international mobility e risk management nel
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INTERNATIONAL MOBILITY E RISK MANAGEMENT NEL “VILLAGGIO” GLOBALE DELL’HR Intervista ad Alessandro Renna, Responsabile Reward & International Mobility presso AgustaWestland. A cura di Donatella Di Giuda, Rossella Di Maggio, Francesco Ferrario, Gianmaria Mele, Estelle Sipofo Master in Risorse Umane e Organizzazione 2013 Programmazione flessibile. Conoscere il business per comunicare. L’azienda come “villaggio”. Gestione delle risorse umane all’estero. Gli asset utili per il dislocamento. Problematiche e leve motivazionali nella gestione dell’espatrio. La gestione del rischio come duty of care. Caratteristiche fondamentali per i giovani in cerca di stage. Baveno, 4 Febbraio 2013 – Entriamo nella sala riunioni al piano terra di Fondazione ISTUD, e nell’attesa del nostro ospite, prendiamo posto attorno all’ampio tavolo ovale. Dalla grande vetrata entra una luce piacevole che illumina una pianta posta nell’angolo della stanza. L’atmosfera si accende con l’ingresso del Dott. Renna e del suo collaboratore, Francesco Calò, e dopo le presentazioni di rito ci sediamo pronti per cominciare. È lui stesso a rompere il ghiaccio, cominciando a parlarci di sè e del suo trascorso professionale: “Buongiorno a tutti, mi chiamo Alessandro Renna, ho 43 anni, mi sono laureato a Milano in economia e commercio con specializzazione in risorse umane e attualmente ricopro il ruolo di Responsabile Reward & International Mobility presso AgustaWestland. Le mie mansioni riguardano nello specifico le aree di international mobility e reward, quindi il trasferimento e la gestione del personale all’estero e la parte di compensation, che si compone sia di politiche retributive che di gestione dei sistemi di incentivazione individuale. Un altro ambito di mia competenza, è quello del risk management, che più precisamente viene chiamato business travel security: consiste nell’assicurarsi che il personale inviato all’estero sia tutelato. È una funzione contestuale a quella dell’international mobility.“ La scelta di integrare il risk management con l’international mobility ha lo scopo di esercitare un controllo più diretto e lineare? Quando bisogna decidere dove collocare una determinata mansione, bisogna considerare due driver, uno è la facilità di rapporto che può avere con le altre funzioni: cioè laddove due mansioni abbiano un’interdipendenza biunivoca, è conveniente metterle molto vicine. Il secondo elemento da considerare sono le competenze: se c’è una funzione che ha competenze vicine a un determinato tema, questo gli viene assegnato. Nel caso specifico, quella di conoscere le condizioni di lavoro delle persone all’estero, è una funzione che abbiamo identificato come pertinente al tema dell’international mobility, e quindi l’abbiamo posizionata al suo interno. Com’è strutturata la sua giornata tipo? Mi piacerebbe molto potervi dire che le mie giornate siano ben organizzate e pianificate con precisione. Purtroppo questo non è possibile a causa dei molti imprevisti che vanno affrontati durante la giornata. Questo non è un problema che riguarda solo l’HR, ma è una situazione comune a tante realtà e a tante funzioni diverse. D’altronde se ricevi un input urgente lo devi affrontare subito, e questo fa slittare tutta la programmazione fatta in precedenza. Quello che in questi casi mi viene in aiuto è sicuramente la passione per quello che sto facendo, e poi anche la consapevolezza di fare qualcosa di importante anche per qualcun altro. In un’azienda manifatturiera come la vostra, per un direttore HR quanto è importante la conoscenza tecnica del prodotto dell’azienda? È fondamentale. L’uomo delle risorse umane deve essere dentro al business per restare al centro del villaggio aziendale: se non si conosce il prodotto della propria azienda, non intendo a livello specialistico, ma se non hai un’idea chiara di quello che sta succedendo e delle problematiche tipiche di quel prodotto, rimani ai margini. Per poter essere al centro del villaggio devi essere all’interno del business, devi avere una competenza che ti permetta di anticipare i problemi. Quindi lei vede l’azienda metaforicamente come un villaggio? Esattamente, e come in tutti i villaggi, ci sono persone che lo lasciano e persone che vi entrano, c’è bisogno di far parte di una comunità, perchè diversamente si incontrano delle difficoltà. Questo significa che è fondamentale avere molte relazioni con i diversi livelli aziendali, in modo da captare i segnali deboli che ti fanno capire se ti stai allontanando dal centro del villaggio, e ti permettono quindi di agire per tornarvi. Differisce, e se si come, la gestione delle risorse umane negli altri paesi? Abbiamo un modello organizzativo policentrico. AgustaWestland fino al 2002 era un segmento, i cui estremi erano rappresentati da Italia e Inghilterra. Si lavorava su due sedi, sebbene avessimo diverse dislocazioni in Italia: a livello direzionale la principale è quella a Cascina Costa di Samarate. Era quindi un discorso tra due interlocutori, con un altro terzo elemento importante in Pennsilvanya. Poi abbiamo acquisito la PZL-Swidnik, un’azienda polacca che già lavorava con noi per la produzione delle fusoliere. Quindi attualmente sono quattro i poli fondamentali, e poi ce n’è anche un quinto, costituito da tutte quelle presenze che sono nate nel corso degli ultimi anni per produrre elicotteri nelle zone che non rientrano nelle competenze dei poli già esistenti. La funzione HR in questo contesto va a geometria variabile, tende ad adeguarsi alle situazioni: laddove ci sono presenze consolidate, c’è una persona deputata ad occuparsi direttamente di questo tema. Tipicamente è uno specialista geografico che conosce il contesto dal punto di vista nazionale e si muove all’interno di esso. Nelle realtà meno numerose la situazione è ben diversa. C’è innanzitutto un problema di investimento di una competenza specialistica: parliamo ad esempio di un esperto di international mobility che in un’azienda di cento persone ne mobiliterà due o tre. A quel punto è meglio creare delle funzioni, che noi chiamiamo cross geografiche: c’è un capo geografico per ciascuna delle quattro geografie (Italia, Inghilterra, America e Polonia), e poi ce n’è un altro chiamato rest of the world, che sostanzialmente svolge delle funzioni di coordinamento per tutte le Joint Ventures che competono al quinto polo. Per ridurre il costo di questa struttura si ricorre al delayering: cioè si taglia un livello manageriale e si accorpano delle responsabilità, andando a rendere più flat l’organizzazione. Per quanto riguarda l’International mobility, che tipo di formazione e competenze, sia tecniche che personali, ricercate nelle persone da mandare all’estero? Ci sono tre o quattro caratteristiche che una persona da mandare all’estero dovrebbe avere. La prima riguarda le abilità linguistiche. La seconda è un cross culture mind set, cioè la capacità di cogliere il vero aspetto e la vera essenza di una peculiarità culturale. Il terzo elemento è la curiosità; è necessario porsi delle domande, ed è solo in questo modo, con delle ipotesi che poi vengono smentite o confermate dalla realtà, che impari a conoscere le persone con cui stai lavorando. Infine la quarta ed ultima caratteristica è la resilienza, cioè la capacità di non mollare al primo colpo. Non è un aspetto da sottovalutare. Queste caratteristiche vanno intercettate sin da subito nella persona. AgustaWestland è un’azienda di stampo tecnologico, in cui si sceglie una persona piuttosto che un’altra per andare in un certo posto, in base a chi dei due è in grado di risolvere tecnicamente il problema. Però non è detto che una persona molto brava da un punto di vista tecnico abbia tutte le caratteristiche di cui abbiamo parlato prima; è dunque necessario bilanciare le competenze tecniche con quelle attitudinali. Quali sono le principali problematiche che la direzione delle risorse umane si trova ad affrontare nella gestione del personale espatriato? Innanzitutto sarebbe bene evitare che la persona mandata all’estero ci vada con gli stimoli sbagliati, come ad esempio il mero aspetto economico. Il secondo aspetto su cui l’azienda deve dare delle sicurezze riguarda la presenza di un fil rouge che consenta alla persona di comprendere la continuità con la propria carriera prima del trasferimento. Il vero problema della mobilità internazionale è dato dall’assenza di un grosso paracadute; non c’è il capo vicino al quale poterti rivolgere, a volte lavori anche con un fuso orario di sei ore di differenza, quindi, senza dubbio, c’è la necessità di far sentire l’azienda vicina al dipendente e dunque fargli percepire che c’è un’attenzione nei suoi confronti. L’unico modo che si ha per mantenere la persona motivata è stargli vicino, per capire come sta vivendo questo momento di transizione. Un'altra opzione è la possibilità di creare un ambiente organizzativo che sia il più possibile simile e lineare. Ciò è abbastanza complicato ed è una sfida anche per noi. La vera differenza tra lavorare in Italia e all’estero comporta il dover sottostare ad una serie di regole completamente diverse; dunque la funzione dell’international mobility non è solo quella di gestire delle persone all’estero, ma è anche una funzione specialistica nel padroneggiare temi quali la parte fiscale, la parte pensionistica, la parte immigration e le regole che presiedono all’effettiva coerenza di un invio di una persona all’estero. Quindi la maggior leva motivazionale per la persona che va all’estero è il lato economico, al di là del fatto che l’azienda lo accompagni durante tutto il soggiorno? Il lato economico è importante in un contesto di business in cui le promesse di carriera si possono fare fino ad un certo punto. Non viviamo più in un ambiente organizzativo stabile, dove, al rientro, la risorsa espatriata potrà avere una crescita professionale; è dunque importante fare leva anche su altre motivazioni, come ad esempio l’esperienza e l’arricchimento personale, che sono senza dubbio un forte stimolo. Il modo in cui le aziende gestiscono questo trade off tra aspettativa di crescita e aspettativa economica non rispecchia un unico set di regole, ci sono diversi pacchetti di compensation, più o meno ricchi, a seconda della situazione in cui la risorsa si trova e anche in base alle caratteristiche professionali della stessa. Ad esempio se bisogna inviare uno specialista in Russia e però non c’è nessuna possibilità di sviluppo professionale, è inutile dirgli che avrà delle opportunità di crescita, perché non sarebbe la verità. Quindi bisogna trovare altre leve motivazionali, ad esempio un buon tenore di vita. Se invece si manda all’estero una persona di trent’anni, che vede nel distacco di tre anni un’opportunità di crescita, non può essere applicato lo stesso pacchetto retribuivo, ma ci sarà una politica di benefit meno ricca di quella precedente, con però la possibilità di aspirare ad un ruolo manageriale al rientro in casa madre, in virtù di uno sviluppo individuale e professionale non indifferente maturato all’estero. Se c’è necessità di una persona per un lavoro specifico, sono più le auto candidature oppure dovete scegliere dall’alto chi prendere? Le autocandidature vengono prese in considerazione, ma anche in questo caso, se sei al centro del villaggio intercetti il desiderio di una persona di andare fuori; altrimenti si cerca il più possibile di rendere coerente il bilanciamento delle skills. Ma il discorso verte anche su altre questioni: bisogna considerare ad esempio le conseguenze per l’azienda che ha il privarsi di quella determinata persona. É necessario disporre le risorse e le competenze in maniera coerente su tutto il perimetro dell’organizzazione. Quindi, si cerca di renderlo il più possibile centralizzato o quanto meno gestito dall’azienda; non c’è mai la tendenza a lasciare spazio completamente alla persona, a meno che non si instauri un concetto di job posting, ossia ci sia necessità di un tecnico con determinate caratteristiche, a quel punto c’è una selezione delle persone dall’interno. Le risorse che vanno all’estero che tipo di feedback rilasciano? Vogliono replicare l’esperienza? Ci sono due tipologie di situazioni. Il dipendente che fa capire molto chiaramente che vede l’esperienza dell’espatrio come una cosa one shot: quindi fa quello che deve fare in un anno o due e poi ritorna a casa. Poi c’è anche chi desidera continuare all’estero; sono persone che non riescono a stare nel villaggio, e in questi casi il problema non è il mandare una persona all’estero, ma il suo rimpatrio. Ossia bisogna reinserire la risorsa in un’organizzazione da cui essa è uscita, e lo si deve fare in maniera tale da valorizzare al meglio il periodo di distacco, perché quando torna non è più la persona di prima; è una persona che sa fare altre cose, è un testimonial della mobilità internazionale. Dunque è chiaro che il nostro problema è quello delle soft landing, cioè di “far atterrare” delicatamente le persone all’interno dell’organizzazione. E non sempre questo è facile. Ci sono purtroppo casi in cui trovare una collocazione adeguata per una persona non è facile, soprattutto in un’organizzazione che nel tempo cambia. Parlando di risk management quali sono le difficoltà maggiori che trova nel suo lavoro? Mi viene in mente ad esempio l’attentato terroristico che abbiamo avuto recentemente in Algeria, dove avevamo delle persone. In questi casi è necessario parlare di duty of care: significa che il datore di lavoro, ovvero il responsabile della sicurezza del lavoro, ha la responsabilità per il personale. Ma è difficile essere certi che una persona sia in una condizione di sicurezza assoluta. Non puoi, per risparmiare privare di una condizione di sicurezza una persona, ma al tempo stesso non puoi nemmeno esagerare. La difficoltà maggiore è quella di capire il rapporto tra il rischio e la sua natura, e capire come si può fare per cercare di abbassare il livello di rischio. Bisogna considerare che il rischio non può essere totalmente annullato. Nel risk management l’imprevisto è la regola in un certo senso. Quali caratteristiche possono aiutare maggiormente un giovane in cerca di stage ad entrare nella vostra azienda? Un’azienda come la nostra vede con piacere la formazione post universitaria in un tema specifico come le risorse umane. Cerchiamo una persona che abbia la conoscenza delle lingue, la flessibilità di portare una prospettiva nuova, diversa del modo di pensare radicato e tanta voglia di imparare. Come gestite i nuovi assunti? Abbiamo generalmente una prospettiva di tre anni, in cui la persona ha una crescita retributiva e di inquadramento. Dopo un primo assesment di potenziale, facciamo un paio di giornate di formazione sull’azienda e sulla sicurezza, dopodiché i profili tecnici devono fare un corso di formazione per capire sostanzialmente come funziona l'elicottero. Abbiamo anche un’offerta formativa che è indirizzata ai giovani: sono percorsi di formazione esperienziale, comportamentale oserei dire, dove mettiamo alla prova le persone su una serie di competenze come il team building e la leadership, ossia la capacità di inserirsi in un contesto e dare un contributo attivo. Facciamo un percorso formativo che noi chiamiamo cross skill. Alla fine del terzo anno facciamo un secondo assessment di gruppo più strutturato, che porta con sé un percorso retributivo differente. Infatti una persona che ha maturato più competenze, ha diritto a una retribuzione maggiore. Come ci consiglia di affrontare il mondo del lavoro? Difficile dare un consiglio che valga per tutti quanti se non quello di cercare l’eccellenza. Il neolaureato, in Italia, anche se con un master, è come un diamante grezzo. Bisogna avere un quid di competenza in più, che ti aiuti a venderti sul mercato. Per poterlo fare non puoi aspettare che ti arrivi il treno giusto, devi fare esperienza e, dopo, cercare una soluzione di impatto, fosse anche andare all’estero. Adesso è importante, qualifica di più. Nel vostro percorso di crescita personale, nel vostro progetto di vita, investite prima sul lavoro, creando una base di competenze professionali che vi distacchi da tutto il resto, perché purtroppo di neo laureati c’è né tanti in Italia, nel senso che c’è troppa competizione. È un bel mestiere quello delle risorse umane, a me è sempre piaciuto fatto dal versante dell’Azienda, dove si fanno le cose e ci sono risultati immediati, che ti aiutano a capire molto. Poi c’è il versante della consulenza, a cui però bisogna arrivare con un minimo di esperienza alle spalle. Bisogna temprarsi e temprarsi non è facile. Di errori ne farete, però l’importante è mantenere la serietà professionale, anche perchè ciò che nelle Risorse Umane non vi perdoneranno mai è la furbizia. Dovete diventare abbastanza affamati, come diceva Steve Jobs “Stay hungry stay foolish”. In bocca al lupo dal profondo del cuore.