“At rejse er at live”, “viaggiare è vivere” Il racconto di
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“At rejse er at live”, “viaggiare è vivere” Il racconto di
“At rejse er at live”, “viaggiare è vivere” Il racconto di Andrea, appena rientrato dalla Danimarca All’inizio di dicembre sono ritornato alla mia routine italiana, dopo aver passato tre mesi della mia vita in Danimarca, grazie all’Associazione Intercultura, che da più di 58 anni organizza soggiorni di studio all’estero per adolescenti. Vivevo a Kolding, una deliziosa cittadina dello Jutland di circa quarantamila abitanti situata sulle coste del mar Baltico. La mia casa - una classica abitazione danese costruita quasi interamente di legno - si trovava a circa settanta metri dal mare e godeva di una vista stupefacente sul “Koldingfjord”, l’insenatura lunga e stretta tipica dei paesi scandinavi. La famiglia che mi ha accolto è stata la migliore che mi sarei potuto aspettare: mio padre ospitante aveva quarantadue anni e lavorava come falegname in un’impresa propria. Usciva di casa ogni mattina alle sei e trenta e si recava a lavoro con il suo furgoncino - ovviamente acquistato esentasse grazie agli aiuti statali per le imprese - e ritornava a casa verso le quattro e mezza; mia madre ospitante, invece, aveva trentanove anni ed era impiegata comunale - impiego tenuto in altissima considerazione nella società danese - e si occupava di svolgere dei corsi di aggiornamento rivolti ad dipendenti comunali su come ottimizzare il tempo di lavoro, le risorse a disposizione e su metodi innovativi di gestione delle finanze. Avevo due fratelli: il primo, Mikkel, quindici anni, frequentava l’ultimo anno di quella che in Danimarca si chiama “Folkeskole” e che in Italia corrisponde alla scuola elementare ed alla scuola media “messe insieme”; il secondo, Mads, dodici anni, frequentava il settimo anno in una prestigiosa scuola privata. Le mie giornate in Danimarca non erano mai tutte uguali: sebbene ripetessi la maggior parte delle azioni quotidianamente, ogni giorno succedeva sempre qualcosa di diverso di cui prendere atto, qualcosa di nuovo da scoprire, qualcosa di bellissimo di cui godere a pieno che mi riempiva le giornate di un entusiasmo inedito, mai sperimentato. In settimana la mia sveglia suonava alle sei e quaranta, alle sette facevo colazione con mia madre e i miei due fratelli. Alle sette e mezza prendevo la bici e pedalavo a scuola: per il tragitto impiegavo circa venti minuti e il sole sorgeva quando già ero arrivato in classe. Frequentavo l’IBC (International Business College), un liceo ad indirizzo economico, quindi era previsto lo studio di alcune discipline specifiche come matematica, marketing, economia aziendale, innovazione, informatica e scienze sociali. Le lezioni duravano quarantacinque minuti ciascuna ed erano organizzate in quattro “blocchi” della durata di un’ora e mezza l’uno, intervallati da dieci, venti o trenta minuti di pausa. Durante le lezioni era consentito l’uso di computer portatili e di internet ed uno dei metodi di apprendimento più diffuso era il lavoro di gruppo, a cui seguiva una presentazione a tutta la classe del proprio elaborato ed un dibattito partecipato. Tutti gli elaborati ed i lavori prodotti dagli studenti venivano sia consegnati all’insegnante in formato cartaceo, sia caricati, in formato multimediale, su un server della scuola a cui tutti gli alunni avevano accesso tramite un username e una password personalizzati. Tramite questo server era possibile anche controllare il numero di assenze effettuate, i compiti a casa, l’orario scolastico che cambiava ogni settimana e scaricare gli appunti prodotti dagli insegnanti. Tornavo a casa nel primo pomeriggio e solitamente passavo il tempo rimanente con la mia famiglia. Ho scoperto che per i danesi trascorrere del tempo con la propria famiglia è una priorità assoluta: sedersi davanti al camino e raccontare agli altri la propria giornata, cucinare insieme, rilassarsi tutti insieme la sera sul “lettone” prima di andare a dormire. Solitamente cenavo alle sei e mezza e molto spesso, dopo, andavo a giocare a badminton con qualche mio amico. Andavo a dormire, stremato, intorno alle dieci. In Danimarca ho sperimentato per la prima volta nella mia vita la bellissima sensazione di sentirmi a casa in un posto che non significava niente per me solo fino a qualche mese prima. Ho trovato, in Danimarca, un popolo disponibile ed ostinato, ho visto un bambino di dodici anni rincorrere alle sei e mezza di mattina sotto la pioggia battente un cane che era scappato e tornare a casa fradicio. Ho incontrato dei ragazzi e delle ragazze timidi, riservati, ma anche cordiali, aperti e generosi nel momento in cui si attiva un rapporto di amicizia vera. Il ritorno alla realtà mi sta facendo accorgere di come e quanto il mio modo di pensare e di agire sia mutato negli ultimi tre mesi. La mia vita in Danimarca era costituita di tanti attimi che avevano tutti una grandissima importanza: ogni azione, ogni sguardo, ogni parola detta o sentita aveva la straordinaria potenza di modificare il mio umore, di condizionare la restante parte della giornata. Ora che sono in Italia mi sto rendendo conto di una miriade di dettagli che non avevo mai notato in precedenza. Più della Danimarca, ora, in effetti, mi manca l’essere in Danimarca; mi mancano l’intensità e l’attenzione con cui vivevo ogni giornata, la meraviglia di conoscere ed apprendere nuovi dettagli anche mentre ero steso sul mio letto. Lo ammetto: non è stato sempre facile. La sfida più grande che ho dovuto affrontare è stata adattare il mio modo di pensare ad un contesto differente, capire ed identificare nel nuovo ambiente - e non sono certo di esserci completamente riuscito - il normale, il differente, lo strano e l’originale. Ora la sfida che mi attende è un’altra: riuscire a portare in Italia la parte di me che è rimasta in Danimarca. La tristezza e la nostalgia non aiutano. Ci vorranno tempo, attenzione e dialogo, ne sono cosciente. H.C. Andersen, l’orgoglio di ogni danese che si rispetti, diceva: “At rejse er at live”, “viaggiare è vivere”. Ma cosa significa, in fondo, vivere, se non si è coscienti di cosa succede a due passi da noi? Bisogna viaggiare, bisogna scoprire, bisogna guardare, bisogna sentire. Ed io, ora, ho la sensazione di saper guardare e saper sentire meglio.