opera d’arte è un incontro umano, spirituale che dà sostanza alla vita.Se la
società borghese tende a raffigurare l’artista come un diverso, condannandolo ad
una continua estraneità, Bernard riporta l’arte nella vita e l’artista nella società
dandogli un ruolo, quello del profeta, del visionario e dell’educatore. L’arte è la
grande finzione, la sublime utopia che riscatta dalla fatica di vivere, è capacità di
andare oltre il contesto, esplorazione dell’uomo entro la trappola che è diventato
il mondo, illusione di trovare una via d’uscita, aprire la porta agli altri. A Berenson
piace dunque avere ospiti, chiacchierare con loro, mettere a loro disposizione la
sua biblioteca, percepire le tante vibrazioni che le continue presenze creano ai
Tatti. Quelle diverse atmosfere promettono qualcosa di nuovo, di piacevolmente
eccitante. Lo stesso entusiasmo e prodigalità sono condivisi da Mary. Entrambi
agli inizi avevano vissuto un po’ da zingari, così scrive Nicky Mariano5 , spendendo molti soldi per restaurare ed ingrandire i Tatti, per creare biblioteca e giardino,
acquistare opere d’arte ed ospitare amici. Era come se vivessero all’interno di
un’enorme ragnatela e gettassero fili in ogni direzione.
Anche per Mary la vita è un futuro inaspettato, sorprendente. Il suo slancio
vitalistico la conduce verso un’esistenza di studio intensissima, proiettata verso
l’esterno, eppure periodicamente Mary ritorna dentro il cerchio, si ritira, si isola,
come alla ricerca della propria interiorità. Entra nella propria solitudine, si assenta
dalla vita sociale. Esce insomma dalla storia. Entrare nel sé è ciò che gli Spagnoli
chiamano “ensimismamiento”, stato della mente per vivere la propria solitudine,
come momento verità-astensione, unico privilegio della condizione umana a cui
Mary periodicamente ricorre. E’ in quei momenti che Mary dispone davvero del
tempo, lo rinnova, lo usa, stabilisce una presa di coscienza dei dati della fantasia e
della finzione.
La solitudine è recupero, è verità anche.
E’ restituzione di quegli elementi e momenti che nascono dall’irrazionale, dal
mistico e dall’onirico e che affondano le radici nel fondo delle memorie e delle
menzogne, imo, nascosto. Proprio qui si ordiscono le trame della creatività e della
finzione, dell’arte. Mary vuole essere protagonista della sua vita, vuole bruciare
d’energia segreta, vuole essere assediata dalle novità, lasciarsi prendere al laccio
dalla libertà o quella che lei crede essere la libertà, – menzogna sottile ed ambigua
–, libertà da che, da che cosa.., e tuttavia vuole rincasare quando vuole entrare
149
nella propria solitudine, riavvolgere i dolori ed il malincuore in penombra, nel suo
letto, allentando il dolore e la rabbia, tentando di sciogliere i nodi che la stringono
da dentro. Menzogna, verità, quale verità? Due forze opposte dominano la sua
vita. Centrifuga e centripeta, il rosso ed il blu, allontanamento e distacco. Continuo ritorno poi. L’amore è un sentimento esaltante, è dono, appartenenza,
condivisione, è un sentimento da spartire con più persone. Lasciarsi rapire da
questo sentimento è uscire dalla propria interezza-verità è uscire dalla propria
solitudine per lasciarsi travolgere dal pulsare della storia, è accettare ogni rischio,
lasciarsi scandire dal tempo.
Nata nel 1864 a Boston dalla famiglia Peashall Smith, quacchera, Mary mette
in pratica gli insegnamenti di sua madre Hannah6 battagliera femminista, certa
che le donne hanno il dovere di conquistare la loro libertà ed indipendenza: nel
1891 scandalizza la Londra vittoriana abbandonando il marito irlandese, il cattolico Frank Costelloe e le due figlie7 . Vuole tagliare con la vita di moglie e mamma,
staccarsi dalla madre adorata, a cui affida le figlie e la cura della famiglia, e fugge
a Firenze, innamorata di Bernard Berenson, dell’Italia e dello studio dell’arte
rinascimentale. Il distacco è lacerante: “The struggle against the chains of
womanhood – the inside chains – is a terribly hard one” – scrive nel suo diario. Il
matrimonio di Mary con Bernard, segnato nei primi anni da un’intensa passione e
in seguito da stima, amicizia, affetto e cementato dagli interessi comuni, sociali,
politici, culturali è un matrimonio aperto, dentro il quale nascono nuove passioni,
nuovi rapporti. Geoffrey Scott e Nicky Mariano sono due grandi amori nella vita
dei Berenson, uniti a loro da intensissimo affetto e da un rapporto amoroso che
causò tensioni e strazi, soprattutto in Mary.
All’inizio, fuggendo in Italia con Bernard, Mary guarda la libertà diritta negli
occhi, cancella ogni visione puritana, vive in modo attivo, sottraendosi al processo
di massa che divora la donna e l’annienta nell’omologazione.
Vuole pensare e decidere come individuo, traccia e apre la sua strada. Avanza
sognando se stessa, affonda nell’ “Itness”. Il sogno è promessa di felicità, è il senso
della vita nella vita stessa, è godere del fatto di esistere, di sentirsi nel presente, è
immersione nella vita sociale. Ma è anche mentire. Parlare e confessarsi è mentire,
è uscire dalla propria interezza-verità perché la personalità sociale è anche il prodotto del pensiero altrui. Mary non se ne rende conto inizialmente: è una donna
liberata, la sua vita emozionale è tutta un accendersi di passioni. Nel 1892 lo scultore Olbrist, nel 1894 il cognato Bertrand Russel, fidanzato della sorella Alys. È
come se liberatasi dai suoi tiranni interni, la famiglia, i doveri coniugali, ora volesse liberarsi anche dai tiranni esterni, le convenzioni sociali, i ruoli femminili. Il
fatto è che è sì fuggita dal ruolo di madre che la società le imponeva, tuttavia
sceglie di esserlo addirittura col marito che protegge con ossessiva cura materna,
con Nicky, la giovane segretaria di Bernard e con Geoffrey Scott.
Si cala dunque nel ruolo, mentendo a se stessa, per sentimentalismo o forse
per ostinazione. Le piace troppo uscire dal mondo delle stelle fisse. Bernard è un
150
carattere appassionato, è geloso, si infuria perché non accetta l’indipendenza amorosa della moglie anche se lui stesso vive tante avventure sentimentali, più o
meno coinvolgenti. Il loro matrimonio va avanti tra tempeste e passioni rinnovate.
Mary vuole sentirsi libera, il suo sentimento d’indipendenza è totalizzante, come
l’amore, onda che muove onda. Quando Bernard s’innamora di Belle Greene da
Costa, giovane affascinante impiegata presso la libreria Morgan di New York, lei è
presa da grande passione per il giovane Geoffrey Scott. Questi è un giovanissimo
architetto inglese che è arrivato casualmente a Firenze perché insieme all’ amico
Maynard Keynes, è invitato dai Berenson alla villa i Tatti per accompagnare in un
giro turistico in auto le ventenni figlie di Mary. È il 1906.
Ai Tatti rimarrà per ristrutturare la villa ed il giardino insieme all’architetto
Cecil Pinsent, entrerà nel gruppo di intellettuali ed artisti che gravitavano intorno
alla villa, sarà amico di Edith Wharton e di Vita Sackville West, con la quale avrà
un’intensa storia d’amore. Sotto l’influenza delle teorie estetiche di Berenson scrive “Architecture and Humanism”, una interessante storia dell’architettura rinascimentale e una biografia romanzata su Madame de la Charrière “The portrait of
Zelide” i cui tratti psicologici ricordano Mary Berenson e circa mille lettere, dal
1906 al 1929 – anno della morte – dalle quali si ricava l’affresco di un’epoca, il
mondo delle grandi ville toscane, veri centri di cultura come i Tatti o Villa Medici
a Fiesole, quel mondo edonistico e pulsante intellettualmente della comunità
anglo-americana.
Geoffrey Scott era fuggito da Oxford, dove studiava architettura. Nell’ambiente universitario la sua condotta anticonformista e le sue inclinazioni omosessuali gli rendevano la vita difficile. L’Inghilterra perseguitava e processava gli omosessuali, il processo ad Oscar Wilde gravava sulla coscienza di molti come un macigno. Persino un dandy come Lytton Strachey descriveva il comportamento di
Geoffrey come decisamente scandaloso. Scriveva Edith Sitwell nella sua “Autobiografia” che si doveva stare attenti e che anche nei circoli artistici ed intellettuali
più esclusivi l’omosessualità era da considerarsi come un crimine riprovevole. “Da
un altro lato c’era la società di Bloomsbury dove regnava un armonioso silenzio.
Questo settore della società mi fu descritto da Gertrude Stein come un’associazione cristiana di giovani, lasciando fuori Cristo, naturalmente”8.
È tutto un intrecciarsi di ruoli e passioni, di verità e menzogne disperate, fantastiche, necessarie, la vita dei Berenson . Ai Tatti si vive in un’atmosfera sospesa
che può rompersi da un momento all’altro, in un crepitio di fuochi d’artificio.
Mary è presa da Geoffrey, e Bernard, nonostante il suo rapporto con Belle, è
furente per la gelosia. Mary lo rassicura scrivendogli che non c’è che amicizia tra
lei ed il ragazzo perché “I am not sure whether a mere friendship without a touch
of sex is impossible to me. He is not my child at all”9. Ma non è vero. Si sente
in sintonia con Scott e non è tanto rassegnata che il suo sentimento debba rimanere platonico. Vuole essergli vicino, confidente e amica, vuole aiutarlo a scoprirsi
ed accettarsi, a verificare insomma le proprie pulsioni sessuali. Geoffrey era
151
affezionato a Mary, dipendeva da lei; in Italia respirava serenità, trovava nuovi
stimoli e inoltre ai Tatti aveva trovato una famiglia che lo amava, una madre protettiva, quella che aveva sempre cercato che lo accettava e gli faceva anche scoprire nuove dimensioni dell’arte. Si sentiva libero, si lasciava inghiottire dal vortice
dei sentimenti. In Italia c’era il sole, gioia di vivere e amare, qui riusciva a liberarsi
da quell’oscuro ed inconfessabile sospetto che la passione è legata alla morte, all’annientamento, tanto schiacciante era il tormento del peccato tra gli intellettuali
vittoriani. In Italia non si sentiva giudicato, poteva vivere senza troppi conflitti tra
verità e menzogna. Bernard Berenson diceva che l’uomo è perfettibile e la
perfettibilità coincide in senso profondo e completo con la libertà, quella di vivere
secondo i propri desideri ed aspirazioni. La storia è il racconto di come l’uomo si
è umanizzato con l’arte, l’artista deve lavorare per questo fine. Utopia come estrema disperata e felice menzogna, alla ricerca della motivazione unica, assoluta.
Mary lo ama teneramente e con molta autoironia scrive nel suo diario: “I am
really fonder of Bernard than anyone else, and Scott, the only human being I feel
much drawn to, is too young. The idea of love of that sort with him is inconceivable
but I still am awfully fond of him...literature has nothing but scorn for old women
growing fond of boys”1 0.
Mary ricerca un rapporto totalizzante, mira alla vita e per vivere come intende
lei bisogna essere disposti a perdere la serenità dell’anima. L’obbedienza non è
poesia, vivere è ricerca dell’incantamento. A costo della solitudine. Quella solitudine affannata, pungolante che la porta a perdersi, dimenticarsi per un po’. Bernard
è sempre più preso dai suoi studi, dalla vita sociale, da nuovi amori. Mary non
sopporta la vita di coppia, i riti coniugali, lo stato abituale in cui si ripetono i
luoghi e i gesti, come i pasti in famiglia. Dopo il silenzio, la stasi, si può ricominciare. È sempre disposta a ricominciare, battagliera ed effusiva, animata da quello
stimolo femminile e menzognero che trasforma le donne in mamme o crocerossine.
Con Geoffrey la sua missione sembrava aver trovato compimento: Geoffrey
era divenuto pian piano più sicuro di sé, si lasciava perfino affascinare dalle donne… Certo non tutte lo attiravano, gli piacevano soprattutto quelle bisognose d’aiuto, orfane, un po’ malate, sole… Assumeva il ruolo di paladino o quello di mamma
lui stesso?
Tra le numerose ragazze che frequentavano I Tatti c’era Nicky Mariano, nata a
Napoli nel 1885 da una nobildonna baltica e da Raffaele Mariano, avvocato e filosofo napoletano. Alla morte della moglie questi si era trasferito a Firenze. Nicky
era bionda con gli occhi azzurri e di fascino slavo, allegra e piena di calore umano,
così ce la descrive Kenneth Clark11.
Geoffrey Scott se ne innamora subito, siamo alla vigilia della prima guerra
mondiale. Nicky deve partire per raggiungere i parenti nelle province baltiche,
Geoffrey poco dopo corteggia lady Sybil Cutting, una ricca americana, madre della futura scrittrice Iris Origo, e proprietaria della prestigiosa villa Medici di Fiesole.
La sposa.
152
Per Mary è un colpo tremendo, si chiude nella sua camera, si isola. È come se
volesse assaporare il tempo che è dimensione della vita, come se volesse entrare
nel labirinto del tempo per rifiutare la bancarotta sentimentale. Durante la guerra
i Berenson sono a villa I Tatti. Le figlie di Mary a Londra sono impegnate nel
campo sociale e pacifista. Quando l’America entra in guerra Bernard è a Parigi
dove la sua grande amica Edith Wharton gli trova un lavoro come interprete presso l’US ARMY intelligence.
Scott è infelicemente sposato, Mary non vuole nemmeno sentirne parlare. Lo
cancella dalla sua vita definitivamente. Dopo il tradimento di Geoffrey, va verso
l’autodistruzione, l’annichilimento. Taglia i ponti col mondo. Ha ormai 55 anni.
Nella solitudine è come se tentasse di riavvolgere il filo dei suoi sogni.
Alla fine della guerra ritorna Nicky. Mary le offre un lavoro come archivista, la
ragazza accetta e viene a stare ai Tatti, diviene parte della famiglia e Mary le si
affezione moltissimo. Bernard è rapito dalla grazia e dall’efficienza di Nicky, ha
buon carattere,è bella, colta e gentile, Mary è sollevata. Se la cura di Berenson era
stato l’imperativo categorico che aveva dato un percorso obbligato alla sua vita,
ora che c’è Nicky si sente liberata da ogni obbligo. E’ come se Nicky fosse l’alter
ego di Mary. Amare ed aver cura di BB come lo chiamano loro, è amare tutti gli
uomini. Amandolo si ha la formula per indossare l’universo, si è elementi attivi
nell’oceano del tempo. Questo è il contenuto della missione delle due donne, questo è il sentimento coibente della loro amicizia. Nella mistica della partecipazione
è il senso della loro vita.
Estrema, assoluta eroica menzogna, scialle entro cui avvolgersi. Entrambe proteggono solidali Bernard, gli facilitano il cammino. Bernard s’innamora della ragazza. Mary lo sa, Nicky sa che Mary lo sa. Niente drammi. Per tutti e tre l’amore
è la ricerca di un dialogo aperto, una spinta a sentirsi vivi, a pensare, a produrre.
È’ lasciarsi rapire dall’Itness.
Nicky fa ora da mamma a tutti quanti, dedicandosi a loro anima e corpo. Quando arrivava, col suo passo da marinaio, il sole tornava a splendere. Per usare una
metafora marinara, Nicky preferiva l’andatura di cappa, che ammaina le vele e
lasciandosi portare salva la barca, quando non riesce a lottare contro il vento.
Mary fuggiva davanti alla tempesta con il vento in poppa ed un minimo di tela.
Salvava sé e la barca, scopriva nuove rive sconosciute dietro l’orizzonte, quando le
acque si erano fatte calme.
La fuga di Mary è dunque una navigazione solitaria, dove occorre molta
forza per tenere la rotta e non soccombere. Nel 1935 un’operazione chirurgica
la debilita tremendamente; nel 1940, Ray, la figlia prediletta, muore d’infarto.
Mary si rifugia nella sua camera. Per cinque anni, tutto il periodo della seconda
guerra mondiale, rimane nel suo letto. Unico contatto col mondo le lettere che
scrive ai suoi cari. Una delle ultime è per Nicky, 5 febbraio 1944: “Soffro tanto
che vedo già spalancata la porta sulla lunga strada che dovrò percorrere da
sola. Ma non so come infilarla… Spero di morire in tempo perché tu possa
153
sposare B.B. Il mio affetto ti seguirà sempre, ma le cose di questo mondo si
allontanano da me”12.
Nicky le risponde il 9 febbraio: “Sarà una sciocca illusione la mia, ma sono
sicura che se B. B fosse rimasto vicino a te in questo periodo, (Berenson è rifugiato
in una villa di Sesto fiorentino per sfuggire ad una probabile cattura da parte dei
tedeschi, essendo ebreo e noto antifascista, n. d. a.) avrebbe con la sua stupenda
vitalità impedito di metterti nello stato d’animo quale me lo presenti.. Ti ringrazio
per le cose che mi dici. Se tu dovessi sparire da un giorno all’altro, non credo che
B. B ed io penseremmo a sposarci. Tutti accetteranno la nostra vita in comune
come una cosa naturalissima e allora perché cambiare?”1 3
Poco tempo dopo, in punto di morte, Mary scrive a Nicky che vorrebbe essere
cremata. Quando questa obbietta che le donne di servizio della villa, così pie e
devote ne sarebbero sconvolte e addolorate, Mary col piglio di sempre scrive a
Nicky che le piacerebbe che di notte andasse a dissotterrare le sue ossa per bruciarle.
Un buon epitaffio per la sua tomba sarebbe stato: “Ciò che si è non lo si può
esprimere appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non si è,
cioè la bugia”, F. Kafka.
1
La teoria dell’Itness mi richiama alla mente la filosofia visionaria di Lawrence Oliphant,
contenuta nel saggio da lui scritto “I and He”. Oliphant,nato a Ceylon nel 1829, ebbe una
vita molto avventurosa. Fece la guerra di Crimea al seguito di Lord Elgin, fu corrispondente a Parigi per “The Times”, venne in Italia per sostenere Garibaldi e Cavour nel 1860. Nel
1867, di nuovo a Boston, conobbe il mistico Thomas Harris, neoswedemborghiano, fondatore di “The Brotherhood of the new life”. Insieme fondano una dottrina tra misticismo,
panteismo e saggezza buddista. Il dovere di ogni credente è quello di aprirsi con gli altri,
vedersi in loro come in uno specchio. La passione sessuale è la sola scelta spirituale per
unirsi agli altri…. Berenson era bostoniano, non poteva non aver avuto notizia di queste
teorie mistico-paganeggianti.
2
B. BERENSON, Sketch for a self portrait, London, Hamilton, 1949, p. 23.
3
ID., Estetica , etica e storia delle arti nella rappresentazione visiva, Firenze, Electa,
1948, traduzione italiana, p. 55.
4
Ibid, p. 138.
5
N. MARIANO, Quarant’anni con Berenson, Sansoni, Firenze, 1964, p. 20.
6
Hannah Whitall Smith, quacchera, fonda in America”Women’s Christian temperance
movement” e a Londra, che ha scelto come luogo d’esilio e di apostolato, fonda Women’s
suffrage movement”. Femminista, il suo credo sociale è venato di misticismo.
7
Ray fu un’ardente femminista e scrisse opere si argomento sociale. Studiosa di matematica applicata ed ingegneria, giornalista della BBC. Il suo libro “The Cause”, pubblicato
nel 1928 è un’opera basilare nella storia del movimento femminista in Inghilterra. Moglie
dello storico Strachey, non entrò nel gruppo di Bloomsbury a cui apparteneva il cognato,
154
lo scrittore Lytton Strachey. Sua figlia Barbara è l’autrice del libro consultato per questo
lavoro.
Karin, studiosa di filosofia è allieva dello zio Bertrand Russel, marito di Alys, sorella di
Mary. Sposò il fratello di Virginia Woolf, Adrian, pacifista, psicoanalista e obbiettore di
coscienza nella prima guerra mondiale. Anche Karin,studia psicanalisi. Si suicida nel 1953,
affetta da manie maniaco-depressive, in seguito alla sua sordità. Sua figlia Ann sposò il
premio Nobel per la chimica Richard Synge.
8
E. SITWELL, Autobiografia, Milano, Rizzoli, 1963, p. 76.
9
B. STRACHEY, J. SAMUELS, Mary Berenson, a self portrait from her letters and Diaries,
London, Hamilton, 1985, p. 305.
10
M. BERENSON, Diary, January 1908.
11
K. CLARK, Introduzione a Nicky Mariano, Quarant’anni con Berenson, op. cit., pag. 2.
12
N. MARIANO, op. cit., p. 299.
13
Ibid., p., 307.
155
LA MENZOGNA IN JULES ROMAINS
Unanimismo e patologia del collettivo
di GABRIELLA GIANSANTE
Intorno al 1913 scoppiò a Parigi una grossa disputa sulla paternità del
“simultaneismo” nella quale furono coinvolti molti poeti, tra i quali Barzun,
Apollinaire, Delaunay, Cendrars, Beauduin, Romains. Alcuni di questi campioni
in lizza erano o saranno poco dopo noti come capi di quelle écoles - così le
ufficializzò Apollinaire - che, coeve del Futurismo, anticiparono i grandi movimenti storici d’avanguardia come Dadaismo e Surrealismo. Ma saranno proprio i
giovani eredi impostisi tra le due guerre a essere causa del loro oblio, fatta eccezione per Apollinaire, fautore prima dell’Orfisme, poi dell’Espit Nouveau. Tra queste, le più facilmente delineabili sono il Dramatisme di Barzun, il Paroxysme di
Beauduin e l’Unanimisme di Jules Romains di cui ora ci occuperemo.
Abbiamo detto «oblio», ma sempre oblio relativo, perché non solo nelle ricerche universitarie, ma tra coloro che si occupano di quel fertile periodo, insomma
per coloro che sanno, questi nomi, queste scuole non sono affatto sconosciuti.
Ricordo Décaudin, Jannini, Dotoli, Zoppi, Bertozzi, e potrei ricordarne altri.
Cosa si prefiggeva o meglio come si configura, come si può definire
l’Unanimismo di Louis Farigule, alias Jules Romains? Per Ezra Pound è una teoria
precisa, quasi una religione. Questa è stata esposta la prima volta quando il futuro
autore de La Vie unanime non era ancora ventenne. Pubblicò il suo manifesto, Les
Sentiments unanimes et la Poésie, su Le Penser nell’aprile 1905, quasi quattro anni
prima della nascita ufficiale dell’avanguardia che, riteniamo, si possa datare senza
incertezze con la pubblicazione del primo manifesto futurista di Filippo Tommaso
Marinetti nel Figaro di Parigi, il 20 febbraio 1909. Nel suo manifesto Jules Romains
affermava che, con sfumature diverse, gli uomini, subiscono l’influenza continua,
progressiva, tirannica che esercita su di loro la società. Noi indoviniamo, aggiunge, la parte del nostro essere che la società ha conquistato, le deformazioni che
impone al nostro “io”; noi fremiamo per essere assorbiti dall’ambiente umano che
ci avvolge e assaporiamo la strana voluttà che ci causa questa specie di annullamento. Consegnati, nostro malgrado, anima e corpo alla città, passiamo dall’estasi
alla rivolta. L’abbandono di se stessi che crea il fascino dell’amore, crea anche
il fascino della vita sociale. Questi sentimenti che traducono nel linguaggio del
cuore i rapporti nuovi e l’intima unione degli uomini sono per natura unanimi
(e sottolinea unanimi).
Leggenda o aneddoto, anche noi non possiamo esimerci dal ricordare come e
quando Jules Romains ebbe la “rivelazione”: mentre l’11 ottobre del 1903 percorreva Rue d’Amsterdam affollata di mercanti e passanti, il giovane sentì e comprese
156
l’esistenza di un’anima comune, un «état d’esprit collectif», intuì la presenza
«d’un être vaste et élémentaire». Ampiezza che talvolta si dilata misticamente in
una sorta di cosmogonia estremamente vicina, nella prassi più che nella teoria, al
Parossismo di Nicolas Béauduin, autore appunto de L’Homme cosmogonique.
Nel 1923, alla vigilia del primo manifesto surrealista, ma dopo la pubblicazione di
Les Champs magnétiques di Breton e Soupault, i due (Jules Romains e Nicolas
Beauduin), dopo le aspre contese dei loro anni eroici, si uniscono pure per difendersi dal minotauro surrealista; il movimento del linguaggio automatico, così come
lo vollero soprattutto i suoi fondatori, non viene nominato espressamente, ma è
fin troppo facile afferrare l’allusione in questa definizione che segue e in cui, sia
pure nell’ingenerosità partigiana, è particolarmente interessante notare (potremmo perfino dire morbosamente intrigante) come viene collocato il Surrealismo
nell’eredità simbolista. Beauduin scrisse allora di essere dello stesso parere di Jules
Romains, quando affermò che la guerra (la Grande Guerra),
interrompant ce remarquable redressement intellectuel des années 1908 à 1914,
avait permis cet imprévisible avènement d’un symbolisme de troisème et même
de quatrième cuvée, basant toute son esthétique sur l’association sans logique
apparente.1
Abbiamo ritenuto opportuna questa premessa teorica e illustrativa, breve in sé
se non fosse per lo spazio a disposizione, per la tipologia stessa di quel mentire che
subito si può definire come menzogna nell’arte (teatro in particolare) e soprattutto arte della menzogna. Si intende dire che la peculiarità di questa alterazione o
falsificazione della verità, dalle più variegate connotazioni, come ormai ha dimostrato questo convegno, si arricchisce qui di una sorta di psicosi della folla - menzogna collettiva - come l’ideò appunto il fondatore dell’Unanimismo.
L’operare si avvale di una raffinata e sempre ludica meccanica mentale che
mirando a creare un ideal tipus dell’alterazione della realtà, pone appunto come
comun denominatore il gioco su cui si innesta la collettività, una campionatura di
persone, o viceversa.
Nella vastissima produzione di Jules Romains (romanzo: ventisette volumi del
ciclo Les Hommes de bonne volonté, poesia, teatro, saggistica), gli esempi al riguardo sono numerosissimi, al punto tale da essere inseriti più in una poetica (arte
del fare) che in una tematica – in altri termini possiamo dire che la sua poetica si
avvale generosamente della descrizione di quel peccato elencato nel settimo comandamento. La peculiarità della sua arte si basa soprattutto su quattro componenti che la rendono del tutto originale e, come tale, pongono il soggetto in un’area
speculativa di particolare interesse per la sua singolarità o meglio unicità. Esse
sono: 1) la pratica del gioco; 2) la scrittura della simultaneità; 3) Intelligentia Mali,
l’intelligenza del male o il male dell’intelligenza; 4) il senso unanime.
La pratica del gioco, componente delle avanguardie, in particolare francesi, spoglia il peccato di tutti i suoi elementi foschi, vuoi torbidi, tipici, generalizzando,
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delle descrizioni colpose. La menzogna veste l’abito della mistificazione, distinguendola così dalle altre forme.
La scrittura della simultaneità, ci riconduce a quanto detto in apertura alla
nostra relazione. Desideriamo aggiungere soltanto, senza togliere il merito a
Dominique Viart che ci ha preceduto con un intero volume dedicato a Jules Romains
et les Écritures de la simultaneité2 , che in effetti le poche ricerche dedicate alla
simultaneità si sono limitate nell’ambito dell’avanguardia, ai soli campi della poesia e della pittura, mentre è bene rivolgere l’investigazione anche altrove. E non ci
riferiamo ovviamente al teatro della simultaneità di cui si è occupato egregiamente
Pär Bergman in «Modernolatria» et «Simultaneità»! I futuristi proponevano una
simultaneità basata più che altro su procedimenti meramente tecnici come quello
della sovrapposizione e/o della moltiplicazione di piani, mentre in Jules Romains
un substrato scientifico, sviluppato ai margini stessi della scienza, in quei confini
in cui sembra confondersi con l’arcano, anima spesso la sua scrittura come se si
trattasse di lanciare qualche sguardo nuovo sul mondo nelle zone improbabili dove
scienza, misticismo, alchimia, magia, parapsicologia si fondono e si confondono,
lasciando alla fabulazione, alla scrittura il compito di sorreggere il discorso o, se si
vuole, di condurne l’esperienza fittizia dell’artificio.
L’intelligenza del male. Qui per non dilungarci, sia per lo spazio a disposizione,
sia perché l’argomento porterebbe veramente lontano, possiamo dire semplicemente che i latori della menzogna in Jules Romains sono sempre intelligenze superiori
che si affermano proprio grazie alla dabbenaggine degli altri personaggi. Sottolineiamo comunque che tale scelta non comporta un’adesione etica dell’autore, anche
se pericolosa per altri che potrebbero subirne il fascino. Ma in questo caso Edgar
Allan Poe, Dostoevskij, Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont e tanti altri, prometei e
luciferi al tempo stesso, sarebbero decisamente più condannabili di lui.
Il senso unanime. Pure per questo rimandiamo a quanto abbiamo già detto
prima.
Le origini in terra d’Alvernia, ai confini con l’Ardèche, di Jules Romains, per la
precisione Saint-Julien Chapteuil a ridosso del monte e della foresta del Meygal,
siamo convinti non sono estranee a queste componenti. Bertozzi docet e, Bertozzi
permettendo, farò riferimento nel sillage dei suoi studi3 a quelle figure della magia
spesso dovute alle lunghe notti degli inverni d’Alvernia, alla vastità dei suoi orizzonti, come i dracs, i lutins, le galipotes, le fades, evidente derivazione popolare di
fée, fata. Sono tutte figure della mitologia popolare di origine celtica, in cui male,
gioco, simultaneità, unanimismo si confondono, si sovrappongono.
Abbiamo accennato alla vastissima produzione di Jules Romains e agli esempi
a che si potrebbero produrre per questo tema, ma due senz’altro sono quelli che a
tutto tondo, cioè dalla prima all’ultima pagina, investono il tema della menzogna.
Il primo, Knock, è quello che con La Vie unanime rappresenta uno di vertici
della sua produzione; l’altro, Volpone, è un’opera in collaborazione con Stefan
Zweig, ma che risente fortemente e soprattutto della poetica di Jules Romains.
158
Entrambi sono pièces teatrali. Per la loro notorietà non riteniamo opportuno
produrre il sunto delle opere; pertanto diremo soltanto che in Knock ou le triomphe
de la Médecine, il nuovo medico condotto di un paese della provincia francese,
riesce in breve tempo a far divenire suoi clienti/pazienti tutti gli abitanti del luogo.
Notevole a tutti gli effetti la scena in cui di notte, dalla sua finestra che offre il
vasto panorama della vallata con il paese, i villaggi e le frazioni, guarda le luci
accese nelle case e le quantifica:
il y a deux cent cinquante chambres où quelqu’un confesse la médicine, deux cent
cinquante lits où un corps étendu témoigne que la vie a un sens, et grâce à moi un
sens médical.4
Di notte, sottolinea, è ancora più bello, perché vi sono le luci. E quasi tutte
sono dovute a lui. Non manca inoltre di aggiungere esilaranti particolari:
Songez que, dans quelques instants, il va sonner dix heures, que pour tous mes
malades, dix heures, c’est la deuxième prise de température rectale, et que, dans
quelques instants, deux cent cinquante thermomètres vont pénétrer à la fois…5
Knock fu rappresentata per la prima volta a Parigi alla Comédie des ChampsElysées, il 15 dicembre 1923, con la notevole interpretazione di Louis Jouvet, mitico attore del cinema francese, che fu anche il protagonista della trasposizione
cinematografica6 . Accompagnata da alcune immagini da noi riprese, l’interpretazione che ascolterete di questo brano, alla fine della nostra relazione, è dovuta alla
voce stessa di Jules Romains de l’Académie Française.
Volpone7 è il nome di un ricchissimo mercante che, con l’aiuto dell’astuto Mosca,
fa credere di essere moribondo affinché tutti lo colmino di doni e favori per poter
poi godere della sua eredità. Il finale, all’insegna della libertà, ha una connotazione
anarchica contraria non solo al potere dei ruoli ma anche a quello del danaro.
Conoscendo la rettitudine di Jules Romains, si può dire che impiega la menzogna
come espediente, senza per questo accettarlo.
1
N. BEAUDUIN, La vivante continuità du Symbolisme, in La Vie des Lettres et des Arts,
XVII, [1923].
2
Lille, Università Charles-de-Gaulle, 1996.
3
In particolare: Magia d’Alvernia, in Bérénice, V, 13 (marzo 1997).
4
J. ROMAINS, Knock, Paris, Gallimard («folio», 60), p.138.
5
Ibid., p. 139.
6
L. Jouvet dans un film de G. Lefranc, Knock, 1951.
7
In italiano nell’originale trattandosi infatti di una pièce di ambiente veneziano
(Paris, nrf/Gallimard, 1950).
159
(seguito dalla IV di copertina)
che ha completamente finanziato i primi 33 storici numeri della Prima e Seconda Serie. Poi
il primo direttore del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie di Pescara, noto
sostenitore di riviste e il casting storico in cui emergono Laura Aga-Rossi, François Proïa,
Antonio Gasbarrini e, come collaboratori, non tutti, ma quasi tutti quelli che riteniamo i
migliori nel mondo. A tal proposito si vedano gli indici pubblicati da Laura Caronna nel
1993. Per gli studiosi/curatori dei numeri speciali abbiamo scelto sempre i maggiori specialisti degli autori trattati, come quelli che ne avevano o avrebbero dovuto, secondo noi,
curare la pubblicazione delle opere complete (es. nella Pléiade per i francesi) quando si
trattava di autori; altrettanto scrupolo lo abbiamo riservato per la letteratura militante, ma
possiamo dire serenamente di non essere mai stati succubi dell’ufficialità, quest’ultima l’abbiamo rispettata quando abbiamo avuto la prova che corrispondeva a meriti reali. e) L’essenzialità del discorso. Si potrebbe dire anche l’esaustività del discorso! Significa che non
pubblichiamo sulla nostra rivista articoli a caso, ma procediamo per numeri monotematici,
rendendo quasi obbligatoria la consultazione del tale o tal altro argomento a tutti coloro
che, desiderando occuparsene o approfondire, non vogliono restare nella schiera dei
dilettanti.
Così, chiunque voglia seriamente documentarsi su Baudelaire, Cros, Rimbaud, Corbière
Nouveau, Huysmans oppure su Maupassant, Integralismo, Impulsionismo, Parossismo,
Simultaneismo, Sincronismo, ma pure su Apollinaire, Romanzo surrealista, Nouveau Roman,
e più recentemente su la Lettere e il Segno nelle “Scritture” contemporanee, Prefuturismo
belga, le Riviste dalla “Belle Époque” ai nostri giorni, Letteratura odeporica, Realtà virtuale, Avanguardia e Modernismo, Fotografia e letteratura, L’idea di “visionario”, Arkitettura
e Avanguardia, Magia, Letteratura occitanica, sul Teatro italiano e spagnolo contemporaneo, sui Mostri dovrà tener conto del lavoro già svolto da Bérénice. Riteniamo infatti che
una rivista che pubblichi un po’ di tutto, di tutti, non serva a molto a causa della dispersione. Questa scelta comporta un limite che è però da noi superato con la soluzione di numeri
prevalentemente monotematici, cioè che danno spazio anche a scritti che meritano in ogni
caso una collocazione, purché rientrino nell’area d’indagine precisata dalla testata: rivista
di studi comparati e ricerche sulle avanguardie. f) Il settore operativo. Bastano poche parole per spiegarlo: la nostra rivista non è esclusivamente letteraria, anzi, si propone di denunciare sempre più i limiti della “letteratura”! È pertanto pluridisciplinare e quando si dice
“di comparatistica” non significa che il primo termine sia sempre la letteratura (es. letteratura e cinema, letteratura e arte). Possiamo quindi parlare non solo di teatro e cinema, ma
anche di architettura e astronomia o dell’Africa nell’immaginario europeo. Ritenendo pure
che la comparatistica pur non avendo un riscontro diretto con le avanguardie, è grazie
all’opera di sensibilizzazione di queste ultime, all’accostamento e perfino unione dei settori
operativi, che ha potuto affermarsi e trarre pure dal limbo discipline come la traduttologia.
g) La forza trainante. Bérénice si avvale pure di un potente motore supplementare che è
l’Inismo. Avendo l’Inismo sue proprie riviste tra cui l’ultima nata è Inism; numerosissimi
siti web, una bibliografia ormai sterminata, una presenza nelle grandi sale espositive internazionali, e facendo l’Inismo molto spesso riferimento a Bérénice, questo agisce come vento
di poppa rendendo non solo più facile la sua promozione, ma più adeguato ai tempi il tipo
di promozione. Come nel caso di Internet. Tra il frontespizio e il sommario infatti si possono leggere gli indirizzi dei siti in cui viene illustrata la nostra rivista: http://
www.angelusnovus.it/berenice/ ma si può vedere pure http://www.inism.org.
A nome di tutti i miei compagni di viaggio, dei miei Colleghi di Dipartimento, vi ringrazio
per l’attenzione e vi auguro buona lettura, Gabriele-@ldo Bertozzi.
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